affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

08 febbraio, 2020

laVerdi-19-20 - Concerto n°15


Per un italiano (Bignamini) che, lanciato da laVerdi, va a far fortuna in America, ecco un americano che ha fatto fortuna in Europa e con l’orchestra milanese in particolare: John Axelrod, che torna sul podio dell’Auditorium per proporci un programma davvero insolito. Sia come impaginazione che come contenuti: fra due lavori ottocenteschi (di un suocero e del suo genero!) si inserisce un brano che non ha ancora compiuto due anni. In realtà è ciò che la locandina prevedeva in origine... poi, per evidenti ragioni di praticabilità logistica è il brano moderno ad essere eseguito per primo.

E così prima di Liszt e Wagner ascoltiamo un’opera che si esegue per la seconda volta in Italia (dopo la prima dello scorso 15 novembre a Parma, eseguita dalla Toscanini). Si tratta di Eternal Rhythm, dell’israelo-americano Avner Dorman. Opera del 2018 che viene presentata come un singolare Concerto per percussioni e orchestra. Il solista, che ad essa si è legato a doppio filo, essendone il dedicatario, è il funambolico Simone Rubino, 27enne di Chivasso, che deve destreggiarsi con una serie di percussioni, disposte a ferro di cavallo attorno al podio, quali marimba, crotali, gamelan, glockenspiel, vibrafono, campane e campanacci, tom-tom, timpani e... pentolame vario.

Il brano è in 5 movimenti, senza soluzione di continuità, ciascuno dei quali ha una sua differente fisionomia: il quarto ad esempio è ispirato da un antico testo ebraico intonato dal solista (Rubino ha sfoggiato una bella voce da contralto...) che ci rammenta come noi esseri viventi non siamo che parte integrante dell’universo.

Ammesso che siamo di fronte a musica che si faticherebbe a definire... classica, resta la sua gradevolezza e la sua godibilità. E poi è un piacere di per sè ascoltare (e guardare!) il fenomeno Rubino! Che il pubblico ha subissato di ovazioni, ricambiato da una geniale esecuzione (a voce senza parole) della celebre AveMaria di Gounod
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Liszt e Wagner ancora non erano parenti quando composero i due lavori che aprono e chiudono il programma: il quarto dei poemi sinfonici dell’ungherese è del 1854, mentre la Handlung fu sbozzata a partire da quel medesimo anno e poi completata nel 1859. La relazione di parentela ufficiale intervenne solo nel 1870, con il matrimonio di Richard e Cosima (lasciata libera da vonBülow) i quali peraltro avevano già reso Ferenc (di soli due anni maggiore di Richard) tre volte nonno!

Ma il legame di parentela fra i due non si ferma ovviamente all’aspetto anagrafico, essendo ben più forte quello artistico ed estetico. Che si era stabilito ben prima che sopraggiungesse quello famigliare: Liszt era stato fra i primi ad intuire le qualità delle opere di Wagner e in particolare aveva tenuto amorevolmente a battesimo, nel 1850 a Weimar, il Lohengrin, ai tempi in cui Wagner era esule dopo i moti di Dresda (e Wagner nel 1852 lo ringraziò pubblicamente, nella prefazione all’edizione manoscritta della partitura, dedicandogli il lavoro ed esaltandolo come colui che l’aveva salvato dall’oblio). La stima di Liszt per il futuro genero non cessò mai, a dispetto delle divisioni che separavano i due riguardo l’antisemitismo di Wagner, che il cattolico (abate!) Liszt condannava come un’incomprensibile ossessione. Durante il ricevimento alla chiusura delle prime rappresentazioni del Ring a Bayreuth (1876) Wagner indicò pubblicamente Liszt come colui che aveva reso possibile il suo successo.

Fra i due brani in programma - per quanto diversissimi come genere e struttura - si può scorgere qualche vicinanza: Orfeo e Tristan celebrano la sublimazione dell’amore; entrambi perdono l’amata nella luce solare, la conquistano o riconquistano nelle tenebre, per poi riperderla al ritorno del giorno... Addirittura la prefazione che Liszt scrive alla partitura dell’Orpheus (la lode dell’Arte e della Musica in particolare come strumenti di edificazione dello spirito umano e di lotta contro la barbarie della società) sembra richiamare le sfrenate ambizioni di Wagner (non a caso aperto ammiratore di questo poema sinfonico) che si autostimava come un messia che redime la società attraverso l’Arte, considerata alla stregua di una nuova Religione.  
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Come altri poemi sinfonici di Liszt, anche Orpheus ebbe un’origine curiosa: prima di ribattezzarlo come Symphonische Dichtung, Liszt lo compose e lo eseguì come anteprima per una rappresentazione a Weimar della versione francese dell’Orfeo di Gluck, quella curata da Hector Berlioz, di cui Liszt fu fin da giovane fervente ammiratore e seguace. Ecco quindi ripristinato quel filo rosso (Berlioz > Liszt > Wagner) che tanta parte ha avuto nell’evoluzione della musica nell’800 (e ben oltre!)

Significativo l’impiego che Liszt fa - fin dalle prime battute - di ben due arpe: certo giustificato dal richiamo alla lira di Orfeo, ma che è debitore al Berlioz della Fantastica (Un bal...) e che il megalomane Wagner spingerà all’eccesso con le sette arpe (!) prescritte per il suo Rheingold, coevo dell’Orpheus!    

Altra relazione con Wagner si trova nell’intervento del corno inglese, che poco prima della chiusura nell’etereo DO maggiore espone una breve melopea che non può non ricordarci l’incipit di quella interminabile che lo strumento suona all’inizio del terz’atto del Tristan. 

