apparentamenti

consulta e zecche rosse

29 dicembre, 2008

Neujahrskonzert n°70, con sorprese?

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Daniel Barenboim dirige - per la sua prima volta, ed è il 14° direttore a farlo - il più famoso concerto del mondo, che giovedi prossimo verrà trasmesso in diretta da (quasi) tutte le TV del pianeta, esclusa la RAI, che da qualche anno si è scoperta sciovinista, e continua a fare il pediluvio in Laguna, differendo alle ore 14 (proprio quando la gente o è ancora al sorbetto, o sta preparandosi a fare la prima pennichella dell’anno). Radio3 per fortuna manderà come sempre il concerto in diretta e per intero, a partire dalle 11:15.

Il sito “istituzionale” dei Wiener ci dà questo programma che prevede, come al solito, ouverture, walzer e polke del celebre Johann Strauß, più un galopp dell’omonimo padre. In TV si rivedranno anche immagini di ballo, in qualche delizioso scenario di cui Vienna è abbondantemente fornita.

Agli J.Strauß figlio-padre, quest’anno si aggiungono, con due walzer, Hellmesberger e Josef Strauß. Ma la novità assoluta 2009 è il debutto al concerto di un ospite nuovo, tale Francesco-Giuseppe Haydn, con il 4° movimento della sua Abschiedssymphonie, la n°45, a chiudere la parte ufficiale del programma.

Il sito “commerciale” dei Wiener, che non perde tempo a pubblicizzare CD e DVD del concerto, ci fornisce anche il dettaglio dei bis: la polka op.413 di J.Strauß figlio e poi i due canonici, immancabili pezzi da novanta dell’apoteosi finale:

Danubio: ormai è tradizione che siano due gli attacchi in tremolo del walzer più fischiettato al mondo. Fra l’uno e l’altro il direttore pronuncia un discorsetto più o meno di circostanza (chissà se Daniel ne farà invece uno assai serio, con riferimento alla sua Palestina, che proprio in questi giorni è di nuovo in fiamme) e poi con l’orchestra augura Buon Anno, e infine...

Radetzky, ormai divenuto un pezzo marziale da concerto per pubblico e orchestra. Aspettiamoci - prima o poi - che qualcuno degli applauditori cominci a chiedere i diritti d’interpretazione.

Gli addii di Haydn sono qui per festeggiare i 200 anni dalla morte del sommo Josephus (1809): chissà se dietro l’esecuzione ci sarà una regìa particolare, che ad esempio ci riproponga - a mo’ di sceneggiata - ciò che accadde alla prima, nel 1772, c/o Estheráz, allorquando gli orchestrali, uno dopo l’altro, spensero il lume sul leggìo e se ne andarono alla chetichella, lasciando lo stesso Haydn e il primo violino a chiudere la sinfonia, per far capire al principe Nikolaus, padrone di casa, che era ora di chiudere anche bottega, e metter fine ad una vacanza più lunga e noiosa del previsto.

Qui le statistiche del concerto: dettaglio cronologico e totali per direttore.

Prosit Neujahr! (spedito dal grande Willi, ai tempi in cui il postino della RAI era tale Giulio Marchetti)
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Il Quiz del lunedi - 16
















L’immagine qui riportata si riferisce a:

1. “Tristano e Isotta” di Wagner.

2. “Gianni Schicchi” di Puccini.

3. “Fidelio” di Beethoven.

4. “L’Oro del Reno” di Wagner.

5. “Il Trovatore” di Verdi.

(la soluzione nella prossima puntata)
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Soluzione del Quiz n°15: Il Flauto Magico (Salisburgo, Vick)


28 dicembre, 2008

Wagner 2.0


Gli ingredienti ci sono (quasi) tutti:

- smisurata immodestia
- pensiero filosofico auto-referenziale
- establishment da combattere

Mancano ancora:

- una cosa tipo Tristan-und-Isolde
- un teatro sulla collina verde di Ascoli
- un suocero abate

...ma diamo tempo al tempo!

Scopiazzamenti o telepatie?

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Questa è la conclusione dell’esposizione del Rondò finale della Sonata K296, in DO maggiore, per violino e pianoforte, composta da Mozart nel 1778 a Mannheim:








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Due anni dopo, Luigi Boccherini componeva a Madrid il Quintetto G324, in DO maggiore, titolato La Musica Notturna per le Strade di Madrid, che si chiude con la famosa Ritirata di Madrid, utilizzata poi anche nel quintetto con piano G418 e come tema con 12 variazioni nel finale di quello - famosissimo - con chitarra G453 del 1799, sempre in DO maggiore. Sulle varie versioni del brano anche Luciano Berio ci ha ricamato parecchio e bene.

Guarda caso, la conclusione del tema della Ritirata è praticamente la fotocopia di quel Mozart. Una semplice coincidenza?


27 dicembre, 2008

Artisti o ciarlatani?


In questi ultimi giorni un paio di avvenimenti hanno riproposto al mondo (quello piccolo, sempre più piccolo, e più piccolo ancora) dei cultori dell’arte (musicale) l’eterno dilemma: come giudicare un personaggio che si mette in mostra?

a. sarà un grande artista, come i sofisticati strumenti di marketing vorrebbero darci a bere, oppure...

b. sarà un ciarlatano di quelli che, senza avere doni naturali, men che meno ispirazione e soprattutto senza versare nemmeno una goccia di sudore, assurge nondimeno agli onori degli altari (auditorium e aule parlamentari) ???

Il primo fatto, passato quasi inosservato qui da noi, riguarda Gilbert Kaplan: per i più un ciarlatano, che ha un’unica qualità, consistente in una montagna di quattrini, con i quali si può permettere di comprare persino la New York Philharmonic, dopo essersi comprato già i Wiener Philharmoniker e la London Symphony! Per altri, fra cui un critico british, di quelli che vanno per la maggiore, è invece un sincero interprete (di un’unica composizione, peraltro) che merita lo stesso rispetto dovuto a Pappano o Thielemann (e poi: 200.000 copie di CD con le sue registrazioni non se l’è mica comprate lui). Ma, a chiarire la statura del critico, che assolve Kaplan dall’accusa di marketing-ismo, si scopre che è lo stesso che ha scritto di Karajan come di un fenomeno da baraccone (ahinoi, da che parte ci dobbiamo girare?)

Il secondo fatto ci è molto più vicino, e riguarda Giovanni Allevi, che il programmatore del concerto natalizio in Senato ha chiamato ad esibirsi di fronte ai nostri politici, neanche fosse la reincarnazione di Rossini (forse data la provenienza geografica). Apriti cielo! Il più imbufalito - in pubblico - è Uto Ughi, che evidentemente non ha digerito che a deliziare quell’aula sia stato chiamato - 10 anni fa - il suo collega-rivale Salvatore Accardo, mentre a lui non lo degnano di uno sguardo. E così ne dice di tutti i colori, anzi le suona di santa ragione, al povero Giovanni, colpevole di vendere dischi a bizzeffe e di fare audience, laddove a lui (Uto) rimane solo l’orticello (quello piccolo, sempre più piccolo, e più piccolo ancora) di cui sopra. Bisognerebbe allora chiedere al veneziano (oggi) più incazzato d’Italia, come mai, anni fa, l’Opera di Baltimora (americani beoti, per Ughi, immagino) abbia commissionato all’ignorante capelluto Allevi, invece che al divino Uto, di musicare nientemeno che i recitativi della Carmen.

Ma ancor più di Ughi, che un minimo minimo di successo e notorietà, in questo mondo di merda, li ha comunque avuti, ad essere fuori dalla grazia di dio sono tutti quei bravi ragazzi, che magari hanno studiato e sudato per anni al conservatorio, ma che adesso si ritrovano a fare il cococo programmatore basic in qualche centro servizi meccanografici, oppure la segretaria d’azienda, annegata in mezzo a protocolli, timbri e fatture: basta un giro nei blog, cercando “Allevi” per averne conferma. Furbo lui - questo pare ormai accertato - o incapaci di stare al mondo, quegli altri?

Nel merito ci sarebbe da discutere all’infinito. Certo, se si tirano in ballo Mozart e Strauss (Richard) o anche Chopin, sarà difficile che Allevi possa cavarsela al confronto. Ma se il riferimento fosse Strauss (Johann-il-walzeroso) o un qualunque Suppè, o Spohr, o anche Hummel o persino Rachmaninov, forse la partita si potrebbe riaprire, chissà...

Del resto, ciò che Ughi ha detto oggi di Allevi, lo aveva scritto Wagner, nel 1850, di Mendelssohn!
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25 dicembre, 2008

Quando la TV era una cosa seria

Non è solo in Italia che ci dobbiamo lamentare del degrado dei programmi televisivi, che all’arte - e alla musica in particolare - lasciano sempre meno spazio, o al massimo ...lo fanno pagare salato.

In USA non stanno meglio e il Natale è stata l’occasione per molti - oggi ormai ultrasessantenni - per ricordare con nostalgia e rimpianto gli anni ’50-’60 del secolo scorso, quando la TV nazionale, la gloriosa NBC (famosa anche per l’orchestra sinfonica affidata a Toscanini) si poteva (voleva?) permettere di commissionare un’opera e rappresentarla, trasmettendola in diretta, con strutture proprie.

E ingaggiando per questo compositori già allora famosi. Uno di costoro era Gian Carlo Menotti, che compose un gioiello di operina natalizia, Amahl and the Night Visitors, trasmessa la sera del 24 dicembre 1951, con la regia dell’autore e con l’allora poco più che ventenne Thomas Schippers sul podio. E fu ritrasmessa ogni anno, ininterrottamente, fino al 1966.

24 dicembre, 2008

크리스마스 잘 보내세요!


Buon Natale ...coreano!

In doveroso ringraziamento al maestro Chung per i 90 minuti di musica che ci ha offerto ieri sera alla Scala, con i Trepper Symphoniker e l’inossidabile coro del maestro Casoni, oltre ai volonterosi solisti.

Intanto un commento al contenuto del programma, definito “natalizio”, come da circostanza: il Vesperae de Confessore ci stava, confessiamolo subito. Ma la quarta di Mahler, può essere definita “natalizia” solo da qualcuno (e mi rifiuto di pensare sia Chung, come insinua la locandina web) che ha scambiato il “Das himmlische Leben” per un mottetto serioso, oppure pensa che i sonagli del 1° e del 4° movimento rappresentino Santa Klaus che arriva con renne e sacchi di regali. Adorno ne ha scritto cinicamente, ma lucidamente, come di un campanello birbone, mettendo in bocca a Mahler un: “Nulla di ciò che state ascoltando è vero”. (Quindi: a natale ogni scherzo vale?)

Ciò detto, lasciamo perdere per ora le ricorrenze e raccontiamo qualcosa su una serata che ha un pochino risollevato il traballante prestigio di un’orchestra che spesso - negli ultimi tempi - ha lasciato non poco a desiderare.

Il K339 di Mozart meriterebbe più pubblicità ed esecuzioni. È il regalo d’addio di Wolfgang alla Salzburg del 1780, e a quell’insopportabile (per lui) e possessivo Hieronymus von Colloredo. Una serie di 6 cammei (meno di 5 minuti cadauno) dove si (più che) intravede ciò che sta per arrivare. Chung si affida al coro, che è una sicurezza, tenendo l’orchestra sempre al guinzaglio. I solisti, che del resto hanno parti relativamente modeste, salvo qualche contrappunto più o meno severo (Confitebor) danno semplicemente man forte a Casoni (che neanche ne avrebbe bisogno). Eccezione fa Kate Royal, che ha tutta la prima parte del n°5 sulle spalle, e qualche altro intervento fugace (Beatus Vir e Magnificat) per mettersi in mostra, in attesa di... Mahler. Esecuzione comunque da teatrone, robusta, molto diversa da altre - anche incise - più raccolte e baroccheggianti, con vocine sottili, ed emissioni di testa.

Poi, la quarta mahleriana. Altro che Natale, qui è tutta una Parodie: dall’incipit haydn-schubertiano, all’anticipando (la quinta) dei funebri squilli di trombetta, al violino da strada, dis-cordato un tono sopra, che Mahler stesso, in una nota poi espunta, chiamava “l’amico Hein” cioè la morte, nientemeno! E poi il terzo movimento, che contiene un’esplicita citazione di Verdi che poi comparirà nei Kindertotenlieder, altro che Natale! Per tacere dei cupi intermezzi in MI minore del finale. Certo, tutto poi finisce col plateale e scolastico MI maggiore - canonica tonalità di pace, tranquillità ed estasi - sotto la bacchetta autorevole di Santa Cecilia: solo che questo miele celeste, troppo dolciastro, se preso sul serio rischierebbe di essere stomachevole... Non per nulla, il tutto viene dal Wunderhorn, una raccolta di stornelli, poesiacce da strada, canti disperati di gente dall’esistenza subumana, inferni terreni e paradisi posticci (proprio alla lavazza) dove si divertono insieme, precursori dei nostri bonolis-laurenti, il pescatore volante San Pietro ed Erode, il macellaio. Il Sant’Uffizio aveva al tempo cose più importanti di cui occuparsi, altrimenti Arnim e Brentano se la sarebbero vista brutta, a pubblicare cose come “Der Himmel hängt voll Geigen“.

