Riecco il
simpatico Wayne
Marshall sul podio dell’Auditorium per dirigervi un interessante programma (attenzione: interessante non significa
automaticamente di alto livello…)        
Che si apre
con una composizione giovanile di Richard
Strauss: la Bläserserenade op.7 (per strumenti a fiato). Così la definì
onestamente l’Autore nel 1909, 28 anni dopo averla composta: Null’altro se non il decoroso lavoro di uno
studente di Conservatorio.  
Ma il sommo Quirino Principe non la pensa così. Ecco
come analizza questo lavoro (da: Strauss –
La musica nello specchio dell’eros):
 
  
Il piccolo prodigio venne alla luce 1'11 novembre 1881,
  quando Richard finì di comporre la Serenade in mi bemolle maggiore op. 7
  (TFV 106) per 13 strumenti a fiato: 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti in si
  bemolle, 4 corni (di cui il primo e il secondo in mi bemolle, il terzo e il
  quarto in si bemolle), 2 fagotti, controfagotto (o basso tuba). I corni in si
  bemolle sono bassi. In alternativa al controfagotto o al basso tuba, la partitura
  reca l'indicazione: Contrabaß . Per la prima volta, egli
  si cimentava in una composizione per insieme di fiati (legni e ottoni), e
  anche per questo l'autunno 1881 segna un momento inventivo di assoluta novità,
  anzi, apre un nuovo solco: in tutta la sua vita, Strauss ideò soltanto
  quattro lavori con un simile organico (altra cosa sono le cinque composizioni
  per ottoni e timpani), e, con ammirevole simmetria, due quasi al principio (1881
  e 1884) e due quasi alla fine (1943 e 1944-1945). Che egli fosse stato preso
  da un imprevedibile interesse per il "guter Klang" di un insieme di
  fiati è testimoniato anche da una sua fatica inversa sotto l'aspetto tecnico,
  quasi contemporanea alla Serenade: la riduzione per pianoforte a 4
  mani del Nonetto in fa maggiore di Franz Lachner (AV 183, TFV 108). 
Non c'è
  dubbio: in senso strettamente tecnico, quella è la direzione che orienta lo
  sguardo del giovane compositore. È un suono nitidamente
  disegnato in lavori di buona fattura, alcuni autentici capolavori purché
  dotati di libertà visionaria. In quell'ambito esistono sicuri punti di
  riferimento, a Richard certo non ignoti: da prodotti abili e di modesta
  inventiva, come lo stesso Nonetto di Lachner o l'analogo Nonetto op.
  139 di Rheinberger, a esiti più vibranti come la Serenata op. 44
  di Dvorak, su su fino a un miracolo solare qual è la Serenata in re maggiore
  op. 11 di Brahms, nota agli ascoltatori tedeschi fin dal 1859. In particolare,
  il primo Minuetto della composizione brahmsiana si configura come una delle
  possibili premesse del nuovo suono straussiano e dell'invenzione tematica in
  tutta la sua leggiadra vitalità. 
Il nuovo suono si presenta levigato, spoglio di eloquenza:
  nessun grande gesto. Servendoci del modello brahmsiano per vedere controluce
  le divergenze insieme con le affinità, leggiamo nella partitura della Serenade
  un primo segreto di fabbricazione della musica straussiana: l'assenza
  assoluta della cosiddetta "melodia popolare" o del cosiddetto
  stilema armonico popolare o di tutto ciò che popolare non è ma che abilmente,
  come spesso accade in Brahms, è tagliato nella sua morfologia come se lo fosse.
  La Serenade è bitematica, in un tempo solo (Andante) articolato in
  sezioni con sfumature di movimento che attenuano ogni contrasto: esposizione
  del primo tema (btt. 1-24), breve ponte modulante (btt. 25-30, dalla lettera
  A), secondo tema (più animato, btt. 31-60), una parte centrale che
  drammatizza elementi del secondo tema (btt. 61-118) e in cui un'ulteriore drammatizzazione
  comprende le battute 89-111 (dal più animato al Tempo I, in cui
  si ritorna alla serenità iniziale), e infine la ripresa (btt. 119-162) e la
  coda (btt, 163-173). 