Il brano si struttura macroscopicamente come ternario (A-B-A) con una breve introduzione e una coda conclusiva; le tonalità di fondo sono DO (sezione A) e MI (sezione B). In sostanza la melodia è quasi monotematica, un tema che viene sottilmente variato lungo l’arco del brano.
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L’agogica prevalente è piuttosto sostenuta, come possiamo constatare in questa ispirata interpretazione di Kurt Masur a Lipsia: si parte con un Andante moderato; l’Introduzione (7”) è affidata a corni e arpe (le quali accompagneranno la melodia sin quasi alla fine) con dolce tappeto dei legni. A 37” inizia la sezione A con il tema principale, in DO maggiore, tema che si sviluppa con leggere variazioni e con una breve piccola accelerazione, per poi rallentare fino a sfociare (2’08”) modulando a MI maggiore, nel Lento della sezione B. Qui il tema è ancora sottilmente variato, con lunghezze dimezzate che compensano la maggior lentezza del tempo. Il quale (3’35”) comincia ad accelerare impercettibilmente, poi (5’10”) più marcatamente, in corrispondenza del ritorno a DO maggiore (la ripresa di A) per sfociare (5’47”) in un Andante con moto; dove il tema principale viene ribadito con più enfasi e a piena orchestra. Il tempo ora torna a degradare fino al Lento (6’49”) dove il tema è ripreso in forma variata e quindi (7’36”) ancora a piena orchestra nella sua forma originale. Ecco quindi (8’16”, Poco ritenuto) il già citato intervento del corno inglese, che conduce alla Coda (8’48”, Ritardando). Essa è costituita da una sequenza di nove accordi che sintetizzano mirabilmente il viaggio di Orfeo agli Inferi e ritorno: dal DO maggiore si muovono a LA maggiore, SOL minore, MIb maggiore e FA# maggiore (eccoci negli abissi, il più lontano possibile - nel circolo delle quinte - dal DO della luce) per tornare al DO maggiore conclusivo. Sono archi e legni a suonarli, cui si aggiungono gli ottoni e i timpani nelle ultime 6 battute, mentre significativamente le arpe tacciono, quasi ad osservare stupefatte Orfeo che... sale alle sfere celesti.
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Pregevole davvero l’esecuzione, che il non oceanico pubblico gratifica di convinti applausi. 
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E per finire, un... bigino di Tristan-und-Isolde, uno di quelli predisposti dal grande Leopold Stokowski. Che ha il solo difetto di concentrare troppo il piatto da gustare. Come se di un panettone si tenessero buoni soltanto i canditi, la copertura al cioccolato e la guarnizione di crema... roba da indigestione! 

Il brano, che dura circa 35 dei 230 minuti dell’intera opera, è un assemblaggio di tre sue parti sostanziose (Preludio, duetto atto II e Liebestod) e di alcuni frammenti che fanno da riempitivo. Precisamente così (minutaggi dalla registrazione sopra segnalata): 

minutaggio
contenuto
riferimenti
     10” - 10’10”
Preludio (completo)

10’11” - 11’40”
Atto I: finale Scena IV
da I: Für tiefstes Weh a K: Herr Tristan
11’41” - 13’06”
           inizio Scena V
Entrata di Tristan da Isolde
13’07” - 13’31”
battute aggiunte

13’32” - 14’16”
Atto II: inizio Scena I
Corni da caccia in lontananza
14’17” - 24’25”
            Scena II (T-I)
da 16 battute prima di T: O sink’ hernieder
a T: Laß den Tag dem Tode weichen
24’26” - 25’51”
Atto III: scena I
da T: Sie lächelt mir Trost
a T: Wie schön bist du
25’52” - 26’05”
battute aggiunte
modulazione MI - LAb
26’06” - 29’38”
Atto II: Scena II (T-I)
da T: Starben wir, um ungetrennt
a T: Muß ich wachen
29’39” - 32’26”
            Scena II (T-I)
da I-T: O ew’ge nacht a I: Ohne scheiden
32’27”
Atto III: Liebestod
da I: Höre ich nur diese Weise

La scelta degli ingredienti si può discutere, e lo stesso Stokowski (oltre ad occuparsi anche di Ring e Parsifal) predispose più di un’ulteriore variante di queste Symphonic Syntheses, operazione che del resto era proprio stato Wagner ad inaugurare con la sua accoppiata da concerto Vorspiel-Liebestod.

Axelrod, che non nasconde la sua infatuazione per quest’opera, ci mette tutto se stesso per rendercela apprezzabile, e devo dire che i suoi sforzi sortiscono un discreto effetto. Certo, per chi ha una minima conoscenza del Tristan, la sensazione di ascoltare qualcosa di innaturale e irrisolto è fatalmente presente, ma si spera almeno che qualche neofita si aggiunga alla lunga lista degli innamorati! 

Per il momento registriamo con piacere come l’Orchestra abbia saputo rendere in modo davvero apprezzabile queste atmosfere cariche di Sehnsucht (termine intraducibile, che incorpora concetti quali: anelito, struggimento... magone) che Wagner ha saputo mirabilmente evocare con la sua musica. Alla fine interminabili applausi per tutti, inclusi quelli dei ragazzi al Direttore.  

07 febbraio, 2020

Il Trovatore del lettone


Ovviamente da leggersi lèttone! Ieri il Trovatore museale ha avuto il suo battesimo in un Piermarini abbastanza affollato e pure... cattivello. Che fa rima con... Trovatello (!?!) Ma andiamo con ordine, cominciando con la compagnia di canto.

Il protagonista Francesco Meli è stato il vincitore (non trionfatore, chè nessuno ha trionfato) della serata. Lui ormai garantisce un livello sempre assai alto di prestazione, grazie alla sua professionalità e alla sua preparazione. Date le sue caratteristiche... somatiche (parlo della voce, ovviamente) oserei quasi dire un’apparente bestemmia, cioè che lui sia forse il più verdiano dei Manrichi, nel senso che non si adegua (non ne avrebbe le risorse naturali) ai tenori di tradizione, quelli di approccio eroico e dal do-di-petto facile, che non è detto fossero proprio l’ideale del compositore. Però, per coerenza, consiglierei a Meli di ignorare quanto quei tenori di tradizione hanno inventato, ad esempio eseguendo la Pira senza gli acuti apocrifi (tanto più se sono SI e non DO). Prova ne sia che il suo Ah sì, ben mio è stato accolto con grandissimo calore, mentre il successivo All’armi ha suscitato non poche perplessità.