Chung, con Adorno, sembra capire tutta la sincera ipocrisia che ci sta sotto, e pare volercela spiegare, sia nell’impostazione generale dell’interpretazione, sempre contenuta e di profilo basso (tranne le - famose - irruzioni) ed anche nei particolari, battuta per battuta, semplicemente applicando nel modo più stretto le notazioni dell’autore (che di motivi per essere ottimista su natura, dio, paradiso, felicità... ne aveva invero pochini; e non parliamo poi di Gesù bambino!) Il terzo movimento ne è stato esempio lampante, con tutti quei tranquillo, cantabile, con espressione crescente, morendo, espressivo, poco crescendo, ritardando, dolente, cantando, scorrevole, appassionato, che compaiono nelle sole prime due sezioni (106 delle 353 battute) e che Chung ha sottolineato con quasi pedante fedeltà. Così come ha fatto poi sparare tutte le cartucce disponibili nel Vorwärts della coda (che anticipa il MI maggiore dell’epilogo) durante il quale la Royal ha potuto fare il suo slalom fra i leggìi, per prendere posizione, senza tema di disturbare il suono.

Così ne è uscita una quarta asciutta, quasi antipatica... vera, in sostanza. E quindi, caso mai - in Italia - più adatta al 2 Novembre.

L’orchestra si è ben portata, con i soliti alti e bassi dei corni (che poi qui è quasi sempre uno solo, anche se per i tutti ce n’erano 5, invece dei 4 previsti in partitura): passaggi puliti e davvero mahleriani, alternati a inciampi e sbavature evidenti. Accoglienza festosa e lunga alla fine, con applauditi speciali i legni e strumentini (oboe su tutti, davvero perfetto) e - meritatamente, data la parte di spicco - l’arpa. E poi i due primi violini, impeccabili soprattutto nell’ostico secondo tempo.

Una menzione la faccio personalmente all’addetto ai sonagli: per suonarli gli basta dare qualche pugnetto dall’alto in basso all’altro pugno che “impugna” il bizzarro strumento - una cosa a metà fra un ananas e un grappolone di datteri. Molta più fatica la deve fare a riporre lo strumento con somma cautela - un’arte davvero! - onde evitare che emetta suoni a sproposito.

La Royal ha una voce ben impostata, ma poco udibile nel registro basso. Nel lied ha sparato/gridato un pò troppo un paio di SOL, ma in complesso se l’è ben cavata. Questione di gusti: a qualcuno qui magari piace di più una vocina leggera, che si addica allo scenario da paradiso infantile (anni fa Bernstein fece cantare questa parte, proprio alla Scala, da un ragazzino, con esiti interessanti).

Insomma: nonostante tutto va bene così. Perchè - visto che siamo in tema di parodie - poteva andare anche così... oppure così (questo qui però non presentatelo al maestro Chung, mi raccomando!) per cui...
...buon Natale!
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22 dicembre, 2008

Effetti della crisi?

Crisi, futuro incerto, sacrifici, Brunetta e Bondi in gara a chi taglia meglio... c’è poco da stare allegri.

Non saprei dire se ci sia relazione causa-effetto, ma di questi tempi si moltiplicano iniziative benemerite da parte del mondo dell’opera e della musica, che cerca in tutti i modi di avvicinarsi alla cittadinanza.

L’ultima in ordine di cronaca è di ieri e viene da Genova, dove il Carlo Felice - cui si affianca il genovese purosangue, trapiantato a Dresda, Fabio Luisi - invita tutti ad un concerto gratuito il 28 dicembre, con programma a dir poco sontuoso.

Il Quiz del lunedi - 15













L’immagine qui riportata si riferisce a:

1. “Gli Ugonotti” di Meyerbeer.

2. “I Lombardi alla Prima Crociata” di Verdi.

3. “I Maestri Cantori di Norimberga” di Wagner.

4. “Il Flauto Magico” di Mozart.

5. “I Pescatori di Perle” di Bizet.

(la soluzione nella prossima puntata)
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Soluzione del Quiz n°14: Un Ballo in Maschera (Barcellona, Bieito)

21 dicembre, 2008

Giovanni Allevi: senatore a vita?

Via, non esageriamo. Nessun musicista ancora lo è stato: barbarie della politica, o marginalità della musica?

Certo, se oggi dovessimo fare un nome, pochi avrebbero dubbi su Claudio Abbado.

Il simpatico Allevi, intanto, ha messo un mattoncino, deliziando i nostri politici col concertino di Natale in Senato. Si potrà discutere all’infinito, ma nel panorama - davvero imbarbarito - della musica di oggi, c’è molto, ma molto, di peggio.

Don Carlo: buona la sesta?

Per me, direi di sì (essendosi che è l’unica rappresentazione cui ho assistito - live).

Opera perennemente incompresa e guardata con sospetto: dai verdiani ortodossi e conservatori, in quanto non abbastanza verdiana; da quelli progressisti in quanto non ancora abbastanza wagneriana. Fatta oggetto di diatribe e discussioni: fa i sostenitori del Grand’Opera, cinque atti, Fontainebleau, balletti e lingua gallica, e quelli che giudicano tutto ciò un ciarpame da bruciare. In mezzo, direttori che di volta in volta fingono di fare degli scoop, riesumando pagine di musica, pescandole quasi a caso da un cappello, o stabilendo come verità artistiche incontrovertibili i pettegolezzi raccolti da un amico o da una confidente del Maestro.

Si direbbe che questa diffidenza sia stata confermata ieri l'altro dai più di 170 posti (dico: quasi il 10% della capienza scaligera!) offerti in internet ancora a 3 ore dall’alzata del sipario; e comunque dal desolante spettacolo che presentavano, anche alle 19:30, i numerosi palchi semivuoti e i buchi ben visibili in platea. Sarà per via della crisi, e per le conseguenti difficoltà di agenzie e strutture turistiche (leggi: bagarinaggio autorizzato) a sbolognare ai giapponesini i contingenti di biglietti loro concessi, certo si è che il risultato - indipendentemente dal fatto che il Teatro abbia comunque incassato o meno quei 20 o 30 mila euri - è dei meno lusinghieri. Per la cronaca: per le ultime 4 recite, a gennaio, sono tuttora disponibili in web circa o più di cento posti a serata: brutto segno?

Regia, scene e costumi

Per la verità alla contraddittoria fama del Carlo sembra abbia voluto tener bordone anche la regia (in senso lato, includendovi scene e costumi) del pur intelligente Braunschweig (uno di quei simpatici francesi di nome e ascendente tedesco, tipo il ferrarista Jean Todt, per intenderci): che ha impostato la sua vision su basi essenzial-minimaliste delle scene, per poi concedere ampio spazio alla sfarzosità e sontuosità dei costumi (del solo establishment nobiliare, peraltro). Così si vedono gli ampi (fin troppo) spazi del palco scaligero spesso totalmente vuoti, oppure drasticamente limitati al solo proscenio; altre volte vi compaiono alberi finti o fondali riempiti da gigantografie, da far storcere il naso a marpioni tipo Appia; quando ci sono di mezzo le masse e i cori (frati, nobildonne, grandi di Spagna) lo sfarzo dei costumi si spreca, proprio come in un Grand’Opera che si rispetti. Insomma un nè carne, nè pesce che rischia di scontentare tutti.

La trovata dei due bimbi che compaiono a rappresentare Carlo ed Elisabetta ai tempi di Fontainebleau non sarebbe male - per surrogare sinteticamente la vicenda dell’Atto espunto - ma il loro riapparire qua e là finisce per essere stucchevole e spesso fuori dal contesto; un esempio per tutti: nella scena ad Atocha, è il Carlo-mignon a consegnare al Re, ricevutala da Posa, la spada del Carlo-maggiorenne (?!)

Nel Primo Atto, alla fine della prima parte, Braunschweig - per ricordare a tutti che se un regista c’è e lo si paga, deve pur guadagnarsi la pagnotta - si inventa letteralmente un’inversione di traffico sulla scena. La didascalìa non lascia dubbi: il Re e la Regina debbono transitare in corteo, diretti alla cappella, e Carlo deve guardarli passare, inchinarsi al Re sospettoso, lui e la Regina manifestando emozione. Invece noi vediamo i regali apparire quasi all’improvviso, soli, in primo piano, immobili quali statue di cera ed inginocchiati ad una specie di altare (un prisma marmoreo, che alla fine dell’opera assumerà il ruolo - assai più appropriato - di catafalco) mentre sono Carlo e Posa a muoversi ed uscire di scena, prima che cali il sipario.

Il Filippo che vediamo nell’ultima parte del Primo Atto (non direi sia colpa di Furlanetto) sembra muoversi più come un ottantenne possidente di campagna, scontroso e acido e con qualche gesto più degno di Rigoletto che di un Re, che sarà anche preoccupato, ma che ha - nella storia come nell’opera - un profilo ben più alto. Da qui in avanti però il sovrano tornerà ad assumere gesti ed atteggiamenti consoni al suo ruolo. Come nella scena di Atocha, su cui val la pena dir qualcosa. (Intanto sembra destino che a quasi mezzo millennio di distanza, questo nome sia tornato tristemente a rappresentare gli abissi in cui una civiltà possa precipitare, per mano della religione - cattolica o islamica, poco cambia - quando le gerarchie o i proseliti di detta religione pretendono di usarla a fini politici.)

Braunschweig qui ha intuizioni interessanti, come quella di presentarci i prelati, appollaiandoli su scranni esageratamente alti, ai lati della scena, e facendogli assumere atteggiamenti di noia, di sonnolenza e fastidio: cosa che immagino sarebbe molto piaciuta a Verdi. Poi si inventa, in contrapposizione ai costumi sfarzosi della nobiltà, una plebe vestita come oggi, con copricapi che vanno dal borsalino alla coppola, dalla bustina militare al basco; come a dire: la povera gente, 500 anni fa, non se la passava poi tanto diversamente da oggi (e vice-versa). Il Re compare in primo piano quasi subito, il che priva lo spettatore dell’effetto previsto in partitura (Filippo a comparire dopo l’apertura delle porte della chiesa, che Braunschweig sostituisce con l’alzata del sipario-zanzariera che schermava la scena all’inizio).

Veniamo al Terzo Atto, dove Braunschweig forse dà il meglio: la scena è vuota, solo uno scranno su cui siede Filippo, che canta la sua meditazione. (a proposito mi viene in mente che le precise note del passo “se il serto regal a me desse il poter” sono state usate - con tempo e ritmo ovviamente diversi - da un qualche bontempone dentro una zarzuela o qualcosa di simile.) Significativamente, nella scena successiva con l’Inquisitore, Filippo cede a quest’ultimo il posto a sedere sullo scranno, proprio a simbolizzare come stiano le cose, nei rapporti Stato-Chiesa. Salminen è un Inquisitore ideale (stiamo per ora parlando della presenza scenica): enorme, minaccioso, terrificante, con quella calma che gli deriva dalla consapevolezza del suo potere, oltre che dai novant’anni suonati che il personaggio porta sulle spalle, gli occhi e il passo quasi da cieco.

Un’altra idea interessante del regista è legata allo scrigno di Elisabetta, contenente il cammeo di Carlo: noi lo vediamo subito, al momento della meditazione. Filippo lo apre, ne prende il contenuto, stringendolo nervosamente fra le mani mentre canta “Ella giammai m’amò...”; poi riaprirà lo scrigno (invece di infrangerlo) al momento di mostrarlo ad Elisabetta; infine il cammeo, rimasto abbandonato sullo scranno, verrà raccolto da Eboli al momento di cantare il suo “O don fatal”. Qui devo aprire una parentesi di carattere personale, fra il vergognoso e il ridicolo: essendo che io - pregiudizialmente, lo ammetto - ho sempre guardato ai testi del melodramma italiano come a pure giustapposizioni di parole prive di significato compiuto e puri supporti al gorgheggio, e tratto in inganno dalla plausibilità dello scenario, avevo per non so quanto tempo dato per scontato che il don avesse l’accento forte - dòn - e si riferisse quindi all’infante protagonista del dramma. Non ricordo chi o come mi abbia portato a prendere atto che invece il sostantivo ha l’accento debole/stretto ed è una contrazione di dono (di natura). Imperdonabile, lo so; ma vero, ahimè.

Infine, devo proprio segnalare un particolare che testimonia della minuziosità della regia e dell’attenzione posta dagli interpreti ai dettagli più sottili. Dunque: colpito a morte dal colpo di spingarda esploso da un brigatista che ha dato l’impressione di uscir fuori dalla barcaccia, Posa rincula barcollando, fino ad accasciarsi sul seggiolone di Carlo, seguito dall’infante esterrefatto. Il realismo impone che scorra il sangue, ed infatti c’è un piccolo blob di color violaceo che compare per terra, ma dove? Disgraziatamente proprio dove Carlo si deve inginocchiare, accanto a Posa. Ed allora cosa non ti fa il meticoloso Neill? Con il suo piedino sinistro dà un paio di colpetti alla macchia di sangue plastico, spostandola in una zona da cui sia visibile a tutti, e non solo a chi, come il sottoscritto, guarda dal loggione, provvisto di binocolo da marina. Grandioso!

La conclusione del dramma è suggestivamente sottolineata dall’oscuramento totale della scena, incluse le lucine sui leggìi dell’orchestra, ad accompagnare il diminuendo dell’accordo conclusivo. Dopo il quale si sono ascoltati almeno due secondi di silenzio, speriamo dovuti a sensibilità del pubblico e non a ignoranza di come l’opera si chiude... comunque, appropriati.

