affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

12 novembre, 2009

Antonio Pappano alla Scala

.
Tutto russo il programma con cui Antonio Pappano è stato ospite – 8, 10 e 11 novembre - della Stagione concertistica del Teatro alla Scala. Per quel complicato e un po’ levantino rapporto che intercorre fra Filarmonica e Teatro (dove si alternano e si mescolano i ruoli di cliente e fornitore) Pappano ha anche inaugurato sabato 7 – con diretta su Radio3 - la Stagione concertistica della Filarmonica, con un programma di poco diverso (Prokofiev invece di Shostakovich nel concerto solistico).

Ieri sera l’affluenza è stata buona, anche se non c’era proprio il tutto esaurito (molti vuoti nei palchi, e in effetti parecchi posti di palco erano offerti in internet ancora a due ore dal concerto). Magari quel Rachmaninov sinfonico può aver lasciato un tantino perplessi…

Un’occhiata all’Orchestra, che Pappano dispone secondo layout moderno, ma scambia seggiole e leggìi di violoncelli e viole, mettendo queste ultime in primo piano (forse per “rischiarare” il suono).

Si apre, come nelle migliori tradizioni concertistiche, con una pagina di grande effetto: l’Ouverture di Ruslan & Ljudmila di Glinka. I cronisti di Radio3 sabato anticipavano che Pappano la esegue con grandissima velocità. La partitura indica un metronomo di 140 minime al minuto (anzi in una copia 135) e farla a gran velocità significherebbe imitare questo Mravinsky, che la attacca addirittura a 180! Diciamo che Pappano, ad orecchio e croce, ha rispettato (sia sabato che ieri) i dettami di Glinka. Nonostante ciò, qualcuno degli ottoni fa subito una spernacchiata. Pazienza, ad ogni buon conto il risultato di riscaldare il pubblico (e anche di consentire a qualche ritardatario di prendere posto in palco senza essere troppo di disturbo) è conseguito alla grande.

Poi abbiamo un’opera assai difficile, oltre che interessante: il primo concerto per violoncello di Shostakovich (composto esattamente 50 anni fa, come omaggio al grande Mstislav) suonato da Han-Na Chang, 27enne coreana già di casa in Italia prima di esplodere come grande star, a nemmeno 12 anni, nel 1994 (un refuso sul programma di sala recita 1944!) Per lei l’Op.107 del russo è un cavallo di battaglia, una passione certo trasmessale dai suoi maestri: il destinatario dell’opera, Rostropovich, e il “senese” Mischa Maisky, a sua volta grande interprete del concerto. Su youtube si può trovare una sua esecuzione ai Proms-2006, con la BBC National Orchestra of Wales, diretta da Tadaaki Otaka (Allegretto, Moderato-a, Moderato-b, Cadenza, Allegro con moto) proprio nel periodo in cui la coreana registrò il concerto con Pappano. C’è anche la prima incisione di Rostropovich e Ormandy con la Philadelphia (Allegretto, Moderato, Cadenza, Allegro con moto). E altre ancora.
.
La ragazza – in un lungo e scollato verde smeraldo - dà veramente spettacolo, ben supportata da un Pappano che da tempo ha con lei un grande affiatamento. E che in questo concerto – tutto sbilanciato sulla solista, dove l’orchestra nel suo insieme quasi non esiste, salvo che fugacemente nel Moderato e nel finale, sostituita da interventi a loro volta solistici di pochi strumenti (corno, strumentini, timpano, celesta) – si assume il compito di garantirle il massimo rilievo. Durante i 5 minuti della Cadenza non si sente volare una mosca (l’influenza A, tossi, raffreddori e bronchiti non hanno ancora evidentemente contagiato alcuno dei musicofili scaligeri… e nessun telefonino viene raggiunto da polifoniche chiamate): un orchestrale alza e abbassa l’archetto, un altro si passa la mano sotto il naso, un altro ancora si accarezza un sopracciglio, tutto qua. Pappano resta – capo chino – immobile con la mano sinistra appoggiata al leggìo. Solo quando la Chang arriva al conclusivo molto mosso, Pappano si muove anche lui, ma solo per girare la pagina della partitura, in vista del finale. Per dire, quanta religiosità si avvertiva nell’aria! Alla fine, dopo lo strappo forse fin troppo rumoroso del timpano, grandi applausi e nessun bis, ma obiettivamente il concerto è talmente ricco e impegnativo per la solista, che il pubblico deve più che mai accontentarsi. E poi la musica di Shostakovich qui è talmente percussiva che alla povera Chang erano ormai rimasti solo due o tre fili di crine sull’archetto, per cui rischiava di dover suonare il bis col legno.

Della seconda sinfonia di Rachmaninov ricorreva lo scorso anno il centenario dalla prima esecuzione. Sinfonia quindi coeva di quelle dell’ultimo Mahler, tanto per orizzontarsi un po’. Ma davvero lontana – diciamo pure… verso il basso – anni luce dai capolavori del boemo. Se quest’ultimo faceva tesoro delle innovazioni wagneriane, innestandole sul corpo della sinfonia fino a stravolgerla, per metterci dentro tutto il suo programma filosofico ed esistenziale – esplicito o criptico che fosse - il russo sembra, nella seconda, avere semplicemente cercato un’omologazione formalistica – magari in omaggio a Dresda, che lo ospitava al tempo e dove poteva sentire tanta grande musica - ad alcune sue idee-fisse e al suo modo di esprimersi in musica. Incidentalmente, fra Rachmaninov e Mahler ci furono, nel 1910 a New York, rapporti assai calorosi e proficui: fu grazie alla direzione di Mahler se il fresco terzo concerto per pianoforte del russo raggiunse l’apice della popolarità. Tornando alla sinfonia, che Pappano – nell’intervista rilasciata alla radio – abbia speso per questa espressioni iperboliche… beh, diciamo che fa parte del comprensibile marketing per un programma da presentare in un teatro importante, oltre che delle legittime simpatie che un Direttore ha il diritto di nutrire per una certa opera. Va comunque detto – a tutto merito del compositore – che alcune sue idee sono divenute più tardi degli interessanti spunti per altri musicisti russi, segnatamente Prokofiev e soprattutto Shostakovich (certo non a caso affiancati da Pappano a Rachmaninov nei 4 concerti degli scorsi giorni).

