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consulta e zecche rosse

30 marzo, 2015

Il virus Fedora falcidia la famiglia Dessì

 

Ieri pomeriggio il Carlo Felice ha ospitato l’ultima recita di Fedora. Una produzione invero casereccia, visto che i due protagonisti del primo cast erano (o dovevano essere, per la verità) i due genovesi della famiglia Dessì(-Armiliato) e dato che la protagonista del secondo cast (Irene Cerboncini) è pure genovese.

Invece gli acciacchi di stagione (causa ufficiale) hanno ridotto le presenze complessive del duo Dessì-Armiliato in questa produzione da sette a… tre! Per di più ieri all’ennesimo forfait del soprano (ancora una volta rimpiazzato dalla Cerboncini) si è aggiunto di fatto quello del tenore, che ha chiuso il second’atto (che poi per lui sarebbe il primo…) in modo davvero tragico, o tragi-comico. Dopodiché ha fatto annunciare che avrebbe stoicamente portato a termine la recita, cosa che in effetti ha fatto e in modo neanche poi così scandaloso. Meglio però sarebbe stato sostituirlo fin dall’inizio con il mio conterraneo Rubens Pelizzari da Salò, visto aggirarsi in sala.  

Come detto, Fedora è stata ancora una volta la Cerboncini, autrice di una prestazione più che dignitosa vocalmente ed anche efficace sul piano attoriale, che ci ha proposto una donna sensibile (certo facile all’innamoramento e quindi preda di approfittatori alla Vladimir) ma non volgare né mangia-uomini, né tantomeno reazionaria incallita. 

Per il resto definirò passabile la prova di Paola Santucci, che ha ben incarnato la volubile e un po’ svampita Olga. Fra i tanti altri personaggi di contorno citerò Sergio Bologna, un DeSiriex abbastanza convincente, a dispetto della voce piuttosto piccola. Tutti, cori compresi, su un livello di professionale sufficienza.

Bene giudicherei il Direttore Valerio Galli, il più applaudito alla fine ed anche a scena aperta dopo la vibrante esecuzione dell’Intermezzo del second’atto, dove anche l’Orchestra si è fatta valere. La sua interpretazione di Fedora è piuttosto soft, quasi da opéra-comique, scevra da eccessi tipici di certo verismo da strapazzo.
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La regìa di Rosetta Cucchi, pianista in origine migrata poi alla messinscena, è di quelle che si usano definire tradizionali, nel senso che presentano quasi pedestremente ciò che si legge su libretto e partitura; o meglio: non mostrano il contrario! E solo per questo si merita un elogio.

Per la verità un paio di tocchi personali non poteva risparmiarseli (altrimenti non servirebbe una regìa, smile!): l’ambientazione è spostata in avanti di una ventina d’anni, quindi durante la Grande Guerra. Di ciò nessuno si accorgerebbe se non fosse che, all’inizio del secondo e terz’atto, vengono presentate in sottofondo (dietro un velario) scene e audio relative a quegli eventi bellici. Che nulla, ma proprio nulla, hanno a che vedere con il soggetto di Sardou ripreso da Colautti e musicato da Giordano. Ma trattandosi appunto solo di immagini fugaci, esse riescono a distrarre assai poco l’attenzione dello spettatore da ciò che davvero conta. L’altra trovata è quella di collocare in un angolo del proscenio un vecchio signore (interpretato da Luca Alberti) che rappresenta il protagonista Loris che rivede il film degli avvenimenti da lui vissuti nell’Opera: rimane lì anche nei due intervalli (!) e se ne va poco prima della finale tragedia. Mah…

Le scene di Tiziano Santi sono improntate a grande sobrietà: Pietroburgo, Parigi e Thun sono la stessa cosa, salvo qualche sfondo più o meno pertinente; si fa uso di pannelli scorrevoli in orizzontale per mettere di volta in volta qualcosa in evidenza, lasciando il resto visibile in background. Belli i costumi di Claudia Pernigotti, anch’essi più o meno plausibili rispetto al periodo storico in questione. Luciano Novelli curava le luci, anche qui con approccio di basso profilo.

Insomma, uno spettacolo gestito in modo abbastanza intelligente e assai godibile, cui farei un unico appunto: l’intervallo di 25 minuti scrupolosamente rispettato anche dopo i soli 23 minuti del primo atto, una cosa francamente eccessiva e nemmeno giustificata da necessità legate a complicati cambi di scena. 

Teatro non propriamente affollatissimo e pubblico che alla fine ha voluto dimenticare le disavventure dei cast tributando a tutti (ehm, Armiliato escluso…) calorosi applausi. Ecco, proprio una cosa all’acqua di rose…


29 marzo, 2015

Riecco la famigerata Carmen… dantesca

 

Ieri sera terza ed ultima (per ora, in attesa di giugno) recita della Carmen (di Emma Dante, perché di Meilhac-Halévy non c’è proprio nulla!)

E appunto sugli aspetti non legati ai suoni di questa produzione avevo già scritto peste e corna all’indomani dell’uscita originale il SantAmbrogio 2009 (dove per me si erano salvati il divo Kaufmann e il discreto Barenboim) e questa ripresa non poteva certo farmi cambiare idea. Anzi mi fa detestare chi ha avuto quella di riproporre un simile spettacolo in abbonamento, quindi di imporlo anche a chi già ne conosceva i limiti. (Almeno la ripresa del 2010 era stata programmata fuori abbonamento, e così me l’ero fortunatamente risparmiata!) Perciò sulla parte visiva dello spettacolo mi fermo qui.
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In mancanza di un divo (Kaufmann) ed essendo un suo probabile buon sostituto (Meli) relegato alle recite in zona-Expo, il livello della prestazione musicale è stato appena sopra la sufficienza soltanto nel caso di Elīna Garanča. Che ha il fisique du role di… Fricka (stra-smile!) ma almeno canta dignitosamente, ecco. Se poi si facesse prestare qualche decibel (in zona centro-bassa) dalla Rachvelishvili sarebbe ancor meglio.

Invece José Cura canta come Kaufmann… fra una decina d’anni, sempre col fiato in gola e parecchia approssimazione: un amico gli è rimasto, quello che dal loggione gli ha gridato un gran bravo! dopo l’aria del fiore. Pagato con gli interessi (una sonora buata) all’uscita singola. Un isolato buh anche alla fine del second’atto, immagino però indirizzato alla regìa. Per il resto pochi e miseri applausi a scena aperta, compreso quello a sproposito sulla corona puntata che precede l’Andante moderato del Preludio.

