Zelensky e l'alternativa lose-lose, fra perdere:

la dignità VS l’alleato che ti chiede di perderla 

17 febbraio, 2012

Orchestraverdi – concerto n 20



Il Direttore principale de laVerdi, John Axelrod, fa il suo ritorno sul podio dell'Auditorium per proporre un concerto (quasi) tutto mozartiano.

Serata che si apre però con una composizione contemporanea, Afterthought di Giorgio Battistelli. Il quale, meditando sugli attentati londinesi del 2005, ha creduto di trovarvi un ideale collegamento con le atrocità evocate dal Richard III - opera da lui appena musicata, a quel tempo, e felicemente rappresentata (grazie a Carsen) in diversi teatri europei (non italiani!) - e ci ha costruito una specie di fantasia sinfonica, impiegandone alcuni temi conduttori.

Fedele allo spirito e ai riferimenti letterari e d'attualità, il pezzo alterna durissime pagine di sonorità cupa (martellamenti e urla strazianti) ad altre di pace quasi straniata, di ebete contemplazione di una realtà (umana e materiale) in disfacimento o – forse – di speranza di intravedere una qualche improbabile luce alla fine del tunnel. (Ma queste sono sensazioni evocate dal titolo e dallo scenario che il compositore stesso ci indica… in assenza dei quali il brano potrebbe essere interpretato in mille altri modi diversi.)

Ora si passa a Mozart, con il solista della casa, Radovan Vlatkovic, che presenta il Terzo Concerto per Corno. Köchel aveva catalogato quattro concerti per questo strumento in un certo ordine (412, 417, 447, 495) che si è poi scoperto essere cronologicamente errato, la sequenza appropriata essendo 417, 495, 447 e 412 (frammento). Quindi il concerto presentato qui è l'unico a mantenere il suo numero (3) in entrambi gli scenari… Però diventa, cronologicamente, l'ultimo concerto per corno completato da Mozart, nel 1787, quindi circa un anno dopo del 495. (Del 412 Mozart compose successivamente, pochi mesi prima di morire, il solo primo movimento, cui l'allievo Franz Xaver Süssmayr aggiunse di suo pugno un Rondò).

Vlatkovic non ha certo bisogno di essere scoperto oggi: tecnica sopraffina, virtuosismo eccezionale (grande la sua cadenza alla fine dell'Allegro) ma anche sensibilità interpretativa e perfetto dosaggio delle sfumature del suono. Un solo peccato: non averci regalato uno dei suoi mitici bis

Ecco poi il pezzo forte della serata, il Requiem del sommo Teofilo, purtroppo restato a livello di torso e quindi - gioco-forza - completato da mani assai più rozze (con tutto il rispetto per l'onnipresente e volonteroso Süssmayr) e passato di mano in mano come una cambiale con cui saldare debiti e pendenze diverse (!)

Bruno Walter in questa singolare (addirittura sbudellante, alla fine) intervista di quasi 60 anni fa non lesina critiche all'allievo di Mozart per la pesantezza della sua strumentazione (ah, quei tromboni!) ma riconosce anche che certa sua musica (in particolare il Benedictus) è un'eccellente realizzazione delle intenzioni del maestro.

Ancora oggi c'è chi si ostina (magari con le migliori intenzioni) a proporre nuove edizioni dell'opera. L'ultimo - ma solo in attesa del… prossimo – è tale Clemens Kemme, che ha rilasciato negli anni scorsi una sua edizione del Requiem, ritoccata (soprattutto) nelle parti esclusivamente di Süssmayr, come il Sanctus e tutto ciò che segue. La si può ascoltare qui, per notare ad esempio l'espansione – tutt'altro che peregrina – proprio del Sanctus. Di certo, l'approfondimento di altre partiture mozartiane permette a qualcuno (o lo illude) di poter indurre come il genio salisburghese si sarebbe comportato, avesse avuto tempo e modo, nel completare il Requiem di suo pugno. Ma l'unica cosa certa è che nessuno mai ci potrà dare (né avvicinarsi a darci) ciò che sarebbe uscito dalla penna d'oca di Mozart. Quindi mettiamoci il cuore in pace e ascoltiamo con devozione quel che ci è arrivato da esattamente 220 anni…

La premiata coppia Axelrod-Gambarini ci ha proposto un approccio assai equilibrato: orchestra non sovraccarica, tromboni e timpani discreti e mai soverchianti (+ Mozart e – Süssmayr, si potrebbe dire) voci perfettamente dosate nei mille chiaroscuri che caratterizzano la partitura. I solisti – nessuno francamente eccezionale – han però fatto la loro parte: il basso Snell e il soprano Gheorghiu un filino meglio del mezzosoprano Shaham e del tenore Leon.

In complesso, una prestazione che non ha sfigurato per nulla (almeno alle mie orecchie) con quella memorabile – seguita in streaming - che ci ha offerto Pappano con la sua SantaCecilia meno di un mese fa.