La prima esposizione è costruita quasi sul nulla, e
  arricchita da esigue differenze nell'uso e nella ricomparsa delle idee. Questo
  secondo carattere s'impone anche all'esposizione del secondo tema, che è
  invece plastica e di forte rilievo: anche in essa il discorso procede e si
  dialettizza secondo varianti minime. Una melodia discendente parte dalla
  mediante e si sofferma sulla dominante alla fine del primo inciso. La
  risposta è ascendente-discendente, e conclude la prima semifrase (primo
  quarto della bt. 4) con una triade di tonica nel secondo rivolto. Stranamente,
  questo accordo che dovrebbe rendere un senso di conclusiva stabilità è
  singolarmente teso ed elusivo, poiché in suo luogo ci saremmo aspettati
  un'anticipazione o un ritardo armonico. La seconda semifrase ha l'antecedente
  e il conseguente entrambi modellati sulla risposta della prima semifrase, cioè
  su una linea ascendente-discendente, ma con intervalli meno ampi, come a
  smussare le curve. Ne risulta una significativa relazione tra la prima e la
  seconda semifrase: nella prima, il rapporto di opposizione lineare tra
  antecedente e conseguente corrisponde, nella seconda, a un rapporto di
  attenuazione della stessa linearità. 
  
  
La seconda frase mostra come sia possibile agire con
  forza su un delicato organismo mediante varianti che scalfiscono appena il rilievo.
  Il lieve mutare della linea melodica è bilanciato dall' alternarsi degli
  strumenti. Se in principio il primo tema era affidato al primo dei due oboi,
  nella battuta 9 esso è reintrodotto dal primo flauto, che gli dà una sostanza
  eterea, candida e sfumata, in luogo del disegno incisivo tracciato prima
  dall'oboe. Lo schema della melodia discendente è immutato: dalla mediante SOL
  alla dominante inferiore SI bemolle. La lieve variante si presenta in due sottovarianti
  nella 
prima semifrase. Nell'antecedente, il ritmo puntato
  dell'incipit è sostituito da una serie di note di passaggio con lo sdoppiamento,
  nella battuta 9, del secondo ottavo in due sedicesimi. L'aggraziata,
  apollinea solennità delle battute 1-4 si trasforma in una semplicissima cantilena
  infantile. Nel conseguente della prima semifrase, un lievissimo 
tocco di pollice, un'impercettibile deformazione
  plastica nella creta, e lo spirito muta stato d'animo: la scaletta discendente
  è immutata nella linea, ma le prime tre note diventano altrettanti sedicesimi
  preceduti da una pausa di uguale valore. Basta quella pausa iniziale a dare
  slancio e fervore, come se si volesse meditare per un attimo prima di
  abbandonarsi alla musica. 
  
Subito dopo, sull'onda di una piccola fanfara di corni
  e fagotti, lo slancio e il fervore conducono all'impercettibile ascesa cromatica
  delle battute 13-14, con la sostituzione enarmonica del DO diesis al RE bemolle,
  e all'incantevole appoggiatura sull'accordo di settima di dominante nella
  battuta 15. Qui davvero l'apollineo si concede a chi lo sfiora senza sforzo,
  come il ramo d'oro del mito si staccava dalla pianta a chi lo toccava
  dolcemente senza strapparlo. La grazia mendelssohniana del ponte modulante
  prepara il terreno alla comparsa del secondo tema, della cui felicità siamo grati
  al giovane autore. 
Tocca al primo clarinetto introdurlo, prima con
  deliziosa esitazione, quasi a piccoli passi interrotti da pause di un sedicesimo,
  poi con il supremo incanto con cui la prima scaletta discendente, invece di concludersi,
  come sarebbe da credere, sulla tonica SI bemolle (il secondo tema, in ossequio
  alle regole, è in tonalità di dominante rispetto al primo), è seguita da
  un'altra scaletta che ne è quasi l'ombra, collocata più in alto a intervallo
  di quinta. 
