affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

24 dicembre, 2013

OrchestraVerdiBarocca – Hallelujah!

 

Come la Nona e il Requiem verdiano, anche il Messiah è ormai entrato stabilmente nella lista degli appuntamenti fissi di ogni stagione, in questo caso la stagione de laVerdi Barocca (che per l’occasione si presenta con il suo nuovo nick-name di laBarocca)  guidata dal suo padre fondatore Ruben Jais e affiancata dall’Ensemble vocale di Gianluca Capuano.

Ieri sera i solisti di canto erano il soprano Karina Gauvin, già apprezzata qui la scorsa primavera nel Gloria di Poulenc, il giovane tenore Anicio Zorzi Giustiniani e due vecchie conoscenze de laVerdi e de laBarocca, Sonia Prina (contralto) e Christian Senn (basso).

Jais ha seguito la sua ormai collaudata impaginazione dell’oratorio, consistente nel presentare al completo la prima parte (precisamente quella natalizia) e nell’accorpare dopo l’unico intervallo la seconda e la terza (pasquale ed oltre) con qualche taglio, per non… chiedere troppo allo spettatore. Nello specifico, dalla Parte II sono stati omessi:

- Coro: Lift up your heads, O ye gates
- Recitativo secco (tenore o soprano): Unto which of the Angels said he…?
- Coro: Let all the angels of God worship him
- Aria (basso o contralto o soprano): Thou art gone up on high
poi ancora:
- Aria (soprano o coro): Their sound is gone out into all lands
e successivamente, prima dell’Hallelujah:
- Recitativo secco (tenore): He that dwelleth in heaven
- Aria (tenore): Thou shalt break them with a rod of iron

Dalla Parte III:
- Recitativo secco (contralto): Then shall be brought to pass
- Duetto (contralto e tenore): O death, where is thy sting?
- Coro: But thanks be to God
- Aria (soprano): If God be for us

Per carità, sono tagli non scandalosi (saranno 20-25 minuti più o meno di musica su circa due ore e mezza) e meno corposi rispetto a quelli apportati in precedenti esecuzioni, anche se sono sempre… dolorosi. Una soluzione che a me pare equilibrata (nel senso che salva capra e cavoli: la completezza dell’opera e insieme il contenimento della durata complessiva) è quella adottata, ad esempio, a Cambridge per questa pregevole edizione completa, con il coro tutto maschile (grandi e piccini) del King’s College. L’unico intervallo è convenientemente posto dopo poco più della metà della Parte II (alla fine del coro Lift up your heads, O ye gates) ottenendo così una distribuzione di tempi abbastanza sopportabile: 90 + 55 minuti. Chissà se Jais ci farà sopra un pensierino per la prossima occasione!

In ogni caso ieri abbiamo ancora una volta apprezzato l’eccellente qualità degli ensemble (strumentali e vocali) de laBarocca, davvero efficacissimi nel ricreare l’atmosfera sonora tutta settecentesca di quest’opera. I solisti poi hanno contribuito da par loro al grande successo della serata, chiusa - anche questa è ormai diventata una consuetudine – dal bis dell’Hallelujah cantato anche dai solisti, aggregatisi alle rispettive sezioni del coro.    

Un Buon Natale coi fiocchi!
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Qui alcune mie personali note di presentazione dell’opera, scritte in occasione di una performance di qualche anno fa.

Segnalo a chi volesse osservare il Messiah attraverso le lenti del dottor Freud (come altro spiegare un Gesù che si suicida nella toilette di una camera d’albergo?) che può farsi aiutare da Claus Guth.

Allego infine una preziosa monografia su Händel, a firma di Gustavo Marchesi, apparsa nel numero di Giugno 1989 di Musica&Dossier.

20 dicembre, 2013

Orchestraverdi – Concerto n°14

 

L’appuntamento settimanale in Auditorium ha il sapore di una sana e allegra rimpatriata fra vecchi amici, una specie di Concerto di Capodanno anticipato, prima che l’imparruccato Händel ci riporti nel serio, cometa-stellato e religioso clima natalizio e che poi sia la serissima Nona beethoveniana a farci scollinare verso il 2014.   

Gaetano D’Espinosa (uno dei tre Direttori principali ospiti) è incaricato di chiudere l’Avvento (!?) con un pizzico di trasgressione… ma di tipo davvero sano e innocuo, come è per noi scafati del terzo millennio persino quella – a suo tempo graffiante – degli amori un poco… particolari fra una marescialla e il suo bambolotto preferito!

Dei sette brani in programma, quattro sono del Re-del-Walzer, anche se soltanto uno è proprio un… Walzer. Poi abbiamo tre ospiti valzerosi di provenienza abbastanza eterogenea: Pietroburgo, Parigi e, appunto, Monaco (provincia di Vienna…)

La prima parte della serata (Strauss, Ciajkovski, ancora Strauss e Ravel) alterna, potremmo dire, Vienna a Parigi, poichè anche il russo guardava certo più alla Francia che non all’Austria.

L’ouverture del Fledermaus è prevalentemente in tempo pari (4/4 o 2/4, con svariati motivi di polka) ma in mezzo contiene una sezione (dapprima in SOL, poi ripresa in LA) che presenta i due temi del famoso Walzer del finale dell’atto II (cui segue l’altro, dolce e patetico, dall’atto I). Chissà perché, a me istintivamente il primo dei due motivi ha da sempre richiamato alla mente nientemeno che la sezione centrale dell’Allegro della Quinta di Beethoven, che in effetti può apparire come un austero Walzer ante-litteram!