Meritato quindi il trionfo per tutti quanti, in un Auditorium finalmente affollato, dopo alcuni appuntamenti abbastanza snobbati dal pubblico.

E il prossimo appuntamento sarà ancora con Axelrod, in un programma un po' meno… impegnato.
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14 febbraio, 2012

Letonja (fra scioperi e defezioni) in concerto alla Scala


Sostituendo l'uccel-di-bosco Esa-Pekka, Marko Letonja è tornato sul podio della Scala - après les contes - per dirigervi le tre serate (in origine, poi ridottesi a due per un puntualissimo sciopero indetto da una sola, anche se potente, sigla sindacale) di un concerto della stagione del Teatro (quella dove i filarmonici fungono da prestatori d'opera senza compenso… smile!) Programma novecentesco che incastonava una primizia del terzo millennio. Pubblico folto, ma non oceanico, né troppo caloroso.

Mandarino, Fauno e D&C sono nel repertorio dell'orchestra, che li ha eseguiti negli ultimi mesi-anni sotto diverse illustri bacchette (mi vengono in mente Boulez e Mehta, per fare un paio di nomi). Ora, stabilire se con Letonja l'orchestra si sia superata, o se abbia semplicemente suonato a memoria (e il biondo sloveno si sia limitato ad agitarsi sul podio e a girare le pagine della partitura); o immaginare chissà quali sfracelli avrebbe fatto con Salonen… è impresa (almeno per me) assai ardua. Perché spesso una stessa prestazione siamo portati a valutarla in modo diverso, a seconda del personaggio che sta sul podio: se è Letonja, passabile; se è Salonen, mitica!

L'attrazione della serata era concentrata sulla prima assoluta di Luca Lombardi, Italia mia, pezzo commissionato dalla Filarmonica per commemorare i 150 anni tricolori. (Per la verità, anche l'autore ultimamente sembra aver perso un poco di patriottismo, visto che ha preso moglie, residenza e cittadinanza israeliane.) Poi all'ultimo momento – così, tanto per far nevicare sul ghiaccio – ecco la rinuncia di Gabriele Lavia (evidentemente vittima del clima siberiano, ahilui e giustificato da certificati medici) sostituito da Alessandro Quasimodo (un nome, una certezza…) nel ruolo di voce recitante, accanto a Monica Bacelli e a Lucio Gallo, voci… cantanti (smile!)

Il pezzo è – selon moi - un mediocre put-pourri di testi (alcuni classici, a cominciare da citazioni di Dante, Petrarca e Leopardi, per finire a Quasimodo-senior, altri dello stesso Lombardi) accompagnati da una musica che sembra far di tutto per mostrarsi orecchiabile e digeribile, ma senza riuscirci molto. Quasimodo-junior – che ha al fianco un Korrepetitor che gli dà gli attacchi (Letonja evidentemente è in tutt'altre faccende affaccendato…) - invece del testo del padre (cantato da Lucio Gallo) legge i testi di Lombardi: una specie di storia in pillole dei 150 anni italiani (ed europei) fermatasi per fortuna a subito prima dell'avvento di tale Berlusconi; e poi un elenco dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, amici e nemici, giorno sì e giorno no, come il mare, che un giorno è calmo e un giorno agitato, ma è meglio quando è calmo (apperò!) Ah, dimenticavo, si sente (a fatica) anche un sommesso Va', pensiero, che non guasta mai e come minimo ci risparmia le pernacchie padane contro roma-ladrona… Insomma, parecchia retorica e poca musica! Ma l'autore arriva comunque sul podio a prendersi gli applausi del pubblico, brandendo – novello Enrico Toti – una stampella!
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11 febbraio, 2012

Il teatro musicale: nuovo cancro della società?


Negli ultimi giorni il problema della vita e della sopravvivenza del teatro d'opera ha trovato nuovo spazio nel web per via di un paio di interventi giornalistici che hanno suscitato polemiche e discussioni fra gli amanti del genere.

A buttare il sasso, in modo invero provocatorio (chissà poi se volutamente o meno) è stato il giornalista-scrittore-operatoreculturale (e-chi-più-ne-ha-più-ne-metta) Marco Ferri con un breve ma vetriolico articolo sul suo sito web, intitolato nientemeno che La lirica è un tumore! Alla base della bizzarra - prima ancora che offensiva - tesi starebbero i numeri, in particolare il rapporto fra ciò che lo Stato (FUS) spende per le (14) fondazioni e il prodotto che esse mettono, per così dire, sul mercato: spettacoli costosissimi per presenze di spettatori microscopiche. Al confronto, la musica leggera avrebbe una audience di ordini di grandezza superiori, mentre dallo Stato non riceve praticamente un centesimo.

