laVerdi ormai da anni e anni è
ospite della Scala per il Concerto
inaugurale della stagione. La cosa si è puntualmente ripetuta ieri sera per
la stagione
19-20. In un Piermarini abbastanza affollato, sul podio il Direttore musicale Claus Peter Flor e
alla tastiera, per Mozart, Steven Osborne
(due che hanno già avuto modo di collaborare in passato).
Ed è appunto con il Concerto K595 di Mozart (il suo ultimo per il pianoforte,
composto a meno di un anno dalla scomparsa) che si è aperta la serata. Il 48enne
scozzese lo ha interpretato con la grande sensibilità che lo contraddistingue (lui
è un po’ anche... filosofo, si sente e si vede). Questo lavoro del Mozart tardo è per lui una specie di serena e
disincantata meditazione sulla vita; e lui lo interpreta quasi sfiorando la
tastiera, come a non voler infierire sullo strumento: un’esecuzione quasi
sognante, che solo nella cadenza del Rondò ha qualche sussulto.
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Dopo l‘intervallo ecco la Sinfonia per... batteria di Gustav Mahler (così battezzò la Quinta
alle prime prove un’Alma piuttosto esterrefatta,
riuscendo poi a convincere il marito a smagrire un filino le percussioni).
É tuttora diffuso il luogo comune che definisce questa sinfonia come
l’abbandono del mondo del Wunderhorn,
al quale apparterrebbero le tre precedenti, infarcite di Lieder
(con voce o senza) provenienti dalla collana di vonArnim-Brentano, cui Mahler aveva dedicato grande attenzione nei
suoi primi anni da compositore. La Quinta segnerebbe invece l’aprirsi di una
nuova era nel mondo estetico mahleriano, come dimostrerebbero i riferimenti in
essa contenuti a Lieder di Rückert, oltre che ad aspetti più strettamente legati alla
forma (ad esempio l’impiego del Rondò).
E le due successive sinfonie confermerebbero questa tesi.
Peccato che si tratti di una tesi ampiamente
contraddetta proprio dai contenuti di questa Quinta, che accoglie spunti da Mahler messi su pentagramma già ai
tempi della composizione di quei precedenti lavori. Tanto per cominciare, le
terzine di trombetta che aprono la sinfonia avevano fatto una fugace comparsa
nel primo movimento della Quarta;
alla quale quindi rimandano scopertamente. La marcia funebre che apre l’opera è
una riedizione della Totenfeier dalla
quale sbocciò poi la Seconda Sinfonia. Lo Scherzo
in RE maggiore fu pensato in origine come quinto movimento (sottotitolato Die Welt ohne Schwere, Il mondo senza
peso) della Humoreske, che divenne
appunto la Quarta sinfonia, immaginata quando ancora Mahler era alle prese con
la sinfonia precedente!
Quanto ai Lieder, è vero che vi si trovano richiami
e citazioni di Rückert (Nun will die Sonn’ e Ich bin
der Welt abhanden gekommen) ma è anche vero che il quinto ed ultimo
movimento cita esplicitamente Lob des
hohen Verstandes (l’intelligenza di un... asino!) dal Wunderhorn; e poi, al
numero 29 del rondò finale compare, negli
strumentini, un inconfondibile inciso che viene direttamente da Revelge!
E ancora, la forma: la struttura in 5 movimenti richiama la versione originale
della Prima, poi la Seconda e, per difetto, la Terza. Ai quattro movimenti della
tradizione Mahler era già arrivato con la versione definitiva della Prima e con la Quarta, prima di tornarci con la Sesta e (surrettiziamente) con l’Ottava, mantenendo invece per Settima,
Nona e Decima la struttura in 5 movimenti. E l’eterogeneità dei contenuti (bizzarra concatenazione
tonale, irruzioni di motivi sguaiati, un corale, l’interminabile tiritera del
corno obbligato) non si discosta certo da quella delle sinfonie precedenti...
Insomma, suddividere la produzione di
Mahler in blocchi chiusi è proprio fare un torto al compositore, che invece per
l’intera sua opera ha seguito contenuti e strutture formali dettate
esclusivamente dall’ispirazione, e da un approccio estetico-filosofico che non
è mai mutato, tanto da far pensare ad uno sviluppo continuo, quasi che le dieci
sinfonie (più il Lied von der Erde)
costituiscano un unico, gigantesco e - a suo modo - coerente monumento
sinfonico.
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Da ammiratore de laVerdi, ma avendo ancora nelle orecchie i suoni della Filarmonica di SanPietroburgo, confesso
di aver temuto che il confronto ravvicinato con quei giganti mi creasse qualche...
imbarazzo, ecco. Ma devo dire che Flor e i suoi hanno saputo fugare i miei timori.
Beh, che in un’opera così ostica ci possa scappare qualche svirgolata (gli
ottoni sono per loro natura soggetti a tali pericoli) è quasi pacifico, ma mi
sento di dire che la prestazione nel suo complesso sia stata più che positiva:
solo orchestre di alto livello sono in grado di reggere le difficoltà oggettive
presentate da questa partitura.
Flor già mi aveva convinto con la sua lettura
di un paio d’anni orsono in Auditorium. E ieri l’impressione positiva è stata
confermata in pieno: appropriati i tempi tenuti dal Direttore, interessanti le
rese cameristiche di molti passaggi, come il taglio espressionista dato al tema
del finale, tanto per citare esempi qua e là. E l’interminabile applauso ritmato
che ha accolto l’esecuzione testimonia di come il pubblico l’abbia apprezzata
assai.
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