Franz
  Dubitzky ricorda che Friedrich Wilhelm Meyer, cui la Serenade fu
  rispettosamente dedicata, non gradì il modo con cui l'allievo disegnò
  l'intero contorno del secondo tema, poiché nelle battute 35-36 esso gli parve
  una reminiscenza dello Spinnlied delle fanciulle filatrici nel II atto
  del Fliegender Holländer wagneriano ". Un pedante, Meyer, ma
  quale occhio! 
La Bläserserenade op. 7 apre al linguaggio
  musicale di Strauss una porta verso il grande spazio dei suoni, e sviluppa in
  misura decisiva la sua conquista dei timbri strumentali. 
Il Festmarsch op. 1 era la prima composizione
  di un ragazzo già in grado di concepire una scrittura orchestrale. Cinque
  anni dopo, l'aurea partitura per tredici fiati non è ancora la piena
  rivelazione dello stile che legherà al nome del suo autore connotazioni
  inconfondibili, identificandosi con lui, ma testimonia, per la prima volta, che
  per scoprire quello stile e farlo suo egli possiede ormai tutti i mezzi. 
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Forse Principe
esagera un filino nei peana per questa composizione del 17enne bavarese, tuttavia
i 13 fiati de laVerdi sono bravi a farcene apprezzare le qualità… promettenti. Piuttosto,
come accaduto tempo fa al pacchetto degli archi (in altra Serenata, quella di Ciajkovski)
avrebbero anche potuto essere esentati dalla presenza del Direttore (smile!)
 
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Emanuele Arciuli arriva
poi per presentarci il celebre Concerto di Edvard Grieg. Lui e Marshall hanno già fatto coppia qui quasi esattamente
due anni orsono (allora per un grande affresco… ansioso).
 
In questo lavoro
Grieg si rifà scopertamente a Schumann
(stessa tonalità, analogo incipit) e anticipa di quasi 20 anni, sempre
nell’apertura, un altro concerto in LA minore, il doppio di Brahms. Poi naturalmente
ci mette molto di suo, compresa qualche atmosfera dei suoi fiordi.
Se Arciuli pare
non voler calcare la mano (smile!) il
vulcanico Marshall sottolinea in modo quasi esagerato tutti i chiaroscuri, sia di
suono che di tempo, dando al concerto un’impronta… Liszt-iana. 
Grande successo
per i due e per Arciuli in particolare, che ripropone il bis del suo amato Debussy.
Ritroveremo tutti i protagonisti di ieri fra un paio di giorni, alla Scala,
impegnati in opere di bene. 
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La serata è
chiusa dall’esecuzione della Seconda sinfonia di Franz Schmidt, violoncellista prima
ancora che compositore vissuto a Vienna dalla fine dell’800 fino allo scoppio della
seconda guerra mondiale.
Dico
francamente che lo scarso interesse che suscita questa sua opera (come le
altre, del resto) mi pare proprio meritato: comporre nel 1911-13 una sinfonia
scimmiottando modelli ormai superati (Bruckner, Brahms) mentre il suo vecchio –
e non propriamente amato - Direttore alla Hofoper aveva appena composto, prima
di andarsene da questa valle di lacrime, cosucce come Das Lied von der Erde, la nona
e la decima sinfonia, ha davvero del
velleitario e dell’anacronistico. 
A proposito di
Mahler, ecco come il grande boemo giudicò un’opera di Schmidt (Notre-Dame de Paris) che il
violoncellista-compositore gli sottomise nel 1904 sperando di farla
rappresentare alla Hofoper: Molto bella!
Ma mi spiace dire che nella sua partitura mancano le grandi idee. Appunto… 
Non stupisce
quindi che Schmidt, da conservatore, si trasformasse in reazionario, plaudendo
al nazismo e all’Anschluss, fino al punto da comporre Deutsche Auferstehung, la
resurrezione tedesca, proprio all’indomani dell’annessione (di quella che
peraltro era una sua patria putativa, essendo lui slovacco-magiaro di origine).  