Applicando gli stessi razionali, non si capisce perché le istituzioni (centrali e locali) debbano preoccuparsi di portare elettricità, gas, acqua e bandalarga anche in sperduti borghi di montagna, a costi stratosferici, e per servire pochi individui ammalati di isolazionismo, ma rivendicanti tutti i sacrosanti diritti di ciascun cittadino. O perché non investa capitali per supportare l'industria del porno – altrettanto, se non più, popolare di altre forme di spettacolo - facendo così emergere tutto il nero che la caratterizza e risollevando quindi il nostro depresso PIL, e facendo al contempo contenti quei simpaticoni di Moody's e Standard&Poor's.

Ha voglia il simpatico Ferri a replicare che lui di problemi della lirica si è interessato con scrupolo e professionalità (peccato che lo dica lui, senza testimoni, smile!) ma quando uno arriva a definire come tumore una delle più alte manifestazioni del pensiero e dell'arte umana: o è fuori di testa o ha qualche fine nascosto. Sì, perché lui non scrive che il mondo attuale della lirica (in Italia e altrove) è afflitto da gravi problemi, che vi circolano approfittatori di ogni risma e che sarebbe il caso di farvi un po' di pulizia e mettervi un po' di ordine… no no, lui sentenzia che la lirica è un cancro che mina addirittura la nostra esistenza! Speriamo per lui che torni al più presto al potere Berlusconi, visto che aveva giurato sui figli che nel giro di pochi anni avrebbe debellato il cancro e ogni altra possibile e immaginabile futura malattia!


Gli ha indirettamente replicato Angelo Foletto, che non ha bisogno di presentazioni, con un fulminante editoriale apparso sulla benemerita rivista online Operaclick, che prende spunto in realtà dall'entrata in vigore di una norma a firma Brunetta&Bondi (ormai in procinto di passare alla storia come bruneri&canella…) dai più dimenticata, che vieta ai dipendenti delle fondazioni teatrali di praticare qualunque tipo di attività autonoma, parallelamente a quella istituzionale.

Il pregio dell'articolo di Foletto - al contrario della demagogia di bassa lega di Ferri – è di dire pane-al-pane-e-vino-al-vino. Cioè di ridicolizzare l'approccio di bruneri&canella (due nipotini di Stalin, per la cronaca…) che avrebbero voluto installare il tornello-timbra-cartellino anche sul podio del Kapellmeister (smile!)… e nel contempo denunciare le mille anomalie e i mille micro-privilegi che una gestione corporativa e sindacalizzata (nel senso deteriore del termine) delle nostre istituzioni liriche ha fatto nascere e prosperare.

Auspicando che finalmente, sull'onda di quel liberismo sociale che pare essere la stella polare del tecnico Monti (uno che la lirica non la considera un cancro, almeno sembrerebbe di capire) si possa avviare una seria riflessione sul problema e ad un'assunzione di responsabilità da parte di tutti, a partire – se non è chiedergli troppo - dal Ferri!
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10 febbraio, 2012

Orchestraverdi – concerto n 19



Riecco Aldo Ceccato, alle prese con l'integrale delle Sinfonie di Dvorak. Questa settimana tocca alla Settima, in un programma dal palinsesto tradizionale: una Ouverture, un Concerto solistico e la Sinfonia. Detto fra parentesi: va bene mettere in programma cicli su compositori importanti quali Dvorak, però questi concerti assomigliano maledettamente a quei pranzi a base di un solo prodotto, che so, tutti e solo formaggi o tutti e solo funghi… dove francamente si arriva al secondo con una certa sensazione (per dirla… dietetically-correct) di appagamento.

Karneval è il pezzo che apre la serata, proprio di quelli fatti apposta – con un attacco perentorio, cymbal-clash compreso - per richiamare all'ordine i soliti spettatori che si attardano in chiacchiericci anche dopo che il direttore è salito sul podio e si è girato verso i professori… Si tratta di un'ouverture (Op.92) che è parte di un trittico (con le op. 91 e 93) che il compositore aveva scritto nel 1891-92 (poco prima della parentesi americana) titolato Natura, vita, amore. In origine avrebbe dovuto essere un'unica opera suddivisa in tre parti, ma poi l'autore decise di pubblicare i tre pezzi disgiuntamente.

Ciò che comunque li accomuna è il motto musicale che ritroviamo, in diverse forme e posizioni, nelle tre ouverture, rappresentante, appunto, la Natura:
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Come dice il titolo, Karneval evoca un'allegra e movimentata festa paesana, in mezzo alla quale capita un solitario viaggiatore. Come detto, si entra subito in medias res, con il fiero tema principale – in LA maggiore - esposto da flauti e violini, con vigoroso accompagnamento di tutta l'orchestra:
Il tema viene subito ripetuto e poi sviluppato, fino a raggiungere un primo momento di calma, dove un nuovo motivo è esposto in RE maggiore, prima che il secondo tema (SOL maggiore – MI minore, poi sfociante in MI maggiore, dominante del LA di impianto) faccia la sua comparsa.