L’introduzione Largo del primo tempo ricorda vagamente l’atmosfera del famosissimo secondo concerto per pianoforte, scritto qualche anno prima. Ma si intravedono anche delle reminiscenze tristaniane. Il tutto in una scolastica applicazione della forma sonata di buona memoria haydniana. Peccato che i contenuti estetici – o se si preferisce, la narrativa dei temi – siano di una mediocrità desolante. Nell’esposizione, al primo tema, che con scarsa fantasia riprende in Allegro moderato quello in MI minore dell’introduzione, segue il secondo tema nella relativa SOL maggiore, una melodia orecchiabile (un frammento della quale si può rintracciare nel Largo della quinta sinfonia di Shostakovich) che si impaluda però senza ulteriore costrutto. Meno male che Pappano non si è sognato di fare il da-capo, chè anche riascoltando cento volte l’esposizione si faticherebbe ad esserne particolarmente stimolati. Lo sviluppo, che è insieme anche ricapitolazione, aperto magistralmente dal violino solo, arricchisce il primo tema con cupe divagazioni e folate che richiamano la scozzese di Mendelssohn; poi la sezione centrale contiene pesanti interventi degli ottoni – quasi perfetti, qui, i filarmonici - con ripetute e drammatizzanti quinte e poi ottave discendenti che portano il climax all’incandescenza, prima che un diminuendo conduca al secondo tema, esposto nel canonico MI maggiore preparato dagli accordi degli strumentini, che viene arricchito – si fa per dire – da qualche slancio ciajkovskiano. Il MI minore riprende quindi bruscamente il sopravvento, chiudendo il movimento con gran fracasso e – gratuita civetteria del velleitario Sergei – facendo seguire all’ultimo accordo dell’orchestra al gran completo un MI sforzato dei soli violoncelli e contrabbassi, che a chi non ha dato un’occhiata alla partitura appare normalmente come un clamoroso fuori tempo di quegli strumentisti. E proprio ad evitare fraintendimenti, Pappano quasi raddoppia la lunghezza della semiminima conclusiva e di quella vuota che la precede.

Va però dato atto a Rachmaninov di sciorinare una discreta inventiva nell’Allegro molto in LA minore, con quel vigoroso segnale dei corni a cui gli archi rispondono con uno stilema che diventerà caratteristico di tanti passaggi di Shostakovich. Il secondo tema, nella relativa DO maggiore, richiama – dilatato - il primo tema del movimento iniziale. Il movimento ha una struttura simmetrica: esposizione dei temi A-B-A; sezione centrale di vaste proporzioni, dove archi e strumentini, spesso in staccato, e con pesanti interventi degli ottoni, disegnano arabeschi spettrali, che Pappano fa eseguire con grande maestrìa; poi riesposizione variata dei temi A-B-A e successivo corale degli ottoni – un ritorno del Dies Irae, davvero un’idea-fissa del nostro, chissà se mutuata da Berlioz - per introdurre la lugubre chiusa in ppp, lasciata a pochi strumenti (archi, clarinetto e timpano). Bravi davvero anche qui tutti gli ottoni scaligeri nel rendere al meglio l’ambientazione del brano. Così come l’addetto al glockenspiel, che ha una parte di tutto rilievo.

Nel Largo in LA maggiore sentiamo il tema principale, che parte dalla tonica e sale all’ottava superiore passando attraverso mediante, dominante e settima, per poi appoggiarsi sulla sesta, e sembra una classica musica da film hollywoodiano (qualche anno fa ne fu ricavata anche una canzonetta). Il clarinetto presenta poi una lunga – e francamente stucchevole e poco incisiva – linea melodica, una scimmiottatura in peggio di quella del tempo centrale del secondo concerto per pianoforte, che sfocia nella riproposizione del tema principale negli archi. Pappano cerca di indorarci la pillola, ottenendo dai secondi violini un bel pianissimo per le loro ondeggianti terzine, ma è davvero difficile cavar sangue da questa rapa rachmaninoviana! Ricompare il primo tema del movimento iniziale, quasi un motto della sinfonia, sviluppato ampiamente, fino al ritorno del tema del Largo, che chiude in DO maggiore. Segue poi la seconda sezione, con i fiati in bella evidenza, che sviluppa i temi e conduce al ritorno a La maggiore, su cui abbiamo – altro squarcio per la verità interessante - la conclusione intimistica, una cadenza che sta a metà fra la reminiscenza di quella dell’Adagietto della quinta e l’anticipazione di quella conclusiva della nona mahleriana, in cui Pappano guida le viole proprio prendendole per mano, sul pizzicato degli archi bassi.

Il finale Allegro vivace, forma sonata, si apre con una sorta di saltarello in MI maggiore: ci si scorge financo funiculì-funiculà, che già Richard Strauss aveva infilato nel suo Aus Italien. Dopo una breve divagazione marziale di strumentini e corni, le trombe vi inseriscono un richiamo del segnale dei corni del secondo movimento. Il tema si chiude con arpeggi di terzine che riecheggiano Scriabin, che quasi contemporaneamente componeva il suo Poema dell’estasi. Poi abbiamo un tema in RE maggiore - che richiama quello in SOL del primo movimento (qualcuno ci potrà scorgere anche lo Schubert dell’Andante con moto dell’Incompiuta) – che si sviluppa assai ampiamente, per far posto a quello del Largo, che ritorna nella breve sezione in Adagio, sempre in RE, contrappuntato col motto dagli strumentini. Poi la ripresa del tema iniziale, variato à la Mendelssohn (scherzo del Sogno) e quindi, dopo il passo marziale, il secondo tema viene canonicamente riproposto nella tonalità principale di MI maggiore e conduce sempre più enfaticamente verso la conclusione, con piatti e gran cassa elargiti a piene mani.

Ecco, va dato atto al Maestro Pappano e ai Professori di averci messo tutto il miglior impegno: Rachmaninov ha proprio di che ringraziarli dalla tomba, se applausi ed ovazioni sono andati un pochino anche a lui!