Il torero Vito Priante mi ha fatto rimpiangere il pur non irresistibile Schrott dell’allestimento originale. Elena Mosuc è una Micaela… invecchiata precocemente anche nella voce, oltre che nell’orrenda acconciatura affibbiatale dalla regista.

Tutti gli altri sono comprimari che hanno fatto del loro meglio per… non farsi notare. Bene almeno il coro di Casoni.

Massimo Zanetti ha diretto tutto sommato con merito, riuscendo se non altro a tenere sempre basso il volume dell’orchestra, il che è un bene per la resa di un’opera come questa, ed anche per i cantanti in scena, che hanno evitato di far la figura dei pesci in acquario. 

Pubblico abbastanza numeroso e alla fine fin troppo… generoso.

28 marzo, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 27


Ricambiando la cortesia di una visita fatta da laVERDI qualche mese fa a Bolzano&Trento, ecco la gloriosa Orchestra Haydn occupare la scena dell’Auditorium sotto gli occhi del suo Direttore musicale Daniele Spini e la guida del suo Direttore principale, il 53enne estone Arvo Volmer, per proporci un bel concerto di impaginazione classica.  

Concerto che si apre con la Leonore N°2, Ouverture che Beethoven antepose alla prima versione (1805) del Fidelio, quella in tre atti che venne subito rimaneggiata per il secondo (e altrettanto sfortunato) ciclo di rappresentazioni del 1806. Dove l’opera è ridotta in due atti e dove l’Ouverture diventa la Leonore N°3, che è un mirabile perfezionamento della precedente (anche se poi, nel 1814, Beethoven la sostituirà con quella definitiva, battezzata con il nome stesso dell’Opera).

Come puro esercizio accademico, vediamo quali sono le differenze fra le due Leonore, facendoci aiutare da Claudio Abbado (che ha eseguito in concerto e inciso con i Wiener tutte le 4 versioni delle Ouverture, inclusa la Leonore N°1, composta probabilmente dopo la N°3, da cui prende decisamente le distanze, e comunque mai eseguita in teatro.)   

Come considerazione preliminare e di pura curiosità si noti come sotto la bacchetta di Abbado la N°2 duri qualcosa in più della N°3 (15’20” contro 13’35”) nonostante quest’ultima abbia108 battute in più (638 contro 530). Dal punto di vista dei contenuti, le due sorelle hanno una macro-struttura assai simile (Adagio – Allegro – Sostenuto – Allegro - Presto) ma nei dettagli le differenze sono molte e consistenti. Analogamente dicasi per i temi principali, che sono sostanzialmente tre, ma diversamente trattati: quello che viene etichettato come Florestan (perché cantato dal protagonista nella scena di apertura dell’atto secondo – terzo nella prima edizione 1805) e quello che chiamerò io eroico (non avendo trovato altre etichettature più precise, mai ricorrendo quel tema dentro l’opera); ad essi va aggiunto il motivo della trombetta del tirapiedi di Pizarro (quello che annuncia l’arrivo del Ministro) anzi: i due motivi, chè sono assai diversi fra le due versioni dell’opera (e delle rispettive ouverture). La Leonore N°3 presenta inoltre almeno tre nuovi motivi-ponte con una propria spiccata personalità.

Nello specchietto che segue ho riassunto le strutture delle due ouverture e i minutaggi di Abbado nelle due esecuzioni. Si potrà notare anche a prima vista quali e quante siano le differenze fra le due versioni: la N°3 lascia molto più spazio alla sezione in Allegro dopo gli interventi della tromba, essendo invece più asciutta nella parte iniziale e centrale.


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Volmer, che ha schierato le viole al proscenio, dirige con grande aplombe (ricorda un po’ nel fisico il grande Böhm) con gesti misurati e severi, bacchetta per il tempo, mano sinistra per le dinamiche. La sua è una lettura severa e rigorosa, come si addice al soggetto. L’orchestra ha un bel suono brillante (poco tedesco, devo dire) e ne esce un’esecuzione pregevole, accolta con calore dal pubblico (non proprio oceanico) dell’Auditorium.
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Poi abbiamo Jeu de cartes di Stravinski, tutt’altra musica davvero! Che forse Volmer ha preso un po’ troppo… sul serio, sacrificando qualcosa del brio e della’impertinenza del brano (non dimentichiamo che è musica per un balletto sul tema del poker). Mi è anche parso che la seconda mano della partita sia iniziata con una… carta fuori posto (corni o trombe?) Comunque un’esecuzione di tutto rispetto, che ha indotto il pubblico a tre chiamate del Direttore, cui il Konzertmeister Stefano Ferrario ha addirittura negato la quarta, inchinandosi e girando i tacchi mentre Volmer si apprestava a uscire!      
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Chiude il concerto la celebre Prima Sinfonia di Robert Schumann (sulla quale in passato avevo scritto qualche nota analitica in occasione di una proposta dell’Orchestra che la tenne a battesimo, nota cui rimando i… volonterosi).

Esecuzione vibrante e quasi integrale (Volmer ha omesso il da-capo del Finale) che ha messo in mostra la grande compattezza dell’orchestra e l’equilibrio fra le sezioni, tutte sollecitate dalla scrittura aspra e teatrale di Schumann. Perdoneremo al Direttore la libertà che si è preso nell’anticipare di 10 battute buone il Poco a poco accelerando del finale, per creare un effetto tanto indebito quanto… trascinante. Ma il pubblico ha evidentemente gradito, tributando a tutti lunghi e meritati applausi.

In definitiva, una graditissima visita e una bella serata di musica!

23 marzo, 2015

A Venezia un’Alceste… smagrita ma sempre bella

 

Ieri, in una Fenice abbastanza affollata, complice (o nonostante) un inizio di… inverno, è andata in scena la seconda rappresentazione di Alceste. Firmato dalla coppia Pizzi- Tourniaire.

La diffusione di Radio3 della prima di venerdi scorso (cui ha assistito il venetiofobo Amfortas riportandone impressioni positive) mi aveva un filino deluso sul piano dei contenuti (si intuiva già dai tempi indicati per lo spettacolo che ci fossero tagli non propriamente marginali) mentre mi aveva abbastanza soddisfatto su quello dell’esecuzione musicale.  