A questo punto troviamo nientemeno che una brevissima, ma illustre citazione dal baccanale del Tannhäuser (del resto a carnevale ci si deve divertire, altrimenti che festa sarebbe…)
Che introduce ad un intermezzo d'amore (sarà per caso il viandante che ha trovato compagnia…?) caratterizzato da una dolce melodia dell'oboe, in SOL maggiore, che prima il clarinetto e successivamente il corno inglese contrappuntano con il motto del trittico.

Ma presto la festa ricomincia più travolgente che mai. Siamo allo sviluppo, in tonalità SOL minore, che porta alla ripresa del tema principale, LA maggiore, sfociante in una coda quasi orgiastica. Chiudono il tutto tre colpi di smaccata fanfara dei tromboni.
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Ottima la prestazione dell'orchestra, che mette di buon umore il pubblico, anche ieri sera non proprio oceanico…

Segue poi il Concerto per violino, interpretato da una ragazza che pare uscita dall'ultimo concorso per veline. Per carità, questo non è certo un demerito, solo che lo spettatore è fatalmente portato a spostare l'attenzione, dalle quelle musicali, a doti di altro tipo (smile!)

Nella classifica dei tre concerti solistici di Dvorak, questo personalmente lo metterei al secondo posto, dopo quello per violoncello (di cui anticipa, nel centrale Adagio, alcune sognanti atmosfere) e decisamente prima del più astruso e deficitario concerto per pianoforte, udito qui di recente. Però anche questo non è che sia propriamente un capolavoro. Con una battuta di bassa lega potrei dire che, insieme agli analoghi concerti di Bruch, Wieniawski, Saint-Saens, Lalo e compagni… una volta che ne hai sentito uno, li hai sentiti tutti (ri-smile!)
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Dopo l'enfatico incipit (Allegro ma non troppo, 4/4) dell'orchestra, 5 battute che stabiliscono la tonalità di impianto (LA minore), il solista espone il tema principale, dal vago sapore gitano:
Il resto del movimento è di difficile catalogazione: forma-sonata, rondò, fantasia… anche i musicologi non sanno come prenderlo. Il difficile è stabilire se la cosa sia dovuta ad inventiva fin troppo sbrigliata, oppure ad una certa impotenza narrativa… Fatto sta che Dvorak pare volersene liberare al più presto, privandolo di una canonica ripresa e, dopo una sola battuta lunga di cadenza, scrive 13 battute (Quasi moderato) che di fatto introducono il movimento centrale.

L'Adagio ma non troppo, in FA maggiore, risolleva la reputazione di concerto e autore. Il solista espone subito il dolce tema che lo contraddistingue, contrappuntato dagli strumentini:
Qui, una volta tanto, è Dvorak ad anticipare qualcosa di Brahms, che udiremo nell'Andante in RE maggiore del Doppio concerto dell'amburghese, scritto di lì a qualche anno. Il brano si sviluppa con un altro delicato motivo:
Poi incontriamo un primo scossone, determinato da un energico motivo in FA minore, esposto dal solista e a cui risponde la calda sonorità del corno:
Divagazioni in MIb portano all'esposizione di un nuovo, dolcissimo motivo, in MI maggiore:
Altro intermezzo fosco, con l'orchestra, adesso, a riproporre il tema in FA minore, spalleggiato da fanfare delle trombe. Dal FA minore si passa alla relativa LAb maggiore, dove il solista si abbandona a lunghe peregrinazioni, prima di tornare… alla casa del FA maggiore, su cui prima l'orchestra, poi il solista, ripropongono (pesante) con grande enfasi pari alla nobiltà, il tema ascoltato poco prima in MI, che successivamente compie una divagazione a LA maggiore. Torna il FA con il secondo tema, prima che il violino, con i corni ancora a scortarlo, chiuda sul tranquillo accordo dell'orchestra.

Il Finale è un Rondò sui generis, la cui macro-struttura è A-B-A-C-A-B-A, ma si potrebbe dire con alcuna licenza. Il solista attacca subito con il tema principale A in LA maggiore (composto da due sezioni, domanda e risposta) dal piglio fiero e disinvolto (non per niente la danza popolare da cui prende spunto è chiamata furiant):
Il secondo tema (B) è un po' più contemplativo (ma sempre sul ritmo della furiant). Preceduto da un motivo di collegamento, è nella dominante MI:
Dopo la riapparsa del tema principale, in LA, ecco il motivo centrale (C) piuttosto dimesso, in RE minore. Anche questo è basato sugli stilemi di una danza (ucraina, tipicamente) la dumka:
Torna il tema principale, sempre in LA, esposto adesso dal solista due ottave più in basso.