(Domenica sera la Scala ospiterà gli albionici della London Symphony con Harding, per un concertone di quelli davvero tosti).
.

08 novembre, 2009

20 anni orsono, domani

.
Un muro lungo 167 Km. Eretto poco prima di ferragosto del 1961. Che ha fatto – più o meno - un morto al Km. Persone che cercavano solo un mondo – magari pieno di ingiustizie – dove poter esprimere il proprio io. Falciate dai VoPo, incaricati di evitare violazioni allo antifaschistischer Schutzwall, il muro di protezione antifascista (i fascisti eravamo noi occidentali, che avevamo – ironia della sorte, proprio insieme ai sovietici - sacrificato milioni di vite umane contro fascisti e nazisti) eretto a Berlino dai fantocci degli eredi di Stalin. E che qualche nipotino di Stalin – qui da noi – ebbe la faccia tosta di difendere ed esaltare.

Ricordiamo John Kennedy, nel 1963, affermare, guardando al di là di quel tetro muro: Ich bin ein berliner, io sono un berlinese. E poi ricordiamo il muro abbattuto a picconate, e la Trabant incastonatavi dentro, a simboleggiare il fallimento di quello che resterà per sempre come il più grande tradimento degli ideali socialisti e comunisti.

Martedi 10 ricorre il 250° anniversario dalla nascita di Friedrich Schiller, l’autore del celeberrimo Inno alla gioia musicato da Beethoven nella sua nona sinfonia, e divenuto oggi l’inno dell’Europa unita (che solo grazie alla Germania unita ha potuto essere tale). E fu la nona sinfonia ad essere eseguita a Berlino, poco meno di un anno dopo la caduta del muro - nel giorno della riunificazione (un marco BRD = un marco DDR, come decise Helmuth Kohl, roba da pazzi, anzi, da patrioti!) - dalla leggendaria Gewandhausorchester diretta da quel Kurt Masur che era stato uno dei protagonisti della pacifica transizione a Lipsia.
.
Domani sera, da Berlino, un concerto ricorderà quella pietra miliare della nostra storia.
.

06 novembre, 2009

Aspettando Carmen a SantAmbrogio - 1

.
Una delle curiosità principali della prima scaligera 2009 – insieme alla regìa di Emma Dante – è rappresentata dal debutto nel ruolo principale di Anita Rachvelishvili, 25enne georgiana cresciuta proprio all’Accademia della Scala. Per Barenboim è stata una specie di colpo di fulmine: l’ha sentita per il ruolo secondario di Mercedes e subito ha pensato invece a lei per Carmen!

Ricordiamo che – esattamente due anni fa – il Maestro scaligero fece un analogo blitz ingaggiando a sorpresa tale Ian Storey quale Tristan. Con risultati non disprezzabili, ma certo nemmeno trascendentali. Auguriamoci che con l’Anitona vada meglio!

A proposito della quale, da un servizio del TGR-Lombardia veniamo informati che la (davvero bellissima!) georgiana, oltre ad avere un legame sentimentale col tenore Riccardo Massi, pare volesse assumere – ma Barenboim l’ha categoricamente sconsigliata - un cognome d’arte (Ravel…) al posto del suo autentico, che è effettivamente quasi impronunciabile, e poi a noi italiani, con quella desinenza in -vili, fa in genere un effetto sgradevole.

Da una sommaria ricerca sul web si scopre che in realtà la desinenza -shvili significherebbe figlio, un po’ come il -son svedese e il -sen danese. Fin qui, tutto bene. Ma poi altrove si trova una sorpresa: il termine significherebbe anche bullo, manesco, prepotente, il che apparirà appropriato a chi ricorda le non raccomandabili imprese di un tale Dzhugashvili, meglio noto col nome d’arte di Stalin. Si va di male in peggio con un’altra accezione: figlio di p…

Insomma, forse la bella Anita non aveva tutti i torti a volersi cambiar nome! Intanto staremo a vedere come se la caverà nei panni di Carmencita
.

02 novembre, 2009

Ascolti in web (BBC): il Tristan di Pappano alla ROH


Sabato sera la BBC ha trasmesso la registrazione di un’edizione recente del Tristan diretto da Antonio Pappano al Covent Garden. Non è scritto, né è detto di quale rappresentazione si tratti, ma la composizione del cast dovrebbe restringere la rosa delle date al 9 o 15 ottobre u.s.

Edizione che ha riscosso all’esordio consensi e critiche sul lato regìa (a quanto si legge sulle recensioni e si intuisce dalle foto, ennesimo esempio di frusto e velleitario Regietheater, o meglio Eurotrash, perpetrato per l’occasione da Christof Loy) – cosa che all’ascoltatore del solo audio interessa poco o punto - ed anche commenti non proprio entusiastici (insieme a peana e panegirici un poco sospetti, anche se autorevoli, poiché segnalati dal sito della ROH) sullo stesso Pappano – e questo è già più preoccupante. Però sono quasi tutti commenti alla prima del 30 settembre ed evidentemente qualcosa è migliorato in seguito, poiché ciò che si sente non è per nulla disprezzabile.

Ben Heppner è Tristan e Nina Stemme Isolde. Ma tutto il cast è di prim’ordine, a cominciare da quell’inossidabile Marke che risponde al nome di Matti Salminen. Michael Volle è Kurwenal e Sophie Koch interpreta Brangäne.

Che dire? Alti e bassi nelle voci. I bassi quasi tutti da addebitare al povero Heppner, evidentemente ormai alla frutta in questo ruolo, sempre impiccato ed a volte steccante sui LA e pure sui SOL, davvero insufficiente nel secondo atto, dove è addirittura calante in intere frasi… Nel terzo atto canta all’ottava sotto il LA del nicht (zu sterben) e poi rinuncia proprio a tentare quello del Trank; pare ormai irrimediabilmente perduto… invece raccoglie le residue forze e miracolosamente migliora - va detto – proprio da lì in avanti e torna quasi (quasi) all’altezza nella scena dell’ultimo delirio, fino all’estremo LA acuto (zu ihr) - la sua penultima parola - prima di esalare il morente Isolde. Note positive per la Stemme, quantunque a volte - non sempre - emetta sgradevoli urli sugli acuti. La sua Liebestod è pulita, pur senza suscitare supreme emozioni. La Koch è davvero notevole in quel ruolo. Bravo anche Volle e bravissimo – guarda un po’ - Salminen.