L’allestimento di Pier Luigi Pizzi prevede un solo intervallo, collocato - per equilibrare i tempi delle due parti - dopo la Scena II dell’Atto II. Questo comporta qualche teorico scompenso a livello del respiro dello spettacolo, che in origine prevede due fermate in momenti topici e paralleli: lo sconcerto generale per il destino di Admeto e quello analogo per il destino di Alceste, sostituitasi al marito.

Qui invece la prima parte, dopo l’Atto I, prosegue con la proposizione anticipata del Pantomimo numi infernali, che è in origine proprio alla fine della Scena II: non saprei dire se questo spostamento sia dovuto a necessità di coprire un cambio-scena (del resto non complicatissimo, apparentemente) oppure da una scelta estetica del duo regista-direttore: fatto sta che dopo il coro in DO maggiore Chi serve e chi regna, che chiude(rebbe) l’Atto I, il sipario viene calato e il pubblico applaude proprio come si fosse arrivati all’intervallo… invece ecco uscire sul proscenio Alceste, silenziosa e accompagnata dal Pantomimo (DO minore) che si chiude con l’entrata di Ismene (LA minore, Ferma, dell’inizio Atto II).

Prima parte dello spettacolo che si chiude quindi con l’aria di Alceste (Non vi turbate no) che ottiene dai Numi di poter tornare a salutare per l’ultima volta i cari, prima di morire. Una chiusura quindi piuttosto dimessa, sia pure in MIb maggiore, assai diversa da come sarebbe quella dell’Atto I, sul possente coro del Popolo.  

Per avere poi due parti di durata paragonabile (65 e 70 minuti) l’Atto II e l’Atto III hanno subito i tagli più evidenti (anche il primo atto ha delle sforbiciatine, ma roba da poco). In particolare la Scena VI dell’Atto II manca dei recitativi di Alceste (O casto…) e dei Cortigiani (Così bella…) e soprattutto del lungo e bellissimo recitativo di Alceste Figli, diletti figli. Nell’Atto III è principalmente tagliata la Scena II: recitativo di Alceste-Admeto (Vieni dunque) prima di Cari figli. Per il resto, è stato sacrificato qualche da-capo nei balletti.

Pizzi, intervistato alla radio venerdi scorso dalla Gaia Varon, aveva giustificato questi interventi sul testo con razionali vaghi e opinabili, del tipo: qualche taglio si faceva anche ai tempi di Gluck… In realtà la ragione più plausibile sembrerebbe di puro carattere… logistico: evitare un secondo intervallo, che si renderebbe necessario data la durata dei 3 atti completi (60-73-38 minuti, come si può rilevare da questa registrazione con la Flagstad, oltre che dall’esecuzione scaligera di Muti del 1987).  

Però, fatte queste doverose premesse e osservazioni di carattere tecnico-pedantesco, devo dire: tanto di cappello a Pizzi per come ha reinterpretato – era la sua quarta volta! - l’opera, benissimo coadiuvato dalle luci di Vincenzo Raponi.

Scene e costumi sono intonati ai colori bianco e nero (il proscenio ha addirittura un pavimento a scacchiera…): bianco come amore e nero come morte. Poi nella seconda parte dello spettacolo compare anche un poco di giallo-oro, forse a rappresentare la felicità. Il fondo della scena è modellato da pannelli che lo suddividono in 3 arcate, all’interno delle quali compaiono pochi e simbolici oggetti: un enorme turibolo e la statua di Apollo, poi (scena agli Inferi) degli alberi neri e rinsecchiti con le radici ricoperte di bianchi teschi (che sono anche appesi, quali frutti, ai rami). Per il resto servono anche a separare (come le basse gradinate che scendono al proscenio) i cori, fra destra e sinistra, come prescritto in partitura da Gluck. Fanno eccezione i Numi infernali, il cui coro canta in buca, mentre in scena scorrono pantomime di spettri rigorosamente in nero. Anche i costumi, di foggia assolutamente classica e stilizzata, come detto sono immacolati, salvo quelli di Alceste e della confidente Ismene, che mutano in nero dopo che la protagonista ha deciso di sacrificarsi.

I movimenti di protagonisti e masse sono sempre lenti e ieratici (un po’ alla… Wilson, se vogliamo) come si addice allo spirito dell’opera. La morte e… resurrezione di Alceste sono rappresentate dal suo addormentarsi sul letto posto al centro della scena, e alla fine dal suo risvegliarsi grazie alla… grazia di Apollo, la cui voce si ode dall’alto, senza che il dio appaia di persona.

Insomma, una messinscena pregevole che va ad aggiungersi al già abbondantissimo carnet di Pizzi.
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Sul fronte dei suoni, confermata la buona impressione della prima radiofonica.

Guillaume Torniaire – è il primo direttore mancino che io abbia mai visto su un podio - sfoggia grande sicurezza e sensibilità, ottenendo dall’ottima orchestra della Fenice un suono sempre morbido e leggero, come si confà allo spirito dell’opera, che rifugge da qualsiasi forzatura, enfasi o fracasso per concentrarsi sul dramma dei protagonisti e del popolo che ne condivide ogni singolo passo. A proposito di Popolo e di Numi infernali, eccellenti i componenti del coro di Claudio Marino Moretti, che ha appunto messo in mostra quel pathos che caratterizza i numerosi interventi delle masse.

Trionfatrice del pomeriggio Carmela Remigio, un’Alceste davvero emozionante, in tutta la gamma dei sentimenti che la protagonista esterna durante l’intera opera: dolcezza, amore, dolore, sacrificio, rassegnazione, gioia.

Marlin Miller è Admeto, una parte difficile che il tenore americano affronta forse con un po’ di circospezione all’inizio, per poi crescere nettamente. La voce forse non è penetrantissima, ma sempre ben intonata e senza forzature.

Quasi meglio di lui il suo… confidente Evandro, dicasi Giorgio Misseri, bella voce squillante e ben impostata (forse un paio di lievi calatine, ma nulla di grave). E anche l’altra confidente, Zuzana Marková, se l’è cavata assai bene.

Più che apprezzabili gli altri comprimari: Armando Gabba, Vincenzo Nizzardo e gli altri solisti del Coro che hanno parti di un certo rilievo.

Bravissimi infine i due fanciulli (interpreti dei figli della coppia protagonista) che vengono dal Coro di voci bianche dei Piccoli Cantori Veneziani di Diana D’Alessio.
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Ecco, uno spettacolo che val bene una trasferta in laguna!   