Direttore e compagnia

Gatti. Lui conosce a memoria la partitura (e così il neon del suo vuoto leggìo resta evidentemente acceso solo per rendere il direttore meglio visibile a professori e cantanti). Io invece ammetto di non ricordare nemmeno il primo verso del 5 maggio, però un’ultima scorsa alla partitura della premiata Casa Ricordi l’ho data proprio prima di uscire per andare a teatro: posso quindi certificare - ad occhio/orecchio e croce - che il Daniele si sia attenuto a tempi ed agogica originali, inclusi gli ff che Verdi sparge in abbondanza sui righi; ergo: chi accusa questo Carlo di eccessivo bandismo in realtà non dovrebbe prendersela con il direttore, ma con l’autore in persona, assumendosi la responsabilità di voler dare lezioni a tale Giuseppe Verdi da Le Roncole di Busseto.

Ciò che è viceversa difficile non contestare al Kapellmeister (in combutta col regista) è l’inclusione proditoria del Lacrymosa: una lungaggine che spezza la drammaticità dell’azione, oltretutto fatta recitare da Braunschweig come se non ci fosse proprio, col Re che ignora totalmente il cadavere di Posa, senza degnarlo di uno sguardo, non dico di un gesto di compianto. Se qualcuno, per quei 5-6 minuti in più, avesse perso l’ultimo tram che va in periferia, avrebbe diritto di essere indennizzato. Insomma, che sia grande musica lo sappiamo, ma a me è francamente parso come il classico mazzolino di prezzemolo che gli ortolani del mercatino rionale ti buttano nel sacchetto, sopra pomodori e patate, come omaggio. Peccato che qui non eravamo al mercato per approvvigionarci di ingredienti, ma a tavola, con davanti il manicaretto - cucinato da Verdi, dico - da gustare... e quel mazzolino di prezzemolo ha rischiato di rovinare tutto.

Neill deve essere così riconoscente a Gatti per averlo preferito a Filianoti, che canta l’intera opera solo per il direttore. Dico: non distoglie mai lo sguardo dal podio, in nessun caso; il che magari a lui provoca qualche principio di strabismo, ma allo spettatore garantisce una performance musicale davvero rimarchevole!

Di Furlanetto ho detto sulla parte attoriale. Musicalmente sarà consunto quanto si vuole, fatto si è che, insieme a quella del sorprendente Neill, la sua è la voce che arriva meglio fin su ai loggioni! Che gli hanno tributato l’applauso a scena aperta e un’ovazione finale, meritati.

Mayer mi è parso un ottimo Rodrigo, ben calato nel personaggio anche come presenza scenica. Musicalmente l’ho trovato a posto, salvo il volume di voce, sufficiente magari in qualche teatrino di provincia (tipo Heidelberg, sia detto senza offesa) e non in un teatrone come il Piermarini.

Salminen sarà anche troppo wagneriano, non pronuncerà bene l’italico idioma, ma in quella parte ci sta bene assai, e non solo scenograficamente. Il buh che gli è stato riservato - non in scena, ma all’inchino finale - mi è parso gratuito.

Carosi mi è piaciuta, devo dire. Non avendo visto (ma solo ascoltato per radio) Cedolins, fatico a fare paragoni mirati fra le due primedonne. I primi piani che mi ha concesso il binocolo testimoniano anche di notevole portamento attoriale.

Smirnova veniva dopo i (mezzi) trionfi di Zajick e - per me - se l’è cavata dignitosamente. Il buh (l’unico a scena aperta) è stato suo, alla fine del terzo atto, ma direi che un usignolo (o una cornacchia, in questo caso) non faccia primavera.

Gli altri, Lindroos in testa, senza pecche, con menzione per i sei fiamminghi, un pacchetto perfettamente affiatato.

Il coro di Casoni - una cosa che funziona come un orologio in Scala c’è ancora, se dio vuole, e speriamo continui - è stato impeccabile, a dir poco.

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Finito il dramma, tutti i protagonisti in fila - da un estremo all’altro del proscenio, a sipario alzato - a raccogliere l’applauso, ciascuno facendo tre passi avanti, al suo (rigorosamente unico) turno. Qui l’incolpevole Matti si è beccato il suo buh, mentre Stuart ha fatto il classico gesto del centravanti che segna un gol (questo Carlo per lui deve essere davvero come vincere un mondiale) e - come gli altri/e - anche Anna è passata indenne (che il buatore del terzo atto avesse nel frattempo apprezzato qualche suo don?) Furlanetto in trionfo e poi, come di prammatica, la primadonna ha prelevato da dietro le quinte il concertatore, che ha avuto la sua dose di quelli che, asetticamente, si definiscono applausi di stima, o poco più. Gatti, come sua consuetudine, ha fatto 5-6 passi avanti, affacciandosi sulla buca per appludire giù di sotto. Il suo podio, i leggìi e le sedie hanno apprezzato. Ah sì, anche la grancassa. I professori? Quelli, erano già in tram... o tempora, o mores!

18 dicembre, 2008

Direttori veri e finti


Nel famoso Prova d’Orchestra di Fellini, i professori si illudevano di poter fare a meno del direttore... poi arrivava quella specie di mongolfiera di piombo a metter fine alle utopie, ristabilendo le proporzioni e i ruoli di ciascuno.

Oggi abbiamo una particolare integrazione della tesi felliniana, nel senso che non basta nemmeno un direttore sul podio per far funzionare tutto l’amba-aradam, ma il direttore deve essere proprio autentico, e non soltanto una marionetta o un dilettante - per quanto appassionato - allo sbaraglio.

Molti ricorderanno - per averlo sentito nientedopodomaniché alla Scala con la Filarmonica, nel ’90 per un concerto di beneficenza - tale Gilbert Kaplan, un bizzarro magnate americano, che può permettersi di comprare (altra spiegazione è difficile immaginare) teatri e orchestre sinfoniche, cori compresi, in cui e a cui far eseguire, sotto la sua bacchetta, un’unica composizione, la Seconda Sinfonia di Mahler, di cui questo signore va evidentemente matto. Per due volte l’ha perfino registrata, vendendo centinaia di migliaia di copie (!?!)

Il nostro ha potuto soddisfare il suo hobby almeno una cinquantina di volte: l’ultima, pochi giorni fa, con la New York Philharmonic, sul cui sito c’è un suo curriculum cui manca solo l’apparentamento con Karajan, per farlo scadere totalmente nel ridicolo.

Però oggi si registra, forse per la prima volta, una reazione della serie “non se ne può proprio più”. È di uno dei trombonisti della NYPO, tale David Finlayson, che sul suo blog sputa il rospo e ne dice di tutti i colori a Kaplan, chiamando a testimoni illustri direttori veri (incluso per la verità uno che con la Resurrezione e con Mahler non ha proprio nulla a che fare, Toscanini). Dei più di 40 commenti ricevuti, il 90% sono di comprensione ed apprezzamento; alcuni di aperta critica, soprattutto alla presunta ipocrisia di chi, come Finlayson, si lamenta dopo, invece che prima; un paio, forse, a difendere il povero Kaplan.

17 dicembre, 2008

Chi vuol provarla per primo?

Il Guardian ci informa della messa in rete della partitura della (tuttora ineseguita in pubblico) Quarta Sinfonia (“Los Angeles”, dato che è stata commissionata dall’orchestra di laggiù) di Arvo Pärt.

In privato, non dovrebbero esserci problemi ad eseguirla (dura una mezz'oretta). Basta avere buone file di archi e soprattutto due percussionisti assai versatili.

15 dicembre, 2008

Il Quiz del lunedi - 14
















L’immagine qui riportata si riferisce a:

1. “Un Ballo in Maschera” di Verdi.

2. “I Maestri Cantori di Norimberga” di Wagner.

3. “I Puritani” di Bellini.

4. “Il Crepuscolo degli Dei” di Wagner.

5. “Napoli Milionaria” di Rota.

(la soluzione nella prossima puntata)
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Soluzione del Quiz n°13: Idomeneo (Berlino, Neuenfels)

14 dicembre, 2008

Della Musica mondana.















RIPIGLIANDO adunque la Musica Animastica diremo, ch'ella è di due sorti, Mondana & Humana. La Mondana è quell'Harmonia, che non solo si conosce essere tra quelle cose, che si ueggono & conoscono nel cielo; ma nel legamento de gli Elementi & nella uarieta de i tempi ancora si comprende. Dico che si ueggono & conoscono nel cielo, dal Riuolgimento, dalle Distanze & dalle Parti delle sphere celesti; & da gli Aspetti, dalla Natura & dal sito de i sette Pianeti; che sono la Luna, Mercurio, Venere, il Sole, Marte, Gioue & Saturno; imperoche è stata opinione de molti Filosofi antichi, & massimamente di Pitagora, ch'un riuolgimento di si gran machina con si ueloce mouimento, non trappassi senza mandar fuori qualche suono; la quale opinione, quantunque da Aristotele sia riprobata, è nondimeno fauorita da Cicerone nel Lib. 6. della Rep. doue rispondendo il maggior Scipione Africano al minore, che gli hauea dimandato; che Suono è questo si grande & si dolze, che empie gli orecchi miei? dice; Questo è quello, che congiunto per inequali interualli, nondimeno distinti per compartita proportione, è fatto dal sospingere & dal muouere di essi circoli; ilquale temperando le cose acute con le graui, equalmente fà diuersi concenti: perche non si possono far si grandi mouimenti con silentio; & la Natura porta, che gli estremi dall'una parte grauemente & dall'altra acutamente sonino. Per laqual cosa quel sommo corso del cielo stellato, il cui riuolgimento è più veloce, si muoue con acuto & più forte suono; & questo lunare & infimo con grauissimo. Questo dice Tullio, seguendo il parer di Platone, ilquale per mostrare, che da tale riuolgimento nasca Harmonia, finge, ch'à ciascuna sphera soprasieda una Sirena: che uuol dire Cantatrice à Dio. Et medesimamente Hesiodo nella sua Theogonia accennando questo istesso, chiamò OÙran…a l'ottaua Musa, ch'è appropriata all'Ottaua sphera, da OÙranÕj, col qual nome da i Greci uien nominato il Cielo. Et per mostrare, che la Nona sphera fusse quella, che partorisce la grande & concordeuole unità de suoni, la nominò KalliÒph, che uiene à significare di ottima voce; uolendo mostrar per questo l'Harmonia, che risulta da tutte quell'altre sphere; come si uede accennato dal Poeta, quando disse: Vos o Calliope precor aspirate canenti; Inuocando particolarmente Calliope nel numero del più, come principale, & come quella, al cui uolere si muouono & si girano tutte l'altre.
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ISTITVTIONI HARMONICHE DEL REV. M. GIOSEFFO ZARLINO DA CHIOGGIA,
Maestro di Capella della Serenissima Signoria DI VENETIA. Prima Parte. Capitolo 6 (incipit). (MDLVIII)

12 dicembre, 2008

I 100 anni di Elliot


Elliot Carter ha compiuto ieri 100 anni.

La sua musica potrà piacere o non piacere, ma una cosa è certa: è musica “genuina”. A differenza di “cose” (vero John, vero Karl-Heinz?) che con la musica nulla hanno a che fare.

Vedere e sentire Elliot conversare amabilmente con Barenboim e Levine (da Charlie Rose) alla vigilia del suo secolo, celebrato con l’esecuzione della sua “Interventions” eseguita dai due maestri, fa davvero bene allo spirito.

11 dicembre, 2008

A proposito di critici, questa non è male

Ecco come Adam Gopnik del New Yorker, parafrasando Samuel Johnson, definisce il critico:

“I critici stanno agli autori non come i medici ai pazienti, ma come le donne barbute ai trapezisti... un altro atto, più triste, nello stesso grande spettacolo”

Leggere qui (pag.5)

10 dicembre, 2008

Viaggio in un glorioso passato

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Tamagno, Kurz, Patti, Caruso, Franz, Shaliapin, Tetrazzini... Voci di un tempo che fu, precisamente dei primi anni del secolo scorso (1907-1912). A Parigi sono stati riesumati - letteralmente - dischi di quell’epoca, che erano custoditi al Palais Garnier, dove erano stati scrupolosamente “sepolti”, a futura memoria. Ora alcune delle urne sono state aperte, e quelle voci resuscitate.
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08 dicembre, 2008

Il Quiz del lunedi - 13



















L’immagine qui riportata si riferisce a:

1. “La Clemenza di Tito” di Mozart.

2. “Salome” di Strauss.

3. “Elektra” di Strauss.

4. “Il Vampiro” di Marschner.

5. “Idomeneo” di Mozart.

(la soluzione nella prossima puntata)
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Soluzione del Quiz n°12: Il Ratto dal Serraglio (Berlino, Bieito)

Don Carlo: alcuni responsi a confronto

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clickare sulla tabella
per ingrandire

Un altro con idee chiarissime...


“...ognuno degl’interpreti, fatta salva la Zajick e in parte il basso Furlanetto, ...canta la sua parte come stesse leggendo l’elenco telefonico”

Un simpatico modo per dire che Neill, la Cedolins e Jenis (si, caro Paolo, Jenus sull’elenco telefonico non si trova, ...ma certo la colpa è del tipografo) hanno dato i numeri?

07 dicembre, 2008

Uno che ha le idee chiare...

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“...l’opera lirica italiana è stata inventata dal nostro Paese

(Ministro Sandro Bondi, intervistato da Oreste Bossini nel 1° intervallo del Don Carlo)
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06 dicembre, 2008

Derby Milano-Roma

Il TG1 di oggi, ore 13:30 - come altri prima e dopo - ha dedicato uno spazio doveroso all’apertura della Scala di domani 7 dicembre, dando un’anticipazione da brivido: sarà una prima “austera”. Evidentemente per sviare eventuali Capanna di turno, che volessero re-inaugurare a modo loro il DonCarlo, come 40 anni fa, giusti-giusti. L’austerità peraltro potrebbe riferirsi anche alle armi improprie di eventuali contestatori, che oggi farebbero fatica a finanziarsi l’acquisto di quintali di uova...