La direzione per me non è affatto censurabile e trovo eccessivi certi commenti di blog specializzati britannici, che si strappano le vesti per la riconferma di Pappano alla ROH fino al 2012, auspicandone il licenziamento immediato. Certo, il Preludio è costellato da parecchie libertà di tempi, ma per il resto Pappano tiene bene in mano la situazione. Un esempio: l’incipit dell’Atto III, uno dei punti più critici del dramma. Del resto, lui era a Bayreuth negli anni ’90 come assistente di Barenboim, e qualcosa dovrà pur aver succhiato dalle mammelle wagneriane del maestro argentino-israelo-tedesco…

C’è ancora tempo fino a tutto venerdì 6 per ascoltare la performance con comodo, collegandosi a questo link. Dato che non costa (quasi) nulla, è cosa che consiglierei comunque di fare. Fosse invece un CD (o peggio, un DVD) da acquistare, francamente sarei propenso a destinare gli euri ad un impiego migliore.
.

30 ottobre, 2009

Stagione dell’OrchestraVerdi - 6

.
Grande ed attesissimo l’appuntamento di ieri sera all’Auditorium di Largo Mahler per l’esecuzione della Messa da Requiem di Verdi. Con l’Orchestra e il Coro Verdi di Milano, sotto la bacchetta della sempre più convincente Xian Zhang e della veterana Erina Gambarini si sono esibiti come solisti la soprano Majella Cullagh, la mezzosoprano Maria José Montiel, il tenore Miro Dvorski (in sostituzione dell’indisposto Jon Villars) ed il basso Leo An.

C’è una ricorrenza da celebrare: fosse ancora qui fra noi, oggi compirebbe 90 anni Paolo Grassi, un personaggio che nella Milano culturale ha lasciato davvero il segno (magari… nel bene e nel male, qualcuno potrà obiettare). Questa sera, al Turno B, interverrà remotamente nientemeno che il Presidente della Repubblica, per un ricordo ed un saluto.

Auditorium praticamente esaurito per l’occasione, il che provoca una decina di minuti di ritardo sull’orario di inizio standard. Subito si nota sul palco, a destra, un octobasse, un autentico jumbo-contrabbasso, esemplare quasi unico nel suo genere, ingaggiato appositamente – esecutore incluso - per l’evento. L’oficleide invece è rimpiazzato, come d’abitudine, dalla tuba. Le trombe remote (per il Tuba mirum) sono 6 invece di 4 e dislocate sui due lati della galleria (dove gli strumentisti prenderanno posto solo al momento di intervenire). I solisti si dispongono davanti all’orchestra, forse per ragioni meramente tecniche (il coro al completo già preme sull’ultima fila dei professori e mancherebbe lo spazio per allocarvici i 4 cantanti) ma è un bene, poiché così non vengono coperti dal poderoso volume di suono dei bravissimi coristi della Erina.

In sintesi, una grande prova di tutti, a cominciare dalla Zhang, che ha mostrato un’autorità di governo delle ipertrofiche masse inversamente proporzionale alla sua statura fisica. Strepitoso, a dir poco, il tempo di attacco del Dies Irae (mentre mi è parso troppo comodo quello dell’Offertorio). I solisti tutti bravi, anche se qualche rilievo si può fare alla Cullagh, per la voce poco passante, in basso, a Dvorski per qualche nota calata (ma deve essere arrivato qui all’ultimo momento…) e al basso An, non molto penetrante. Non saprei davvero quali appunti muovere alla Montiel, voce calda, potente e sempre sicura. Da 10 e lode il coro, nei fortissimo come nei pianissimo che costellano questo capolavoro. Orchestra del tutto all’altezza del compito, invero improbo in molti passaggi.

Ovazioni a non finire e applausi ritmati per questi interpreti che ci hanno fatto davvero un grande regalo.

Dopo il turno C di domenica, l’orchestra inizia un altro viaggio su e giù per la penisola, e sarà di ritorno qui il 19 novembre.
.

28 ottobre, 2009

Boulez-Pollini alla Scala

.
Tutto Bartók per questo ritorno della premiata coppia Boulez-Pollini. 84 anni il primo, 67 il secondo, ma oggi è ancora difficile trovare loro dei degni emuli, sia in generale, ma in particolare in questo genere di repertorio.

Intanto una considerazione sul programma: certo di altissimo livello, ma forse eccessivamente concentrato su un autore che – possiamo dire magari purtroppo – non ha la fama e la popolarità di un Mozart o di un Brahms o di un Mahler. E che andrebbe (forse) ancora propinato a dosi moderate. Ero in un palco con due ispanici, fuggiti poco dopo che Pollini aveva attaccato l’Adagio, e con due australiani, capitati lì a quel programma per puro caso (combinazione chiusa aereo-hotel-scala) che alla fine se ne sono rimasti tranquillamente seduti, forse pensando che ci fosse un secondo intervallo e poi – appunto – un Brahms o uno Schubert per far digerire quel popo’ di Bartók! Qualche vuoto anche in platea e nei palchi, per la verità. Compensato dai loggioni, tornati a piena capienza nominale dopo la rimozione (si spera definitiva) dell’antipatico amianto.

Il palcoscenico è letteralmente riempito come un uovo dall’ipertrofica orchestra bartókiana, tanto che per farvi entrare il pianoforte per Pollini si deve abbassare la sezione anteriore della pedana copri-buca, per poi risollevarla con in groppa lo strumento (e viceversa poi, per toglierlo di mezzo)… E dire che mancava il coro, prescritto, ma solo opzionalmente, per il Mandarino!

Boulez ha con Bartók una ormai lunga consuetudine, progressivamente solidificatasi negli anni e che produce sempre grandi risultati. Nessuna affettazione, anzi un approccio forse fin troppo freddo a queste partiture. Oggi muove pochissimo il braccio destro (*), ed usa esclusivamente il sinistro per dare gli attacchi, con decisi movimenti in avanti dell’avambraccio.