20 marzo, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 26


Si continua con la serie degli ultimi concerti mozartiani, e questa è la volta proprio dell’ultimo. Ma il programma di questa settimana prevede anche altro Mozart, poi uno Schubert e un Debussy… manipolati. Per dirigere il concerto (ma vedremo che ci mette lo zampino anche come compositore) torna sul podio de laVERDI una vecchia conoscenza degli anni di Chailly: Roberto Polastri.

La serata è aperta ancora nel segno di Mozart, con le Tre danze tedesche K605, quindi di poco posteriori al concerto pianistico che seguirà. Sono tre brevi brani (poco più di 2 minuti di media ciascuno) rispettivamente in RE, SOL e DO maggiore, tutti in tempo 3/4 senza indicazioni agogiche, ma ovviamente di piglio vivace. La terza presenta un trio sottotitolato gita in slitta, con due corni da postiglione e tre coppie di sonagli, dal sapore quindi prettamente natalizio.

Un buon antipasto per quel che deve seguire!
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Un giovane pianista delle Canarie, il 37enne Iván Martín Mateu, si siede alla tastiera per proporci il K595. Su questo ultimo concerto pianistico del Teofilo - e in particolare sulle auto-citazioni ivi contenute - avevo scritto qualche nota mesi fa, in occasione di un’esibizione di Barenboim alla Scala. Proviamo a seguirne lo sviluppo con l’aiuto di… Wilhelm Kempff.
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Come (quasi) sempre accadde nei concerti della maturità, è l’orchestra ad esporre i temi dell’iniziale Allegro (4/4) in forma-sonata. Temi che sono di problematica etichettatura, essendo assai più dei due canonici, per cui impiegherò alla bisogna qualche sigla più o meno appropriata e del tutto personale.


I violini espongono il primo tema (T1) che si innalza sulla triade di SIb maggiore per poi ricadere sulla tonica, apostrofato dai fiati (11”) con un inciso che viene dalla Haffner e prima ancora dal Ratto. Ancora i violini espongono un controsoggetto, sempre rimbeccati dai fiati; quindi ancora un altro motivo che ci riporta sulla tonica, dove i violini supportati dai fiati chiudono il gruppo tematico (28”) con un motivo (M1) che viene dal finale della Jupiter.
34” Ora si apre una transizione, caratterizzata da un delicato motivo (M2, in effetti quasi un nuovo tema) negli archi col dialogo dei fiati, che ci porta verso la presentazione (59”) del secondo tema (T2) sempre in SIb maggiore ma subito reiterato virando a minore. Veloci quartine di semicrome degli archi (1’20”) rimbeccati dai fiati (reminiscenza del finale della Sinfonia in SOL minore, e che apriranno poi la cadenza) conducono ad una nuova sezione transitoria. Qui (da 1’36” a 1’51”) udiamo sette battute che mancano nel manoscritto originale, ma che furono aggiunte nell’edizione critica essendo presenti nel prosieguo del movimento. A 2’08” ecco una nuova idea melodica (M3) di carattere dolcemente cadenzante che serve ad avviare la chiusura dell’esposizione orchestrale, sul SIb.
2’46” Entra qui il solista, che espone il primo tema (T1) nella tonalità di impianto, subito introducendovi abbellimenti e varianti, prima che (3’10”) i violini ripetano il motivo (M1) della Jupiter, che il solista (3’16”) riprende e sviluppa con virtuosismi di semicrome. Dopo un tutti orchestrale torna il solista (3’38”) esponendo un nuovo motivo (M4) sulla dominante, ma in minore (!)
4’06” Ancora due battute dell’orchestra e poi (4’10”) il solista attacca la transizione che lo porta (4’25”) ad esporre il motivo (M2) udito nei violini - nella transizione durante l’esposizione orchestrale - ma qui nella dominante FA maggiore. A 4’51” i violini ripropongono, in FA, il secondo tema (T2) di cui si fa carico (4’59”) il pianoforte, che lo sviluppa fino a 5’32”, dove i fiati ne interrompono temporaneamente la trama, che il solista riprende per sole 5 battute, prima del tutti orchestrale (5’54”) che apre la rincorsa verso il termine dell’esposizione.

6’27” Ecco qui iniziare lo sviluppo, con un vero e proprio colpo di scena: il primo tema (T1) è esposto dal solista in SI minore! E poco dopo (6’40”) rispondendo agli archi che erano minacciosamente saliti al DO, eccolo riproposto in DO maggiore! E quindi, con ulteriore balzo, in MIb maggiore dai fiati. Non è che l’inizio di un vero e proprio vagabondare attraverso continue modulazioni: il soggetto è principalmente il primo tema (T1) che viene alla fine riproposto dall’oboe (7’55”) in RE maggiore, poi minore, prima della modulazione che ci riporta a casa, sul SIb maggiore per la ricapitolazione

La quale ha inizio a 8’10” e ripercorre inizialmente l’esposizione, fino al motivo (M1) della Jupiter. Qui (8’39”) entra il pianoforte che ripropone la sua visione di quel motivo, sviluppandolo con volate di semicrome.
A 9’04” ecco ritornare il motivo M4 (quello in tonalità minore) ma stavolta in SIb (come dire: care regole, io mi faccio beffe di voi fingendo di applicarvi!) A 9’31” l’orchestra, subito seguita dal solista, ripropone una transizione che porta (9’50”) alla riproposizione sulla tastiera di una variante del motivo M2 (udito nell’esposizione).
A 10’15” ecco - in SIb (siamo ligi ai sacri canoni!) – il secondo tema (T2) riproposto dall’orchestra e subito ripreso dal solista. A 10’54” abbiamo la fermata dei fiati, cui segue la ripresa del solista che porta a 11’32” alla riproposizione del motivo M3. Da qui il passo è breve per giungere alla sospensione che prelude alla cadenza solistica (12’00”) lasciataci da Mozart (è un’eccezione alla regola). A 13’31” ecco la rapida conclusione del movimento.

Il centrale Larghetto (4/4 alla breve) è nella sottodominante MIb maggiore, suddiviso in tre sezioni (A-B-A).

Viene aperto (anche qui è una consuetudine) dal pianoforte solo che espone (14’02”) il tema principale (T1) mutuato dal finale della Sinfonia K425, detta di Linz (ma forse è una reminiscenza di Haydn). Tema di 4 battute ripetute, poi ripreso (14’27”) dai legni.
A 14’54” è ancora il pianoforte ad esporre un nuovo tema della sezione A (T2) in SIb maggiore, che è parente del tema principale; è subito seguito (15’18”) dal ritorno a MIb con una nuova esposizione di T1. Una lunga transizione orchestrale (15’45”) nella quale si distinguono diversi motivi (in particolare M1 e poi M2 che chiude la sezione).