Intanto oggi, 6 dicembre, all’Opera di Roma c’è la prima di un Otello diretto da Muti (20:30 Radio3, per gli esterni). I maligni (alla Andreotti) giurano che sia stata programmata lì appositamente per disturbare il S.Ambrogio meneghino, a mo’ di ripicca per i cruenti moti popolari del 2005, che detronizzarono l’allora imperatore scaligero, per l’appunto l’ombroso Riccardo.

Poi, questa sera, quasi che il computer che stila i calendari calcistici sia stato a sua volta programmato all’uopo, abbiamo in contemporanea Lazio-Inter. Al simpatico Ibrah (l’unico islamico ben visto in Lombardia) i patrioti milanesi hanno chiesto di stendere la Lazio, per poter così sfogare i loro cori di: a Riccà... va' a Chi-cagà!
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Update 23:35.
Beh, possiamo dire, per questa sera, 1:1... Ibrah&C han fatto piazza pulita dei biancazzurri, ma in compenso Muti&C (quanto meno all’ascolto radiofonico) han dato gran prova di sè.

A Milano invece c’è non poca agitazione prima della prima, con sostituzioni dell’ultima ora (dopo Salminen, anche Filianoti è fuori).
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Update domenica mattina.

Mi hanno silurato! Gatti un bambino indeciso! La gestione cambierà.

Filianoti ha buttato una bomba a mano sulla prima.
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05 dicembre, 2008

Globalizzazione musicale 3.0

La tecnologia ormai può fare miracoli e ciò vale in tutti i campi delle umane discipline, musica inclusa.

Chiunque sappia suonare uno strumento può oggi candidarsi a cooperare (virtualmente prima, poi fisicamente) alla realizzazione di concerti (e opere, domani?)

È l’ultima (mah... forse ormai sarà già la terz’ultima) diavoleria inventata dai creativi di YouTube.

Provare, per credere.

04 dicembre, 2008

Benvenuto

Questo blog, nato un anno fa praticamente per scommessa, o per sport, e senza pretese di alcun tipo, si arricchisce oggi di una nuova voce (o penna, per meglio dire).

Che sicuramente lascerà un segno e un’impronta personalissima.
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Giuseppe Verdi - DON CARLO

Opera in quattro atti. Libretto di François-Joseph Méry e Camille Du Locle. Traduzione italiana di Achille de Lauzières e Angelo Zanardini

Nuova produzione Teatro alla Scala

Dicembre 2008: 07 (18:00), 10 (19:30), 12 (19:30), 14 (15:00), 16 (19:30), 19 (19:30), 21 (19:30)

Gennaio 2009:
04 (15:00 - riservato), 08 (19:30), 11 (19:30), 15 (19:30)

Durata spettacolo: 4 ore e 10 minuti

La Scala ritorna ancora una volta all'edizione italiana in 4 atti, mentre manca ancora una prima esecuzione della versione originale francese in 5 atti, modello grand-opéra, -incisa da Claudio Abbado con i complessi della Scala e Placido Domingo nel ruolo del titolo.
Anche l'edizione inaugurale del bicentenario scaligero, nel 1977, fu diretta da Abbado nella versione italiana in 5 atti "di Modena" del 1887, curata dallo stesso Verdi e integrata con alcuni dei brani tagliati già alla prima parigina, poi ritrovati negli archivi dell'Opéra di Parigi nel corso del Novecento. Anche là ci fu una questione di orari e si sostiene addirittura che il quarto d'ora di musica tagliato già alla prima assoluta fosse dovuto alla partenza dei trenini suburbani che dovevano riportare a casa il pubblico parigino. Verdi poi, in una lettera, lamentò che il taglio del primo atto, fatto per la Scala ma anche per Vienna, fosse stato imposto per non accorciare il tempo della cena ai pacifici viennesi, che andavano a teatro a pancia piena.
La mia opinione è che l'atto iniziale di Fontainebleau sia fondamentale nella struttura drammaturgica dell'opera, anche se molti ritengono che la riduzione a 4 atti l'abbia migliorata.
Mancano poi passaggi essenziali per la comprensione della vicenda, come il duetto Eboli-Elisabetta e lo scambio dei mantelli, per cui non si capisce cosa ci faccia Don Carlo nei giardini della Regina con in mano un biglietto (apocrifo) di Elisabetta e poi si trovi davanti invece la Eboli; è tagliato anche il compianto di Filippo per la morte di Posa, per cui non si sente il tema, che Verdi userà poi nel Lacrymosa della Messa da Requiem.
Nel complesso ritengo che al décalage intervenuto tra il dramma di Schiller e il libretto francese se ne aggiunga un altro nella traduzione italiana. Permane comunque l'inverosimiglianza storica della vicenda, che però nulla toglie all'efficacia del dramma e alla potente magnificenza della musica di Verdi, giunto ormai alla perfezione dello "stile vocale-strumentale" della sua seconda fase, come definita dal fondamentale saggio di Massimo Mila.
Condivido invece il taglio del balletto "La Pellegrina", dedicato a un'enorme perla che all'epoca di Filippo II apparteneva al tesoro della corona di Spagna. Non è un gran che e Abbado lo ha inciso a parte insieme ai brani omessi nella prima parigina e non ripresi da Verdi nella edizione di Modena in italiano: credo che i 5 atti con il balletto supererebbero in lunghezza la Goetterdaemmerung e mi pare giusto lasciare tale primato a Wagner.
A titolo di curiosità aggiungo che la Pellegrina fu portata a Parigi durante l'occupazione napoleonica e poi rivenduta più volte dopo la fine del secondo Impero. Ad un'asta la perla fu acquistata da Richard Burton, come dono a Elizabeth Taylor, che forse ne è ancora la proprietaria.

01 dicembre, 2008

Il Quiz del lunedi - 12


















L’immagine qui riportata si riferisce a:

1. “Don Giovanni” di Mozart.

2. “La Sposa Venduta” di Smetana.

3. “I Puritani” di Bellini.

4. “Il Ratto dal Serraglio” di Mozart.

5. “Tannhauser” di Wagner.

(la soluzione nella prossima puntata)
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Soluzione del Quiz n°11: Sigfrido (Weimar, Schulz)

28 novembre, 2008

Ricorrenze


Trent’anni fa ieri veniva assassinato Harvey Milk, paladino dei diritti dei gay.

Il suo testamento fonico è ascoltabile qui.

“Da diffondere solo nell’eventualità di mia morte per assassinio.
Mi rendo perfettamente conto che una persona come me, che fa dell’attivismo gay, diventa bersaglio, o potenziale bersaglio, di qualcuno che è insicuro, spaventato, impaurito o affetto da turbe psichiche...”

Se qualcuno si chiede che relazione abbia ciò con la musica, soggetto/oggetto di questa casa, è presto detto.

Ad attirare la mia attenzione sulla ricorrenza è stato Alex Ross, critico musicale americano, pluri-premiato per i suoi studi musicali, e in particolare per il suo libro The Rest is Noise, sulla musica del ‘900.

Alex è un gay, felicemente sposato con il regista Jonathan Lisecki, con cui risiede a Manhattan.

26 novembre, 2008

Classifiche indigeste


La prestigiosa rivista Gramophone ha pubblicato una classifica delle 20 più grandi orchestre del pianeta. Classifica stilata elaborando pareri di diversi esperti, critici, appassionati. Ecco le risultanze:

1. Royal Concertgebouw Orchestra, Amsterdam
2. Berlin Philharmonic
3. Vienna Philharmonic
4. London Symphony Orchestra
5. Chicago Symphony Orchestra
6. Bavarian Radio Symphony
7. Cleveland Orchestra
8. Los Angeles Philharmonic
9. Budapest Festival Orchestra
10. Dresden Staatskapelle
11. Boston Symphony Orchestra
12. New York Philharmonic
13. San Francisco Symphony
14. Mariinsky Theatre Orchestra
15. Russian National Orchestra
16. Leningrad Philharmonic
17. Leipzig Gewandhaus Orchestra
18. Metropolitan Opera Orchestra
19. Saito Kinen Symphony Orchestra
20. Czech Philharmonic

Possiamo ovviamente accusare i perfidi albionici di tutte le peggiori intenzioni punitive nei confronti di quella che loro definiranno la mandolinara-spaghettara Italia... ma intanto anche questa la prendiamo, incartiamo e portiamo a casa.

Chissà se - dopo i tagli - almeno Santa Cecilia sarà promossa in A.

25 novembre, 2008

Musica, harmonia... offici


Ancora un accostamento fra la musica, ed anzi il fare musica, e mondo del business. Un nuovo libro spiega come una moderna società commerciale possa aver successo sul mercato applicando un metodo che mutua regole e princìpi caratteristici del suono e dell’orchestra.

Non può non venire alla mente il felliniano Prova d’orchestra, dove per la verità si mostra come regole e princìpi - anche nobili e alti - a poco servono se non c’è poi qualcuno che li fa rispettare, magari con le cattive.

Visto che l’acronimo del metodo è BACH... siamo per caso all’Arte della Fuga?

24 novembre, 2008

Siegfried al Maggio (II)

Noi tagliamo, ci vogliono tagliare”. Non è un verso aggiunto all’ultimo momento sulla partitura wagneriana, ma l’appello - accompagnato da immagini proiettate sullo schermo a inizio spettacolo - degli artigiani (costumisti, carpentieri, acconciatori, ...) che contribuiscono a rendere possibile e godibile uno spettacolo. Ai quali va ovviamente la solidarietà di quella - ahinoi - minoranza abbastanza silenziosa di appassionati del teatro d’opera.

Il Siegfried di Padrissa e della Fura, diciamolo subito, non è un esempio - nè deteriore, nè brillante - di Regietheater. Tanto per incominciare, è perfettamente fedele alla concezione wagneriana di Zeitlosigkeit. Azione e personaggi vivono in un tempo non determinato, nè ieri, nè oggi, nè domani, poichè debbono rappresentare gli archétipi di ogni personaggio e di ogni manifestazione degli umani sentimenti. La componente tecnologica dell’allestimento è del tutto innocua, rispetto al condizionamento dello spettatore, e la frequente presenza in scena della troupe circense della Fura non è quasi mai invasiva e distraente, ma volta a rappresentare visivamente concetti o fatti che stanno comunque nella partitura. I costumi dei personaggi principali (Wotan, Siegfried e Brünnhilde) sono assolutamente tradizionali, proprio da museo di Bayreuth, con abbondanza di pelli e orpelli; le immagini proiettate sono di contenuto astratto, quando devono far da sottofondo all’espressione di sentimenti, oppure naturalistico, quando devono supportare le pagine - soprattutto orchestrali - in cui Wagner ci descrive appunto la Natura che fa da sfondo ai sentimenti. Insomma, rispetto a tante re-invenzioni gratuite e insensate del mito wagneriano, qui siamo ad un livello di assoluta dignità.

Qualche osservazione sulla regia dei personaggi: ho personalmente trovato poco appropriato l’atteggiamento esteriore fatto assumere a Siegfried e Wotan, troppo ruvido e a volte manesco il primo, troppo severo e altezzoso il secondo: vedremo poi nei dettagli il perchè. Mime è emerso come il personaggio teatralmente più centrato e riuscito, grazie alla regia e sicuramente alle doti di Ulrich Ress. Gli altri si vedono poco o cantano quasi immobili, o imbragati in complicate strutture, ma va bene così.

Sul piano musicale, rispetto a quanto avevo ascoltato per radio giovedi scorso, decisamente migliorato Zakhozhaev e brava, ma non eccezionale, qui come il 20, Jennifer Wilson (di cui avevo colpevolmente taciuto nel sommario precedente, forse freudianamente, non avendomi mandato in visibilio!) Bene gli altri, soprattutto Ress e Kapellmann. L’orchestra compatta e precisa, salvo - ma forse il mio orecchio è stato tradito dalla posizione di ascolto - nell’incipit del preludio al terzo atto. Strana la disposizione degli ottoni: tutti all’estrema destra, con timpani e percussioni, ma tranne i corni, posti all’estrema sinistra, dietro i legni: certo in una buca normale non si può copiare la disposizione di Bayreuth, dove tutti gli ottoni sono nell’ultima fila in basso, con le percussioni. Quanto a Mehta, magari non ha nel sangue quello si chiama il gene wagneriano, ma ha una sensibilità ed un’esperienza che suppliscono ampiamente.

Ora qualche dettaglio in più.

Atto I

Dopo che un filmato, zoomando dall’intero pianeta giù giù fino alla foresta vicino a Neidhöhle ci ha portato sul luogo dell’azione, Mime scende dall’alto, con tutto il suo laboratorio a metà fra l’alchimistico e il cibernetico. Lui stesso sembra un miscuglio di androide (con cavi che gli entrano-escono dalle spalle del suo camice bianco, e diversi elettrodi e chiodi impiantati in testa) e di dottor Coppelius, con occhialetti tondi, alle prese con le sue invenzioni. Sulla guancia destra reca una sigla: GV9 (data la tecnologia usata dalla Fura, potrebbe stare per Gate Valve 9, codice con cui si identificano componenti di circuiti di trasmissione di gas... o dobbiamo chiedere a Padrissa?) e picchia, come prescritto in partitura, il suo tintinnante martelletto, con la mano sinistra (questo non è precisato da Wagner, ma evidentemente Ress è mancino, come si avrà conferma nella terza scena, allorquando, sempre con la sinistra, impugnerà un coltello per affettare sedano e zucchine, destinati alla broda letale). A proposito, complimenti a lui ed anche a Zakhozhaev per saper interpretare perfettamente i rispettivi personaggi anche nella parte strumentistica (Siegfried martellerà personalmente la spada, e sempre ben a tempo). Ress mostra subito di essere un grande attore, oltre che un degnissimo tenore; si muove quasi danzando, con mimica straordinariamente appropriata al personaggio, una vera e propria macchietta. Tre comparse della troupe passano e ripassano con larghe scope, a mo’ di asciugatori di parquet di pallavolo, il che mi rimane incomprensibile, ma diciamo che non distrae più di tanto.

