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15 ottobre, 2008

Richard Wagner e il nazismo. 3

Le tesi dell’accusa.

La principale pezza d’appoggio - in se stessa assolutamente incontestabile - dell’accusa a Wagner di avere responsabilità oggettive nella nascita del nazismo e quindi della sorte toccata agli ebrei sotto Hitler è costituita dagli scritti dello stesso Wagner. Facciamo qui riferimento, per brevità, a due di questi.

In primo luogo Il Giudaismo in musica (1850) che contiene una violenta requisitoria contro l’avanzare della sub-cultura ebraica all’interno della nobile, alta e superiore tradizione germanica. Agli ebrei è concessa una sola soluzione, quella della rovina e della decadenza (Untergang). Nella riproposizione del libello (1868) Wagner avanza la constatazione che l’assalto di quella sub-cultura è ormai arrivato ad un livello tale che essa sta prendendo il sopravvento; e di non saper dire se l’arresto della caduta della cultura germanica possa avvenire anche attraverso una sua reazione violenta (eine gewaltsame Auswerfung).

Poi Was ist Deutsch? (Cos’è Tedesco?) pubblicato nel 1878, ma scritto nel 1865, dove Wagner dipinge gli Ebrei come “elemento alieno che ha invaso la natura tedesca”. E li addita a primi e principali sfruttatori del sistema capitalistico, del profitto, del potere economico delle banche. Il tutto all’interno di un panegirico allo spirito tedesco, capace di sopravvivere ad ogni avversità e ad ogni sopraffazione.

Ma certo gli scritti di Wagner, da soli, non avrebbero avuto diffusione e risonanza così grandi da condizionare la politica tedesca, e Hitler probabilmente non si sarebbe neanche scomodato a leggerli, ammesso di venirne a conoscenza.

E così sono le opere di Wagner ad essere accusate di fondarsi su un organico, e nemmeno tanto dissimulato, retroterra antisemita. Insomma, il fine ultimo perseguito da Wagner componendo i suoi drammi non sarebbe affatto l’arte, ma l’esplicitazione del programma politico dell’ideologia antisemita.

E dato che quelle opere ebbero una risonanza ed una diffusione enormi, ecco che quel programma, in esse contenuto, potè richiamare l’attenzione e l’approvazione di Hitler, che non dovette far altro che dargli applicazione pratica.

Robert W.Gutman (“Richard Wagner: the Man, his Mind and his Music”, 1968) è probabilmente stato il primo a sostenere compiutamente questa tesi, ma esistono innumerevoli altri riferimenti a quest’accusa, ad esempio in scritti di studiosi quali Hartmut Zelinsky (“Richard Wagner – ein deutsches Thema”) o Barry Millington (“Wagner”) o Daniel L.Leeson (“Antisemitism in the music dramas of Richard Wagner”) o Chris Nicholson (“Apotheosis”) o ancora Peter Brach (“The Anti-Semitic Intention of The Ring of the Nibelung”). E sappiamo che lo stesso Gottfried Wagner, pronipote del compositore, non esita a individuare un “binario” che collega direttamente le opere del bisnonno con Auschwitz.

In breve, gli accusatori di Wagner portano tutta una serie di “pezze d’appoggio” per la dimostrazione della seguente tesi: “Nei suoi drammi, Wagner altro non vuol rappresentare se non il conflitto insanabile, anzi mortale, fra la purezza dell’identità culturale germanico-ariana e il suo pericoloso inquinante semitico.” (Che è esattamente il succo del Giudaismo).

E come vien dimostrata una tesi di tale distruttiva portata? Con argomentazioni come quelle schematicamente elencate qui di seguito; in particolare, sono tre le opere messe direttamente sotto accusa: Die Meistersinger von Nürnberg, Der Ring des Nibelungen e Parsifal.


I Maestri Cantori.

Attraverso quest’opera Wagner intende chiamare la nazione tedesca al riscatto culturale nei confronti dell’inquinante, costituito dall’infiltrazione ebraica nella società germanica. Ne è testimonianza lo stesso esplicito riferimento a Martin Luther (antisemita fino al midollo, per la cronaca, basti pensare al Von den Jüden und iren Lügen, dove si parla di “vermi velenosi, che è un errore non distruggere”) di cui Wagner musica, nel terzo atto, la lode scritta dal Sachs storico (L’Usignolo del Wittenberg, come Luther vi viene definito): è il famoso “Wacht auf!”, risvegliatevi!