A 16’39” si apre la sezione B del movimento, ancora in MIb, con il tema T3 che prefigura vagamente quello che caratterizzerà il movimento centrale del futuro Concerto per clarinetto, tema che chiude sulla dominante SIb e viene subito riproposto. A 17’13” ha inizio uno sviluppo del tema che porta a diverse modulazioni, da SIb maggiore a minore (M3) da qui alla relativa SOLb maggiore (M4). A 17’54” si torna alla relativa MIb minore e la sezione si conclude poi con una salita cromatica in tremolo del pianoforte, dal SIb fino a raggiungere la tonica MIb.

A 18’36” inizia la ripresa della sezione A, con il solista che espone di seguito il tema T1 e (19’02”) il T2. Dopo una brevissima transizione, a 19’46” il tema T1 viene riproposto dal pianoforte in unisono con il flauto e i violini, poi (20’11”) torna la transizione lunga già udita nella prima sezione A, seguita (20’52”) da una cadenza del solista, poi raggiunto da fiati e violini, per portare a compimento il Larghetto.

Il finale in SIb maggiore, Allegro in 6/8 è in forma di Rondo (ma con aspetti di forma-sonata) con una struttura piuttosto complessa, schematizzabile come A-B-A-C-A-(A’)-A-B-A-C-A.

Lo apre il solista a 21’33”, esponendo il tema T1, che Mozart impiegò in un Lied sulla primavera, composto quasi contemporaneamente al concerto. A 21’44” lo riprende l’intera orchestra. Il pianoforte (21’55”) espone un secondo soggetto (M1) e poi torna (22’14”) al tema T1. Un terzo soggetto della sezione A (M2) è invece esposto dall’orchestra a 22’25”. Da 22’38” abbiamo una robusta coda orchestrale che chiude la sezione A.

A 22’58” ecco la sezione B del Rondo che presenta un nuovo tema (T2, il cui incipit è stretto parente di quello del T1 del Larghetto) sempre in SIb ed ancora esposto dal pianoforte, subito supportato dagli archi. A 23’17” torna la sezione A in forma assai variata che vira alla dominante FA maggiore, culminante poi (23’42”) in un tutti orchestrale cui il solista risponde preparando la successiva sezione C, appunto nella dominante FA maggiore.

Sezione che inizia a 23’56” con l’esposizione del tema T3 da parte del solista, ripresa (24’06”) con l’aggregazione di oboi e fagotti, quindi del flauto. A 24’27” la sezione si arricchisce di una prima cadenza solistica, che sfuma nella ripresa in SIb (24’57”) della sezione A, sempre nel pianoforte, cui risponde (25’07”) l’intera orchestra.

A 25’19” ecco una sorpresa: il solista espone il secondo frammento del tema T1 in tonalità di SIb minore, sulla quale tonalità si libra in una serie di virtuosismi finchè a 25’40” è raggiunto dall’orchestra che espone in FA minore il tema T1, conducendo ad una enfatica fermata (26’03”) sul LAb, sottodominante del MIb (dominante del SIb di impianto) sul quale viene ripresa (26’10”) dal solista la sezione A, assai variata dopo l’esposizione del tema.    

A 26’40” riecco la sezione B del rondò con il tema T2, stavolta esposto sulla tonica SIb (canoni della forma-sonata). A 26’58” torna la sezione A variata. Ripresa dalla piena orchestra (27’23”) e poi dal solista che chiudono la sezione.

A 27’37” torna nel solista la sezione C del Rondo, qui in SIb maggiore (come da forma-sonata) ripresa dall’orchestra a 27’48” e poi conclusa con una nuova fermata (28’12”) che prelude all’arrivo dell’ultima cadenza solistica. Cadenza (28’14”) che in effetti è basata sul tema T1 e quindi è come se preludesse alla riproposizione della sezione A del Rondo, che in effetti il solista esegue a 29’40”, sul tema T1, subito seguito a 29’50” da M1 e ancora da T1 (30’09”) e poi (30’20”) da M2 in orchestra. A 30’34” riecco la transizione che porta adesso verso la chiusura. Un’ultima comparsa di T1 (31’08”) la prepara nel pianoforte, lasciando poi alla sola orchestra (31’18”) la finale cadenza.
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Martín mette in mostra grandi qualità: proprio perché (relativamente) facile, questo concerto si presta ad essere affrontato con… faciloneria. E invece il ragazzo spagnolo ce lo ha proposto con una grazia e una cura davvero sorprendenti, sfoggiando anche suoi personali abbellimenti e mini-cadenze davvero di alta sensibilità.

Insomma, una bellissima prestazione, accolta con entusiasmo e seguita da un’invenzione di Bach.
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La seconda parte della serata si apre con Schubert rielaborato da Bruno Maderna. È in pratica una suite in 5 movimenti, che comprendono Polka, Galopp, Marce e Walzer. Una cosa piacevole e gradevole, un po’ da Concerto di capodanno, ecco. 

Si chiude invece con qualcosa di assai impegnativo: una Suite dal Pelléas et Melisande di Debussy, a suo tempo predisposta da Erich Leinsdorf, ripresa da Claudio Abbado e finalmente rimessa a punto da Polastri. Pare che Debussy sia sempre stato contrario a ricavare dalla sua (unica) opera delle suite o dei bigini, e bisogna dire che forse non aveva tutti i torti poiché, estrapolati dal loro contesto originario, questi brani lasciano un po’ a desiderare, non avendo il respiro sinfonico di lavori come L’Après o La Mèr, tanto per dire. Quindi un successo di stima, come si suol dire, in un Auditorium anche ieri non propriamente sovraffollato.