Entra Siegfried, insieme ad un ammasso di corpi umani (i circensi della Fura) che dovrebbe simulare l’orso, ma in realtà pare un equino, con lungo collo e vera coda di cavallo! (mah...) Come ho premesso, il suo atteggiamento verso Mime è forse più duro e carognesco di quanto basterebbe (spezza la spada sulle proprie ginocchia, come fosse un bastoncino, dà un calcione all’arrosto che Mime gli porge, non sorride mai, neanche con sarcasmo) senza per fortuna trascendere eccessivamente.

Toccante la scena del ricordo di Sieglinde, supportato da immagini fotografiche molto poetiche ed assai appropriate.

Arriva ora Wotan: senza benda! Finalmente una regia che non ci propina il solito copri-occhio alla pirata, o alla Moshe Dayan! (inutile precisare che in nessuno dei quattro poemi del Ring si accenna a bendaggi o cerotti, ma solo alla tesa del cappello tirata su un occhio). Fedele al testo anche l’approccio del viandante, un passo alla volta, solenne, supportato dagli arcani accordi dell’orchestra.

La tenzone di sapienza fra Wotan e Mime è chiaramente ispirata a Wagner dalla Vafþrúðnismál di Saemund, dove Odin invade la dimora del sapiente, lo sfida a tenzone e lo buggera carognescamente, facendogli una domanda impossibile a rispondersi. Persino alcune parole di Wotan sono quasi copiate dal poema eddico, come ad esempio: “molto viaggiai, molto feci esperienza”. Wagner però ci mostra un Wotan ormai determinato a fare da spettatore e non più da protagonista delle vicende cosmiche, e il suo atteggiamento nei confronti di Mime è un misto di compatimento, bonarietà e addirittura quasi di supporto. Wagner si inventa un sottile processo psicologico, laddove Wotan pone a Mime una domanda assolutamente pertinente e addirittura decisiva per il futuro del nano, una domanda che lo stesso Mime – fosse stato previdente, invece che stupido e presuntuoso - avrebbe dovuto porre lui per primo al Viandante. Tutto ciò per introdurre la critica al modo con cui il Wotan di Padrissa-Uusitalo si comporta nei confronti del nano, un approccio eccessivamente duro e sprezzante.

Interessante ed efficace, durante i racconti che originano dalla tenzone, la descrizione di Nibelheim, dove evidentemente le persone sono trattate come carne da macello: ed infatti si vedono esseri umani, impacchettati a mo’ di quarti di bue, appesi con ganci alla classica rotaia sospesa da sala di macellazione, etichettati ed avviati a spedizione. Quando si parla di Giganti, appaiono due dei semoventi della Fura, che recano Fasolt e... Wotan (anche questo un dettaglio abbastanza gratuito). Come un tantino gratuita è anche l’enfasi posta sul momento in cui Wotan batte la sua lancia a terra: si sente, secondo Wagner, un leggero brontolìo di tuono, sufficiente a spaventare Mime. Padrissa, con la complicità di Mehta, che accentua (da f a ff) le percussioni di timpani e piatti, ci fa tutti sobbalzare con un’esplosione proiettata sullo schermo: qui effettivamente c’è un po’ troppo circo.

Veniamo all’ultima scena, quella del ricondizionamento di Nothung. Prima abbiamo la descrizione della paura, che Mime fa al ragazzo, una fase piuttosto statica, che Padrissa colorisce facendo camminare Siegfried, munito di occhiali da realtà virtuale, su un rullo da palestra. Felice la trovata di far circondare la fornace da comparse che attizzano il fuoco, e poi si occupano della forma in cui verrà colata la spada: se si può far una critica, le dimensioni sono forse troppo ridotte, rispetto alla descrizione wagneriana, che ci parla di una fornace assai grande, in cui Siegfried fa bruciare un albero intero.

Efficaci i movimenti di Siegfried e Mime, il loro alternarsi in primo e secondo piano, con le rispettive opposte esternazioni, fino al momento topico in cui Siegfried brandisce la spada e la cala, invece che sull’incudine... sul tavolo da lavoro del nano, con uno sconquasso generale, ben supportato dal gran fracasso di tutta l’orchestra.


Atto II

Inizia con la scena impercettibilmente schermata da una zanzariera, che serve a proiettarci sopra, a mo’ di ologrammi, prima il cavallo con cui Wotan si avvicina, poi l’anello che ruota tridimensionalmente, infine il drago-serpente, che pare saltare in testa allo spettatore: molto efficace.

Alberich compare aggirandosi su mucchi di corpi che si rotolano a terra, presenze davvero inquietanti (come saranno quelle che appariranno davanti alla caverna di Fafner). Arriva Wotan e c’è lo splendido incontro-scontro fra i due vecchi pretendenti alla guida dell’universo (l’uno che sta ormai rinunciando, e agisce da osservatore, non da esecutore, l’altro che ha assaporato il potere per così poco tempo, da averne ancora una fame incommensurabile). Se posso fare un appunto al regista, qui Wotan assume un atteggiamento troppo cameratesco nei confronti di Alberich: si lascia toccare la lancia, mette una mano sulla spalla al nibelungo, insomma, mi pare dargli eccessiva confidenza, rispetto a quanto prescrive Wagner, che non va al di là di un gli si avvicina tranquillamente. (Se ben ricordo, qualcosa di simile ha fatto a suo tempo Chéreau...)

Kapellmann, con abito scuro, raffinato, mette in mostra tutta la sua esperienza e familiarità col personaggio, che deve avere una personalità di statura altrettanto forte, quanto è moralmente spregevole. Sentiamo qui per la prima volta (e verosimilmente da un megafono) il vocione di Stephen Milling, un Fafner che poi vedremo, da morente, appollaiato su uno dei semoventi della Fura.

Ecco la seconda scena, davvero la scena madre (scusate il gioco di parole) dell’opera. Il regista e lo scenografo hanno qui sempre un gran problema da risolvere: come rendere il poeticissimo contatto di Siegfried con la natura e il suo sognare della madre. Adolphe Appia aveva ragione a sostenere che ciò che è importante qui non è mostrare la foresta (magari scimiottandola con alberi di cartone e foglie di cartavelina) ma esprimere, supportando la musica, le sensazioni che Siegfried prova a contatto con la natura. Non so se la ragione sia questa (andrebbe chiesto a Padrissa) ma qui le luci rivolte verso il soffitto del teatro sono state alzate di intensità, portando l’ambiente quasi ad una mezza-luce, il che ha reso il pubblico stesso parte della scena: personalmente, l’ho trovato un effetto emozionante.

Spettacolare, anche se un poco pacchiano, il librarsi dell’uccellino(one) del bosco sopra la scena, con la brava Chen Reiss impavidamente sorridente. Dopo che Siegfried si è esibito con il suo stridulo zufolo e il suo splendido corno (qui però l’esecutore, disposto dietro le quinte, faceva arrivare il suono troppo flebile e da lontano, contrariamente alla ripresa radiofonica, evidentemente fatta con microfono vicino) arriva il drago meccanico della Fura (precisamente con meccanismi della Festo): certamente meno peggio di tanti mostri più o meno oleografici che fanno più ridere (Leo Tolstoj dixit) che tremare. Una volta ferito a morte, il mostro meccanico viene prima affiancato e poi rimpiazzato sulla scena da un semovente con a bordo Fafner-Milling: in effetti ciò ben rappresenta il ritorno del gigante dallo stato di bestia a quello umano, parallelamente alla scomparsa dal suo canto dei tritoni che ne caratterizzavano musicalmente lo spaventevole travestimento.

Dopo il miracolo procuratogli dal sangue del drago, Siegfried comprende finalmente il canto della Chen, sempre sospesa a mezz’aria, che agita lentamente (onde evitare pericolosi squilibri al cavalcone che la regge) le sue alone da tortorona. E si avvia a recuperare Tarnhelm e anello.

Impeccabile la prima parte della terza scena, con i due fratelli nibelunghi a battibeccare da par loro, in quella che i critici di Wagner più corrosivi definiscono come una parodia del modo di discutere degli ebrei. Torna Siegfried, con elmo magico e anellone, e Mime sfoggia i suoi hihihi-hihihi, che rivelano le sue reali intenzioni al ragazzo, sempre più disgustato. Questo colloquio avviene con i due messi a penzoloni sui bilanceri che fanno parte della foresta, e su cui stanno appollaiate anche altre presenze, dotate di una specie di pinna dorsale fatta di alti ed appuntiti pungiglioni. Alla fine Siegfried stende il nano, il cui fratello fa udire la proverbiale sghignazzata sull’inconfondibile ritmo nibelungico: ha-haha/hahaha/ha-haha/hahaha/ha!

Poi la stanchezza di Siegfried, il suo invocare l’uccellino, che gli dà l’ultimo, emozionante consiglio. E la corsa dei due, con Siegfried quasi aggrappato ad un elicottero, verso la bella addormentata.


Atto III

Il preludio è supportato da immagini - a mò di ripresa fatta da un aliante, o da un piccolo aereo che voli fra le gole, a pelo delle creste - di picchi montuosi, con abbondante neve e ghiacciai. Si ripeteranno, queste immagini, al momento per Siegfried di scalare la roccia di Brünnhilde, dove alla neve e a distese di gelide acque si aggiungerà il fuoco. In Wagner non v’è alcuna traccia di neve, mentre troviamo ovviamente il fuoco, che circonda la dormiente. Però, a ben pensarci, questo connubio fra freddo e caldo, fra ghiacciai e fiumi polari e il fuoco non è fuor di luogo, venendo direttamente dalla mitologia nordica; che ci racconta del gelido Hvergelmir, da cui si dipartivano i fiumi Élivágar, che incontrando le fiamme del Múspellheimr diedero la vita ad Ymir, il cosiddetto uomo-brina, progenitore di Odin(Wotan).

Erda, evocata da Wotan con gesti fin eccessivi (batte sul suolo la punta della lancia, mentre Wagner si limita a prevedere un Wotan solennemente appoggiato alla stessa) compare da una fessura fra le quinte di fondo, sospesa a mezz’aria a bordo di un trespolo, e con copricapo egizio. Drammatico il colloquio fra i due, qui davvero senza nulla a disturbare la nostra concentrazione: e così è davvero emozionante il nascere in orchestra del tema dell’eredità del mondo, questa musicale rivoluzione culturale, che letteralmente capovolge, rivoltandolo come un calzino, dal basso verso l’alto, il tema del Patto, ormai ridotto a legge inefficace.

Sparita Erda, arriva Siegfried, con l’uccellino, altissimo ormai, in procinto di allontanarsi definitivamente. E arrivano anche altri personaggi, sotto forma di saltimbanchi della Fura che recano altissimi pungiglioni grigi, quasi delle lance, che ora dispongono dritti, a mo’ di canneto, coprendo Wotan alla vista di Siegfried, ora incrociano come forche caudine, a significare forse la difficoltà del cammino per il giovane e l’imminente disfatta per il nonno...

Difficile spiegare perchè, contrariamente alle indicazioni, la lancia di Wotan infranta dal giovane non cada a terra, ma i due spezzoni rimangano nelle sue mani: forse che, secondo Padrissa, Wotan è meno disposto di quanto non voglia far credere a mollare il potere?

Ed ora veniamo al gran finale. Brünnhilde dormiente arriva sulla scena stesa su un grande pannello circolare, spinto dall’equipe della Fura, sul cui perimetro sono disposte delle torce accese: un effetto molto suggestivo, anche se gratuito, stando alla lettera della partitura. Ma si può perdonare, a differenza invece di un particolare piuttosto comico: sappiamo che Siegfried deve scoprire il sesso della persona dormiente dopo averle tagliato e sfilato l’armatura. Qui, invece dell’armatura, Siegfried rimuove lo scudo che copre Brünnhilde, esplodendo quindi nel grido di meraviglia mista a paura, supportato dalle scale velocissime dei violini (come si capisce che questa musica viene dopo Tristan!) L’aspetto comico sta nel fatto che lo scudo è di plexiglas trasparente, per cui tutti - meno che Siegfried, evidentemente - avevano potuto vedere fin da subito, al di sotto, stagliarsi le due gran poppone di Jennifer Wilson (in effetti la brava soprano è un po’ - diciamo - sovrappeso... come del resto si addice ad un personaggio che ha poltrito a letto per dieci anni e più).

Il risveglio avviene ovviamente in piena luce, però... una luce forse troppo uniforme, quasi livida, emanante dalle grandi quinte alle spalle della scena: insomma, forse più adatta agli abbruniti accordi di MIb minore e DOb maggiore del prologo di Götterdämmerung, che a quelli davvero solari di MI minore - Do maggiore che qui si fanno udire.

Giochi di luci anche ad accompagnare il passaggio della Valchiria dall’euforia del risveglio al buio della freudiana paura della perdita della verginità e della sapienza, e poi, dopo la parentesi “starnberghiana”, di nuovo all’esaltazione dell’amore lucente. E della ridente morte, che i due cantano disgiunti, piantati di fronte al pubblico, con il DO finale (qui si sono sentiti già degli applausi, more-italico, assai prima che Mehta guidasse lo schianto conclusivo dell’eredità) a suggellare l’opera.

