Ormai
definitivamente orfana di Villazón (per lui e solo per lui un paio d’anni fa
Salzburg mise in piedi questo allestimento) è andata in
scena ieri sera la quarta recita del Lucio Silla. Di Mozart, certo, ma con una ciliegina sulla torta di Johann Christian Bach. Peccato però che
a Milano sia uscita alla fine una ciambella senza il buco Rolando!
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Le opzioni per
l’allestimento di opere come questa sono, teoricamente, tre: la prima è di
attenersi abbastanza scrupolosamente all’originale (il che può anche comportare
riletture e trasposizioni, purchè non si stravolga la drammaturgia): tagliare adeguatamente
una parte dei recitativi secchi, ma nulla o quasi della musica (è l’opzione di Cambreling-Chéreau, che fu alla base
della penultima produzione scaligera del 1984); la seconda è di presentare
soltanto i numeri musicali
(eliminando del tutto i noiosi recitativi secchi, qualcosa di simile
all’incisione di Adam Fischer) il che
si traduce però in un’esecuzione in forma di concerto, o semi-scenica, quindi
non idonea al cartellone di un (grande) teatro; la terza opzione è quella
scelta dalla coppia Minkowski-Pynkoski.
I quali hanno
cominciato a sforbiciare buona parte (a occhio ben più del 50%) dei recitativi
secchi; per poi cassare uno dei sei personaggi, Aufidio, certo il meno… coinvolto musicalmente (una sola aria, che però se n’è andata a quel
paese). Ciò ha comportato inevitabili scompensi alla struttura drammaturgica
dell’opera, il cui intreccio, per quanto contorto, ha però una sua logica che
qui viene parecchio compromessa.
Le scene sono
semplici, con pannelli scorrevoli in orizzontale e verticale che creano più o
meno plausibilmente i diversi ambienti in cui si svolge la trama. I costumi
(anch’essi dovuti a Antoine Fontaine)
sono vagamente dell’epoca della prima rappresentazione a Milano (1772). Intelligente
l’uso delle luci (Hervé Gary) a
completare appropriatamente i diversi scenari.
Quanto alla
parte attoriale, Pynkoski fa quello che può: lascia i cantanti impalati al
proscenio o passeggianti da un lato all’altro della scena in occasione delle
arie, mentre cerca di movimentare i pochi squarci di parlato con gag ed esagerazioni del tutto estranee
al concetto di opera seria, e più
caratteristiche di una pièce di
avanspettacolo raffinato (cito a caso: le effusioni incestuose di Silla e
Celia, i modi bruschi e violenti di Silla, i ritratti di Cecilio e Giunia fatti
a brandelli). Più rispettoso dello spirito dell’opera l’impiego del coro: quello
del primo atto dislocato in buca (come si addice a sovversivi e carbonari…);
gli altri due nelle apparizioni pubbliche
schierati e impalati in tribuna.
Sempre per
vivacizzare l’atmosfera, il regista ha pensato bene di introdurvi componenti
che nell’originale stavano… in panchina: i balletti. I quali nel ‘700
costituivano uno spettacolo nello spettacolo, intervenendo durante gli
intervalli e alla fine della recita, ed erano musicati da specialisti del ramo,
non dall’autore dell’opera. Ecco, qui Pynkoski si serve delle prestazioni del Corpo di ballo della Scala (Makhar Vaziev) e delle coreografie di Jannette Lajeunesse Zingg per togliere
staticità ad alcune scene: il terzo movimento della Sinfonia introduttiva, il
coro del primo atto (mentre i cantanti stanno in buca, in scena c’è appunto un
balletto), il momento dell’arresto di Cecilio (dove si assiste ad una vera e
propria scena di cappa-e-spada), il coro finale allietato da pregevoli danze, e
forse altro ancora.
Sul fronte
della musica, Minkovski ha, come detto, tagliato abbondantemente i recitativi
secchi, e fin qui poco male, poiché si deve ammettere che, essendo il soggetto
di de Gamerra di una noia mortale,
eliminare buona parte dei dialoghi parlati sia operazione intelligente
(privilegiare la musica) e gesto di comprensione verso il pubblico. Peccato che
però il direttore abbia tagliato (purtroppo, e dolorosamente, per chi
appena-appena conosca l’originale) anche pezzi di arie o intere arie, il che fa
sorgere qualche sospetto sulla sua… buona fede, a meno che non si tratti di
scelte legate all’insufficienza dei cantanti (ma allora il problema è in chi li
ha scritturati).
Poi, per
compensare i tagli praticati a Mozart, Minkowski ha introdotto nell’opera un…
corpo estraneo, per quanto di nobili origini (J.C.Bach) per dar modo a… Villazón (!?) di far bella figura proprio alla fine
dello spettacolo. Di questo passo allora dobbiamo aspettarci
prossimamente altri interessanti mixage:
del Barbiere di Rossini con quello di
Paisiello, delle Manon di Massenet e
Puccini, degli Otello di Rossini e
Verdi e - dulcis in fundo – non vediamo l’ora di gustare un mantecato di almeno
tre o quattro opere ispirate a Romeo&Juliet!
Per fare i fighi, la chiameremo Regiemusik!
Peccato, perché la direzione di
Minkovski mi è parsa di ottimo livello e di grande equilibrio nella resa degli
squarci a sola orchestra, come nell’accompagnamento sempre rispettoso delle
prerogative delle voci.
E proprio le voci sono state, a mio
modestissimo giudizio, il punto debole dello spettacolo, a cominciare dal
tenore Kresimir Spicer, di cui il
meglio si possa dire è che è stato la perfetta imitazione di quel tale Bassano Morgnoni che rischiò di mandare
in vacca la prima rappresentazione di quel sabato 26 dicembre 1772! E qui,
Rolando assente, ha pure dovuto sobbarcarsi (con tanto di divagazione
peripatetica da palco a buca, a podio) l’interminabile recitativo-aria di
J.C.Bach!
Chi invece, ma è l’unica, mi ha
pienamente convinto è Marianne Crebassa:
voce penetrante in tutta la tessitura, bene impostata e sempre al servizio
dell’espressività del personaggio.
Gli altri tre soprani su un piano di
mediocrità: Lenneke Ruiten sarebbe
una Giunia apprezzabile se si potessero udire anche le sue note nella prima
ottava; Inga Kalna (Cinna) mi è parsa
sempre sforzata e spesso calante; Giulia Semenzato
(Celia) ha proposto una Celia sbarazzina nei gesti e nel timbro pigolante della
voce, molto meno nel canto… Tutte e tre largamente insufficienti nelle cadenze delle
arie, musicalmente davvero scombinate (responsabilità anche di chi gliele ha preparate?)
Coro di Casoni all’altezza. Quanto all’orchestra, ecco
come Padre Giovenale Sacchi stravedeva
per quella degli anni 1770:
Eh sì, bei ricordi,
che sarebbe il caso di rinverdire più spesso!
Piermarini con grandi vuoti, ulteriormente
allargatisi nell’unico intervallo (scelto dividendo arbitrariamente l’opera in sole
due parti di lunghezza paragonabile: 90 e 75 minuti) il cui pubblico ha però accolto
assai benevolmente, anche se senza trionfalismi, questa proposta.
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