18 marzo, 2015

La Fenice ospita Alceste


Venerdi 20 marzo (diretta su Radio3 alle ore 19) va in scena alla Fenice la prima di Alceste di Christoph Willibald Gluck, su testo di Ranieri de’ Calzabigi. Si tratta della versione originale in italiano, presentata per la prima volta al Burgtheater di Vienna sabato 26 dicembre 1767. (Nove anni dopo nascerà a Parigi la versione in lingua francese, che si discosta non proprio marginalmente da quella viennese.) Martedi 24, sempre alle 19, l’opera verrà anche irradiata in streaming-video qui, dove la registrazione rimarrà disponibile per un anno.
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Alceste viene unanimemente considerata come l’opera che consolida i princìpi innovatori del teatro musicale maturati a metà di quel secolo ed esposti in un saggio di Francesco Algarotti, e fatti propri da Calzabigi. Il quale aveva trovato in Gluck un altro sostenitore e soprattutto l’ideale traduttore in musica di tali princìpi, subito messi in pratica dai due con l’Orfeo (1762).

Le ragioni profonde dell’urgenza innovatrice di Algarotti e poi di Calzabigi&Gluck sono da ricondurre alla progressiva degenerazione che l’opera musicale aveva subito a partire dalla prima metà del ‘600, in particolare a Venezia, con la nascita e l’esponenziale diffusione del teatro pubblico e popolare. In sostanza, l’organica coerenza del recitar-cantando di bardiana memoria (fine ‘500) era stata rotta dal combinato disposto di due fenomeni dilaganti: le esigenze di un pubblico di estrazione borghese che mal sopportava l’eccessiva profondità e l’austera classicità greca dei soggetti del teatro aristocratico delle corti e prediligeva il piacere del canto puro; e gli interessi dei musicisti, e soprattutto dei cantanti, che ovviamente ben si sposavano con le aspettative del nuovo, vasto pubblico. Ecco quindi maturare un netto sdoppiamento all’interno della struttura fino allora unitaria delle opere musicali: da una parte i recitativi secchi (poco più che parlati, come dice il termine) che in qualche modo tenevano i fili della narrazione, e dall’altra le arie musicali, sovraccariche di virtuosismi e gorgheggi del tutto fine a se stessi (e alla fama del cantante) e spesso musicalmente avulse dal contesto del dramma, di cui anzi finivano per spezzare la continuità.

Tutta la produzione di teatro musicale italiano serio (ma anche buffo) di fine ’600 e ‘700 (che aveva spopolato anche nel mondo tedesco, a partire proprio dalle Corti, Vienna in-primis, dove Metastasio ne aveva meticolosamente codificato la struttura bifronte, recitativo-aria) aveva poggiato su queste basi, che rimasero in verità saldamente in piedi, nonostante Gluck e Calzabigi, fino ai primi decenni dell’800 e all’irruzione del romanticismo, caratterizzando in qualche misura anche opere di Mozart e Rossini, per dire. Diversamente erano andate le cose a Parigi, dove la presenza della Corte più grande e ricca del pianeta aveva contribuito a mantenere alto l'ideale bardiano, grazie anche all’opera di musicisti italiani, primo fra tutti Lulli(-Lully, che pure compose un Alceste nel 1674) a cui non a caso si ispirò lo stesso Gluck: il genere della tragédie lyrique ne fu la più corposa manifestazione, che sicuramente ebbe un peso nel formarsi a Vienna di quella corrente innovatrice che trovò (temporaneamente) in Gluck, Calzabigi e Giacomo Durazzo (direttore artistico dei teatri di corte) i suoi paladini. Ma per vedere gli ideali della camerata fiorentina cinquecentesca tornare pienamente in auge si dovrà attendere nientemeno che il Wagner post-Lohengrin!

I fondamenti della nuova concezione del teatro musicale furono espressi in modo assai dettagliato in una prefazione all’edizione dell’Alceste - indirizzata al futuro Imperatore Leopoldo II - cui appose la firma il compositore, ma che fu presumibilmente ispirata, se non proprio vergata, dal librettista: 

ALTEZZA REALE!

Quando presi a far la musica dell’Alceste mi proposi di spogliarla affatto di tutti quegli abusi che, introdotti o dalla mal intesa vanità dei Cantanti, o dalla troppa compiacenza de’ Maestri, da tanto tempo sfigurano l’Opera italiana, e del più pomposo e più bello di tutti gli spettacoli, ne fanno il più ridicolo e il più noioso.

Pensai restringere la musica al suo vero ufficio di servire la poesia, per l’espressione e per le situazioni della favola, senza interromper l’azione o raffreddarla con degli inutili superflui ornamenti, e crederei ch’ella far dovesse quel che sopra un ben corretto e ben disposto disegno la vivacità de’ colori e il contrasto bene assortito de’ lumi e delle ombre, che servono ad animare le figure senza alterarne i contorni.

Non ho voluto dunque né arrestare un attore nel maggior caldo del dialogo per aspettare un noioso ritornello, né fermarlo a mezza parola sopra una vocal favorevole, o a far pompa in un lungo passaggio dell’agilità di sua bella voce, o ad aspettare che l’Orchestra gli dia il tempo di raccorre il fiato per una cadenza. Non ho creduto di dover scorrere rapidamente la seconda parte di un’aria, quantunque fosse la più appassionata e importante per aver luogo di ripeter regolarmente quattro volte le parole della prima, e finir l’aria dove forse non finisce il senso, per dar comodo al cantante di far vedere che può variare in tante guise capricciosamente un passaggio; insomma ho cercato di sbandire tutti quegli abusi de’ quali da gran tempo esclamavano invano il buon senso, e la ragione.

Ho imaginato che la sinfonia debba prevenire gli spettatori dell’azione che ha da rappresentarsi, e formare, per dir così, l’argomento: che il concerto degli istrumenti abbia a regolarsi a proporzione degl’interessi e della passione, e non lasciare quel tagliente divario nel dialogo fra l’aria e il recitativo, che non tronchi a controsenso il periodo, né interrompa mal a proposito la forza e il caldo dell’azione.

Ho creduto poi che la mia maggior fatica dovesse ridursi a cercare una bella semplicità; ed ho evitato di far pompa di difficoltà in pregiudizio della chiarezza; non ho giudicato spregevole la scoperta di qualche novità, se non quando fosse naturalmente somministrata dalla situazione e dall’espressione; e non v’è regola d’ordine ch’io non abbia creduto doversi di buona voglia sacrificare in grazie dell’effetto.

Ecco i miei principj. Per buona sorte si prestava a meraviglia al mio disegno il libretto, in cui il celebre autore, immaginando un nuovo piano per il drammatico, aveva sostituito alle fiorite descrizioni, ai paragoni superflui e alle sentenziose e fredde moralità, il linguaggio del cuore, le passioni forti, le situazioni interessanti e uno spettacolo sempre variato. Il successo ha giustificato le mie massime, e l’universale approvazione in una città così illuminata ha fatto chiaramente vedere che la semplicità, la verità e la naturalezza sono i grandi principii del bello in tutte le produzioni dell’arte.