Liudmyla Monastyrska ha dignitosamente impersonato Leonora, mostrando in particolare grandi doti di portamento e di nobiltà nel canto a fior di labbra (apprezzatissimo il suo D’amor sull’ali rosee) mentre gli acuti a piena voce mostrano purtroppo qualche stimbratura e i centri non sono propriamente al meglio. Tuttavia il pubblico, cui mi associo in pieno, l’ha gratificata di un buon successo.

Il terzo vertice del triangolo (Massimo Cavalletti come Luna) è il vertice di un triangolo con la base in alto (!) Cioè l’unico (fra gli addetti ai suoni) a ricevere robusti buh all’uscita finale. E in effetti lui troppo spesso più che cantare vocifera, e ciò non si può giustificare col fatto che il personaggio da interpretare sia il cattivo di turno, chè anzi il cattivo - nell’opera lirica - è tanto più apprezzato quanto meglio canta (vedi Iago, Alberich, Mefistofele e compagnia).

Fuori dal triangolo (amanti vs rompipalle) c’è il personaggio più robusto, anche musicalmente, dell’opera: la sbifida Azucena. Violeta Urmana la canta da una vita e anche solo per questo fa sempre un figurone. Certo, oggi anche per lei gli anni (quasi 60) cominciano a pesare, ma insomma... avercene.

Chi mi ha fatto ottima impressione è Gianluca Buratto, un Ferrando autorevole e sicuro (non fosse altro che per la responsabilità che si ritrova a dover rompere il ghiaccio). Ampia sufficienza per gli accademici Caterina Piva (Ines), Taras Pryziashniuk (Ruiz) e Giorgi Lomiseli (Zingaro) e per l’ex-accademico Hun Kim (messaggero).

Mario Casoni ha come sempre garantito una prestazione di buon livello del coro, che peraltro in un paio di frangenti mi è parso in... asincronia con Luisotti, chissà per colpa di chi.

Ed ecco appunto il Direttore. Ho colto alcuni chiari mugugni dal loggione, dopo il primo atto, che non erano immeritati, ma allora perchè poi perdonarlo alla fine? Visto che (mi pare) nei tre atti successivi non ha fatto ne’ peggio nè meglio. La sua è una direzione che definirei approssimativa, con qualche eccesso di fracasso gratuito, più di una gigionata sui tempi e con più di uno scollamento con il palcoscenico, anche se non arriverei a parlare di disastro. L’Orchestra ha evidentemente seguito (ed eseguito...) l’approssimazione del Kapellmeister. Di solito sono cose che succedono se si ha provato poco, chissà se nelle prossime recite le cose andranno meglio.
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Disfatta clamorosa invece per il team di Alvis Hermanis, letteralmente subissato di improperi all’uscita finale. Devo dire che non mi sono associato agli improperanti, per un paio di ragioni.

La prima è che al legista lettone va dato atto di non aver inventato le solite stupidaggini, tipo ambientare la vicenda fra cosche mafiose o bande di ragazzacci del Bronx, nè di proporre strindberghiane crisi della società borghese: la sua trovata di far raccontare la storia ad addetti di un museo in cui ambientarla sarà certo della serie famola strana, ma appunto fa pochi danni.

Fa colpo l’impiego, in scene e costumi, di 100 varietà di rosso, che forse vogliono tradurre cromaticamente il concetto che il Trovatore è un’opera di morti. Quanto ai dipinti della pinacoteca, mi è parso di cogliere che ad Aliaferia e al chiostro siano a soggetto religioso, mentre a Castellor sono a soggetto laico: non so se per il regista sia questo un modo per distinguere le due forme di società che si contrappongono nell’opera. Alla fine i quadri di Castellor vengono accatastati per esser dati alle fiamme (altra vampa) ad Aliaferia, ma poi anche quelli di Aliaferia spariscono (sempre per via di... tutti morti?)

La seconda ragione di non-dissenso è la recitazione dei personaggi e la gestione dei movimenti delle masse: sui quali aspetti della regìa non solo non mi sentirei proprio di infierire, ma al contrario spenderei qualche meritato apprezzamento.

Il definitiva, una proposta accettabile della quale casomai mi vien da sospettare l’efficacia del cosiddetto price/performance, che temo (visto che paga pantalone) sia purtroppo esorbitante.

02 febbraio, 2020

Il Trovatore al museo della Scala


Arriverà fra poco a Milano da Salzburg (per disinteressata intercessione di Alex Pereira) il Trovatore reinventato nel 2014 dal visionario Alvis Hermanis (di lui qui al Piermarini ricordo un cervellotico Soldaten del 2015, un passabile Foscari e una discreta Butterfly del 2016) che ci porterà a visitare un museo milanese, che evidentemente impersona con grande fedeltà la Spagna di fine 1300 - inizio 1400 (evabbè...)

In attesa... qualche cazzeggio, visto che sull’opera si è scritto di tutto e di più. Segnalo quindi un paio di curiosità, cominciando dal libretto. Come si sa, Salvadore Cammarano lo scrisse ispirandosi all’omonimo dramma in versi in cinque giornate di Antonio García Gutiérrez. Protagonisti sono due uomini (il Conte di Luna e Manrico) che fino alla fine non sanno di essere fratelli e sono innamorati della stessa donna (Leonora).

Ora, il ferreo capitolato tecnico del melodramma ottocentesco prescrive la presenza in scena di un triangolo di voci: soprano, tenore e baritono (altre tessiture ad-libitum se proprio si vuol esagerare). Il soprano e il tenore sono invariabilmente e reciprocamente e pure perdutamente innamorati. Il baritono è anche lui perdutamente innamorato (di solito del... soprano!) e fa quindi la figura del guastafeste e dello stalker.