L’opera (operetta?) fu portata al suo massimo splendore da Gustav Mahler che la fece entrare stabilmente nel repertorio della Hofoper (ben 16 rappresentazioni nel 1899 e addirittura 21 nel 1900!) E questo nonostante il direttore-compositore avesse dei Walzer di Johann Strauss-jr una stima che definire pessima è ancora poco! Se è vero com’è vero che scrisse alla Bauer-Lechner che per lui Strauss, come musicista, era un povero disgraziato, come uno che porta tutti i suoi averi al banco dei pegni e si trova poi squattrinato, a confronto del vero artista (come Schubert!) che sa far fruttare al massimo sia le banconote che gli spiccioli che si trova in tasca…  

Con il Ciajkovski della Valse des Fleurs siamo passati in una Pietroburgo che guarda a Parigi, e gli arabeschi delle arpe che introducono il celeberrimo tema paiono proprio venire direttamente dal Bal della Fantastique berlioziana…

Si torna momentaneamente a Vienna con l’Ouverture dello Zigeunerbaron. Ancora in tempo pari, con all’interno la sezione ternaria che divenne famosa – fuori dall’operetta - col titolo di Schatz-Walzer (ma allora perché non suonare direttamente quello, in un programma così orientato?)


Chiude la prima parte Ravel con la sua Valse: una specie di simpatico e allo stesso tempo grottesco sberleffo (non certo un’evocazione della Vienna che marcia incosciente verso l’abisso…); invece è quasi una parodia della Vienna presuntuosamente godereccia di metà ‘800; profumi impressionisti che si mescolano a pesanti cadute di stile… 

A poco più di un anno fa risale l’ultima esecuzione de laVerdi qui in Auditorium (anche allora, ma quasi per… caso, con D’Espinosa sul podio) di cui avevo scritto in termini assai positivi. Termini che confermo in pieno anche per ieri sera.

Vienna torna protagonista nella seconda parte del concerto, ancora con lo Strauss casalingo di un’operetta, Prinz Methusalem, nella cui ouverture compare soltanto una breve sezione in ritmo ternario (3/8), quindi di Walzer ce n’è davvero pochino. Si nota invece il passaggio che verrà impiegato dal compositore per costruirci il corpo di una Polka-Schnell, il Banditen-Galopp:


Tocca poi al celebre e celebrativo Kaiser-Walzer, che si dovrebbe tradurre Walzer degli Imperatori, visto che fu dedicato a Franz-Josef d’Austria e a Wilhelm II di Germania, in occasione della visita che il primo fece al secondo nel 1889. Strauss voleva intitolarlo addirittura Mano-nella-mano, roba da chiodi! Devo dire che per me non si merita affatto le parole piuttosto sprezzanti di Mahler: la sua struttura sinfonica e la qualità dei temi ne fanno forse il Walzer più classico di Strauss. 

D’Espinosa lo esegue con piglio assai… meccanico, quasi a voler privilegiare il monarca prussiano (quello col classico chiodo in testa, smile!) su quello della raffinata Vienna. Ma il finale con l’assolo del violoncello di Tobia Scarpolini riscatta ogni offesa.

Chiude le danze un altro Strauss – arrivato a Vienna dalla Baviera – con la suite del Rosenkavalier. Come accade al pezzo di Ravel, anche il Rosenkavalier viene spesso descritto come la visione della Vienna che si avvia ciecamente, e ubriacandosi nel suo ballo nazionale, verso la catastrofe della Grande Guerra: in realtà è senno-di-poi, le biografie di Hofmannsthal e Strauss parrebbero dimostrare il contrario e quest’opera resterà probabilmente nei secoli come la più stupenda quanto anacronistica (nel 1910!) apologia del Walzer e dell’epoca che ne udì i primi vagiti.

L’argenteria e la cristalleria di Swarovski Strauss vengono qui esposte con dovizia di mezzi sonori: ottavini, flauti, oboi, clarinetti, glockenspiel, arpe e celesta; la definirei – in termini schizofrenici – una specie di orgia paradisiaca!

E in paradiso si deve essere sentito anche il pubblico dell’Auditorium, letteralmente inebriato da questi suoni. Cui è seguito un bis di polka (tanto per tener fede all’oggetto della serata, smile!) con Éljen á Magyar!, incluso il finale grido di Éljen – viva! 

Certo, chi ascolterà questo concerto il 22 e 24 ore dopo sarà presso il Messiah avrà una specie di choc… Per quanto mi riguarda, ho tre giorni di tempo per tornare sulla terra, vicino al presepe.
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Allego qui per l’occasione un prezioso studio sul Walzer del grande Roman Vlad, apparso su Musica&Dossier del gennaio 1989.

16 dicembre, 2013

Violetta alla Scala: impressioni dal vivo

 

Ieri sera terza recita (in una Scala che presentava qualche buco in platea e parecchi vuoti nei palchi) del titolo che ha aperto a SantAmbrogio. Come accade non da oggi, dopo una prima contestata, quella di ieri (ma, dicono, anche la seconda) è invece stata accolta da convinti applausi e soprattutto senza aperti dissensi (per la verità è mancato il giudizio sulla regìa, renitente al momento delle uscite finali).


In ogni caso sul fronte dei suoni il risultato mi è parso di livello notevole, grazie ai tre protagonisti principali.

Diana Damrau si è confermata una Violetta di gran spessore, particolarmente convincente in quei passaggi di maggior lirismo (che lei canta a fior di labbra, quasi a bocca chiusa) ma sicura anche nel canto spiegato (e non solo per quel MIb che ieri ha staccato con grandissima autorità). Se proprio dovessi trovarle un pelo nell’uovo, direi di qualche acuto un filino calante e della cosiddetta ottava bassa che faticava a… percorrere gli enormi spazi del Piermarini. Per lei, un trionfo totale.

Piotr Beczala era partito un filino contratto e piuttosto impreciso nei passaggi di maggior virtuosismo, ma poi si è via via migliorato e nessuno ha trovato da ridire sulla sua prestazione complessiva.

Anche Željko Lučić (per la verità l’unico personaggio che il regista ha… lasciato in pace, smile!) ha confermato la prova discreta dell’esordio, ieri oltretutto anche Gatti lo ha supportato meglio che a SantAmbrogio.