Ancora il tema B con la sua introduzione, stavolta adagiato sul LA (anche se poi… svicola) prima che torni per l'ultima volta il tema A, ma ora singolarmente esposto dal flauto un semitono sotto (LAb). Tosto però si torna al LA maggiore per la conclusione in pompa magna, con 5 crome in armonici del solista, seguite dalla pesante chiusa dell'orchestra.
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Anna Tifu conferma di essere un personaggio in continua ascesa: sicurissima tecnicamente ed anche matura dal punto di vista dell'espressione, ha cavato, credo, tutto il buono che si possa da questo pezzo non eccelso. Grandi applausi, corrisposti da questo bis.

La Settima Sinfonia – infarcita di riferimenti e citazioni brahmsiane (ma non manca Beethoven) - l'abbiamo ascoltata più o meno un anno fa alla Scala, propinataci da Chailly. Ceccato evidentemente dà eccessivo credito all'epiteto di tragica affibbiato a quest'opera e ce ne propina un'interpretazione cupa e funebre. Passabili i primi due movimenti, ma poi lo Scherzo degrada a menuetto e l'Allegro finale si trasforma in una specie di mortorio, ai limiti dell'esasperante, mah… Quanto all'orchestra, bene in generale, ma con pecche evidenti nei corni, stasera un po' fuori fase, sia Amatulli nel concerto che Ceccarelli nella sinfonia. Insomma, una serata così-così.

Il concerto n°20 vedrà sul podio – per la prima volta in veste di Direttore Principale - John Axelrod, con un programma che avrà il suo apice nel Requiem mozartiano.
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07 febbraio, 2012

Salonen fa cippirimerlo alla Scala


Stando a quanto riporta il suo sito personale, Salonen ha diretto un concerto a Parigi il 27 gennaio, e riprenderà l'attività il 24 febbraio, a Essen. In pratica, salta i quattro concerti scaligeri: questo della stagione della Filarmonica e i tre del prossimo fine-settimana, della stagione del Teatro. La Scala ha annunciato la defezione per i tre concerti dell'11-12-13 il giorno 23 gennaio con e-mail inviata ai possessori di biglietto; la Filarmonica (per il concerto del 6) ha fatto altrettanto il 25 gennaio. Ma già dal 21 la notizia era di dominio pubblico. Dal che si deve dedurre che, mentre ancora stava tenendo concerti a Parigi e confermava quelli successivi in Germania, Salonen ha cancellato quelli milanesi di inizio febbraio. Nulla di tutto ciò compare sul sito del maestro, né vi si trovano notizie di malattie, indisposizioni o altre cause del default. La vicenda assomiglia vagamente a quella di cui fu protagonista Abbado un paio d'anni fa (lui almeno aveva esibito un certificato medico, smile!) e quindi, applicando il metodo induttivo di quella vecchia volpe di Andreotti… evidentemente c'è del marcio nei rapporti fra il maestro e il teatro. Il che fa perdere al pubblico italiano le prestazioni di un direttore (e compositore, datosi che c'era il suo concerto per violino nell'originario programma di ieri) di quelli che oggi vanno per la maggiore. Ora, Salonen sarà pure un ragazzino (53enne!) un po' viziato… ma possibile che tutti i contrattempi capitino proprio qui da noi?

Meno male che è stato recuperato in fretta e furia Daniel Harding per rattoppare il buco, peraltro con un programma modificato (niente Musorgski, niente… Salonen) con l'inserimento del Primo concerto di Brahms, eseguito al pianoforte da Lars Vogt, che avevamo ascoltato in Auditorium lo scorso settembre, in occasione del primo concerto della stagione de laVerdi (allora in un apprezzato Imperatore). Questo Brahms non è certamente di quelli che ti strappano le budella né ti eccitano qualche corda dell'io profondo… e Vogt si guarda bene dal metterci qualcosa di suo per smuovere le acque. Insomma: una prestazione dignitosa, la sua e quella dell'orchestra (acciaccature indesiderate del corno a parte, ma nella norma, smile!) che va valutata anche tenendo conto dello stato di relativa emergenza indotto dalla defezione finnica.

È per fortuna rimasto in programma Le sacre, già diretto qui da Harding tempo addietro (col balletto). Opera potremmo dire di repertorio per la Filarmonica, che vi si è esibita lodevolmente un paio d'anni fa anche con Daniele Gatti. Harding mi è parso frenare certe intemperanze della partitura, allentando un pochino i tempi e smussandone gli spigoli più aguzzi (per lo meno, questa è stata la mia percezione del suo approccio). Certo, è musica che non ti lascia mai indifferente… e se lo fa ormai da cent'anni, vuol dire che è materia tosta assai!

Un'ultima nota di ambiente: parrebbe proprio che fra Harding e i Filarmonici stia crescendo un feeling particolare, almeno a giudicare dai reciproci atteggiamenti e ammiccamenti prima e dopo la prestazione. Qualcuno avverta Barenboim…
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05 febbraio, 2012

L’Angelo di Fuoco riscalda Torino


Ieri seconda rappresentazione de L'angelo di fuoco di Prokofiev al Regio di Torino, praticamente esaurito a dispetto del termometro che ormai segna temperature a due cifre e in ulteriore crescendo, stando ai divinatori (il segno davanti è ininfluente, smile!)