Perchè il dramma stia in piedi è preferibile che il baritono sia persona di potere (altrimenti verrebbe facilmente snobbato) mentre il tenore è di solito un tipo di origini modeste ma di grandi qualità, in modo che il pubblico fin da subito parteggi per lui contro il baritono. Il soprano sarà tipicamente una dolce e integerrima signorina, pronta ad ogni sacrificio, anche della vita, per difendere il suo tenore e difendersi dal baritono.  

E così il libretto di Cammarano ci presenta il baritono nei panni del Conte di Luna, ricco, potente e... prepotente; e il tenore in quelli di Manrico (suo fratello a loro insaputa) un tipo squattrinato, sedicente figlio di una zingara, ma anche idealista, che sbarca il lunario mescolandosi a bande di rivoluzionari e dedicandosi ad attività canore. Il tenore mostra anche grande magnanimità, allorchè (consigliato da una specie di sesto-senso) risparmia la vita al baritono, ormai vinto in duello; mentre il suddetto baritono non esita in cambio a ferire il tenore, nella successiva battaglia. La sua protervia si manifesta poi nel modo con cui tratta il soprano: subito prima di cantarne le lodi in una grande aria (quella del... dardo, haha!) lui ha mostrato di considerarla una donna-oggetto, una cosa di sua proprietà (Leonora è mia!)

Le considerazioni fatte, insieme alla constatazione che (si scoprirà definitivamente alla fine) baritono e tenore sono fratelli, portano necessariamente a stabilire che il baritono sia (poco o tanto) più anziano del fratello tenore. E infatti Ferrando racconta, proprio all’inizio dell’opera, le vicende dei due fratelli ed esclama: fida nutrice del SECONDO nato dormia presso la cuna. E il secondo nato è appunto quello poi scomparso e sospettato di essere stato sequestrato e quindi mandato arrosto dall’infernale Azucena per vendetta contro la messa al rogo della di lei madre, ad opera del padre dei due fratelli.

Quindi: tutto a posto... ? Ma allora, dove sta la curiosità cui ho fatto cenno più sopra? Nel fatto che, in Gutiérrez, l’età dei due fratelli è precisamente invertita: è Manrique (Juan) il maggiore, mentre il Conte (Nuño) è più giovane di due anni! Racconta infatti JimenoDon Nuño, el menor de entrambos. Per conferma, aggiunge poco dopo: Una noche penetró hasta la cámara propia del mayor, una gitana harapienta y quintañona.

Però nell’opera lirica sarà difficile che il baritono sia più giovane del tenore. Lì la tessitura vocale viene regolarmente assegnata in base all’anagrafe: tenore=giovane; baritono=maturo; basso=anziano. Insomma, il rispetto delle regole del gioco del melodramma imponeva persino di falsificare i certificati di nascita dei protagonisti!

E anche di addolcire un poco certe... ehm, spigolosità del linguaggio di Gutiérrez: nelle ultimissime battute del cui dramma Azucena grida al Conte esterrefatto: él es... tu hermano, imbécil!
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E ora il tormentone della cabaletta più nota e bistrattata di tutto Verdi: la pira! Il tenore la canta in DO o in SI? E ripete o no l’esposizione?

Verdi la struttura così (numero di battute): prima esposizione (38); tempo di mezzo (intervento di Leonora in DO minore, 11); pedestre riesposizione (38); coda con pertichini del coro (38); e chiusura strumentale (8).

La tonalità è DO (maggiore-minore) e la nota più alta toccata (5 volte nell’esposizione) è il LA acuto (!) L’ultima nota reiterata dal tenore è la dominante (un SOL acuto).

Beh, dove sta il problema? Qualunque tenore che si rispetti può farcela, o no? Ma poi è arrivata la tradizione esecutiva di tenori dal DO-di-petto facile che hanno inventato di sana pianta, sul teco almeno della ri-esposizione e sul finale all’armi!, il famigerato DO4 (che Verdi mai esplicitamente autorizzò, limitandosi al massimo a tollerare il secondo...)

Dopodichè a qualcuno fare due volte l’esposizione e due volte un DO4 è parso evidentemente troppo rischioso, e così si è cominciato col tagliare l’intervento di Leonora e la ri-esposizione, spostando il DO4 alla prima.

Ma non è finita qui: la tradizione ha fatalmente imposto le sue ferree regole e il pubblico ha cominciato a pretendere il DO4 da tutti i tenori. Ma allora quei tenori che il DO4 hanno difficoltà a staccarlo, o che forse lo potrebbero staccare, ma non si arrischiano a farlo? Chiunque penserebbe alla soluzione più logica (oltre che filo-logica!): tornare al Verdi d.o.c. che non va oltre il LA. Peccato che un tenore che facesse ciò verrebbe ormai considerato un minus-habens e irriso sulle pubbliche piazze. E così la moda dell’acuto a tutti i costi ha partorito un’ancor più grande ipocrisia: per turlupinare il pubblico-bue e fargli credere a millantati DO di petto, si abbassa tutta la cabaletta di un semitono, portandola al SI! Per curiosità, ecco dove si trova il bivio che porta o al DO o al SI:
Se il tenore, sul fi(-glio) invece di salire al LA naturale, si ferma al LAb (cosa musicalmente plausibile, chè non crea alcun problema all'orecchio dell’ascoltatore) è fatta: da lì in avanti tutto il resto è abbassato di un semitono, cabaletta compresa… poi tanto finisce l’atto e chi s’è visto s’è visto!