Quanto ai comprimari, mi vien da citare per tutti il Gastone di Antonio Corianò. Sui suoi standard il coro di Bruno Casoni.

Daniele Gatti? La sua è una direzione improntata all’intimismo, quasi cameristica, che potrà non piacere del tutto a chi ama un Verdi più sanguigno. A me non è dispiaciuta affatto, e anche il pubblico si è mostrato di questo avviso: qualche timido dissenso  è stato ampiamente coperto da applausi calorosi su cui si è inserita una raffica ritmata di bravo, bravo, bravo! proveniente (mi è parso) da un singolo punto della prima galleria (evidentemente un supporter particolarmente agguerrito…)

Chi non si è fatto vedere, come detto, è il regista, sottrattosi all’esame-finestra: così non possiamo sapere se il pubblico di ieri abbia gradito oppure no la sua proposta.

E allora ci torno sopra io, cominciando col dire che la visione dal vivo non mi ha fatto cambiare idea rispetto a quella di SantAmbrogio in TV. Questo di Cerniakov è uno spettacolo assolutamente coerente in se stesso, incentrato su una visione attualizzata del soggetto originale, ma dove l’attualizzazione, ahinoi, comporta uno scollamento tanto evidente quanto stridente fra ciò che si vede in scena e ciò che si ascolta dalle voci e dagli strumenti, cioè da ciò che Piave e Verdi ci hanno lasciato. 

Ora, per non dar l’impressione di emettere giudizi sommari senza motivarli, prendo alla lettera il motto di Lissner (non siamo qui per farvi divertire, ma per farvi riflettere) e  provo precisamente a fare qualche riflessione. Lissner mi perdonerà se in queste mie riflessioni parlo di un prodotto (uso qui il linguaggio universale anche se freddo del business) che lui mi ha venduto come originale e genuino (a giudicare dalla locandina) e che io (sulla fiducia) gli ho comprato, pagandolo, e profumatamente, in anticipo.

Per non farla troppo lunga, parto direttamente dalla fine (del resto in ogni opera in fundo stat dulcis…) Dunque, nella Traviata di Verdi-Piave (musica-libretto) abbiamo una giovane donna che muore. Di cosa? Di una malattia del fisico, del corpo, già ampiamente diagnosticata come letale e della quale Violetta è perfettamente cosciente da tempo: sintomi si sono manifestati già nel primo atto; poi, pur senza nominarla, ne ha fatto cenno a Germont-sr nell’atto secondo. Certo, una malattia potenzialmente aggravata da componenti psicologiche avverse, prima fra tutte una felicità tanto improvvisa, insperata, inimmaginata e totalizzante rapidamente distrutta da fenomeni estranei a lei e alla persona che l’ha resa felice.

Ma una cosa è lampante, straordinariamente chiara: Violetta, che sa di morire (devolve in carità gli ultimi spiccioli) muore però contro-voglia, mentre vorrebbe cocciutamente vivere; immediatamente prima del finale collasso… si rialza rianimata - ci spiega Piave - e canta Cessarono gli spasimi del dolore… in me rinasce… m’agita insolito vigor! Ah!… ma io… ritorno a viver!… oh gioia! La vita le viene strappata proprio mentre le cause della drammatica interruzione della sua felicità sono state interamente rimosse, e ripristinate le condizioni (di natura privata e pubblica) perché quella felicità possa tornare concreta, tangibile, possibile e praticabile. Insomma, Violetta vuole vivere! E per questo c’è una drammaticità commovente in quel suo sfogo Gran Dio! …morir sì giovane.

Chi le è vicino al momento del trapasso? Precisamente quattro persone care (Grenvil, vedete? tra le braccia io spiro di quanti ho cari al mondo...) di cui sarà bene ricordare ruoli ed atteggiamenti. In primo luogo Alfredo, che da quando se n’è innamorato non ha cessato di amarla, e non solo nelle tre lune trascorse con lei (contenta in quegli ameni luoghi!) ma anche successivamente, persino mentre sfogava platealmente contro di lei tutto il suo risentimento. In fondo, si era reso conto ben presto che lei era stata costretta a fingere di tradirlo, con il solo nobile senso di salvare l’onore suo e della sua famiglia. Poi papà Germont, sinceramente pentito per aver interrotto quella felicità, ed ora pronto ad ogni riparazione. E il medico, che amorevolmente accorre ripetutamente al suo capezzale (trascurando magari migliori opportunità di guadagno) per curarla e per confortarla. E infine Annina, ormai una fedele amica, prima ancora che donna di casa.

Scenario strappalacrime ottocentesco? Improponibile e ridicolo ai giorni nostri, dove le lacrime sono merce sconosciuta a pochi e risorsa esaurita per i più? Forse, ma è precisamente a questo scenario che stupendamente si attagliano i versi di Piave e - soprattutto! - la musica di Verdi. Per dire, le 23 battute che precedono lo spirare della donna che vorrebbe a tutti i costi vivere sono una vera e propria Tod-und-Verklärung ante-litteram (rispetto a Strauss ma anche al Wagner di Isolde e al Puccini di Mimì). E da questo punto di vista benissimo ha fatto Gatti a riprendere l’orchestrazione del 1853, facendo suonare i due soli violini à-la-Lohengrin (l’abbassamento di un’ottava del 1854 è ormai appurato fosse esclusivamente dovuto alla palese insufficienza di strumenti e strumentisti dell’epoca…)

Ecco, questo è il prodotto che uno spettatore che riflette - caro Lissner - si attende di ricevere in cambio del (salato) prezzo del biglietto. Il regista ci metta pure (e ci mancherebbe!) tutta la sua fantasia e sensibilità, ma il prodotto finale deve avere quella sostanza, e in primo luogo possedere piena coerenza con quella mirabile miscela di parole e musica che gli autori ci hanno consegnato. Altrimenti è solo una (per quanto accurata) contraffazione

 

Che prodotto ci consegna invece Lissner, per tramite del suo regista russo? Una donna malata e morente sì, ma affetta da una tipica malattia nervosa (lo abbiamo constatato durante l’intera opera, anche ben prima della stroncante irruzione di Germont-sr); una donna malata non ai polmoni ma alla mente (grottesca davvero la scena di Grenvil che ammicca ad Annina indicando la condizione di Violetta con un inequivocabile picchiettare dell’indice della mano contro la tempia, mentre canta la tisi non le accorda che poche ore… !) una povera donna distrutta nella psiche, una che non sta curando con farmaci un male fisico, ma una che sta impasticcandosi con droghe e riempiendosi di alcol col risultato di aggravare il suo stato psicologico. In poche parole: una donna alienata che non vuole (più) vivere! In questo scenario la sua esternazione Gran Dio! …morir sì giovane suona come una stridente contraddizione.