Con tutto questo, malgrado le replicate istanze di persone le più rispettabili per determinarmi di pubblicare con le stampe questa mia opera, ho sentito tutto il rischio che si corre a combattere dei pregiudizi così ampiamente, e così profondamente radicati, e mi son veduto in necessità di premunirmi del patrocinio potentissimo di vostra altezza reale implorando la grazia di prefiggere a questa mia opera il suo augusto nome, che con tanta ragione riunisce i suffragi dell’Europa illuminata. Il gran Protettore delle bell’Arti, che regna sopra una nazione, che ha la gloria di averle fatte risorgere dalla universale opressione, e di produrre in ognuna i più gran modelli, in una città ch’è stata sempre la prima a scuotere il giogo de’ pregiudizi volgari per farsi strada alla perfezione, può solo intraprendere la riforma di questo nobile spettacolo in cui tutte le arti belle hanno tanta parte. Quando questo succeda resterà a me la gloria d’aver mossa la prima pietra, e questa publica testimonianza della sua alta Protezione al favor della quale ho l’onore di dichiararmi con il più umile ossequio

    Di V.A.R.
Umil.mo Dev.mo Obblig.mo Servitore
CRISTOFORO GLUCK

Beh, la sintesi dei concetti espressi nella prefazione potrebbe ridursi al celebre motto: Prima le parole, poi la musica; ed è proprio perché è difficile immaginare che il musicista Gluck lo condividesse al 100% che viene il sospetto che l’autore di detta prefazione sia in realtà il paroliere Calzabigi, che sembra quasi citare alla lettera un passo del saggio di Algarotti:

Un altra principal ragione ancora del presente scadimento della Musica, è quel suo proprio, e particolar regno, ch'ella si è venuta formando. Il compositore si comporta quivi come despotico, vuol pure far da sé, e piacere unicamente in qualità di Musico. Per cosa del mondo non gli può entrare in capo, ch'egli ha da essere subordinato, e che il maggior effetto della Musica ne viene dallo esser ministra, e ausiliaria della Poesia. Proprio suo uffizio è il dispor l’animo a ricevere le impressioni dei versi, muovere così generalmente quegli affetti, che abbiano analogia colle idee particolari, che hanno da essere eccitate dal Poeta; dare in una parola al linguaggio delle Muse maggior vigore e maggiore energia.

E per nostra (dei musicomani) fortuna, i proclami di Algarotti e Calzabigi furono da Gluck applicati… da grande musicista! Per Alceste vale ciò che si può dire dei drammi di Wagner: per quanto il testo sia di elevata qualità, senza la musica che lo accompagna sarebbe finito nel dimenticatoio, anzi probabilmente non avrebbe mai avuto l’onore di esser recitato in un teatro.
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Conformemente alla massima di Orazio posta sul frontespizio del libretto e in chiara polemica con Metastasio, Denique sit quodvis simplex dumtaxat et unum (Sia come lo vuoi, purché sia semplice e unitario) il soggetto di Calzabigi è di una semplicità che sfiora la povertà: mancano del tutto i contrasti (amorosi, politici, bellici) che caratterizzavano (e caratterizzeranno) i libretti d’opera; tutto si concentra sulla tragica vicenda dei due sposi Alceste-Admeto e sullo scavo psicologico dei rispettivi sentimenti, in una cornice dove i cori hanno parte di primo piano (proprio come nelle tragedie greche) e dove assumono un ruolo importante anche le scene di danza o di balletto (balli pantomimi e balli ballati).

Quanto alla musica, Gluck sopprime (quasi) totalmente i recitativi secchi e rinnova radicalmente la struttura delle arie, rinunciando definitivamente alla classica forma del da-capo (al massimo fa ripetere, ma non meccanicamente, qualche verso) per privilegiare un’assoluta libertà espressiva (inconcepibile secondo i sacri canoni vigenti, che imponevano forme facilmente riconoscibili) che si materializza in frequenti mutamenti di tempo, ritmo e tonalità, volti a sottolineare ogni più piccola sfumatura dei sentimenti dei protagonisti. Inoltre, rompe la continuità dei cori con interventi solistici e/o con coreografie/balli che coinvolgono anche gli stessi coristi.

Calzabigi da parte sua pretende dagli interpreti gestualità e movenze naturali, per dare la più grande credibilità al dramma (anticipando concetti che le moderne regìe teatrali scopriranno 150 anni più tardi…) Insomma l’idea è quella di mettere tutte le risorse (umane e materiali) al servizio dello spettacolo, proprio come sognerà 80 anni più tardi Richard Wagner.
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A Venezia l’allestimento sarà curato da Pier Luigi Pizzi - un veterano di messinscene di Alceste, italiana e francese – che realizzò anche quella della Scala con Muti del 1987 (eseguita senza tagliare nemmeno una virgola di testo e solo un paio di brevissimi da-capo nei balletti). Il sito del Teatro informa di una durata (netta) di 2h15’, il che farebbe ipotizzare un buon 20-30 minuti di tagli (?!) Venerdi ascolteremo questa Tragedia per musica, in seguito… vedremo.

16 marzo, 2015

Il turco in… Piemonte

 

Ieri pomeriggio il Regio torinese ha ospitato la terza rappresentazione de Il turco in Italia, in una co-produzione italo-franco-polacca.

Prima di parlare della regìa di Christopher Alden propongo un paio di considerazioni. Innanzitutto siamo in presenza di un soggetto buffo (o tragi-comico) che per sua natura poco si presta a dissacrazioni o stravolgimenti iconoclasti (tipo l’Aida dello stesso regista ambientata in un collegio di religiose…) Anzi, rivisitazioni anche profonde, se fatte con un minimo di gusto, possono arrecarvi valore aggiunto, cosa che mi sento di sottoscrivere per questo allestimento.