All-in-all, ne valeva - e come! - la pena.

Il Quiz del lunedi - 11











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L’immagine qui riportata si riferisce a:

1. “Sigfrido” di Wagner.

2. “Wozzeck” di Berg.

3. “Falstaff” di Verdi.

4. “Mozart e Salieri” di Rimsky-Korsakov.

5. “Pagliacci” di Leoncavallo.

(la soluzione nella prossima puntata)
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Soluzione del Quiz n°10: Don Giovanni (Essen, Herheim)

21 novembre, 2008

Siegfried al Maggio (I)

Qualche battuta sulla prima di ieri sera, ascoltata su Radio3.

Impressione generale di un’onesta prestazione complessiva. Mehta non sempre convincente nei tempi, ma tutto sommato l’orchestra, inclusi i solisti (bravissimo il corno nel secondo atto) ha retto bene l’urto. (Nel primo intervallo Mehta, intervistato sul suono del Siegfried, ha testualmente risposto: “da suonare come Mendelssohn, non come Rossini”... ma per fortuna l’orchestra ha suonato abbastanza come Wagner!)

Zakhozhaev ha cominciato piuttosto maluccio, addirittura fuori tono a volte, poi mi pare essersi ben ripreso dal secondo atto in avanti... però ho idea che debba lavorare molto e sodo per essere un Siegfried veramente all’altezza.

Uusitalo anche lui un po’ diesel, nel riscaldarsi, poi ottimo nel secondo e terzo atto.

Ress è stato un Mime non stratosferico, ma decisamente convincente, soprattutto nel modo di porre la sua personalità meschinella e mielosa.

Kapellmann (per me) strepitoso: parte limitata, ma davvero scolpita in modo impeccabile: la volgare sghignazzata sul tema nibelungico, all’atto dell’accoppamento di Mime, è stata da incorniciare.

Wyn-Rogers senza infamia nè lode... il che è comunque assai, date le circostanze: certo non è - sul fronte femminino - a livello di un Kapellmann...

Milling ha fatto il suo dovere, con tutti quei diabolus, sempre ardui da imbroccare a dovere (ma cantava attraverso un megafono, come prescrive Richard? Non mi è parso).

Reiss una voce davvero squittente, proprio da usignolo, forse un po’ troppo forte (o erano i microfoni?) Non una sbavatura, comunque, pur con quella parte dai tempi a fisarmonica.

Vedremo meglio dal vivo... incluso il gran circo barnum della Fura.
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19 novembre, 2008

L’anti-Bondi olandese


Tranquilli, non è un tulipano cooptato nelle file del weltroniano Governo-ombra...

Accade che una stazione radio pubblica olandese, Concertzender, che trasmette musica (classica, ma non solo) rischia la chiusura, causa la decisione della NPO (la RAI orange) di dirottare i relativi fondi verso alcuni canali tematici digitali.

Bene, a seguito di un’interrogazione parlamentare, il Bondi di laggiù, Ronald Plasterk, ha deciso di prendere posizione per mantenere in vita l’emittente.

La faccenda è tutt’altro che conclusa, ma resta il segnale positivo, in chiara controtendenza rispetto all’approccio italico, dove il taglio (senza cucito) sembra essere diventato lo sport nazionale.

17 novembre, 2008

Bayreuth: ancora un lutto improvviso


A nemmeno un anno di distanza dalla morte improvvisa di Gudrun Wagner, moglie (e di fatto prestanome) di Wolfgang e madre di Katharina (nuova direttrice del Festival) un altro lutto ha colpito l’entourage di Bayreuth.

Stefan Müller, 32 anni, legale del Festival e della famiglia Wagner, è morto per un attacco cardiaco fulminante, mentre era al volante della sua auto, in viaggio da Berlino a Bayreuth. Al suo fianco sedeva proprio Kathi Wagner (erano amici d’infanzia) che nulla ha potuto fare, se non fermare in qualche modo il veicolo e chiamare inutili soccorsi.

Müller, che aveva rappresentato formalmente il vecchio Wolfgang nelle ultime sessioni dello Stiftungsrat (il Consiglio di Amministrazione del Festival) e si era quindi occupato della trafila legata alla successione di Kathi e della sorellastra Eva al padre, seguiva attivamente anche tutti gli aspetti legali relativi alle imprese mediatiche dei Wagner (che portano un bel po’ di quattrini nelle tasche della famiglia).

Insomma, nel giro di un anno il Festival ha perso i suoi due principali puntelli organizzativi-amministrativi: un grattacapo in più per le sorelle Wagner.

Il Quiz del lunedi - 10

















L’immagine qui riportata si riferisce a:

1. “Parsifal” di Wagner.

2. “Assassinio nella Cattedrale” di Pizzetti.

3. “Don Giovanni” di Mozart.

4. “Rienzi” di Wagner.

5. “Il Profeta” di Meyerbeer.

(la soluzione nella prossima puntata)
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Soluzione del Quiz n°9: La Valchiria (Weimar, Schulz)

13 novembre, 2008

Bardi vs Fiamminghi



Non è un proclama antirazzista dell’antica Roma, ma la proposizione dell’enigma di un canone rinascimentale, sul modello fiammingo. Da interpretarsi come: "Il conseguente deve cantare le note nere come se fossero bianche."





È per risollevare l’arte della musica da questa ed altre stranezze fiamminghe che Giovanni Bardi fondò, nella seconda metà del ‘500, la Camerata.



















Il dramma per musica prese forma da lì, filiando poi tutti i diversi generi di produzione operistica, dal belcanto al Gesamtkunstwerk.

12 novembre, 2008

A che fine la Musica si debba imparare.















MA perche di sopra si è detto, che l'Huomo bene istituito non debbe essere senza Musica; però douendola imparare, auanti che più oltra passiamo, uoglio che ueggiamo qual fine egli si debba proporre; poi che intorno à ciò sono stati diuersi pareri; il che ueduto, uederemo anco l'utile, che della Musica ne uiene; & in qual maniera la dobbiamo usare. Incominciando adunque dal primo dico, che sono stati alcuni, i quali hanno hauuto parere, che la Musica si douesse imparare per dar solazzo & dilettatione all'Vdito; non per altra ragione, se non per far diuenir perfetto questo Senso, nel modo che 'l Vedere diuenta perfetto, quando con diletto & piacere riguarda una cosa bella & proportionata, ma in uero non si debbe imparare à questo fine, imperoche è cosa da volgari & da mecanici; essendoche queste cose non hanno in se parte alcuna di uirtuoso; ancora che acchetando l'animo habbiano del diletteuole; & sono cose da Huomini grossi, i quali non cercano di satisfare al Senso, & à questo solo fine attendono. Altri poi uoleuano, ch'ella s'imparasse, non ad altro fine, se non per esser posta tra le Discipline liberali, nelle quali solamente i Nobili s'esercitauano; & perche dispone l'animo alla uirtù, & regola le sue passioni, con auezzarlo à rallegrarsi & à dolersi uirtuosamente, disponendolo à i buoni costumi, non altramente di quello, che fà la Ginnastica il corpo à qualche buona dispositione & habitudine; & anche à fine di poter con tal mezo peruenire alla speculatione de diuerse sorti d'Harmonia; poi che per essa l'Intelletto conosce la natura delle musicali Consonanze. Et quantunque questo fine habbia dell'honesto; non è però à bastanza; imperoche colui, ilquale impara la Musica, non solo l'impara per acquistar la perfettione dell'Intelletto; ma per potere, quando cessa dalle cure & negocij, si del Corpo, come dell'Animo; cioè, quando è in ocio & fuori delle cottidiane occupationi, passare il tempo & trattenersi virtuosamente; accioche rettamente & lodeuolmente viuendo lontano dalla pigritia, per tal mezo diuenti prudente, & trappassi poi à far cose migliori, & piu lodeuoli. Ilqual fine non solo è degno di laude, & è honesto; ma è il vero fine: percioche non fù ritrouata la Musica, ouer ordinata per altro, se non per quello, c'habbiamo mostrato di sopra; come nella sua Politica il Filosofo manifesta; adducendo & raccontando molte autorità di Homero. Onde meritamente gli Antichi la collocarono nell'ordine de quelli trattenimenti, che seruono à gli Huomini liberi, & tra le discipline lodeuoli, & non tra le necessarie, come è l'Arithmetica; ne anche tra le vtili, come sono alcune, lequali sono per l'acquisto solamente de beni esteriori, che sono i denari & l'utile della famiglia; ne tra alcune altre, lequali seruono alla sanità del corpo & alla fortezza, come la Ginnastica, ch'è un'Arte appartenente alle cose, che giouano à far sano & forte il corpo; come è fare alla lotta, lanciare il palo & altre cose, che appartengono all'essercitio della guerra. Si debbe adunque imparar la Musica, non come necessaria, ma come liberale & honesta; accioche col suo mezo possiamo peruenire ad un'habito buono & uirtuoso, che ne conduca nella uia de buoni costumi, facendone caminare ad altre Scienze più utili & più necessarie; & passare il tempo virtuosamente; & questo debbe esser la principale, ò ultima intentione, che dire la uogliamo. Ma in qual modo habbia possanza d'indur nuoui costumi & mouer l'animo à diuerse passioni, ne ragionaremo in altro luogo.

ISTITVTIONI HARMONICHE DEL REV. M. GIOSEFFO ZARLINO DA CHIOGGIA,
Maestro di Capella della Serenissima Signoria DI VENETIA. Prima Parte. Capitolo 3. (MDLVIII)
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11 novembre, 2008

Richard Wagner e il nazismo. 4

Le tesi della difesa.

Certo, bisogna riconoscere che Wagner ha contribuito di bel suo a creare le premesse per una non propriamente onorevole fama, con scritti e comportamenti violentemente antiebraici. Ma intanto bisogna pur sapere che nel pieno ‘800, specialmente nel mondo tedesco, l’antisemitismo era di casa, un pò come certo anti-islamismo nell’Occidente di oggi. Gli islamici non si integrano nella nostra società, non parlano bene la nostra lingua, non mangiano come noi, sembrano piuttosto sporchi, “rubano” posti di lavoro ai nostri figli, non capiscono la nostra arte, l’unica loro musica è l’insopportabile cantilena del muezzin, insomma, ci sono istintivamente repellenti… lo pensano in molti, anche qui da noi, vero? E qualcuno – gente assai importante - lo scrive sui giornali e sui libri, lo dice in TV. Bene, è su per giù ciò che Wagner scriveva degli ebrei, nel 1850.

Ma si potrebbe addirittura retrocedere nei secoli, e scoprire che un antisemita accanito fu Martin Luther (cui nessuno osa attribuire responsabilità dirette per l’Olocausto) e che altrettanto fu William Shakespeare, di cui nessuno, che si sappia, ha mai proposto di proibire in Israele la rappresentazione del “Mercante di Venezia”.

Tornando a Wagner, visto che la musica e l’opera erano il suo “pane quotidiano” e la sua suprema aspirazione esistenziale, non è fuori luogo immaginare che il maestro abbia, in qualche modo, ricavato dalle sue convinzioni antiebraiche – meglio sarebbe dire: dai suoi pregiudizi - più di uno spunto per la composizione delle sue opere e, in particolare, per la presentazione dell’aspetto “esteriore” di alcuni suoi personaggi. Ma già questo è un primo punto importante da sottolineare: l’antiebraismo di Wagner riguardava principalmente l’Arte e, in particolare, la Musica. Lui - magari solo perchè invidioso dell’onnipotente Meyerbeer, che dettava legge nella Parigi musicale, e si arricchiva assecondando le più abiette tendenze “artistiche” della locale borghesia - giudicava gli ebrei “non portati” per l’arte musicale, almeno come essa era concepita in Germania e in Occidente, ma è del tutto gratuito attribuirgli la spiegazione di ciò come conseguenza della rinuncia all’amore e dell’asservimento al potere dell’oro da parte della razza ebraica (e solo di essa, attenzione!)

Quando era il momento di chiedere quattrini, lo stesso Wagner applicava disinvoltamente il famoso adagio latino: “pecunia non olet”… e si può star certi che molti dei rossi mattoni del Festspielhaus abbiano sangue ebraico nel loro pedigree. E quando si trattava di scegliere i migliori collaboratori per la riuscita delle sue Opere, Wagner non esitava a chiamare amici ebrei, come accadde per la prima del Parsifal - invero una cosuccia da nulla! - che venne affidata, con grande successo e soddisfazione di tutti, a Hermann Levi (il fatto che Wagner gli abbia anche, contraddittoriamente, manifestato più volte il suo disprezzo non fa che confermare l’assunto: il suo antisemitismo era “relativo” e non “assoluto”).

Non solo: quando si trattava di trovare spunti interessanti per le sue opere, Wagner non esitava a saccheggiare quelle di compositori ebrei, vedi Mendelssohn, da lui offensivamente ridicolizzato nel Giudaismo, ma poi abbondantemente scopiazzato dalla Melusina, dalla Scozzese, dalla Riforma. E persino l’odiato Meyerbeer darà spunti - col Robert le diable - al Parsifal.