Nei Quattro Pezzi ha fatto emergere le venature impressioniste di Preludio e Intermezzo, dove Debussy fa spesso capolino, ma anche i richiami mahleriani che pervadono l’opera. Impressionanti davvero le sonorità dello Scherzo, sia i fracassi di ottoni e percussioni, che i delicati interventi di archi e strumentini, accompagnati dalle arpe; tutto senza enfatici compiacimenti. Lugubre la Marcia funebre chiusa con semplicità, con le note finali fatte cadere come nel vuoto.

In mezzo, il Secondo Concerto per Pianoforte. Che Pollini affronta col dovuto cipiglio, in quella parafrasi dell’Uccello stravinskiano del primo tema. Liquida, quasi eterea la cadenza, a dispetto del carattere percussivo della parte. Emozionante, in un assoluto e religioso silenzio della sala, il pianissimo iniziale degli archi nell’Adagio, che porta a quella specie di surreale concertato del pianoforte con il timpano; prima della sezione centrale in Presto, dove Pollini si scatena in una bagarre sincopata con gli strumentini, tenendo il capo girato verso di loro, in un gesto di intesa quasi da band; dopodiché si torna alla quiete, turbata ancora dai sordi rulli del timpano, che chiude infine à la Berlioz (scène aux champs) mentre Pollini appena appena appoggia le dita sulla tastiera per gli accordi finali. Dopo l’iniziale botto della grancassa (curiosamente così inizia il finale dell’incompiuta decima mahleriana, che Bartók peraltro difficilmente poteva conoscere, nel 1930…) altro round piano-timpano nell’Allegro molto conclusivo, prima della ciclica chiusa, ancora con richiami mahleriani (2a e 3a sinfonia). Applausi scroscianti, ripetute chiamate e richieste di bis, che restano ahinoi insoddisfatte.

In chiusura, Boulez ha poi dato il meglio nel Mandarino (miracoloso, nel titolo originale… csodálatos, che si può anche tradurre meraviglioso) fin dall’introduzione, dove si descrive il turbinare della caotica vita cittadina, e si odono le trombe delle auto, distinguendovisi chiaramente – anche se col lugubre piglio da Walküre e non da Rheingold - il wagneriano Hedà-Hedò, effettivamente usato come clacson nei primi anni del secolo scorso. Gli ottoni, oltre al clarinetto solista che deve impersonare gli adescamenti, sono qui chiamati ad autentiche acrobazie (incluse le repentine applicazioni e rimozioni delle sordine) con glissandi e vibrati continui: tutti bravissimi, bisogna dargliene atto. Efficacissima la caccia del Mandarino alla ragazza, costellata da seconde minori (una reminiscenza dell’Alberich del Rheingold?) Pur in assenza del coro che dovrebbe accompagnarla, la luminescente trasformazione del Mandarino non perde la sua drammaticità, prima della conclusiva cadenza, che gli archi bassi – col suggello della tuba - eseguono letteralmente presi per mano dal Direttore.

Quindi grida ed ovazioni per il grande vecchio, che riesce anche a fare per un altro paio di volte l’esercizio ginnico di salire e scendere dal podio, alto almeno 40cm… Poi tutti fuori, in una sera di fine ottobre per nulla fredda, con la galleria e piazza Duomo (dalla cui facciata tuttora occhieggia il solare volto del fresco-di-beatificazione Don Carlo Gnocchi) ancora discretamente popolate.
.
(*) vengo a sapere che la cosa è dovuta ad una banale caduta proprio poche ore prima del concerto!
.

26 ottobre, 2009

Placido diventa Simone


.
.
.
Alla Scala lo vedremo in primavera.
.
.
Sabato ha debuttato a Berlino (Unter den Linden).
.
.
Ma Un tenore resta pur sempre un tenore titola l’autorevole die Welt.
.

25 ottobre, 2009

In qual modo l'Harmonia, la Melodia & il Numero possino muouer l'animo & disporlo à varij effetti; & indur nell'Huomo variati costumi.