La produzione del Mariinski sarà anche vecchia di 20 anni, ma mantiene tuttora tutte le sue eccellenti caratteristiche. La regìa di David Freeman è più che mai attuale, per la semplice ragione che… propone praticamente alla lettera il libretto e la partitura di Prokofiev. Rispetto ai quali l'unica - importante e positiva - innovazione è costituita dalla perenne presenza in scena (immobili o in azione) dei demoni che sono in effetti i protagonisti occulti dell'opera: si tratta di mimi, in calzamaglia bianca.

Li vediamo da subito aggirarsi attorno al letto di Renata, mentre nella stanza accanto è arrivato Ruprecht. Le immagini qui supportano alla perfezione la musica. Infatti, per rappresentare personaggi, situazioni, stati d'animo, sentimenti, Prokofiev impiega in modo esteso, ma tutto sommato tradizionale - ottocentesco si potrebbe dire - i classici ingredienti della musica tonale. E precisamente mentre Ruprecht si sta coricando, avvolto nel suo mantello, ricordando notti in fondo ben più terribili di quella che si appresta a trascorrere nella lurida locanda in cui è costretto ad alloggiare, ecco che l'oboe, per due volte (doppiando con i primi violini in tremolo le note cantate dal cavaliere) e subito dopo per una terza ancora - in unisono con il corno inglese, un attimo prima che dalla stanza accanto si oda la voce terrorizzata di Renata - esala un motivo che scende dal DO# al SOL, per poi risalire al LA:

Il primo intervallo è lo sbifido tritono che da sempre, in musica, rappresenta il diabolus! E così abbiamo la spiegazione musicale della presenza dei demoni sulla scena, e la conferma di che razza di avventure ci aspettano.

È scontato che i personaggi principali abbiano una carta d'identità, che secondo le convenzioni musicali in auge fin dal primo '800, come minimo, è rappresentata da quelli che a partire da Wagner (che non ha inventato nulla, ma ha innovato quasi tutto) si chiamano Leit-motive, o motivi conduttori.

Il tema di Ruprecht viene esposto nelle prime due misure dell'opera: in fin dei conti è l'Autore (del romanzo, Bryusov, non Prokofiev) che si sta presentando al suo pubblico:

Il tema ha un tratto tipicamente eroico, o cavalleresco, come si addice allo status del personaggio: quindi una robusta e vigorosa salita per terze che culmina (siamo in LA minore) su un'impettita figurazione (DO-SI-DO) che, a parte la mancante acciaccatura e il ritmo un filino diverso, parrebbe l'incipit del bizetiano Toreador! Però il tema chiude con una discesa al LA, che sa tanto di cedimento, di ripiegamento, se non proprio di resa incondizionata (certo il tutto potrebbe anche evocare l'atto del classico saluto militare, con la mano che sale alla visiera e poi ricade sul fianco… non dimentichiamo che Ruprecht è un graduato dell'esercito lanzichenecco!)

Però l'idea del cedimento è suggestiva, in quanto suffragata da ciò che accadrà nel seguito: le ferree, apparentemente incrollabili e razionaliste convinzioni del nostro che pian piano cedono il passo ai dubbi assillanti, instillati nella sua mente dai comportamenti e dai racconti di Renata, e dai fatti razionalmente inspiegabili che si verificano in sua presenza.

Appare quindi Renata, accompagnata dal suo tema:


Un tema composto da due cellule di tre crome che percorrono gli intervalli di terza minore, il primo ascendente (qui MI-FA#-SOL) seguito dal secondo, discendente (qui MIb-RE-DO). Mirabilmente rappresentano la schizofrenica personalità della donna, sempre in bilico fra la ricerca della felicità e lo sprofondare nello sconforto; o i suoi bioritmi che oscillano in permanenza fra illusioni e disperazione; ma è anche un tema di fatto circolare, proprio come i cerchi magici che Renata studia sui testi di occultismo e che ne inquinano la mente, o il cerchio che nel finale le monache formano attorno a lei; un cerchio che di fatto richiama e risucchia al suo interno, come in un buco nero, i demoni che la perseguitano.

Madiel-Heinrich compare solo in racconti o in spettrali visioni. Il suo tema - legato all'Angelo - è per l'appunto angelico, come ci chiariscono le viole al suo primo completo apparire, allorquando Renata, nella sua lunghissima esternazione a Ruprecht accorso in sua difesa, ricorda gli inebrianti momenti trascorsi in compagnia dell'occulto accompagnatore:


Ecco, fin dai primi momenti dell'opera abbiamo avuto la presentazione dei componenti del triangolo (lui, lei e l'altro) che si muovono all'interno di questo mondo esoterico e misterioso. E che vi interagiscono secondo regole quasi ferree: il canto con cui Ruprecht (Libera me Domine) scaccia i demoni che assillano Renata ha la stessa martellante pesantezza di quello che nel finale l'Inquisitore impiegherà per inchiodare la medesima Renata con l'accusa di stregoneria, sanzionata quindi con la condanna estrema.

