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13 marzo, 2015

Lucio Silla: opera… semiseria

 

Ormai definitivamente orfana di Villazón (per lui e solo per lui un paio d’anni fa Salzburg mise in piedi questo allestimento) è andata in scena ieri sera la quarta recita del Lucio Silla. Di Mozart, certo, ma con una ciliegina sulla torta di Johann Christian Bach. Peccato però che a Milano sia uscita alla fine una ciambella senza il buco Rolando!
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Le opzioni per l’allestimento di opere come questa sono, teoricamente, tre: la prima è di attenersi abbastanza scrupolosamente all’originale (il che può anche comportare riletture e trasposizioni, purchè non si stravolga la drammaturgia): tagliare adeguatamente una parte dei recitativi secchi, ma nulla o quasi della musica (è l’opzione di Cambreling-Chéreau, che fu alla base della penultima produzione scaligera del 1984); la seconda è di presentare soltanto i numeri musicali (eliminando del tutto i noiosi recitativi secchi, qualcosa di simile all’incisione di Adam Fischer) il che si traduce però in un’esecuzione in forma di concerto, o semi-scenica, quindi non idonea al cartellone di un (grande) teatro; la terza opzione è quella scelta dalla coppia Minkowski-Pynkoski.

I quali hanno cominciato a sforbiciare buona parte (a occhio ben più del 50%) dei recitativi secchi; per poi cassare uno dei sei personaggi, Aufidio, certo il meno… coinvolto musicalmente (una sola aria, che però se n’è andata a quel paese). Ciò ha comportato inevitabili scompensi alla struttura drammaturgica dell’opera, il cui intreccio, per quanto contorto, ha però una sua logica che qui viene parecchio compromessa.

Le scene sono semplici, con pannelli scorrevoli in orizzontale e verticale che creano più o meno plausibilmente i diversi ambienti in cui si svolge la trama. I costumi (anch’essi dovuti a Antoine Fontaine) sono vagamente dell’epoca della prima rappresentazione a Milano (1772). Intelligente l’uso delle luci (Hervé Gary) a completare appropriatamente i diversi scenari.

Quanto alla parte attoriale, Pynkoski fa quello che può: lascia i cantanti impalati al proscenio o passeggianti da un lato all’altro della scena in occasione delle arie, mentre cerca di movimentare i pochi squarci di parlato con gag ed esagerazioni del tutto estranee al concetto di opera seria, e più caratteristiche di una pièce di avanspettacolo raffinato (cito a caso: le effusioni incestuose di Silla e Celia, i modi bruschi e violenti di Silla, i ritratti di Cecilio e Giunia fatti a brandelli). Più rispettoso dello spirito dell’opera l’impiego del coro: quello del primo atto dislocato in buca (come si addice a sovversivi e carbonari…); gli altri due nelle apparizioni pubbliche schierati e impalati in tribuna.

Sempre per vivacizzare l’atmosfera, il regista ha pensato bene di introdurvi componenti che nell’originale stavano… in panchina: i balletti. I quali nel ‘700 costituivano uno spettacolo nello spettacolo, intervenendo durante gli intervalli e alla fine della recita, ed erano musicati da specialisti del ramo, non dall’autore dell’opera. Ecco, qui Pynkoski si serve delle prestazioni del Corpo di ballo della Scala (Makhar Vaziev) e delle coreografie di Jannette Lajeunesse Zingg per togliere staticità ad alcune scene: il terzo movimento della Sinfonia introduttiva, il coro del primo atto (mentre i cantanti stanno in buca, in scena c’è appunto un balletto), il momento dell’arresto di Cecilio (dove si assiste ad una vera e propria scena di cappa-e-spada), il coro finale allietato da pregevoli danze, e forse altro ancora.

Sul fronte della musica, Minkovski ha, come detto, tagliato abbondantemente i recitativi secchi, e fin qui poco male, poiché si deve ammettere che, essendo il soggetto di de Gamerra di una noia mortale, eliminare buona parte dei dialoghi parlati sia operazione intelligente (privilegiare la musica) e gesto di comprensione verso il pubblico. Peccato che però il direttore abbia tagliato (purtroppo, e dolorosamente, per chi appena-appena conosca l’originale) anche pezzi di arie o intere arie, il che fa sorgere qualche sospetto sulla sua… buona fede, a meno che non si tratti di scelte legate all’insufficienza dei cantanti (ma allora il problema è in chi li ha scritturati).

Poi, per compensare i tagli praticati a Mozart, Minkowski ha introdotto nell’opera un… corpo estraneo, per quanto di nobili origini (J.C.Bach) per dar modo a… Villazón (!?) di far bella figura proprio alla fine dello spettacolo. Di questo passo allora dobbiamo aspettarci prossimamente altri interessanti mixage: del Barbiere di Rossini con quello di Paisiello, delle Manon di Massenet e Puccini, degli Otello di Rossini e Verdi e - dulcis in fundo – non vediamo l’ora di gustare un mantecato di almeno tre o quattro opere ispirate a Romeo&Juliet! Per fare i fighi, la chiameremo Regiemusik!

Peccato, perché la direzione di Minkovski mi è parsa di ottimo livello e di grande equilibrio nella resa degli squarci a sola orchestra, come nell’accompagnamento sempre rispettoso delle prerogative delle voci.

E proprio le voci sono state, a mio modestissimo giudizio, il punto debole dello spettacolo, a cominciare dal tenore Kresimir Spicer, di cui il meglio si possa dire è che è stato la perfetta imitazione di quel tale Bassano Morgnoni che rischiò di mandare in vacca la prima rappresentazione di quel sabato 26 dicembre 1772! E qui, Rolando assente, ha pure dovuto sobbarcarsi (con tanto di divagazione peripatetica da palco a buca, a podio) l’interminabile recitativo-aria di J.C.Bach!

Chi invece, ma è l’unica, mi ha pienamente convinto è Marianne Crebassa: voce penetrante in tutta la tessitura, bene impostata e sempre al servizio dell’espressività del personaggio.

Gli altri tre soprani su un piano di mediocrità: Lenneke Ruiten sarebbe una Giunia apprezzabile se si potessero udire anche le sue note nella prima ottava; Inga Kalna (Cinna) mi è parsa sempre sforzata e spesso calante; Giulia Semenzato (Celia) ha proposto una Celia sbarazzina nei gesti e nel timbro pigolante della voce, molto meno nel canto… Tutte e tre largamente insufficienti nelle cadenze delle arie, musicalmente davvero scombinate (responsabilità anche di chi gliele ha preparate?)

Coro di Casoni all’altezza. Quanto all’orchestra, ecco come Padre Giovenale Sacchi stravedeva per quella degli anni 1770:


Eh sì, bei ricordi, che sarebbe il caso di rinverdire più spesso!  

Piermarini con grandi vuoti, ulteriormente allargatisi nell’unico intervallo (scelto dividendo arbitrariamente l’opera in sole due parti di lunghezza paragonabile: 90 e 75 minuti) il cui pubblico ha però accolto assai benevolmente, anche se senza trionfalismi, questa proposta.       


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