Secondo, sarà bene ricordare quale fu la genesi del libretto di Felice Romani (cui senza dubbio mise le mani lo stesso compositore), cominciando col dire che esso fu scopiazzato da quello che Caterino Mazzolà aveva scritto per Il Turco in Italia di F.J.Seydelman rappresentato a Dresda nel 1788 e replicato nel 1789 a Vienna, dove assai verosimilmente fu visto dalla coppia Mozart-DaPonte. I quali altrettanto assai verosimilmente si ispirarono a quel testo, e in particolare alla figura del poeta Prosdocimo, per mettere in piedi la loro Così fan tutte, protagonista il filosofo DonAlfonso. Dopodichè, con modalità perfettamente reciproche, accadde che nel 1814 la coppia Rossini-Romani, che stazionava a Milano per il suo Turco, assai verosimilmente potè assistere ad una rappresentazione alla Scala - indovina indovinello? – proprio del mozartiano-dapontiano Così!

Insomma, fra i tre testi (i due Turchi e il Così) ci dev’essere stata più di un’influenza. Nel merito va riconosciuto che il libretto di DaPonte supera ampiamente per profondità quello – pure intelligente – di Romani. E lo fa proprio sul terreno del confronto fra le due personalità di DonAlfonso e di Prosdocimo. Il primo (che non per nulla è un filosofo…) si impone al centro della vicenda, determinandone ogni svolgimento, anche nei minimi dettagli: il suo assunto (di natura tipicamente scettica) viene alla fine dimostrato proprio a spese delle due coppie protagoniste, ma tutto sommato anche a loro vantaggio (ammesso che siano capaci in futuro di trarre partito dalla morale della favola). Viceversa il Prosdocimo di Romani è per gran parte dell’opera niente più che un agente passivo degli avvenimenti, nei quali cerca disperatamente di scovare un soggetto per un suo nuovo dramma teatrale. E soltanto dopo averlo trovato decide di pilotarne la conclusione reale secondo le proprie convinzioni etiche, che non sono affatto quelle del dapontiano Così! Essendo esse quanto di più reazionario si possa concepire, con la tremenda (davvero tragica) punizione di Fiorilla, costretta ad una resa senza condizioni alle ipocrite e antifemministe regole della società, che lei così spavaldamente e velleitariamente aveva preteso di infrangere. E – per quanto riguarda i turchi (Selim e Zaida) – comportando un atteggiamento del tipo: tornatevene a casa vostra e non venite qui a rubarci le mogli (Selim) e a fare i rom (Zaida). Proprio un Salvini ante-litteram!!!   

Quindi: una distanza davvero abissale rispetto al messaggio dapontiano-mozartiano.
 
Ecco, fatta questa necessaria premessa, possiamo adesso avvicinarci alla vision che Alden ha posto alla base del suo allestimento dell’opera. Il controverso regista americano fa ruotare l’intera vicenda attorno alla figura di Prosdocimo, trasformandolo appunto nel DonAlfonso di DaPonte-Mozart, motore unico e dominus dell’azione.

L’idea ha comportato qualche disallineamento rispetto al libretto, inevitabile quando si inverte letteralmente il nesso causa-effetto tra un fatto reale e il comportamento dell’osservatore. In sostanza, ci vengono presentati come effetti del copione scritto dal Poeta fatti e notizie che viceversa, nell’originale, sono cause che determinano i contenuti di tale copione. Faccio un esempio infimo, ma significativo: nel libretto di Romani Prosdocimo scopre, informato da Geronio, l’identità del turco che, appena sbarcato, ha già invaso la casa di Fiorilla e dello stesso Geronio; ecco, Alden ribalta la circostanza, mostrandoci Prosdocimo che informa di ciò Geronio, passandogli da leggere un foglio del suo copione.

Un altro riferimento (non certo originale) riscontrabile nella regìa di Alden riguarda Pirandello (i Sei personaggi in cerca d’autore): che si materializza quando alcuni interpreti dell’opera rifiutano il copione propostogli da Prosdocimo e se lo scrivono come pare e piace a loro.

In ogni caso si tratta, a mio parere, di scompensi del tutto sopportabili, un modesto prezzo da pagare ad una visione del soggetto dell’opera che ne valorizza la freschezza e ne facilita la godibilità, sfruttando poi l’efficacia e i colori di scene, luci e costumi, e soprattutto la bravura di tutti gli interpreti (coristi inclusi) nel muoversi per realizzare al meglio le idee del regista.
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Sul fronte musicale, va detto che l’opera è stata eseguita nella sua interezza (il che significa tre ore nette di spettacolo, equamente distribuite nei due atti) recitativi inclusi; anzi, di più, essendo state eseguite anche quelle parti (solitamente espunte) che vengono catalogate come varianti: nell’atto I l’aria di Narciso Un vago sembiante, seguita dal recitativo Di Fiorilla il carattere; e soprattutto l’aria dell’atto II (Se ho da dirla) che mette a dura prova le capacità scioglilinguistiche del Geronio di turno.

Daniele Rustioni, sempre col sorriso sulle labbra, mi è parso dirigere con sufficiente autorevolezza, cura del dettaglio e attenzione a non coprire le voci, evitando eccessivi fracassi. L’orchestra lo ha seguito diligentemente, suono sempre chiaro e pulito. Al fortepiano era Luca Brancaleon, che si è sobbarcato la gran mole dei recitativi, come detto assolutamente non tagliati.

Quanto alle voci, direi bene del terzetto dei basso-buffo: a partire da Paolo Bordogna, un Geronio efficace e bravo a non trasformare i velocissimi scioglilingua (non solo quello del second’atto) in incomprensibili grammelot; poi Simone del Savio, un convincente Prosdocimo; infine Carlo Lepore, che ha efficacemente interpretato la figura del Turco.

Decisamente meno bene i due tenori: persistendo il forfait dell’influenzato Siragusa, Narciso era ancora una volta Edgardo Rocha, che ha mostrato tutti i limiti della sua voce, piccola ma anche sgradevole e poco impostata; appena un filino-filino meglio Enrico Iviglia nei panni di Albazar.

Sul fronte femminile, accettabile la prova di Nino Machaidze come Fiorilla: però non basta staccare gli acuti, RE inclusi, per meritarsi l’eccellenza: la voce è penetrante nell’ottava alta, ma sempre con timbro metallizzato, e ha volume scarso nella prima ottava; posso dire solo, per quel che conta, che l’ho trovata un filino migliorata rispetto all’ultima sua esibizione che mi è capitato di seguire dal vivo circa un anno fa. Samantha Korbey non mi ha proprio convinto, voce piccola, anonima e poco passante.

Bene come sempre il coro di Claudio Fenoglio, eccellente anche nei movimenti da avanspettacolo richiestigli da Alden. 

Calorosa accoglienza per tutti in un teatro ancora una volta affollatissimo.