Intanto il primo atto si è chiuso con il siparietto della veggente, che per la modica cifra di 18 corone ha divinato tutto il male possibile per Renata e chi le sta accanto.

Nel secondo atto compare materialmente il cerchio, che Renata – leggendo un tomo di magìa, traccia sul pavimento, in presenza dell'esasperato Ruprecht, che ormai vive solo con l'obiettivo di accasarsi borghesemente con la donna. Ma i demoni sono lì, li vediamo subito muoversi e danzare intorno alla stanza, fino all'udirsi del primo colpo, poi del secondo che spaventa il cavaliere (lasciando dapprima indifferente la donna) e poi di tutte le successive sequenze di tre colpi che certificano trattarsi di fenomeni tutt'altro che onirici, e che illudono Renata dell'imminente arrivo di Heinrich-Angelo-Madiel. Mirabile qui l'accompagnamento degli archi divisi in 13 parti (3 parti per violini primi, secondi, viole e violoncelli, più i contrabbassi) ad evocare – con impiego di armonici e rapide quartine di semicrome - un'atmosfera davvero raggelante. Ma Heirich non arriva, e la delusione della donna è proprio di quelle che spaccano il cuore, come splendidamente ci fa capire l’orchestra, con gli strumenti che suonano divisi, chi in 2/4 e chi in 6/8, con un effetto-sincope-eco strabiliante!
L'Entr'Acte che prepara l'incontro di Ruprecht con Agrippa evoca insieme il viaggio materiale del cavaliere (che nel romanzo deve spostarsi da Colonia a Bonn – 40Km, più o meno - dove Agrippa aveva al momento la sua residenza) ma soprattutto il tumulto che regna nel suo cervello, dove ormai è in corso un viaggio ben più drammatico e sconvolgente: quello che lo sta portando dal mondo rassicurante, perché conosciuto, della razionalità a quello sconosciuto, e quindi terrificante, dell'occulto. E infatti in scena vediamo Ruprecht in viaggio circondato dagli onnipresenti demoni.

Di cui troviamo, in casa di Agrippa, tre esemplari (in calzamaglia scura!) che impersonano i tre cani neri del mago. Il quale replica violentemente alle insinuazioni di Ruprecht che gli rinfaccia tutto quanto di male si dice in giro di lui. Ma ecco i tre scheletri (che come nelle migliori tradizioni escono… dall'armadio!) che lo sbugiardano apertamente. È però il filosofo-mago-ciarlatano ad avere l'ultima parola, più sibillina che mai: la vera magìa è la spiegazione di tutti i misteri

Il terzo atto è inizialmente ambientato fuori dall'abitazione di Heinrich. I demoni imperversano, occhieggiando anche dalle strette finestre della casa; altri ne escono con abiti borghesi sopra la calzamaglia bianca, quasi a farci capire che un demone si può nascondere anche sotto le spoglie di un qualunque, apparentemente normale, cittadino…

Dopo che Ruprecht ha sfidato Heinrich a duello e dopo che Renata si è rimangiata la sua decisione di veder morto l'amato-odiato angelo-demone, ecco l'Entr'Acte che in qualche modo evoca il duello fra Ruprecht ed Heinrich (duello che qui vediamo proprio in presa diretta). Si caratterizza per la presenza dei temi dei tre personaggi principali: i due duellanti, naturalmente, ma anche Renata che – non dimentichiamolo – è la posta in palio, come del resto lo fu Nina Petrovskaja anche nel duello del 1904 – fermatosi peraltro all'uso delle sole armi poetiche – fra Bryusov-Ruprecht e Belyj-Heinrich, ai tempi del triangolo che ispirò al primo il romanzo, messo poi in musica da Prokofiev. Curioso qui che – oltre ai due duellanti - anche alcuni demoni si mettano a lottare fra di loro: evidentemente anche al loro interno si formano tifoserie e fazioni!

L'atto quarto, dopo la scenata con auto-ferimento di Renata, che abbandona Ruprecht per andare (a far casino, smile!) in un monastero, ecco il siparietto, fra il grottesco e il ridicolo, dell'arrivo di Faust-Mefistofele. Anche qui c'è dell'occultismo, ma proprio di quello da avanspettacolo, con il diavolo rosso che si mangia il garzoncello, stando dentro una botte, e poi lo fa ritrovare – vivo e vegeto - all'oste in un'altra… Davvero bestiali qui gli autentici barriti dei corni che accompagnano il ripugnante pasto!