 

E chi si agita attorno a lei? Persone innamorate, pentite e caritatevoli? Nemmeno per idea: tre persone che – letteralmente! – non vedono l’ora che lei tiri le cuoia! Alfredo, che sembra infastidito, proprio come fosse lì controvoglia e avesse altro di meglio da fare. Suo padre che le si avvicina quasi timoroso (proprio come si fa con i matti…) E il dottore, che resta lì impalato, quasi fosse impaziente di tornare al suo ambulatorio per fare visite più lucrose. Alla povera Annina non resta che cacciarli tutti perché quella disgraziatissima Violetta possa finalmente morire senza disturbatori attorno.


Orbene, e vengo al punto cruciale dell’intera questione: con una scena simile la musica di Verdi (ma anche il testo di Piave, infatti in parte cassato, cosa del resto non nuova) ci sta proprio come i cavoli a merenda. Meglio le si attaglierebbe magari la musica che fu composta (80 anni dopo!) per un altro capolavoro: Lulu…

E al resto dell’opera si possono tranquillamente estendere le considerazioni fatte riguardo al finale: Cerniakov – a differenza della sua Violetta - non è mica fuori di testa, e quindi tutto il suo spettacolo è coerente con la sua concezione, fin dall’inizio non fa che preparare adeguatamente quel finale.

Non altrimenti si spiega l’approccio letteralmente parodistico del regista alla scena dell’incontro di Violetta con Alfredo e a quella successiva di Violetta sola: nella prima Alfredo dovrebbe lanciare un seme (Di quell’amor…) che germoglia in Violetta nella seconda (A quell’amor…) Noi invece vediamo un Alfredo di credibilità zero e una Violetta che sembra farsi beffe dei suoi sentimenti.

E così la scena d’esordio del second’atto viene banalizzata in modo indisponente, a partire dall’ambiente: invece di un salotto dove gli oggetti principali dovrebbero essere dei libri e l’occorrente per scrivere (capita l’antifona, Cerniakov?) noi siamo in cucina, in mezzo ad ingredienti assortiti per pizze e minestroni. E con Alfredo che ci racconta della sua nuova vita al fianco di Violetta con parole e musica che esprimono rapimento e felicità celestiale, mentre lei si aggira proprio lì attorno, impegnata come lui in prosaiche faccende domestiche. Dico: una presa in giro!  

Poco dopo, solo una Violetta isterica (che è diverso dallo sconvolta e preoccupata) può aggredire letteralmente a pugni e spintoni un esterrefatto Alfredo cantandogli …perché tu m’ami, tu m’ami, Alfredo, non è vero?

Prima di trattare del secondo quadro, un’osservazione di passaggio sulla cervellotica idea di fare l’intervallo lungo fra le due parti del second’atto. Non parlo degli aspetti legati alla struttura stessa dell’opera, che prevede, canonicamente, un finale d’atto in crescendo, con il concertato conclusivo, ma semplicemente degli aspetti pratici, proprio terra-terra, della questione. Dunque, qui ci sono tre intervalli: questo, lungo ben 40 minuti, più altri due – pubblico inchiodato alle poltrone - di ben 8 minuti ciascuno, in corrispondenza della fine del primo e del secondo atto. Totale, 56 minuti. Adesso, anche un bambino che sa far le somme arriva a capire che, a parità di tempo totale, dividendo l’opera come si deve, si potevano fare due intervalli di 25 minuti fra gli atti, più uno di 6 minuti fra i due quadri del secondo. Cosa normalissima per chiunque ed ovunque, ma qui le cose normali evidentemente sono considerate delle stupidaggini.

Ecco, la festa in casa di Flora. Si potrà anche sorridere dell’idea di Verdi-Piave di aprirla con i due cortei di invitati mascherati da zingarelle e toreri, ma ci spiega Cerniakov perché la trasforma in una specie di goliardico de-profundis per il povero Alfredo? Che arriva una prima volta per ricevere le condoglianze da parte degli invitati, prima di uscire per poi subito rientrare al momento previsto dal libretto? Quello che, con un riso nevrastenico, fa volare per aria mazzi di banconote per pagare Violetta non è un individuo alterato che sfoga dolorosamente il suo rancore, ma un povero idiota, in preda ad una crisi di nervi.   

La finisco qui (ma ci sarebbe ancora assai da contestare): insomma, un’idea-portante dello spettacolo semplicemente bizzarra e cervellotica (per quanto realizzata con indubbia maestrìa) che – manco a dirlo – è del tutto inconsistente con la musica e le parole che si ascoltano.

Ecco, caro Lissner: questo è ciò che uno spettatore che cerca di riflettere – eh sì, non un talebano infiltratosi in loggione – deduce dall’osservazione del tuo prodotto. Giudizio: buh!

14 dicembre, 2013

Orchestraverdi – Concerto n°13


Riecco il Direttore principale John Axelrod alle prese con un programma piuttosto insolito, una passeggiata musicale tutta romantica (e tardo-) che ci porta da Mahler a Brahms passando per Wagner. Un viaggio interessante ed anche curioso, dacchè vi viene smentita la cosiddetta proprietà transitiva: visto che Wagner e Brahms stavano (artisticamente) su sponde opposte, chiunque seguisse l’uno avrebbe dovuto automaticamente prendere le distanze dall’altro. Non così Mahler, che invece fu fervente ammiratore di entrambi (pur con qualche distinguo di natura estetica).