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La
sinfonia è formalmente in tre tempi, ma in pratica è in quattro, dato che il
secondo movimento (un tema con 10 variazioni, che occupa più di un terzo
dell’intera durata) si suddivide chiaramente in due: tema + 8 variazioni e
Scherzo con Trio costituito dalle ultime due.
Il
primo movimento (Lebhaft) è in
forma-sonata con alcuna licenza
(parafraso Ciajkovski…) Vi si possono distinguere le classiche componenti
strutturali: esposizione di due temi
(più transizione) sviluppo, ripresa e coda.
Le
libertà che si prende Schmidt riguardano più che altro l’impianto tonale: primo
tema in MIb maggiore, secondo (!) in SI maggiore; ripresa del primo tema (!) in
SOL e SI maggiore. Per il resto, una buona dose di modulazioni, soprattutto
nello sviluppo, e il rispetto delle regole nella ripresa del 2° tema, portato
in MIb maggiore.  
In
apertura, senza introduzione, viene esposto il primo tema, assai vivace e di
carattere pastorale:
 
Il tema
si sviluppa a piena (fin troppo!) orchestra, con soggetti secondari assai
enfatici, poi il ritmo di tranquillizza, vira al minore lasciando spazio ad una
transizione (pare l’Incantesimo del fuoco
wagneriano…) che modula verso il SI maggiore in cui il pacchetto di 6 corni
(degli 8) espone il secondo tema, più cantabile:
 
Anch’esso
poi si anima per l’intervento di tutta l’orchestra (si odono qui atmosfere
straussiane) e quindi sfuma lentamente perdendosi in lontani rintocchi dei
timpani, col che si chiude l’esposizione.
Lo sviluppo è canonicamente introdotto dal
primo tema, in MIb, dopodiché si assiste a sue diverse modulazioni (SOL
maggiore, DO minore, LAb maggiore); il secondo tema compare contrappuntando il
primo sul LAb maggiore, poi modula a SI maggiore, da cui scende ancora al LAb,
anzi alla sua relativa FA minore. Ci avviamo alla conclusione dello sviluppo,
con una teatrale serie di pesanti accordi di corni e trombe, intercalati da
sussulti di archi e legni, che sfociano in un RE maggiore, assai tranquillo,
che chiude con fiati, timpani, piatti e tamtam, in pianissimo.  
La ripresa ripropone il primo tema in SOL
maggiore alternato a DO e SI maggiore, la tonalità del secondo tema che viene
poi esposto nel canonico MIb maggiore, sul cui sfumare dei timpani (come
nell’esposizione) si passa alla conclusiva coda,
che si costituisce come un nuovo mini-sviluppo dei due temi, e che chiude nella
tonalità d’impianto dopo una serie di altre modulazioni.
Il
secondo movimento è un Allegretto con
variazioni, il cui tema in SIb, assai delicato ma anche piuttosto lezioso, è
esposto da tutti e soli i legni:
Gli
archi soli (contrabbassi esclusi) sono protagonisti della prima variazione, che si mantiene sul piano elegiaco del tema,
esposto dai primi violini, semplicemente muovendolo
con le semicrome dell’accompagnamento degli altri archi. La seconda variazione è ancora appannaggio
dei soli fiati, i legni cui si aggiunge il primo corno: l’atmosfera bucolica
non cambia.
La terza variazione, ancora esposta dai
soli archi, imprime invece un nuovo ritmo, a partire dal tempo che, da
ternario, diviene binario (2/4) oltre che dalla puntatura delle note. Una tecnica che pare mutuata dal Brahms delle
variazioni op. 56. Dopo una lunga pausa ecco la quarta variazione, ancor più spedita nel tempo (Schnell, 4/4 alla breve) che comincia ad
impegnare diverse sezioni dell’orchestra: mentre gli strumentini e i corni
espongono il tema con note di lunghezza dilatata (semibrevi e minime) fagotti e
violoncelli lo contrappuntano con svolazzi di semicrome, e i timpani e gli
archi scandiscono un ritmo marziale. Si chiude con le veloci semicrome di
archi, fagotti e clarinetto.