Chi si vuol divertire (si fa per dire...) può andare su youtube (munito di tastiera, materiale o informatica) e cercare di quella pira... e troverà una quantità industriale di riferimenti, scoprendo ad esempio che tenori (DelMonaco, Pavarotti, Domingo, per far solo alcuni nomi illustri...) da giovani eseguivano i DO e da... maturi abbassavano al SI. O che Bonisolli, Corelli e DiStefano si sparavano i DO a gogò, e così via. Interessante il doppio-Licitra:  a SantAmbrogio 2000 (Muti imperante!) esegue il Verdi originale; poco dopo, alla ROH (con Rizzi) si fa anche i due DO4.

Fra pochi giorni a Milano ci sarà Francesco Meli, cimentatosi da anni nella parte, che sempre (salvo prova contraria) ha cantato la cabaletta in SI: così fece a Salzburg nel 2014 e anche qui alla ROH (ripetendo peraltro l’esposizione). 

Staremo a vedere e - soprattutto - sentire!

01 febbraio, 2020

laVerdi-19-20 - Concerto n°14


Il fresco-di-nomina Direttore Musicale della Detroit Symphony Orchestra, Jader Bignamini, sale sul podio dell’Auditorium per dirigere (avendo a novembre scorso saltato il precedente) l’unico suo concerto della stagione 19-20.

Impaginazione di stampo classico, con un brano di apertura seguito da concerto solistico e da sinfonia. Ma l’apertura in questo caso non è un’ouverture o un pezzo brillante, bensì una composizione nuova di zecca e in prima esecuzione assoluta, opera commissionata da laVerdi ad Alessandro Melchiorre, intitolata Dal Buio. Ecco come l’Autore ne descrive sommariamente lo svilupparsi:

Il brano, dopo un esordio molto calmo - gli archi soli accompagnati dal suono suggestivo del superball, una particolare bacchetta usata dai percussionisti su tam tam e timpano grave - segue una crescita naturale caratterizzata dall’addizione delle diverse famiglie strumentali (agli archi dapprima si aggiungono i legni e infine gli ottoni) e procede per successive ondate sino a un climax dopo il quale il movimento di diverse melodie che si intrecciano perde energia e ritorna - con qualche variante - a una situazione affine a quella dell’esordio.

Sono poco più di 15 minuti di suoni che ci arrivano come in... sogno (all’inizio e alla fine si fa buio completo): un tappeto di note lunghissime (all’inizio un RE) che via via si anima e si arricchisce di contributi delle diverse sezioni orchestrali, percussioni comprese, mentre torna la luce in sala. Il brano compie un ampio arco per tornare lentamente, con il riabbassarsi delle luci, alla calma, mentre un violino solista (quello della seconda spalla Dellingshausen, collocato in alto, all’estremità sinistra della galleria) ci riaccompagna verso la quiete primordiale (lo stesso RE che aveva aperto il brano).

Brano che ha una sua efficace narrativa, e si fa apprezzare per la sobrietà del flusso sonoro, che induce riflessione e stuzzica la fantasia. Insomma, un’opera moderna che rifugge da certo stucchevole modernismo. Il pubblico ha apprezzato, con calorosi applausi ad Autore ed interpreti.
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Segue il rampante Luca Buratto (artista residente) che si cimenta con il Concerto in SOL di Maurice Ravel. Che lui dice di amare assai e lo si vede sente, da come lo affronta con approccio quasi ascetico (e non solo nel mirabile Adagio centrale). Le reminiscenze jazzistiche sono per lo più lasciate agli strumenti (clarinetto piccolo in testa) mentre Luca, che mi pare maturato anche dal punto di vista... comportamentale (meno dimenamenti) si concentra sulla cantabilità e affronta da par suo le impervie sfide tecniche poste da questa difficile partitura.

Agli applausi scroscianti di un pubblico assai folto lui replica con ben due encore: il Menuet (n°5) dal raveliano Tombeau de Couperin e il lungo ma strepitoso Allegro grazioso dalla Sonata K333 del Teofilo.
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A chiudere ecco la Fantastique di Hector Berlioz, che Bignamini ha appena diretto (domenica 26/1) a Detroit proprio per festeggiare la sua fresca nomina laggiù.

Che dire? Esecuzione travolgente, ma... non sempre ciò è sinonimo di accuratezza e rigore. Mi è parso di cogliere in Bignamini troppe libertà nell’agogica e nelle dinamiche (eccezion fatta per l’impeccabile Scène aux Champs) e una enfatizzazione eccessiva (per me) dei contrasti: insomma, la ricerca di facili effetti a buon mercato (non è che il nostro si stia per caso già adeguando al pubblico yankee, notoriamente propenso a farsi prendere da facili entusiasmi?)

In ogni caso pure il pubblico milanese si è entusiasmato e lo ha subissato di applausi, anche ritmati. Buon per lui e tanti auguri per la sua avventura americana!

27 gennaio, 2020

Tristano-2 a Bologna


La seconda recita del bolognese Tristan und Isolde ha visto in scena i due protagonisti del (cosiddetto) secondo cast, Bryan Register e Catherine Foster, che hanno rimpiazzato la coppia titolare (Vinke-Petersen) esibitasi lo scorso venerdi. Devo dire che (almeno ricordando l’ascolto radiofonico) i due secondi non mi son parsi inferiori agli alfieri.

Ovviamente è rimasto il barbaro taglio del gran duetto dell’atto secondo, che mi lascia sempre l’amaro in bocca nelle orecchie e nel cervello, ma tant’è, accontentiamoci di tutto ciò di positivo che comunque questa produzione ci ha propinato.

A cominciare dalla Direzione di Juraj Valčuha, che già mi aveva impressionato (almeno riguardo l’agogica) all’ascolto radiofonico (i tempi sono stati praticamente identici a quelli della prima) e che ieri ha fatto altrettanto anche sotto il profilo delle dinamiche (che dalla radio arrivano sempre inevitabilmente distorte). L’intero Preludio e l’attacco dell’atto terzo sono per me (e non solo per me) la cartina di tornasole che rivela l’eccellenza di un’interpretazione, e il Direttore slovacco ha superato la prova in modo impeccabile. Ma ovviamente il giudizio positivo va doverosamente esteso all’intero arco delle quasi quattro ore di musica, e necessariamente alla prestazione maiuscola dell’orchestra, che evidentemente deve essersi preparata in modo particolare per questo appuntamento.  