Il concerto si apre con un breve brano che Mahler aveva originariamente incluso - come secondo movimento, Andante alegretto (sic!) dei cinque - nella sua Prima sinfonia (anzi, Poema sinfonico, come lo aveva inizialmente battezzato, nel 1888): si tratta di Blumine, il cui manoscritto si era perso in giro per il mondo e che è stato riportato alla luce qualche decina di anni orsono (1966).

 
Stando all’Autore medesimo il titolo, così come quello della sinfonia (Titan) fu mutuato da Jean Paul, precisamente da una raccolta di articoli di rivista, pubblicata a Tubingen nel 1810 e intitolata Herbst-Blumine… (Fiori d’autunno). Ma si è scoperto poi che il brano era da Mahler già stato composto a Kassel nel 1884 per la serenata di Werner nelle musiche di scena (andate perdute o distrutte, salvo proprio il frammento relativo alla serenata) di Der Trompeter von Säkkingen di Viktor von Scheffel, un poema eroicomico ambientato nella guerra dei 30 anni.


Non a caso protagonista del brano è la tromba solista (qui Christopher Dicken, con Harding e la MCO).

Curiose le peripezie cui il pezzo andò incontro nelle mani del suo autore: dopo essere stato presentato alla prima di Budapest nel 1889, Mahler (all’inizio del 1893) aveva deciso di cestinarlo. Ma pochi mesi dopo (estate 1893) lo aveva ripristinato e presentato in un’esecuzione ad Amburgo (ancora l’opera si chiamava Poema sinfonico…)

Fu in occasione di un’esecuzione a Berlino nel 1896 che Mahler cassò definitivamente Blumine e presentò il suo lavoro in 4 movimenti come Sinfonia in RE maggiore per grande orchestra: e così essa fu definitivamente pubblicata nel 1899 e poi nel 1906 e così da allora viene eseguita in tutto il mondo.

Cedo ora la parola a Henry-Louis de La Grange perché ci descriva questo brano (testo preso dalla sua monumentale biografia di Mahler, traduzione mia):

Tonalità: DO maggiore. Tempo: 6/8. Forma: ABA.
Dopo un poetico preludio degli archi, pianissimo, di quattro misure, la tromba solista espone immediatamente la melodia, la cui seconda frase (prima del numero 2), è poi ripresa dagli archi. La sua principale debolezza risiede in un eccesso di simmetria nelle appoggiature dal semitono inferiore, rozzamente accentuate, che precedono ogni nota importante della melodia, e che finiscono per creare l’impressione di un tic o di un ossessivo manierismo. L’episodio centrale (B) comincia in LA minore con imitazioni sulla prima misura del tema A. Un secondo episodio espone una nuova versione di A, dopo la quale si perviene poco a poco alla forma originaria del tema attraverso un passaggio modulante che combina un’altra versione di A con un controcanto nei violini. Raggiunta la tonalità di SOLb maggiore nella quale i violoncelli in acuto e i flauti hanno scambiato A in imitazione, Mahler ritorna alla tonalità principale in sole quattro misure. È la seconda frase di A, negli archi, che introduce la riesposizione. Questa è abbreviata e seguita da una piccola coda, assai semplice, sempre basata su A.
Insomma, Mahler fa un uso eccessivo del suo primo tema, la cui dolcezza un po’ zuccherosa e le famose appoggiature ne distruggono ben presto il fascino. Se non fosse che è di Mahler, tutto farebbe pensare che Blumine sarebbe scomparso in un oblio definitivo, trattandosi al più di una musica neo-mendelssohniana, la cui grazia, lo charme, l’eleganza e l’invenzione piuttosto modesta sono totalmente lontani dallo stile mahleriano, così come lo conosciamo. Alcuni passaggi sono particolarmente ben riusciti, in particolare le transizioni, ad esempio quella che collega i due temi dell’esposizione, dove una lunga nota tenuta, MI (mediante di DO maggiore) si trasforma in dominante della tonalità seguente, LA minore, attraverso un semplice salto d’ottava in glissando. Un altro momento di pura poesia è quello dove il primo motivo viene elaborato in imitazioni, e passa da uno strumento all’altro; e anche quello dove, più tardi, l’arpa esegue dei tremoli su triple crome. L’arpa è peraltro utilizzata ovunque con una consumata perizia, come nei Gesellen. Tuttavia, qualche fortunato cammeo non è sufficiente a rendere il pezzo degno del suo autore. In tutto il resto dell’opera mahleriana non esiste null’altro di così superficiale e meramente decorativo come questo pezzo, nemmeno il grande assolo nostalgico del Posthorn della Terza sinfonia, che pure discende direttamente da questo. Non c’è quindi nulla di male nel fatto che Mahler lo abbia soppresso, casomai ci si dovrebbe stupire del fatto che Mahler dopo qualche mese fosse tornato su quella decisione. L’interesse di questo pezzo è soprattutto di tipo documentario. Senza di esso, in effetti saremmo privi di ogni idea riguardo lo stile delle musiche di scena del Trompeter von Säkkingen.

Per la verità Blumine viene qualche volta presentato al suo posto originario nella Sinfonia: c’è chi – con de La Grange - boccia l’idea come si trattasse di uno scoop ammuffito, mentre altri cercano di dimostrare come in fin dei conti quella presenza non sarebbe poi del tutto ingiustificata.

E al proposito, mi limito a segnalare qui uno dei legami concreti che oggettivamente si possono individuare fra Blumine ed il resto della sinfonia: la chiara somiglianza fra la cadenza dei violini che chiude la frase di Blumine e il passaggio (Sehr gesangvoll) del Finale, che a quella si richiama senza alcun’ombra di dubbio:


Ecco: questo aspetto ciclico della Sinfonia si perde irrimediabilmente con l’assenza di Blumine. 