Il “puro ariano” qui è Walther von Stolzing, e il suo nemico semita è Sixtus Beckmesser. Quest’ultimo incorpora tutti i cliché antisemiti ottocenteschi, tutti gli aspetti sgradevoli e pericolosi che Wagner attribuiva agli ebrei: ha un’andatura strascicata, barcollante, gli occhi strabici, è bellicoso, malintenzionato, senza scrupoli... ma soprattutto, manca totalmente di talento musicale, di doti poetiche, di senso del ritmo e della metrica. Esattamente ciò che Wagner aveva scritto nel Giudaismo: “Nel linguaggio e nell’arte musicale l’Ebreo può solo produrre imitazioni e merce contraffatta, non può scrivere vera poesia, nè creare autentiche opere d’arte”.

Addirittura il nome originario che Wagner aveva scelto per il personaggio Beckmesser era Hans Lich, una chiarissima storpiatura di Eduard Hanslick, il critico musicale, onesto conservatore, ma soprattutto “mezzo ebreo”, che aveva preso posizione per Brahms e che Wagner intendeva perciò ridicolizzare, per distruggerlo.

E soprattutto è il modo di cantare di Beckmesser che è un’autentica parodia del ritmo e delle inflessioni vocali dei canti da Sinagoga. Per di più Wagner scrive, per questa parte di basso, dei passi ad altezze impossibili (addirittura un LA, duro persino ad un tenore!) ottenendo con ciò l’effetto parodistico del falsetto, della voce effeminata, caratteristica dei castrati (e nell’800 l’antisemitismo faceva volutamente confusione fra castrazione e circoncisione!)

Non solo, ma Beckmesser è anche un ladro! Ruba il testo del lied di Walther (un’autentica opera d’arte... secondo Wagner) ma poi non riesce nè a decifrarne correttamente le poetiche parole (che traviserà orribilmente al momento di presentarlo al pubblico) nè a musicarlo compiutamente, a dimostrazione del fatto che l’ebreo non può produrre alcunchè di buono, pur avendo a disposizione “materiale ariano” di prim’ordine.

Infine, Beckmesser è esposto al ludibrio anche sul piano dei sentimenti: lui è un uomo attempato che (al contrario di Sachs, saggio e nobile ariano) mira ad impossessarsi della bella e giovane (pura ariana) Eva, figlia oltretutto di un orafo (!)

Insomma: l’ebreo ladro che ha laide concupiscenze sessuali e venali... guarda caso: proprio come l’Alberich del Ring!

Ecco quindi che le reazioni irridenti e ostili della gente di Norimberga alle sue performances, nel secondo e terzo atto, sono rappresentate da Wagner al preciso scopo di ridicolizzare l’ebreo e di mostrare quale debba essere la sua meritata sorte: disprezzo e scorno, fino alla violenza fisica (finale dell’atto II) da parte del nobile popolo tedesco!

Dopodichè, basta leggere le cronache dell’epoca nazista per constatare che i Meistersinger furono elevati dal regime nientemeno che a vessillo e strumento dell’espansionismo tedesco e della necessità della “soluzione finale” del problema ebraico. Gli ultimi due Festival di Bayreuth (1943-1944) prima della sospensione dovuta alla disfatta, furono esclusivamente occupati da 28 (16 + 12) rappresentazioni di quest’opera-simbolo.


La Tetralogia.

Come premessa alle argomentazioni, viene presentata un’acuta osservazione: nel Das Judenthum in der Musik, Wagner scrive dei musicisti ebrei – Mendelssohn, nientemeno! - come di “vermi che possono prosperare solo dentro un cadavere”; e dato che – ohibò – in Der Nibelungen-Mythus, scritto poco prima, si descrivono i Nibelunghi tutti indaffarati a scavare le viscere della terra, proprio come “vermi in un cadavere”, ecco che il sofisma è bell’e chiuso: i Nibelunghi sono gli Ebrei. Il resto viene quasi da sè, e quindi, nel Ring...

Alberich rappresenta la quintessenza dell’inquinante semitico. È tutto l’opposto, nel fisico come nel morale, del “puro germanico”, e lo si nota chiaramente dal suo aspetto esteriore e dal suo modo di cantare. Alberich (d’ora in poi uguale a “semita”) è uno spregevole ladro, che rinuncia all’amore e alla natura e mette al centro della sua esistenza l’oro, la materia e il potere, cercando di invadere con questa contro-cultura quel puro mondo germanico, che è votato da tempo immemorabile all’amore per Uomo, Natura e Arte.

Wotan rappresenta appunto il mondo germanico – contemporaneo a Wagner – che è purtroppo ormai già “in via di inquinamento”: seguendo l’esempio di Alberich-il-semita, anche lui, dopo averlo perseguito, ha poi trascurato l’amore (anche se non lo disprezza) per mettere al primo posto il potere. Ha tuttavia compreso la minaccia di Alberich, e cerca di opporvisi, anche se riconosce di non avere più l’autorità morale per combatterla in prima persona. Così cerca di creare le condizioni per il riscatto della sua società, contando sull’opera di un redentore, impersonato da Siegmund prima, da Siegfried poi.