Bryan Register (già protagonista nell’edizione belga dello scorso anno) non sarà certo un Tristan che passerà alla storia, ma la sua prestazione è stata apprezzabile sotto il profilo della sensibilità intrepretativa. La voce non è (più?) stentorea ma ancora ben proiettata e la tenuta alla distanza è stata più che soddisfacente.

Catherine Foster ha un gran vocione, ma un po’ fuori controllo, come testimoniano gli acuti stentorei ma spesso poco puliti (un paio di calate e proprio il conclusivo Lust ghermito alla sperindio); centri non troppo solidi e scarsamente penetranti. Lei è stata un’Isolde arrabbiata (una maschera davvero luciferina) dalla presenza scenica invadente.

Discreta la Brangäne di Ekaterina Gubanova, che si è fatta apprezzare nei due interventi nel duettone (sfrondato...) del second’atto.

Il Kurwenal di Martin Gantner mi ha abbastanza convinto: voce solida e ben impostata, sempre passante e... perfettamente comprensibile. Ammirevole, per portamento e presenza, l’inossidabile Albert Dohmen, un Marke nobilissimo e commovente.

Degli altri due comprimari ho apprezzato Klodian Kaçani, come marinaio, bravo anche a rompere il ghiaccio al levar del sipario; come Pastore, normale amministrazione. Dignitoso Tommaso Caramia, che aveva le due parti più contenute della compagnia.

Efficace il coro maschile di Alberto Malazzi, che accompagna con i suoi interventi, culminanti nella trionfale chiusa del prim’atto, il viaggio da Irlanda a Cornovaglia.
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Tristan - si sa - è un’opera quasi impossibile da rappresentare in modo efficace, tale è la sua astrazione da qualunque clichè tradizionale. Lo scoprì per primo proprio... Wagner! Personalmente detesto le interpretazioni secolarizzate (mi viene in mente Guth) poichè ci presentano la materia prima grezza e prosaica invece del prodotto finito distillato da Wagner, un’entità astratta che vive nello spazio metafisico.

Ecco perchè ho apprezzato assai l’impostazione del regista Ralf Pleger e del suo scenografo Alexander Polzin, che hanno cercato (magari con alterni risultati) di guidarci alla scoperta di questo universo immateriale, spogliato da ogni drammaturgia, per lasciar posto esclusivamente alle oscure sensazioni (uso un termine mahleriano) che solo la musica (questa musica!) sa suscitare nel nostro animo.
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Pubblico folto (ma con diverse poltrone vuote) e comunque ben disposto e prodigo di applausi per l’intera compagnia di musicanti e allestitori. Insomma - torno ad usare la mia metafora sportiva - una partita di alto livello in serie-A2!

(E infine grazie a Bologna ed Emilia per aver ridimensionato un buzzurro che l’arte non sa nemmeno dove stia di casa...)

26 gennaio, 2020

La Violanta torinese


Ieri pomeriggio al Regio (ahinoi non proprio semivuoto, ma c’è mancato poco...) è andata in scena la terza delle cinque recite di Violanta, che il teatro torinese ha meritoriamente portato per la prima volta in Italia dopo un secolo abbondante dalla comparsa a Monaco di Baviera (martedi 28 marzo, 1916).

Dico e affermo trattarsi di un’opera che dovrebbe avere almeno (se non più...) la stessa considerazione (parlo di cartelloni e pubblico) di una Cavalleria o di una Fedora, per dire. E il merito va soprattutto alla musica di questo ragazzo diciassettenne che rivaleggia con i mostri sacri Strauss e Puccini, e sovrasta di quache spanna musicisti (nostrani e non) che pure trovano frequente ospitalità sulle nostre scene.

Musica che è stata assai bene illustrata dalla direzione dell’ispirato Pinchas Steinberg, che ha guidato un’Orchestra in ottima forma, capace di rendere al meglio le atmosfere ora liriche, ora drammatiche che la partitura ci propone. Di ottimo livello la prestazione del Coro di Andrea Secchi, chiamato ad un compito più arduo a livello di qualità che di quantità, ma assolto con grande profitto.

Le voci con luci ed ombre: Annemarie Kremer è una Violanta invidiabile sul piano scenico (chi non sarebbe soggiogato dal suo fascino di femme-fatale?) e a corrente alternata su quello strettamente vocale: acuti da autentico soprano drammatico, ma centri debolucci... Michael Kupfer-Radecky assai efficace come Simone: voce ben impostata e potente, atteggiamenti appropriati al personaggio di militare-tutto-d’un-pezzo cui casca addosso il mondo senza che lui se ne dia una ragione.

Il principe-illegittimo, nonchè dongiovanni, Alfonso è Norman Reinhardt, che per la verità dovrebbe avere caratteristiche vocali quasi da Heldentenor, e invece ha una voce da tenorino lirico, con scarsa proiezione: la sua è una prestazione non più che discreta. Come quella del pittore gaudente Giovanni Bracca, interpretato da Peter Sonn.

Efficace e convincente Anna Maria Chiuri, una Barbara amorevole e dolcissima nella sua ninna-nanna a Violanta. Gli altri comprimari (vedi locandina) tutti all’altezza dei rispettivi compiti.
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Il venerabile PierLuigi Pizzi firma un’allestimento (regìa, scene e costumi, più le luci di Andrea Anfossi) davvero degno della sua fama: scena fissa, come pretende il libretto (la sala del palazzo di Simone sulla Giudecca) arredata solo con un paio di sofà e un tavolino, con un’enorme apertura circolare sul fondo, che dà sull’... infinito (la laguna dove transitano gondole e dalla quale arrivano le voci del carnevale). Costumi di inizio ‘900 (uniformi miitari di Simone e sottoposti) e di mascherine; un abito lungo, sberluscicante e attillatissimo-scollato di Violanta a valorizzarne il prorompente sex-appeal; Alfonso vestito (ma è in maschera anche lui!) da Papageno (metafora del galletto che si fa tutte le gallinelle?) Recitazione assai curata in ogni dettaglio.