.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
NON sarebbe gran marauiglia, se ad alcun paresse strano, che l'Harmonia, la Melodia, & il Numero hauessero forza ciascuna da per se di dispor l'animo, & poste tutte insieme, indurlo in diuerse passioni: essendo senz'alcun dubio cose estrinseche, lequali nulla, ò poco fanno alla natura dell'Huomo; ma in uero è cosa pur troppo manifesta, c'hanno cotal forza: onde è da notare, ch'essendo le Passioni dell' Animo poste nell'Apetito sensitiuo corporeo & organico, come nel suo uero soggetto; ciascuna di esse consiste in una certa proportione di calido & frigido, & di humido & secco, secondo una certa dispositione materiale; quasi di numero à numero: di maniera che quando queste Passioni sono fatte, sempre soprabonda una delle nominate qualità in qualunque di esse. Onde si come nell'Ira predomina il calido humido, cagione dell'incitamento di essa; cosi predomina nel Timore il frigido secco, il quale induce il ristrengimento de i spiriti. Il simile intrauiene etiandio nell'altre passioni, che dalla soprabondanza delle nominate qualità si generano. Et queste Passioni tutte, senza dubbio, sono riputate uitiose nell'Huomo morale; ma quando tali soprabondanze si riducono ad una certa mediocrità, nasce una operation mezana, che non solo si può dire uirtuosa; ma anco lodeuole. Questa istessa natura hanno etiandio le Harmonie; onde si dice, che l' harmonia Frigia hà natura di concitar l'Ira, & hà dell'affettuoso; che la Mistalidia fa star l'Huomo più ramaricheuole & più raccolto in se stesso: & che la Doria è più stabile, & molto appropriata à i costumi de Forti & Temperati; essendoche è mezana tra le due nominate; & questo si comprende nella diuersa mutatione dell'Animo, che si fà, quando si ode coteste Hamonie. Per la qual cosa potiamo tener per certo, che quelle Proportioni istesse, che si ritrouano nelle qualità narrate, si ritrouano anco nelle Harmonie; poi che D'un solo effetto non gli è se non una propria cagione; la quale nelle Qualità già dette & nelle Harmonie, è la proportione. La onde potiamo dire, che quelle istesse Proportioni, che si ritrouano nella cagione dell'Ira, ò del Timore, ò d'altra passione nelle sopradette qualità; quell'istesse si ritrouino anco nell'Harmonie, che sono cagioni di concitare simili effetti. Queste cose adunque essendo contenute sotto simili proportioni; non è dubbio, che si come le Passoni sono uarie, che non siano anco uarie le Proportioni delle cagioni; perche pur troppo è uero, che Delle cose contrarie sono contrarii gli effetti. Essendo adunque le passioni, che predominano ne i Corpi per uirtù delle nominate qualità, simili (dirò cosi) alle Complessioni, che si ritrouano nelle Harmonie; facilmente potiamo conoscere, in qual modo l'Harmonie possino mouer l'Animo & disporlo à uarie passioni; percioche s'alcuno è sottoposto ad alcuna passione con diletto, ouer con tristezza, & ode un'Harmonia, la quale sia simile in proportione; tal passione piglia aumento; & di questo n'è cagione la Similitudine; laquale (come uuole Boetio) ad ogn' uno è amica & la Diuersità gli è contraria, & odiosa; ma se auiene, che ne oda una di proportione diuersa, tal passione diminuisce; et se ne genera una contraria; & si dice, che allora tale Harmonia purifica da tal passione colui, che la ode, per la corruttione, & per la generatione d'un'altra cosa contraria; come si uede; che s'alcuno è molestato d'alcuna passione, la qual uenga con tristezza, ò con lo accendersi il sangue; come la Ira; & oda un'Harmonia di contraria proportione, laquale contenga alcuna dilettatione; allora cessa in lui l'Ira & si corrompe; & immediatamente si genera la Mansuetudine; cosa che suole auenire anco nell'altre passioni; poiche Ogn'uno naturalmente si diletta più di quella Harmonia, laquale è più simile, conueniente & proportionata alla sua natura & complessione, & secondo che è disposto; che di quella, che gli è contraria. Nascono adunque le Dispositioni diuerse ne gli huomini, non da altro, che da i diuersi mouimenti dello Spirito, ilquale è il primo Organo si delle sensitiue, quanto delle motiue Virtù dell' anima per alteratione, ò per moto locale; da i quali mouimenti alcuna uolta intrauiene il raccoglimento, alcuna uolta il boglimento, & alle uolte la dilatatione de i Spiriti; i quali Mouimenti diuersi non solamente nascono dalla diuersità delle Harmonie musicali; ma da i Numeri soli ancora; come è manifesto; percioche mentre noi attentamente udimo leggere, ò recitar Versi; alcuni ci ritengono in una certa modestia, alcuni ci muouono à cose liberali & diietteuoli, & alcuni ci incitano à cose leggieri & uane, & altri c'inducono in un moto uiolento. Et di questo basta solamente lo essempio d'Archiloco: il quale, come dice Horatio;

Proprio rabies armauit Iambo.
-
Dalle quali cose si può comprendere, in qual modo l'Harmonia & il Numero con una certa dispositione possino diuersamente mutar le passioni & costumi dell'animo. Ma perche hò detto; che Ogn'uno naturalmente più si diletta di quella Harmonia, la quale è più simile, conueniente & proportionata alla sua natura, ò complessione, & secondo ch'è disposto; però è da notare; che essendo l'Harmonia & li Numeri parti della Melodia; & hauendo l'Harmonia & li numeri facoltà di mouer l'Huomo interiormente, come si è dimostrato: non è dubio che la Melodia non habbia maggiormente forza di mutar di dentro le Passioni & i costumi dell'Animo di quello, che hà ciascuna di esse parti separatamente. Auertisca però qui ogn'uno, che (secondo la dottrina de 'l Filosofo) le Virtù morali & li Vitij non nascono con esso noi; ma si generano per molti habiti buoni, ò tristi frequentati, nel modo che uno per sonare, ò scriuere spesse fiate male, diuenta tristo Sonatore, ò Scrittore; ouer per il contrario, essercitandosi spesse uolte bene, diuenta buono & eccellente. La onde colui che spesso essercita la Iniustitia, per tal cosa diuenta Iniusto; & colui ch'essercita la Iustitia, diuenta Iusto; nel modo che colui, che si usa à temere i pericoli diuenta timido, & non li stimando diuiene audace. Di maniera che, quali sono le Operationi, tali sono gli Habiti; & dalle buone sono i buoni, & dalle triste i tristi Habiti. Essendo adunque l'Harmonie & i Numeri simili alle Passioni dell'animo; come afferma Aristotele; potiamo dire, che l'assuefarsi alle Harmonie & à i Numeri, non sia altro, che uno assuefarsi & disporsi à diuerse Passioni, & à diuersi Habiti morali & costumi dell'animo; percioche quelli, che odono le Harmonie & li Numeri, si sentono tramutare secondo la dispositione dell'animo, alcuna uolta nell' amore, alcuna uolta nell'ira, & alcuna uolta nell'audacia; il che da altro non auiene come hò detto; che dalla simiglianza, che si troua tra le sopradette Passioni con le Harmonie. Et questo si uede; conciosia che uno, il quale hauerà più uolte udito una sorte d' Harmonia, ò de Numeri, si dilettarà maggiormente, per hauersi già assuefatto in quella. Dobbiamo però sapere (per maggiore intelligenza di quello, che si è detto) che il Numero quantunque si piglia (come nella Prima parte uedemmo) per la Moltitudine. composta de più unità, & per l'Aria (dirò così) d'alcuna Canzone; come intese il Poeta, quando disse;

Numeros minimi, si uerba tenerem;
.
Et in molti altri modi; nondimeno in questoluogo non è altro, che una certa misura di tempo breue, ò lungo, nel quale si scorge la proportione, ò misura di due mouimenti, ò più, insieme comparati, secondo una cambieuole ragione di tempo di essi mouimenti; il quale è detto Rhythmo; & si scorge ne i piedi del Metro & del Verso, che si compongono di piu Rhythmi ò Numeri, con un certo ordine, ò spacio determinato. Ma il Metro & il uerso è una certa Compositione & ordine de piedi, ritrouata per dilettar l'vdito; oueramente è un'Ordine & Compositione de più uoci, finita con Numero & modo. Potrei hora dire la differenza, che si ritroua tra il Metro & il Verso; ma per breuità la uoglio passare; imperoche coloro, che desiderassero di saperla, leggendo il Cap. 2. del Terzo lib. della Musica del P. S. Agostino, potranno d'ogni suo desiderio esser satisfatti. Solamente si haurà da auertire, che il Rhythmo è differente dal Metro & del Verso in questo; che il Metro & il Verso contengono in se un certo spacio determinato; & il Rhythmo è piu uniuersale, & ha i suoi spacij liberi & non determinati; onde è come il Genere; ma il Metro & il Verso sono meno uniuersali, & sono come la Specie; percioche da quello si hà la quantità, ò la materia, & da questi la qualità, ò la forma. Alcuni altri dicono, che 'l Metro & il Verso è Ragione con modulatione; & il Rhythmo modulatione senza ragione. Ma sia quello, che si uoglia, questo sia detto à bastanza intorno à cotal cosa.