Mime, fratello di Alberich (quindi: uguale a “semita”) è l’incarnazione della meschinità, dell’impotenza e della stupidità dell’inquinante. Lui non vive la pura cultura germanica ma, appunto, la “mima” (proprio come leggiamo nel Giudaismo!) e così facendo la corrompe.

Siegmund e Sieglinde rappresentano la possibile via di riscatto della pura razza ariana e della cultura germanica: unendo le proprie forze (con un rapporto di consanguineità) esse possono sperare di rinascere (in Siegfried) e di liberarsi dall’inquinante.

Siegfried rappresenta appunto “la purezza” di razza e cultura germaniche: il suo DNA, dopo una generazione, ha perso i tratti “inquinati” presenti in Wotan. Lui può risollevare le sorti della sua stirpe e della sua cultura! Non a caso, la seconda giornata del Ring è prevalentemente occupata dalla descrizione dell’inconciliabile dualismo fra Mime e Siegfried, fra “inquinante semita” e “puro germanico”. E dalla celebrazione dell’apoteosi del secondo, l’ariano che annichilisce il semita moralmente - e persino “tecnologicamente” - prima ancora che materialmente, abbattendolo con la sua Nothung. (Purtroppo l’inquinante, che si annida presso altri germanici “in via di inquinamento”, infetterà anche lui.)

Hagen, razzialmente “sangue misto” (quindi: “mezzosemita”) impersona il risultato pratico e cromosomico dell’inquinamento: congenitamente e coscientemente incapace di esprimere (anzi, prima ancora, di condividere in pieno) i valori della società e della cultura germanica, non gli resta che ripiegare sulla “contro-cultura semitica”, cercando in tutti i modi la neutralizzazione di colui che gli si manifesta come un invidiabile, ma irraggiungibile e quindi odioso, modello: Siegfried.

Brünnhilde, come Siegfried, fa parte della pura e incontaminata tradizione germanica. Se alla fine anche lei vuole il sacrificio di Siegfried, è meno per punirne il tradimento, e più per far risorgere dall’oblio la componente femminile (femminista?) di quella tradizione.

La chiusa del Ring, con il sacrificio di Siegfried e l’olocausto di Brünnhilde, avviene sull’idea della Redenzione, cioè della possibilità di purificazione e di rinnovamento della cultura e della tradizione germanico-ariana. Ma dato che il Ring ha una conclusione - come dire? – un pò troppo criptica, che qualcuno potrebbe magari equivocare, allora ci penserà Parsifal a chiarire del tutto il senso della “soluzione finale”.


Parsifal.

Appunto, Parsifal, il definitivo ed inequivocabile testamento antisemita e nazista di Wagner. Dove esplicitamente si chiama in causa il “sangue”, cioè la “razza”.

Dove la non rimarginabile ferita di Amfortas rappresenta il risultato pratico, cromosomico, del peccaminoso accoppiamento della razza ariana con quella ebraica, impersonificata da Kundry, l’eterno errante Ahasvero, in realtà l’espressione massima del cinico, subdolo e mortale inquinante semitico, che arriva ad un passo dal conquistare la vittoria definitiva (proprio ciò che Wagner scriveva dello scenario tedesco del 1868, nelle note a corredo del reiterato Giudaismo).

Al servizio di Klingsor, la quintessenza dell’osceno male universale (impotenza, castrazione, circoncisione) che minaccia la nobile, pura, divina razza ariana.

È il sangue (di Cristo) che si scioglie nel Gral a tenere vivo quell’esile filo di speranza che i cavalieri continuano a nutrire.

È il ricordo del sangue infetto della ferita di Amfortas che rivela a Parsifal in extremis - proprio sull’orlo del precipizio rappresentato dall’adescamento materno-meretricio di Kundry - la vera, mortale natura del pericolo semita.

E la rovinosa, rumorosa e irreversibile caduta del castello di Klingsor, ad opera della riconquistata Sacra Lancia, indica inequivocabilmente al redentore l’obiettivo - per nulla artistico - da raggiungere: la distruzione totale di quel pericolo e di chi lo incarna.

La fine di Klingsor e quella di Kundry materializzano le due opzioni dell’Untergang, che Wagner lascia a disposizione degli Ebrei: soppressione violenta, o collasso da redenzione.


E così, all’incirca 50 anni più tardi, un fedele discepolo dell’avvoltoio di Lipsia, dopo avere elevato Wagner al rango di “sommo profeta”, penserà bene di metterne in pratica i suggerimenti, procedendo ad un Olocausto nient’affatto melodrammatico…

(3. continua)

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