Insomma, uno spettacolo di alto livello che il pubblico degli affezionati ha salutato con gran calore. Chi appena può non trovi scuse per mancare una delle ultime due recite!

(Ora però devo partire per Bologna dove, oltre a Salvini, incombe... Tristan!)

25 gennaio, 2020

Tristano (monco e deturpato) a Bologna


Ieri il Bibiena ha ospitato la prima recita di Tristan und Isolde. Perchè monco? Ma perchè - come è purtroppo costume deteriore - è stato amputato di una parte essenziale del duetto del second’atto. Già in altra occasione ho spiegato perchè - fosse anche splendida l’esecuzione - non potrei considerarla di serie-A. É un vero peccato che Bologna, una seconda patria per Wagner, non abbia voluto (potuto?) rispettare l’integrità di questa partitura, che ha nientemeno che condizionato tutta la musica composta dalla sua comparsa.

L’ascolto su Radio3 ha messo in luce (a mio avviso) le grandi qualità del Direttore, il redivivo a Bologna Juraj Valčuha, per il resto mi astengo da giudizi sempre aleatori dopo ascolti di tal fatta.


Due parole sulla durata dello spettacolo (iniziato quasi 20 minuti dopo le 18 anche, non solo, per un doveroso omaggio al gran vegliardo Marino Golinelli, benefattore del teatro, avendo generosamente offerto il restyling della platea). Il sito del Comunale porta la seguente indicazione (si presume derivata dai tempi della generale): 75+75+70 = 220 minuti di musica e 30+30 = 60 di intervallo; totale: 280 minuti. Ieri i tempi registrati sono stati, all’incirca: 80+70+80 = 230 e il totale lordo 300 (quindi sia musica che intervalli più lunghi del previsto).

Perchè deturpato? Perchè alla fine un troglodita è riuscito a rovinare precisamente l’ultima battuta del Liebestod, con uno schiamazzo che meriterebbe la galera, come si addice a chi deturpa un dipinto o una scultura in un museo!

(Commenti nel merito più avanti.)

23 gennaio, 2020

Il Maeschtre è tornato alla Scala


Ieri sera Riccardo Muti è tornato - dopo quasi tre anni - a calcare il podio scaligero. Portandosi ancora dietro... tutta la numerosa famiglia americana, con la quale sta girando mezza Europa e dopo aver già fatto soste a Napoli e Firenze, due città che - ma chissà poi perchè - pare gli siano molto care.

Come a Napoli e a Firenze (dove si è registrato il tutto-esaurito da settimane) anche il Piermarini era affollato, anche se non proprio come un barile di sardine... Dove Muti ha eseguito lo stesso programma presentato proprio lo scorso lunedi all’OF: programma davvero impegnativo, oltre che interessante dal punto di vista dei contenuti. Val la pena sottolineare il diverso grado di oggettiva difficoltà (per l’ascoltatore, quindi per il pubblico) dei due programmi italiani (Ouverture wagneriana a parte): quello di Napoli (il Prokofiev trascinante di Romeo&Giulietta e l’inflazionato Dvorak del Nuovo Mondo) è fatto di musica, per così dire, facile, che si può godere anche ad un ascolto passivo, tanto accattivanti sono temi e motivi che la innervano. Quello di Firenze-Milano (presentato anche nella prima delle tre fermate viennesi della tournée della CSO) propone due sinfonie poco conosciute al vasto pubblico, proprio perchè sono musica piuttosto ostica, cerebrale, di non immediata presa.

Credo difficile pensare che questa differenziazione di programmi (tra NA e FI-MI) sia stata frutto del caso o di scelte fatte tirando la monetina o condizionate da qualche esigenza tecnica, e non sia invece stata influenzata anche da ragioni... geopolitiche (ciascuno ne tragga poi le conclusioni che crede!)

Così anche ieri alla Scala, dopo l’Ouverture dell’Holländer, sono state eseguite due Sinfonie che ebbero curiosamente gestazioni simili (e assai complicate) negli anni ‘30 e ‘20 del ‘900: entrambe infatti furono composte impiegando materiale di opere teatrali che gli autori stavano completando o che avevano appena completato, ma che avevano difficoltà a mettere in scena. Mathis der Maler fu composta da Hindemith nel ‘33-34, mentre l’opera vide la luce solo nel ‘38, e non in Germania, causa... Hitler. La Terza di Prokofiev è del ‘28-29, mentre l’opera L’Angelo di fuoco (del ‘22, cui la Sinfonia è debitrice) addirittura non sarà mai rappresentata vivente l’Autore.

Due lavori che sono anche vagamente accomunati da una componente, per così dire, mistica, pur se in scenari quasi agli antipodi: sinceramente religioso, nel raccoglimento come nel trionfo, quello di Hindemith; nobile, ma con accenti talvolta quasi sacrileghi quello di Prokofiev!
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Sull’eccelsa qualità della CSO è inutile dilungarsi; che circa 10 anni orsono abbia fortemente voluto come guida Riccardo Muti testimonia invece dell’alta considerazione in cui il Maeschtre è tenuto in tutto il mondo. E il rifiuto dei professori ad alzarsi, alla terza uscita finale, la dice lunga della stima di cui Muti gode dentro la compagine orchestrale.  

Fulminante il biglietto da visita con cui l’Orchestra si è presentata: l’attacco dell’Olandese, con gli archi (violini e viole) in un tremolo letteralmente tagliente! Muti ci ha poi messo del suo, chiedendo a corno inglese ed oboe la massima espressività nella presentazione del tema della Redenzione (la ballata di Senta) e poi evitando facili sguaiatezze nei motivi dei marinai norvegesi. Poderoso il pieno orchestrale in chiusura dell’Ouverture, accolta da ovazioni.