Nella quinta variazione il tempo si velocizza
ulteriormente (Sehr schnell, 3/8) e
muta anche la tonalità (REb maggiore, SIb minore): sono ancora i legni –divisi
in due gruppi che si alternano (flauti-coboi-cornoinglese e
clarinetti-clarinettobasso e fagotti - ad esporre la melodia, mentre gli archi
l’accompagnano con un tappeto di tremolo,
spalleggiati da timpani e piatti. La sesta
variazione vede il tempo degradare ulteriormente (Langsam und ruhig) mentre la tonalità resta fra SIb e REb: un’oasi
dall’atmosfera intimista ed elegiaca, cui segue la settima variazione, nuovamente veloce (Sehr schnell, 6/8, MIb minore-maggiore) e caratterizzata da una poliritmia ottenuta dalle crome (6 per battuta)
dei fiati (ancora divisi in due gruppi) e le semicrome (8 per battuta) degli
archi, pure divisi in due gruppi che spalleggiano il botta-e-risposta dei
fiati.
L’ottava variazione è in agogica dolente (Sehr leidenschaftl, nicht zu schnell,
3/4). La tonalità di base è FA# maggiore, con una divagazione a LA. Qui
l’atmosfera, dal sapore vagamente boemo, che ricorda Dvorak e Smetana, richiama forse le terre di origine del
compositore.
Come
detto, le ultime due variazioni si configurano come uno Scherzo con Trio. La nona,
piuttosto vivace (Sehr lebhaft, 3/4)
apre con 8 battute introduttive, di archi e legni (questi in corale) prima che
gli archi attacchino il tema, subito inseguiti dal resto dell’orchestra. La
tonalità prevalente è SIb, con digressioni al FA. Il ritmo è assai pesante
e  marcato, spesso addirittura
sgradevole, con eruzioni di corni, trombe e timpani piuttosto sgraziate. La decima variazione rappresenta il Trio,
più lento (Sehr ruhig)
prevalentemente in DO#, tempo 9/8, caratterizzato da un eccesso di strumentazione
che non gli giova. Ci troviamo un po’ di Bruckner ed anche di Mahler, ma poca
ispirazione. Lo Scherzo riprende (variazione 9) per concludere il movimento con
una coda tanto affannosa quanto musicalmente modesta. 
  
Il Finale è un Adagio (Langsam, con qualche increspatura) che forse cerca di scimmiottare
quelli di Mahler o di Bruckner: la buona volontà di sicuro c’è, ma i risultati
sono assai meno… convincenti, ecco.
Anche
qui c’è una prima sezione – a canone - suonata esclusivamente dai fiati, che
poi cedono brevemente il posto agli archi, prima di riprendere il controllo
esclusivo ed ancora lasciare poco spazio agli strumenti a corda. Poi ecco
finalmente l’intera orchestra portare avanti il discorso fino alla fine, fra
vaghe reminiscenze di Ciajkovski e Dvorak, e con qualche sussulto a turbare
l’andamento pacato del brano. 
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Che dire?
Vorrei, non posso? L’orchestrazione è mediamente di una notevole pesantezza: è
raro che i temi emergano chiaramente e pulitamente da un marasma sonoro dove
troppi strumenti suonano note di puro riempitivo, che finiscono per
disorientare l’ascoltatore e tradiscono verosimilmente una notevole carenza di narrativa. Insomma, un pezzo che al
massimo può suscitare curiosità, più che ammirazione. 
Ma che non dev’essere
per nulla facile da suonare, per cui i ragazzi (e Marshall con loro) si
meritano comunque una lode, e si sono meritati l’applauso del loro affezionato - anche se non proprio oceanico - pubblico.