Che poi uno dei motivi che portarono Mahler all’abbandono del brano fosse il pudore per la rassomiglianza delle prime 6 note del tema della tromba con quelle dell’Allegro ma non troppo del Finale della Prima di Brahms, mi parrebbe una spiegazione poco plausibile (ci avrebbe messo 6 anni ad accorgersene?):
Certo, non esistendo alcun indizio di possibili ulteriori ripensamenti di Mahler in proposito, parrebbe giusto rispettare la sua volontà, come testimoniata dalle edizioni ufficiali, e non eseguire il brano nel corpo della Prima. Però non ha nemmeno torto chi sostiene – con argomenti non peregrini - che il re-inserimento di Blumine non sia poi un delitto di lesa-maestà.

Ad ogni buon conto, Axelrod ha fatto la cosa più sensata: ci ha proposto questo delizioso cammeo, che è un vero piacere ascoltare, senza però metterci intorno… la sinfonia! Bravissimo, come al solito, Alex Ghidotti a porgerci questa piccola ma interessante reliquia.
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Wagner compose il Siegfried-Idyll per farne un regalo di compleanno alla moglie Cosima che da poco più di un anno gli aveva dato il tanto atteso figlio maschio. Anche qui, lascio la parola ad un illustre wagnerita, il compianto prof. Teodoro Celli, per raccontarci di quest’opera in modo a dir poco appassionato:

Il 24 Dicembre 1870.
Era la vigilia di Natale; Cosima, in quel giorno, compiva i trentatré anni. Aveva appena scritto sul suo diario: “Quest’anno da Richard non ho avuto nessun regalo”. Era la mattina; quando giù, nell’atrio della villa – a Triebschen in Svizzera dove abitavano – udì risuonare una musica.
L’evento era frutto d’un amorevole complotto. In novembre e in dicembre, Wagner aveva scritto un poemetto sinfonico con l’intenzione di farne dono alla sposa amata. Aveva segretamente ingaggiato i musicisti necessari, e aveva fatto eseguire le prove: fra di essi era il celebre cornista Hans Richter, futuro direttore d’orchestra dell’Anello del Nibelungo a Bayreuth, per la “prima” del 1876. In quest’occasione egli aveva imparato a suonare la tromba!
I leggii furono disposti nell’atrio della villa, e sulle scale. Wagner stesso diede l’attacco. E così Cosima quando scese, circondata dalle figlie, e col piccolo Siegfried in braccio (aveva un anno e mezzo), udì qual’era il suo “regalo”.
Questa musica fu poi chiamata Siegfried-Idyll, “Idillio di Sigfrido”. I bambini di casa Wagner la chiamavano invece Treppermusik, “musica delle scale”, dal luogo dove l’avevano sentita! Otto anni dopo Wagner acconsentì a pubblicarla, con una dedica a Cosima che diceva fra l’altro: “La calma gioia che noi abbiamo goduta al focolare e che è espressa in questi suoni, noi volemmo tenerla segreta. Ma a coloro che ci furono fedeli, che furon dolci a Sigfrido e amorosi a nostro figlio, sia finalmente rivelata, col tuo consenso, quest’opera che canta la serena felicità di cui abbiamo gioito”.
La gioia della vita familiare – che fu veramente “unica” nell’arco affannoso della vita del Maestro – è qui cantata con accenti indicibilmente toccanti. Vi si ascolta l’amore di Wagner per la sua donna, e l’emozione per i cari figli, soprattutto per il piccolo “Fidi”; e vi si vede – quasi – anche il Wagner capace, di quando in quando, di tornar ragazzo, giocando in giardino con i bambini e arrampicandosi sugli alberi, con non diminuita agilità d’acrobata, nonostante i cinquantasette anni. Ma vi si sente soprattutto un magistero puramente sinfonico, che dimostra a quale altezza il Maestro fosse arrivato.
Composta per piccola orchestra, la partitura richiede (secondo le indicazioni di Wagner stesso) un flauto, un oboe, due clarinetti, un fagotto, due corni, una tromba, sei primi violini, cinque secondi violini, quattro viole, tre violoncelli e due contrabbassi. Il tessuto sinfonico aduna alcuni temi del Sigfrido, e precisamente: la melodia della “Pace”, il “Sonno”, “Siegfried erede della potenza del mondo”, “Decisione d’amare”, “Angoscia d’amore” e “Uccello del bosco”; ad essi è aggiunta, di quando in quando, una canzone popolare svizzera. Fluiti dall’animo del Maestro nella sua opera, quei motivi tornavano affettuosamente dall’opera al Maestro, a contrassegnare il momento più dolce della sua vita.

In realtà parrebbe che quell’esecuzione scaligera (!) sia avvenuta proprio il giorno di Natale, poiché Cosima era solita spostarvi i festeggiamenti per il suo compleanno.

Quanto alla primogenitura di alcuni temi, primo fra tutti quello della Pace, recenti studi porterebbero a pensare che sia entrato prima nel poemetto sinfonico e successivamente nell’opera, contrariamente a quanto sostenuto da Celli (in effetti Wagner stava lavorando al terz’atto del Siegfried quando compose l’Idyll). Quel che è incontestabile è però che il tema in questione (e forse anche quello di Siegfried erede della potenza del mondo) ha un’origine assai più remota rispetto all’opera; un’origine, per così dire, galeotta: dacchè viene dall’abbozzo di un quartetto - detto di Starnberg perché colà ideato e mai portato a termine - che Wagner avrebbe voluto dedicare alla sua Cosima amante, e non ancora moglie. Erano i giorni (estate 1864) in cui i due convissero more-uxorio (la piccola Isolde fu concepita lì, nella Villa Pellet, messa a loro disposizione da Re Ludwig e che sorgeva sulla costa orientale del laghetto, subito sotto la cittadina, a sud di Monaco) senza curarsi di occultare la loro relazione al marito di lei, Hans von Bülow, che anzi – da wagneriano sfegatato – ottenne in cambio (smile!) il privilegio di essere il primo a dirigere il Tristan!