Rispetto al possibile uso politico delle opere di Wagner, basterà ricordare che, molto prima di Hitler, anche Ludwig II si era letteralmente “innamorato” del compositore e delle sue opere, ed aveva conosciuto molto bene il suo acceso antisemitismo. Ma ciò non aveva comportato che la Baviera invadesse la Polonia, nè che allestisse campi di concentramento e forni crematori. Anzi, il giovane re, che per il Wagner artista spendeva e si spendeva, fu sempre molto fermo con il Wagner antiebreo, non risparmiandogli aspri rimbrotti in merito e bocciandone ogni proposta operativa.

E persino l’ostracismo a Wagner in Israele è nato solo nel 1938 (precisamente il 12 novembre, all’indomani della tristemente famosa Kristallnacht, di cui stiamo proprio ricordando l’anniversario) quando il nazismo cominciò a mettere in atto la “soluzione finale” al problema ebraico. Prima di allora, l’Orchestra della Palestina (diventata poi Israel Philharmonic) suonava tranquillamente Wagner (con un tale Toscanini sul podio, ad esempio). E come non ricordare tutte le personalità, grandi e piccole, del mondo ebraico che furono e sono convinti ammiratori del Wagner artista, pur riconoscendo (e condannandole) le idee antisemite del Wagner uomo: Gustav Mahler e Daniel Barenboim, giusto per citare due nomi fra i tanti.

Anche se è cosa estremamente difficile - quanto camminare sulla lama affilatissima di un rasoio - sono convinto che vada fatto sempre ogni sforzo per tenere distinti gli aspetti deteriori del Wagner uomo, ideologo, capopopolo, da quell’unica qualità per la quale Wagner ha titolo per essere ricordato ed apprezzato: l’Artista!

Passiamo ora ad esaminare e confutare i vari capi di imputazione che vengono contestati a Wagner e che ho sommariamente elencato nella precedente puntata.


Vediamo I Maestri Cantori.

Intanto cominciamo col dire che Beckmesser non può essere ebreo: come tale mai avrebbe potuto far parte dell’accolita dei Cantori. E allora qualcuno dovrebbe spiegare che senso avrebbe far incarnare ad un non-semita tutte le qualità deteriori - massimamente quelle fisico-morfologiche - attribuite dal Wagner “politico” agli ebrei. Insomma, per assurdo: se Beckmesser, che certamente non è semita, cammina e parla e canta come un semita... significa che fra semiti e non-semiti non c’è differenza alcuna! E allora casca tutta l’impalcatura dell’accusa.

Ma andiamo oltre: alla fine del primo atto Beckmesser confida a Pogner il desiderio di avere in moglie sua figlia Eva. E Pogner, pur riaffermando che sarà Eva a dover acconsentire, si impegna a intercedere per lui presso la figlia. Ergo: Pogner, rappresentante a pieno titolo della società e della cultura tedesca, non ha alcuna preclusione verso il “merker”, che evidentemente considera del tutto degno - Eva consentendo - di diventare suo genero.

Il “puro ariano” Hans Sachs, viceversa, sarà anche “nobile” e saggio, rinunciando in partenza ad Eva, ma si mostra assai carogna (e geloso?) nei confronti di Beckmesser allorquando, nel secondo atto, fa di tutto per rovinargli la “serenata”. E persino il giovane David, tratto in inganno dallo scambio di persona Eva-Maddalena (non certo voluto dal povero Beckmesser) si rende responsabile di percosse e maltrattamenti nei confronti dello scrivano, e della gigantesca rissa che ne segue, da cui l’incolpevole Sixtus uscirà letteralmente con le ossa rotte! Ed è proprio in conseguenza delle botte subite la sera prima che Beckmesser, nel terzo atto, in casa di Sachs e poi sul terrapieno della tenzone canora, appare barcollante e malfermo sulle gambe, non certo perchè questo sia il modo di camminare congenito agli ebrei!

Beckmesser - è vero - ruba il foglio su cui Sachs ha trascritto il lied di Walther. Non è certo una bella azione, ma non si può non riconoscere che Sachs si è comportato con lui in modo davvero indegno; e adesso quella canzone gli sembra dimostrare che Sachs pretenda alla mano di Eva, e gli conferma il sospetto che il calzolaio, la sera prima, avesse architettato tutto ai suoi danni, per pura gelosia!

Insomma, ragionando a mente fredda, vien da concludere che Beckmesser sia una vittima, più che un pericolo pubblico. E che Sachs sarà anche un tedesco doc, ma è pure parecchio carogna. E allora: ammesso che Beckmesser impersonifichi il semita, non è che Wagner volesse per caso mostrarci la triste condizione degli ebrei, sottoposti ad ogni tipo di angheria? Altro che antisemitismo...

Ma veniamo alla sostanza: la musica!

Pochi passaggi musicali sono così magistralmente concepiti, e così belli, come l’assurda e patetica serenata (oltretutto una reminiscenza e insieme parodia della rossiniana canzone di Lindoro) che Beckmesser canta nel secondo atto, e che doveva servire al compositore – secondo i sostenitori del Wagner nazista - per prendere di mira la pretesa incultura musicale del mezzo-ebreo Eduard Hanslick (il critico che lo “criticava”, peraltro con grandissimo equilibrio). Al confronto, gli stollen-abgesang dello Junker Walther (ma come potrebbe mai impersonificare un “eroe ariano” uno il cui cognome - von Stolzing – è già di per sè una parodia?!) sembrano esercizi di un (mediocre) allievo di liceo musicale. Tutta la musica che sostiene la strepitosa, stupefacente scena finale della baruffa del secondo atto nasce e si sviluppa proprio da lì, altro che cantilena da Sinagoga! E si noti che persino David, all’inizio del terzo atto, intona inizialmente il mottetto “Am Jordan Sankt Johannes stand” proprio sulla melodia della serenata di Beckmesser! Inquinato anche lui dalla sub-cultura semitica? Bisognerebbe dimostrarlo, partitura alla mano!

Quanto al preislied, Wagner è a sua volta davvero carognesco nel formularne la “versione Beckmesser”: ma un simile stravolgimento del testo originale è spiegabile con mille motivazioni, e non solo con la difficoltà di un Ebreo nel comprendere la lingua tedesca (e chi ci dice che non sia stata tutta una manfrina di Sachs, quella di scrivere il testo appositamente in modo indecifrabile, per tendere un trappolone al povero “merker”?) Musicalmente è poi tutt’altro che da buttar via, e il fallimento, nella generale derisione, è legato all’insensatezza del testo, non certo alla musica.

Non dimentichiamo infine che Wagner intendeva creare, con i Meistersinger, un’opera comica, e in tutte le opere comiche c’è necessariamente qualche personaggio che si deve prestare alla bisogna (sarà solo il caso di ricordare un certo don Bartolo...) senza per questo dover scomodare pregiudizi razziali.


Passiamo adesso alla Tetralogia.

Secondo l’accusa, dato che l’ebreo ha una cultura che spregia l’amore e predilige l’oro, e dato che Alberich rinuncia all’amore per l’oro, ne deve conseguire necessariamente che Alberich sia un semita, e con lui tutta la sua razza. (Sarà appena il caso di fare un’elementare osservazione: i Nibelunghi sono pur sempre un prodotto del (sotto)suolo germanico, e non hanno alcuna ascendenza “levantina”. E parlano in Stabreim come tutti gli altri personaggi del Ring). In realtà questo è un ”postulato” bello e buono, in nessun modo dimostrabile: sono il poema e la musica del Rheingold, a informarci che Alberich sarà sì piccolo e brutto, ma non è cattivo, cioè non è congenitamente nemico dell’amore, anzi è soggiogato dalla sua potenza, e che la sua successiva maledizione dell’amore è una conseguenza del fatto che questo gli viene inconcepibilmente negato (dalle Figlie del Reno).

Addirittura - volendo dare per forza interpretazioni esclusivamente politiche al Ring - si potrebbe qui ribaltare la tesi e sostenerne a pieno titolo una diametralmente opposta: che Wagner, da occidentale-germanico-ariano faccia un’aperta autocritica e voglia invece presentarci, con Alberich, la triste condizione degli ebrei, disprezzati da ben due millenni dall’ipocrita società occidentale, sia cattolica che luterana, emarginati e relegati in ghetti materiali e spirituali, dai quali possono uscire solo rifugiandosi (anzi, essendo perfino a ciò costretti!) nell’oro.

Per di più , la capitale decisione che Alberich prende ne fa una figura grande, perchè anche per peccare, in modo cosciente, razionale ed assumendosi fino in fondo responsabilità e rischi, bisogna pur avere una statura al di sopra della mediocrità. Altro che meschino verme ebreo!

Veniamo ora a Wotan e al suo preteso “inquinamento” ad opera del semita Alberich. Attenzione! poiché, una volta fatta passare per vera tale ipotesi, si ha poi gioco facile a pervenire alla comodissima tesi secondo cui, nel Ring, Wagner vuole attribuire tutte le colpe della società e della cultura occidentale, in particolare germanica, quindi ariana – anche quelle più gravi ed inconfessabili - all’essere essa in via di inquinamento da parte della sub-cultura semitica (proprio ciò che sosterranno i nazisti!) E che Wagner, con il Ring, questo e non altro ha voluto rappresentarci; e peggio ancora: che nelle opere del protonazista Wagner, Hitler trovò bell’e pronti non solo tutta la sua “visione politica”, ma anche il suo dettagliato programma di eliminazione fisica degli ebrei.

Orbene, sfido chiunque a trovare in tutto il Ring una qualunque, sia pure lontana, giustificazione di questa tesi sciagurata, quanto pretesuosa. Attenzione: stiamo parlando qui del Ring, non di questo o di quell’articolo di giornale, di questa o di quell’altra lettera, o di una frase pronunciata dopo una cena con amici o riferita da Nietzsche, da vonWolzogen, da Cosima, da Gobineau...

Allora cominciamo col dire che l’anello, il simbolo di tutto il male universale, viene sì materialmente forgiato da Alberich, ma a lui preesiste, e sappiamo benissimo dove, avendo ascoltato il Rheingold! Precisamente nella conoscenza delle tre Ninfe, le figlie del Reno, e cioè dell’acqua, il principale dei quattro elementi fondamentali dell’universo. E sulla partitura musicale, il tema dell’anello compare per la prima volta addosso a Wellgunde, non certo ad Alberich! Quindi il nesso causa-effetto non è Alberich-Anello, ma esattamente l’opposto: Alberich è una vittima dell’anello (il male) esattamente come lo è (e lo vedremo subito) Wotan.

Non per nulla, nella seconda scena del Rheingold, Wagner ci ri-presenta il tema dell’anello, letteralmente appiccicandolo a Wotan, come una sanguisuga, fin dalle primissime battute; ed è chiaramente legato al “peccato” del dio, che ha promessa Freia (l’Amore!) ai Giganti, in cambio del Walhall (il Potere). Per di più, lo stesso tema del Walhall altro non è se non una variante del tema dell’anello, la sua “faccia nobile” (ma anche ipocrita?) potremmo dire. Da dove o da cosa, da chi o perché si possa dedurre che Wotan, già a quel punto, sia stato “inquinato” dalla sub-cultura semitica, questo è per me un mistero, anzi… un’invenzione, bella e buona.

La realtà (come ce la racconta Wagner, parole e musica, basta leggere ed ascoltare) è quella che ci hanno già chiaramente presentata gli “eddici” Saemund e Snorri: tutta la razza divina, da Ymir, a Bor, e giù giù fino a Odin(Wotan) è affetta da “peccati originali”, dei quali l’ultimo ci è stato da Wotan confessato già nella Walküre con queste inequivocabili parole: “Als junger Liebe Lust mir verblich, verlangte nach Macht mein Mut: von jäher Wünsche Wüten gejagt, gewann ich mir die Welt.” (Quando di giovine amore languì il desiderio, l'animo mio aspirò a potenza: di improvvise brame dal furore spinto, a me conquistai il mondo. La traduzione è del sommo Guido Manacorda).

Chiaro abbastanza, vero? Ma invece, come non bastasse, il Viandante-Wotan ci fornisce i dettagli del suo peccato nella seconda scena del Siegfried, ed è la mortale ferita da lui stesso inferta al mitico frassino Yggdrasil, per ricavarci l’asta di una lancia, su cui incidere i caratteri runici delle leggi con cui dominare il mondo: “Aus der Welt-Esche weihlichstem Aste schuf er sich einen Schaft: dorrt der Stamm, nie verdirbt doch der Speer; mit seiner Spitze sperrt Wotan die Welt.” (Del frassino del mondo dal ramo più sacro l'asta si costruì: inaridisce il fusto, non si logorerà mai la lancia; con la sua punta sbarra Wotan il mondo. Manacorda).

Poi c’è Erda, che nella prima scena del Terzo Atto di Siegfried così apostrofa Wotan: “Der den Trotz lehrte, straft den Trotz? Der die Tat entzündet, zürnt um die Tat? Der die Rechte wahrt, der die Eide hütet - wehret dem Recht, herrscht durch Meineid?“ (Chi la tracotanza insegnò, punisce la tracotanza? Chi all’azione infiammò, dell'azione s'adira? Chi il giusto protegge e guarda il giuramento - il giusto impedisce e regge con spergiuro? Manacorda).

Non basta ancora? Ecco cosa notificano - per i distratti e i ritardatari - le Norne nel notturno prologo del Götterdämmerung: “Von der Welt-Esche brach da Wotan einen Ast; eines Speeres Schaft entschnitt der Starke dem Stamm. In langer Zeiten Lauf zehrte die Wunde den Wald; falb fielen die Blätter, dürr darbte der Baum...“ (Dal frassino del mondo ecco Wotan un ramo recidere; l'asta d'una lancia tagliò quel forte dal tronco. Nel corso di lunghi tempi la ferita logorò la foresta; falbe caddero le foglie, intristì arido l'albero... Manacorda).