ISTITVTIONI HARMONICHE DEL REV. M. GIOSEFFO ZARLINO DA CHIOGGIA,
Maestro di Capella della Serenissima Signoria DI VENETIA. Seconda Parte. Capitolo 8. (MDLVIII)
.

23 ottobre, 2009

Stagione dell’OrchestraVerdi - 5


Davvero robustissimo il programma del quinto concerto della stagione, diretto da Helmuth Rilling (campione del barocco passato per l’occasione al romantico, che con laVerdi ha ormai lunga consuetudine, e ne è uno dei Direttori ospiti principali). Tre opere che nulla hanno in comune se non le travagliate o complicate vicissitudini legate alla loro nascita.

Qualche vuoto più del solito in Auditorium: a causa dei primi rigori autunnali, o più probabilmente per la forte concorrenza del concomitante concerto in Scala, col duo Chung-Pogorelich impegnato in un programmone russo tardo-romantico.

Si comincia con Schubert e con le musiche di scena per Rosamunde (D797). Un’opera davvero disgraziata (nel senso di caduta in disgrazia) che non superò le due rappresentazioni a dicembre 1823. Colpa, a dir di tutti, del soggetto scritto dalla presuntuosa Wilhelmina Christiane von Chézy, che già aveva buggerato il povero Weber con la farraginosa Euryanthe. Avendo avuto sì e no un mese di tempo per comporre la musica, Schubert ricorse ai soliti mezzucci, tipo scopiazzature di altre sue musiche, fino all’uso, pari-pari, proprio à la Rossini, di un’Ouverture scritta per un’opera precedente (Alfonso&Estrella). Non contento, cambiò poi idea, facendo pubblicare col titolo “Ouverture a Rosamunde” nient’altro che la musica (D644) che apriva Die Zauberharfe, in DO maggiore, che è poi divenuta famosa per la sua brillantezza e ricchezza di temi orecchiabilissimi. Oggi di Rosamunde restano 10 numeri (ouverture esclusa) che prevedono anche l’intervento di coro e contralto (una recente esecuzione è quella di Abbado con i Berliner alla Philharmonie).

Per solito si eseguono però diverse spurie suites: in pratica ciascun Direttore assembla qualche numero secondo la propria sensibilità, e secondo il ruolo che intende riservare a questo titolo nello specifico concerto, o all’interno di una registrazione. Rilling ha proposto un estratto di circa 10’: il Balletti dell’Atto II (Allegro Moderato in SI minore, RE maggiore, SI maggiore e poi Andante in SOL maggiore). La prima sezione è ad orchestra piena; la seconda, presa da Rilling quasi come un allegro, ad organico ridotto (mancano trombe, tromboni e timpani, e gli strumentini la fanno da padroni). Rilling ha poi ripetuto parte dell’Allegro moderato, chiudendo sul SI maggiore. Insomma, un gustoso aperitivo, come nella più classica tradizione dei programmi concertistici; uno di quei pezzi che incontrano naturalmente il gusto e il favore del pubblico, che a dirigere siano (non me ne vogliano!) Rilling o Abbado o …Toscanini.

Poi è la volta del tanto bistrattato quanto famoso Concerto doppio opus 102 di Brahms, con la figliola del Direttore (e fan di Roberto Benigni, come si apprende dal suo profilo su Facebook) Rahel, al violino e Dávid Adorján al violoncello. Bistrattato poiché – anche per colpa di Brahms – è da molti considerato con sospetto, un’opera mal riuscita, né carne né pesce, una quinta sinfonia abortita, un vorrei-non-posso partorito quasi di malavoglia e più che altro per compiacere due solisti (Hausmann e Joachim). La più deludente critica al concerto arrivò da tale Clara Schumann… figuriamoci! Sul tubo si può trovare una ormai storica esecuzione del trio russo Oistrakh-Rostropovich-Kondrashin (Allegro-a, Allegro-b, Andante, Finale) oltre ad una più recente (2004) dei simpatici bolivariani diretti da un impettito Gustavo con capelli corti, pizzetto ed occhiali (Allegro-a, Allegro-b, Andante, Finale).

I due solisti non sono chiamati a virtuosismi impossibili, ma debbono quasi amabilmente dialogare come fossero due gentlemen al club, solo di tanto in tanto risvegliati e interrotti da qualche sussulto dell’orchestra: una specie di quadretto domestico, che musicalmente ben rappresenta lo status di Brahms verso la fine degli anni ’80, al momento per lui di tirare i remi in barca e dedicarsi esclusivamente a composizioni cameristiche. E Rilling ha se possibile ulteriormente accentuato i tratti cameristici del pezzo, deludendo forse le aspettative di chi si aspetta da un concerto per solisti e orchestra una più accesa dialettica.