Infine, anche in merito alla canzone popolare svizzera ci sono probabilmente delle inesattezze: ciò che compare nella partitura è un richiamo (letterale nelle prime 4 battute) al tema di una ninna-nanna che Wagner aveva composto qualche tempo prima per la figlia Eva, trascrivendolo sul suo diario: il primo verso suona come Schlaf, Kindchen, Schlafe, che guarda caso è molto simile al titolo di una ninna-nanna tedesca, musicata da Johann Friedrich Reichardt nel 1781, che però ha un testo diverso ed un motivo piuttosto banalotto:


Come si vede, si tratta di tutti motivi di 10 battute, ed è quasi certo che Wagner conoscesse il brano di Reichardt e che ne abbia tratto vagamente lo spunto.

Il complesso che eseguì originariamente il poemetto - che aveva anche un titolo diverso, quasi più lungo della stessa musica (smile!): Tribschener Idyll mit Fidi-Vogelsang und Orange-Sonnenaufgang, als Symphonischer Geburtstagsgruss. Seiner Cosima dargebracht von Ihrem Richard. - era composto da otto fiati (1-1-2-1-2-1) e dai 5 archi tradizionali. Nel far pubblicare la partitura, oltre ad imporle il titolo, Wagner mantenne l’organico dei fiati e irrobustì gli archi (6-5-4-3-2).

Qui lo esegue un Celibidache sempre grande, ma forse fin troppo… ascetico! Francamente gli ho preferito l’Axelrod di ieri sera, più asciutto e spedito, che ha ben interpretato le diverse variazioni agogiche previste in partitura. Invece dei 20 archi prescritti, ne ha schierati quasi il doppio (!) e di conseguenza l’atmosfera cameristica si è un pochino persa, ma va bene lo stesso.
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Chiude il concerto Brahms con la Terza Sinfonia. Opera che Mahler apprezzava assai, arrivando a pensare persino (udite, udite!) di manipolarne l’orchestrazione (come fece con Schumann…) da lui considerata troppo scarna.

Di Brahms Mahler aveva una grandissima stima (appena appannata da quello che lui considerava uno sgarbo fattogli dal burbero amburghese, ai tempi della bocciatura del suo Klagende Lied al Conservatorio di Vienna) ma considerava la sua musica troppo fredda. Come scrisse a Natalie Bauer-Lechner, gli sembrava che essa avesse un solo limite, quello di non spezzare mai le catene che le impedivano di elevarsi al di sopra della vita e dei dolori di questa terra, per esplorare mondi più liberi e luminosi. Brahms, scriveva, sembra prigioniero della sua condizione, di questo mondo e di questa vita; non rivolge mai lo sguardo verso le più alte vette; per questo le sue opere mai potranno produrre la più forte ed alta impressione; ad esse ornamenti, fioriture e fantasia sono del tutto estranei, e vi rimane solo un gioco di suoni duro ed austero, anche se sono colme di ingegno e di arte, dato che Brahms è un grande artista ed un uomo superiore.

Poi, constatando l’abissale differenza fra le sue opere e quelle di Brahms, Mahler si chiedeva (con grande onestà intellettuale) se per caso non fosse lui a sbagliare, e la sua musica non fosse altro che un guazzabuglio (cattolico!) di misticismi…

Dai tempi di Hanslick si usa dire che la musica di Brahms è assoluta, in opposizione a quella di Liszt, di Wagner (ovviamente) di Strauss e di Mahler. Ma allora perché una musicista raffinata, colta e sensibile come l’amata Clara (Schumann) nel felicitarsi con l’autore per la sua Terza gli confida di vederci i boschi e le foreste, i boscaioli inginocchiati ai piedi di una cappella nel verde, e ancora lo sciacquio del ruscello ed il ronzio degli insetti (ohibò… il Waldweben)? In realtà a questa, come a qualunque altra sinfonia o musica in genere, si possono appiccicare dall’esterno tutti i programmi di questo mondo, quanto infinite sono le sensazioni che ciascuno di noi può provare ascoltando quel dato brano musicale.

E questa Terza non comincia per caso con un motivo preso da un’altra Terza, precisamente quella di Schumann, apertamente sottotitolata renana?

E non era proprio il Reno che Brahms poteva ammirare dalle finestre della casa che lo ospitava a Wiesbaden mentre componeva la Terza? E a proposito di Wagner: se in quel tema sostituiamo la tonica di partenza (SOL) con una sesta (MI) non troviamo forse l’incipit del motivo assolutamente renano del Weia-Waga, che poi è anche quello del Sonno e dell’Uccellino del bosco?  

Beh, ce n’è abbastanza per ripensare certe categorie piuttosto stucchevoli che ancora vengono usate per catalogare musiche e musicisti…   

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Axelrod e laVerdi hanno eseguito la Terza non troppo tempo fa con gran profitto, così adesso la registrano per inciderla nell’integrale del maestro texano. Un’esecuzione forse un poco contratta all’inizio (magari eccessiva… tensione?) ma poi cresciuta via via (pregevoli i due tempi centrali) fino alla splendida conclusione.

Gran trionfo in un Auditorium gremito.

08 dicembre, 2013

Ancora due cosette sulla Traviata scaligera

 

Come si è ben visto – anzi, udito – i dissensi finali hanno colpito principalmente (ma non solo) la regìa di Cerniakov. Il quale ha seguito l’ormai classico – e quasi sempre deleterio – processo che ha come obiettivo quello di impiegare l’opera in questione per rappresentare (in funzione pseudo-maieutica) scenari e problemi di attualità. Nella fattispecie, come deve aver ragionato il regista russo?