Mathis è una  composizione che meriterebbe più attenzione da chi programma concerti: ricordo una benemerita esecuzione de laVerdi nel 2013 (con Xian) ma non ci sono in giro molti casi analoghi. L’esecuzione di Muti con la CSO ha confermato la qualità di questa musica, che il Maestro ha ulteriormente valorizzato, accentuandone proprio il carattere di religiosità composta e nobile, quella ispirata alle pale dipinte dal pittore cinquecentesco a Isenheim.     

Della Terza del compositore ukraino Muti ha scavato le profondità espressioniste, così legate al soggetto teatrale cui già Prokofiev aveva dato forma anni prima, pur non essendo ancora riuscito a farlo rappresentare. È una musica che si fatica a digerire se si prescinde dalla sua sorgente, che invece le conferisce quella narrativa (il conflitto aspro e insanabile tra religione e stregoneria) che ce la rende apprezzabile, spiegandocene le apparenti contraddizioni.          

Alla fine Muti ha offerto lo stesso bis di Firenze, il mirabile Andante cantabile in MI maggiore dall’Intermezzo del second’atto di Fedora, dopo aver reso omaggio a Milano e a due musicisti cui deve tutto: il suo maestro e pigmalione Antonino Votto e il grande Gianandrea Gavazzeni. Poi ha fatto ciao-ciao a due mani e si è portato via i suoi ragazzi, tutti subissati da strameritati applausi...

20 gennaio, 2020

La Risurrezione di Firenze


Eccomi quindi a riferire della seconda recita (ieri pomeriggio in un’OF ben affollata - mentre pare che così non fosse alla prima di venerdi...) dell’alfaniana Risurrezione.

L’ascolto della prima su Radio3 mi aveva positivamente impressionato: non già per la qualità della musica, che è quella che è... ma per quella degli interpreti (voci e strumenti) che mi era sembrata di buon livello. E devo dire che l’ascolto dal vivo ha confermato sostanzialmente questa impressione.

Anne Sophie Duprels è stata la regina della serata: voce abbastanza solida e corposa di soprano lirico-drammatico, ha proposto una Katiusha convincente nelle tre diverse prospettive nelle quali il personaggio si materializza: l’ingenua, spaurita ma infine voluttuosa adolescente; la spoetizzata e involgarita condannata-prigioniera; e infine la donna che trova la via della redenzione, pur non rinnegando i suoi sinceri sentimenti legati al tempo dell’ingenuità. 

Degna di apprezzamento la performance del tenore Matthew Vickers, un Dimitri a momenti spavaldo, oppure sconvolto (la rivelazione del figlio perduto) o ancora sinceramente premuroso con Caterina e leale con Simonson. La voce, che Alfano impegna spesso e volentieri nell’ardua zona di passaggio, è squillante e abbastanza ben proiettata, gli acuti sono staccati senza problemi. I duetti con Caterina sono stati fra le perle della serata.

Il catto-comunista Simonson era Leon Kim, che ha affrontato a viso aperto una parte baritonale per nulla facile, per quanto limitata al solo ultimo atto, mostrando buona intonazione e sicurezza anche nelle impervie salite al FA e al SOL cui lo chiama la partitura.

Applauditissima Romina Tomasoni, che ha incarnato la Matrena Pavlovna e (nel second’atto alla stazione) la fedele e premurosa Anna.

Francesca Di Sauro (Sofia Ivanovna) e Ana Victoria Pitts (sdoppiatasi in Korableva e Vera) hanno completato il cast dei ruoi principali con pieno merito.

Benissimo il Coro di Lorenzo Fratini, di rilievo quantitativamente non debordante, ma fondamentale, con interventi a bocca chiusa e a cappella. In più, alcune voci femminili hanno ricoperto ruoli non marginali, in particolare nel terz’atto della prigione.

Francesco Lanzillotta ormai non è più una promessa, e la sua concertazione ne è testimonianza, per accuratezza e costante ricerca del miglior equilibrio dei suoni di voci e strumenti. Poi, nei diversi passaggi puramente strumentali, il Direttore fa tesoro della lunga esperienza alla guida di Orchestre Sinfoniche.
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L’allestimento è affidato a Rosetta Cucchi, che si avvale delle scene - essenziali, ma di sicuro impatto - di Tiziano Santi e degli appropriati costumi di Claudia Pernigotti. Le luci, ideate da D.M.Wood, sono curate da Ginevra Lombardo e nella loro essenzialità ben supportano l’ambientazione ora serena, più spesso cruda, dell’opera. 

Approntata per un appuntamento irlandese, questa messinscena si fa innanzitutto apprezzare per la fedeltà rigorosa (parlo della sostanza) al testo originale: la storia che ci viene raccontata è precisamente quella che esce dal libretto di Hanau. Dopodichè la regista ci deve mettere qualcosa di suo, come l’apparizione in scena di una bimbetta che rappresenta la Caterina nella sua infanzia spensierata; oppure ambientare il carcere in cui è rinchiusa la donna in un laboratorio di cucito, con una selva di macchine Singer, la cui presenza nella Russia del 1880-90 è dubbia; o ancora mostrarci nel quarto atto i binari di una Transiberiana che era con tutta probabilità ancora di là da venire... e altre cosucce francamente innocue, ecco. Assai efficace la resa dei personaggi e delle loro interazioni. Mirabile ed emozionante, senza scadere nel banale, la scena ultima, con l’apparizione di un luminoso paesaggio agreste nel quale si incontrano la Caterina risorta e la sua piccola controfigura.
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Che dire, in definitiva? Lo spettacolo è di ottimo livello e l’accoglienza del pubblico è stata oltremodo calorosa. Insomma, un'azzardata scommessa (chè tale era e rimane) ampiamente vinta!