Fra le due parti, quella del violoncello è probabilmente la più impegnativa ed appariscente, e così e stato anche ieri sera, con Dávid Adorján in bella mostra. La Rilling direi senza infamia nè lode, ha fatto accuratamente il suo compitino. Applausi non proprio trionfali, da parte di un pubblico forse un pochino narcotizzato…

Infine, il clou della serata, la Grande di Schubert. A parte la singolarità di una sinfonia che ha tutti e quattro i movimenti privi di accidenti in chiave, DO maggiore e LA minore (il che fa pensare istintivamente ad una stomachevole mappazza del famoso cacao-meravigliao) ogni sua esecuzione solleva immancabilmente la curiosità e la conseguente domanda: ma sono stati eseguiti tutti i da-capo (le ripetizioni che motivarono la famosa definizione di Schumann di divina lunghezza)? Normalmente (su Youtube si trova ad esempio una ripresa live di Böhm del ‘73 con i Wiener - qui le parti 1a, 1b, 2a, 2b, 3a, 3b, 4a, 4b) il Direttore omette 4 ritornelli: quello dell’esposizione dell’Allegro non troppo iniziale, due dello Scherzo (seconda sezione prima del Trio e seconda sezione del Trio medesimo) e quello – interminabile – del Finale. Tanto per dare un’idea, rispetto alla durata dell’esecuzione citata di Böhm, circa 50’30” (ho un vecchio vinile di Sawallisch con i Symphoniker, che dura un minuto in più…) si tratta di circa 11 minuti di musica che, se eseguiti in toto, porterebbero la durata oltre l’ora, in piena zona-Mahler!

Per l’interpretazione di Rilling la locandina dell’Auditorium reca l’indicazione di circa 55’, che si potrebbe interpretare in vari modi: durata al lordo delle pause fra i movimenti (quindi verosimilmente senza ritornelli) o durata netta, che porterebbe a supporre che il Direttore esegua un paio dei da-capo, o come minimo quello del finale. Poi sul programma di sala, sempre assai ben curato e firmato per questa sezione da Gabriella Mazzola Nangeroni, leggiamo di una durata di 50’ circa, il che sembrerebbe non lasciar dubbi sui tagli divenuti ormai consueti. Invece Rilling sorprende tutti ed esegue per intero i ritornelli, raggiungendo un mirabile equilibrio di durate dei 4 movimenti: 16’-14’-14’-16’ per un totale di un’ora esatta! Certo questo dato matematico non basterebbe a promuovere col massimo dei voti un’esecuzione.

In realtà qualche imprecisione o manchevolezza si è notata (ad esempio i tromboni troppo invadenti nel Finale, archi non sempre compatti, un Andante preso con eccessiva velocità…) però il gran pregio dell’esecuzione è di non essere stata per nulla pesante, menchemeno stomachevole. Lunga, ma gradevole, se non proprio divina. Al termine applausi scroscianti, che ancora perduravano quando il Konzertmeister Luca Santaniello ha dato il rompete le righe ai colleghi, visto che erano quasi le 11 di sera!

E già incombe, fra sette giorni, altro grande appuntamento: Requiem di Verdi.
.

17 ottobre, 2009

Ricostruire L’Aquila

.
Bene dare la casa a chi l’ha perduta (qualcosa di buono fa anche Berlusconi, come del resto tutti i tiranni o aspiranti tali, da che mondo è mondo…) Ma non dobbiamo dimenticare altre strutture che sono altrettanto importanti per la comunità: una di queste è il Teatro Comunale de L’Aquila, gravemente danneggiato dal recente terremoto.

Nell’ambito delle iniziative di sostegno al restauro del Teatro, La Scala ha ospitato ieri sera l’Orchestra Sinfonica Abruzzese diretta da Giancarlo De Lorenzo per un interessante concerto.

Il tutto con l’adesione del Presidente della Repubblica (un pericoloso comunista, stando ad alcuni) di cui è stato letto un messaggio di saluto in apertura di serata. Nel palco reale personalità varie fra cui ho riconosciuto (perché mi è assai simpatica) la minuscola Presidente della Provincia de L’Aquila, Stefania Pezzopane.

Lodevole anche l’omaggio che l’Orchestra della Scala ha fatto a quella abruzzese, prestandole i quattro solisti del primo brano in programma, la Sinfonia concertante K297b (qualcuno mette in dubbio la paternità del lavoro, ma se questo non è Mozart, allora significa che ai suoi tempi un suo perfetto clone si aggirava per Salzburg!): Fabrizio Meloni, Fabien Thouand, Danilo Stagni, Valentino Zucchiatti, tutti prime parti della Scala. La concertante è un gioiellino, dove i quattro fiati hanno modo di mettersi in mostra, singolarmente, a coppie, trii e insieme. E l’esecuzione è stata invero eccellente. Bravi i solisti, ma bravi anche i professori abruzzesi guidati da De Lorenzo!

Dopo la pausa, la Quinta Sinfonia di Franz Schubert. L’orchestra poco più che cameristica – in tutto l’organico è di 40 esecutori, ieri sera erano ancor meno – ben si confaceva alle caratteristiche di questa deliziosa creatura schubertiana. De Lorenzo ha sempre tenuto tempi vivaci, ha fatto il ritornello dell’esposizione del primo movimento, risparmiandoci invece quello del finale, ma con piena giustificazione (le lungaggini, per quanto celestiali, non si addicono a questo autentico cammeo…) Un esito assolutamente di rilievo.

Da ultimo il Concerto per Clarinetto di Aaron Copland (scritto nel 1948 su commissione del famoso Benny Goodman) che è stato interpretato ancora da Fabrizio Meloni. Il quale lo suona con bocca e dita – normale! – ma anche con tutto il resto del corpo, dimenandosi con swing appropriato al pezzo jazz-americano, alzando a volte la gamba sinistra e riappoggiando il piede con perfetto ritmo, cosa degna di chi suona nelle migliori band. L’orchestra – soli archi, piano e arpa – lo asseconda benissimo e così il trionfo è assicurato. Meloni fa anche lui un discorsetto di circostanza, prima di concedere, con l’orchestra, un bis: l’Andantino dal concerto di Jean Françaix (con aggiunta, a mò di cadenza, del primo svolazzo dell’Allegrissimo conclusivo) da lui già inciso per Amadeus insieme al concerto di Copland e a quello di Nielsen (su un CD lodevolmente accluso al programma di sala).

L’unica nota stonata della sera è venuta dal pubblico: non quello in sala, calorosissimo, ma quello che ha lasciato desolatamente vuoti interi palchi (specialmente del III e IV ordine). Per fortuna almeno platea e loggione (o ciò che ne rimane per ora) erano praticamente al completo.
.