 

1. Verdi (con Piave) intendeva mettere in scena uno spaccato di certa società degli anni 1850, contemporanea quindi a lui e al suo pubblico;

2. vivendo noi negli anni 2000, bisogna trovare qualcosa che rappresenti aspetti e comportamenti radicati nella nostra società, che è oggettivamente diversa da quella di 150 anni orsono;

3. una di queste caratteristiche – ormai lo abbiamo imparato a memoria, da Freud sui libri e da Strindberg, per dire, a teatro – è la nevrosi (indotta in tutti noi da questa nostra società alienante) che impedisce agli esseri umani di vivere compiutamente e in modo spontaneo e… umano anche il rapporto più importante: l’amore;

4. e quindi Violetta e Alfredo il loro amore lo devono vivere in uno stato di perenne isteria, che porta lei nientemeno che alla morte e lui a vedere quella morte come un’autentica liberazione da un incubo.

 

Noto di passaggio che il regista non si deve essere fatto tradurre bene in russo il testo dell’aria di esordio dell’atto secondo, che ci racconta del tipo di ménage Violetta-Alfredo più e meglio di un’intera raccolta di Racconti di Liala… Forse questo ha portato il regista ad immaginare che i bollenti spiriti fossero riferiti ad un minestrone di verdura, che infatti Alfredo si mette solertemente a cucinare (smile!)

 

Se qualcuno obietta che il soggetto di Cerniakov sarà pur interessante ed attuale quanto si vuole, ma non ha nemmeno un capello in comune con quello di Verdi-Piave, la risposta è già bell’e pronta: chi se ne frega! qui si fa teatro, amico, mica siamo al museo!

 

Beh, a qualcuno invece pare che gliene freghi parecchio, a giudicare dai buh di ieri sera. Di cui val la pena anche di interpretare il senso, essendo stati apparentemente… schizofrenici (proprio come questa Violetta, smile!) Allora: alle prime uscite singole tutti gli interpreti (con una sola eccezione) hanno ricevuto soltanto consensi, da quelli trionfali alla Damrau fino a quelli moderati, andati persino a Lucic. L’eccezione è stato Beczala, accolto da un mix di applausi e buh. Poi i buh son diventati un fiume alla comparsa di Gatti, cui evidentemente non si sono perdonati certi elastici nei tempi e magari  - forse contagiato dal regista - un approccio più consono a Berg che a Verdi. Infine sono diventati appunto un oceano per il regista. Dopodiché però hanno continuato ad imperversare anche sui singoli, alle uscite successive. Perché mai? Ecco, a me pare che questi ultimi fossero dissensi espressi verso gli interpreti in quanto complici – convinti o meno – del risultato complessivamente negativo della serata. Come dire: cara Diana, tu avrai anche cantato benissimo, ma la tua Violetta in complesso ci ha deluso, e poco conta che la colpa sia del regista, perché in scena c’eri comunque tu.        

 

Radio3, in una specie di fuori-onda al termine della trasmissione, ha captato il pistolotto di addio di Lissner (questo era il suo ultimo SantAmbrogio, e meno male, aggiungo io…) alle masse scaligere. Indirizzo concluso con la ripetizione del suo ritornello ormai trito e ritrito: la missione della Scala non è far divertire il pubblico, ma farlo riflettere!

 

Beh, in linea di principio si potrebbe anche concordare, ma a condizione che il pubblico sia portato a meditare sui contenuti che Mozart, Wagner, Verdi ci hanno trasmesso nei loro capolavori. Meno, se veniamo costretti a sorbirci i contenuti dei vari genialoidi sponsorizzati da Lissner: Carsen, Guth e Cerniakov; che per farsi belli, ricchi e famosi loro (e far salire l’ingaggio del soprintendente!) non esitano a sequestrare, per poi riconsegnarceli dovutamente adulterati, quei capolavori del teatro musicale.

 

Amen.


Ah, dimenticavo che ce n’è anche per Gatti. Tutti ricordano come reagì al fiasco del SantAmbrogio 2008: richiesto di commentare i fischi piovutigli addosso, rispose un filino piccato (prima di sbattere la porta) che non ne aveva udito alcuno!

Ieri sera, intervistato da Pedone di Radio3 dietro le quinte, e con il frac ancora inzuppato di buh, il nostro ha serenamente ammesso che le contestazioni erano la legittima manifestazione di libero pensiero. Ohibò, due Gatti e due misure? Mah, credo che la spiegazione non sia poi così difficile: quel Don Carlo rappresentava per lui una specie di esame di ammissione al concorso per un posto di Direttore musicale alla Scala, e la bruciante bocciatura doveva parecchio rodergli dentro. A 5 anni di distanza il nostro si deve essere messo il cuore in pace, quanto meno accettando il fatto che la prossima opportunità gli verrà offerta quando avrà raggiunto l’età che ha oggi Riccardo Chailly (smile!) Ecco perché, almeno per un po’ di tempo, può permettersi di fare il signore…


Ri-amen.

07 dicembre, 2013

Alla Scala una Traviata… isterica


Sì, isterica sulla scena (la prossima, per contrappasso, avrà la personalità di barbie) e – alla fine – in loggione.

 

La regìa, che si può abbastanza bene giudicare anche dalla TV, mi è parsa di una puerilità disarmante. E non certo per la sfoglia e i cetrioli…

 

Le voci è un po’ difficile apprezzarle quando si sente un suono che arriva da un microfono posto sull’ugola del/della cantante. Comunque la Damrau mi è parsa all’altezza (salvo che nel MIb opzionale) mentre Beczala è partito discretamente, ma alla fine mi pareva in difficoltà anche sui SOLb (non parliamo di come ha fatto il DO all’attacco della ripresa di Oh mio rimorso). Lucic meno peggio dell’immaginabile, anche se Gatti non mi pare l’abbia aiutato, con tempi francamente troppo celeri. La Zampieri-Wanna mondiale!



In loggione c’erano evidentemente quelli che Alberto Mattioli chiama amichevolmente, e anche un po’ grillescamente, care salme… Per ripicca, han fatto loro il funerale al regista (smile!)