Se poi ricordiamo che Wotan ruba l’anello ad Alberich, ne abbiamo abbastanza, direi… perciò, se immondi e peccatori sono gli Untermenschen semiti, allora come minimo lo sono altrettanto i luminosi germanici-ariani (anzi, di più, poiché non hanno nemmeno l’attenuante della “provocazione” e dello “stato di necessità”: sappiamo che Alberich persegue la Potenza solo dopo aver subito il carognesco trattamento da parte delle Ninfe ed aver quindi constatato l’assoluta impossibilità per lui di accedere all’Amore; Wotan invece ha avuto l’Amore, e tanto abbondantemente da addirittura stancarsene - pur non arrivando a ripudiarlo - ed è quindi andato in cerca di Potenza come “variante esistenziale” all’Amore medesimo). Questo, e non altro, Wagner ci spiega, e senza bisogno di far ricorso ad etichette razziali, tutt’altro, ma semplicemente raccontando di: Schwarz-alben e Licht-alben. Quindi, tutti “elfi”, scuri e chiari, ma elfi. E la quarta scena del Rheingold è lì a testimoniarci, parole e musica, in modo esemplare, che il confronto Alberich-Wotan è quello fra un empio (Frevler) - Alberich - e un ladro (Schächer) - Wotan.

E quindi si deduce che per Wagner, nel Ring (lo ripeto fino alla nausea, non nel libello X o nel discorso Y o nella lettera Z, ma nel Ring) il mortale confronto fra Wotan ed Alberich non è affatto lo scontro fra bene e male, fra puro-ariano e impuro-semita, ma quello fra due peccatori, rappresentanti di due civiltà sì diversamente sviluppate, ma ugualmente fondate sui deteriori (dis)valori dell’anello. Per impossessarsi definitivamente del quale, non a caso entrambi ne combinano di cotte e di crude, fino a scatenare un vero e proprio “conflitto mondiale”, che porterà dritto-dritto al tracollo di entrambe le civiltà. Ed è proprio per questo, e per nessun’altra ragione – si ascolti Wagner, prego – che nessuno dei due personaggi (e nessuno dei due “opposti schieramenti” che a loro fanno capo, figli e figliastri e nipoti inclusi) l’avrà vinta sull’altro, perché nessuno dei due si merita di prevalere. Qualcuno ci vede qui sul serio la Kristallnacht, l’invasione della Polonia, o l’Anschluss? Caso mai, potremmo osservare che alla fine del Ring le cose vanno meno peggio ad Alberich, che non a Wotan! E questo cosa dimostrerebbe? Che Wagner, oltre che nazista, era pure masochista? E che si vide costretto a scrivere una successiva opera colossale, per tentare di porre rimedio alla “frittata” autolesionista del Ring?

Passiamo ora a Mime: che rappresenti la meschinità e l’arretratezza culturale è palese a tutti; che nel Siegfried, Wagner ci racconti di come il miserabile nano soccomba alla purezza, all’entusiasmo e all’inventiva del giovane figlioccio cui fa da tutore, altrettanto.

Ma il punto è che Mime, a differenza di Alberich, che minaccia Wotan di totale distruzione, ha mire assai più ridotte, che ci rivela alla fine del primo atto del Siegfried: a lui “basterebbe” diventare signore dei Nibelunghi, giù nelle tenebre delle viscere della terra. Di Wotan gli importa solo di sfatarne la scommessa persa con lui, e salvarsi il capoccione, null’altro… E del resto, quando mai Wotan mostra di preoccuparsi di lui, o peggio, di considerarlo una seria minaccia? A differenza di Alberich, suo nemico mortale, che gli ha fatto perdere il sonno, ma che lui rispetta almeno quanto teme, per Wotan Mime è solo un mezza-tacca, un poveraccio da prendere - e guardate: persino bonariamente - per i fondelli.

Per il resto ci si dimentica, al solito, di leggere e di ascoltare il Ring: nella terza scena del Rheingold, Mime descrive un mondo nibelungico addirittura idilliaco, prima della “provocata conversione” di suo fratello Alberich alla nefasta religione dell’oro, che ha poi costretto anche lui a tirar fuori il peggio di sé, per naturale reazione…

Quanto all’aspetto esteriore, non c’è dubbio che Wagner rivesta Mime (come in parte anche Alberich) delle qualità negative da lui attribuite agli ebrei (la parlata e la cantilena yiddish, in primo luogo): ma siamo appunto all’esteriorità, peraltro mirabilmente espressa sul pentagramma. (E Richard Strauss, nella Salome, non ha forse musicato per tenore le stridule parti di quattro personaggi ebrei?) Wagner, in fondo, forse doveva essere grato a quello stereotipo di ebreo, se gli consentiva di creare autentiche meraviglie in musica! E non solo qui nel Ring, come abbiamo visto a proposito dei Meistersinger e come vedremo poi nel Parsifal.

Siegmund e Sieglinde: è del tutto evidente che i due personaggi, la loro consanguineità e il conseguente incesto erano un’assoluta necessità artistica per Wagner. L’incesto, che ha come presupposto il legame di sangue dei due gemelli, è l’unica realistica motivazione per il comportamento di Fricka, per le sue richieste a Wotan e per tutto ciò che la loro soddisfazione comporta: il sacrificio di Siegmund, e da qui la “conversione” di Brünnhilde, la di lei punizione, e da qui... tutto il resto del Ring! La Walküre opera d’arte, con il suo meraviglioso impianto e il suo stupendo finale, non potrebbe esistere che così. Viceversa, se Siegmund rappresentasse il puro-ariano, in cui la società germanica ha riposto le sue speranze di riscatto, come si spiegherebbe allora il suo rifiuto di ascendere al Walhall, per difendere quella società? E ancora: visto che è Fricka a chiedere la punizione del Siegmund-eroe-ariano, dovremmo allora pensare che anche lei sia in qualche modo “inquinata” dal nibelungico-semita? E di grazia: in base a quali elementi, circostanze, osservazioni, parole e musica? Ciò che di lei sappiamo (dal Rheingold) è che non è diversa dalla donna media e ”benpensante”, con le sue bigotte convinzioni, ma anche con le sue vanità e le sue debolezze, oro compreso.

Siegfried: che Wagner abbia immaginato in lui uno stereotipo del “puro ariano”, è più che verosimile, così come si può arrivare a pensare che la raffinata ricerca wagneriana nel campo dell’introspezione psicologica (lo straordinario sogno della madre e la reazione di Siegfried di fronte all’Amore) avesse come obiettivo secondario anche di dimostrare al mondo “quanto può fare l’Arte germanica” se paragonata alle “insulsaggini ebraiche” di un Meyerbeer… Ma, ancora una volta, restiamo saldamente ancorati al piano artistico: tirare in ballo quello politico, e più ancora quello razziale, è davvero cosa gratuita. Peraltro basterà, come al solito, stare alla lettera e al pentagramma del racconto wagneriano, per chiederci come si possa spiegare che un Siegfried eroico e incontaminabile, che “resiste”, e come! all’inquinamento di Mime finchè si trova nella sua tenera età (proprio quando invece potrebbe essere facilmente plagiato) successivamente – divenuto maturo ed esperto – possa cadere come un’autentica pera cotta, letteralmente in pochi secondi, davanti ad un qualunque mezzo-semita (Hagen) e ad una insignificante Gutrune! E questo ingenuo bambinone naìf dovrebbe rappresentare, secondo Wagner, il simbolo del riscatto della razza ariana? Roba da ridere… per non vergognarsene. Basti ricordare che le più spietate e stroncanti caricature degli anni ’20 - in Germania, si badi bene - raffigurano Hitler bardato proprio da Siegfried…

Ecco poi Hagen, figlio di Alberich: una geniale invenzione di Wagner. Geniale, ma anche assolutamente necessaria dal punto di vista drammatico, perché l’identità dell’Högni che esce dalle saghe medievali avrebbe reso totalmente gratuito e banale (perché ingiustificabile e del tutto insostenibile, in quanto non realistico) il suo ruolo nella vicenda del Ring: di quel personaggio, il Wagner ideatore di drammi cosmici davvero non avrebbe saputo che farsene. Epperò il suo “Hagen-figlio-di-Alberich” doveva essere per forza di cose un pezzo grosso alla corte dei Ghibicunghi, e di conseguenza il realismo imponeva che lui fosse figlio di una ghibicunga, e non di una nibelunga! Pensare che Wagner volesse mostrarci, con Hagen, il malsano risultato dell’inquinamento semitico della società ariana è una chiara, quanto gratuita, forzatura… anche se non possiamo escludere che Wagner si sia compiaciuto del fatto che una scelta per lui artisticamente obbligata avesse, come by-product, anche un risvolto che magari non gli dispiaceva affatto; oppure che (scegliete voi) Wagner avesse tratto ispirazione dalle sue idee balzane sull’ebraismo per presentarci e descriverci in modo artisticamente sublime un passaggio topico del suo immenso dramma.

Wagner aveva cominciato il suo lungo cammino del Ring da Siegfried, ma è quella di Brünnhilde la figura che alla fine campeggia e torreggia nella Tetralogia: a partire dalla stupenda, emozionante “presa di coscienza” nella Walküre, poi al risveglio e alla “presa di conoscenza dell’Amore” nel Siegfried, e finalmente alla “presa di controllo” sulle estreme vicende cosmiche, nel Götterdämmerung. In ogni caso, la figura di Brünnhilde la dice lunga su quanto sia strampalata l’idea secondo cui Wagner, col Ring, si prefiggesse l’obiettivo di esporci le sue pretese soluzioni politiche riguardo al futuro della Germania. Diciamo la verità: Hitler&C si servirono, a loro uso e consumo, di un artista e di una delle più straordinarie opere d’arte che l’umanità abbia mai prodotto.


Concludiamo con Parsifal.

La semplice constatazione degli innumerevoli legami di questo dramma con il Buddismo e con Schopenhauer e Kierkegaard basterebbe a stroncare ogni accusa di razzismo e antisemitismo.

E poi, sulla presunta ebraicità di Kundry (indicata dagli esegeti che accusano Wagner come l’incarnazione di Ahasvero, l’ebreo errante) è lecito avanzare più di un dubbio: ad esempio, la Erodiade, che Klingsor ci ricorda essere una precedente incarnazione di Kundry, aveva pubblicamente abiurato la sua religione ebraica.

Klingsor, appunto: un semita? E in base a quale prova, di grazia? Solo perchè vive “al sud”, nella Spagna araba? O perchè si è evirato? Forse che castrazione è sinonimo di circoncisione? (che nell’800 molti ignoranti antisemiti lo pensassero non dimostra che anche Wagner ne fosse convinto, nè tantomeno che volesse far passare per vera questa idiozia).

Altra domanda: com’è che Kundry - la quintessenza dell’inquinante semitico - viene finalmente ammessa - unica e prima femmina - nel tempio del Gral? Dato e non concesso che sia di razza ebrea, ciò significherebbe, come minimo, che Wagner auspicava l’integrazione degli Ebrei - “culturalmente redenti” - nella società e nella cultura tedesca, e non certamente la loro violenta eliminazione fisica!

Ma è il lato musicale, ancora una volta, a far giustizia di ogni pretesa intenzione razzista e antisemita di Wagner. Sì perchè - guarda caso - è la strepitosa Kundry e non certo lo sciocco biondino preteso-ariano (“papero”, lo apostrofa il saggio vecchio Gurnemanz) a monopolizzare la scena, psicologicamente, fisicamente e musicalmente.

Chi vuol dipingere un Wagner tutto proteso a mostrarci nelle sue opere la natura repellente dell’ebreo, dovrebbe allora spiegarci come avviene che, al contrario, i personaggi a ciò da lui preposti (a partire da Holländer, altra supposta reincarnazione di Ahasvero, per arrivare a Kundry) siano fra i più musicalmente straordinari di tutta la sua produzione artistica. Vuoi vedere che Wagner ha finito per infondervi inconsapevolmente il suo supposto e temuto (quanto inconsistente) ascendente ebraico?

Il discorso fatto più sopra a proposito di Siegfried vale per il “puro folle”, che è, per l’appunto, folle. E che solo un folle (non certo Wagner) poteva pensare di prendere a modello. Immaginare che Wagner intendesse – seriamente - prefigurare nelle sue opere ai suoi compatrioti il futuro “redentore della specie” (e magari, perché no, addirittura il Führer in persona) vestendolo con i panni di due ragazzotti sprovveduti – possiamo ben dirlo - come Siegfried e poi Parsifal… significa davvero far torto, in un sol colpo, all’intelligenza del Wagner artista e a quella del Wagner antisemita.

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E così alla fine, se proprio proprio si vuol trovare un parallelo (in termini di scontro ariano-semitico di culture) fra le opere di Wagner e la “visione” di Hitler, Göbbels e Himmler, non resta che un unico riferimento: ed è la Berlino che brucia, esattamente come il Walhall…

Ma allora: vuoi vedere che Adolf Schicklgruber da Braunau am Inn, e i tedeschi plagiati da lui, essendosi macchiati di appropriazione indebita dell’Artista Richard Wagner – proprio come Wotan dell’anello di Alberich - per farci il “sommo profeta” delle loro nefandezze, ne hanno poi dovuto tragicamente subire – sì, esattamente come Wotan – i colpi di una tremenda maledizione, realizzandone fino in fondo, sulla pelle di sei milioni di ebrei, ma in fin dei conti anche sulla propria, la più apocalittica e nichilista delle “visioni”?
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