L'atto conclusivo è per sua natura quello che meglio si presta a fare spettacolo. E qui lo spettacolo non manca di certo, con quella specie di crescendo di isterie (delle monache, ma anche dell'Inquisitore e dei suoi) che portano al selvaggio sabba, dove ancora – come era accaduto nel primo atto (la pesante invocazione di Ruprecht che accompagnava l'ossessivo ripetersi del tema di Renata) – abbiamo lo stridente contrasto fra l'orgiastico concertato delle suore (alcune delle quali aiutate dai demoni a liberarsi delle vesti) e le spaventevoli declamazioni dell'Inquisitore, prima che un abbagliante fascio di luce investa la scena e il RE bemolle all'unisono di tutta l'orchestra (appena arricchito dal FA di ottavino, flauti e clarinetti) chiuda la vicenda.

La compagnia di canto si è mostrata davvero all'altezza della prova (non fa troppo rimpiangere quella di cui Gergiev disponeva negli anni '90, immortalata in CD); su tutti naturalmente Mlada Khudoley, che ha il compito più gravoso, per quantità e qualità; compito che ha portato a termine con grande sicurezza. Buona la prova di Nicolaj Putilin nei panni del lanzichenecco, come quella dell'Agrippa Leonid Zachožaev. L'Inquisitore di Michail Petrenko è dotato di bella voce… purtroppo in parte annegatasi nel gran bailamme delle invasate monachelle. Tutti all'altezza i comprimari, che non cito rimandando alla locandina; una nota speciale però per il gruppo di soprani e mezzosoprani: le due novizie e le sei monache, queste ultime che danno vita al tumultuoso finale, insieme con il coro femminile.

Gergiev non è da scoprire oggi, e con quest'opera poi ha un legame particolare. (Una curiosità: lui utilizza la partitura basata sulla versione di Parigi del 1927, con testi in francese, inglese e tedesco. Il testo russo è scritto a mano sotto gli altri tre! Sappiamo che il manoscritto originale con testo russo fu ritrovato insperatamente a Londra nel 1977). Il suo ex-ragazzo-di-bottega (smile!) Noseda evidentemente gli deve aver preparato il terreno nel migliore dei modi, a giudicare dal livello eccellente della prestazione dell'Orchestra. Come di quella del Coro di Fenoglio (donne sulla scena e maschi in buca) applauditissimo.

Per chiudere: ancora un grande risultato da aggiungere al curriculum del Regio. Certo, non è tutta e sola farina del suo sacco, ma anche saper ospitare degnamente produzioni aliene è un merito non da poco.
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03 febbraio, 2012

Orchestraverdi – concerto n 18


Ancora Helmuth Rilling sul podio per proporci un oratorio di quelli davvero enormi: Elias di Mendelssohn.

Un vero peccato che l'Auditorium fosse semideserto, probabilmente (anche) a causa del trasloco (speriamo temporaneo) della Siberia in Italia. Però mi pare che qualcuno abbia anche fatto il furbo, andandosene a casa nell'intervallo: fatto sta che la seconda parte dell'Oratorio ha visto più musicanti sul palco che spettatori in sala (!)

I solisti sono (soltanto) quattro, ma si fanno in quattro (smile!) per coprire le necessità. Così il doppio-quartetto diventa un quartetto-single; poi la brava Simone Easthope, oltre che la parte di soprano, si accolla anche quella del ragazzino che Elia manda a scrutare il mare, e addirittura sale in galleria, giusto per dare un tocco scenografico alla sua prestazione. In compenso, per ottenere con due soliste un terzetto (di Angeli, nella seconda parte) si cooptano al proscenio due signore del coro, e così il terzetto diventa addirittura un quartetto! Bravissimo il baritono Markus Eiche, nelle vesti del protagonista profetico: voce forse un filino troppo chiara per l'austero personaggio, ma benissimo impostata e con efficace modo di porgere. Discreti anche il tenore Dominik Wortig e il contralto Kismara Pessatti. Superba la prestazione del coro di Erina Gambarini.

Helmuth Rilling – come suo solito – quando fa una cosa la fa sul serio, così stavolta ha mandato a memoria tutte le 350 pagine di questa gigantesca partitura, che rivaleggia con quelle delle grandi passioni bachiane, di cui lui è (come lo fu Mendelssohn!) un super-esperto.

Successo assicurato, con applausi convinti da parte dei pochi – ma buoni – aficionados lapponi.

Prima di chiudere, qualche personale considerazione su quest'opera. Sulla cui grandezza formale non si discute, come sull'ispirazione melodica di molte frasi, a cominciare dalla bellissima aria del tenore:

 
O il delicato terzetto (quello che Rilling ha trasformato in quartetto!) degli Angeli:


Però è il complesso dell'opera che (a me) lascia, come dire, un retrogusto non propriamente entusiasmante, come di quei dolci che dopo qualche boccone finiscono per provocare un principio di nausea. Per carità, non voglio certo condividere qui l'analisi stroncante (su basi che sfiorano il razzismo) proposta da Wagner nel suo famigerato libello sul Giudaismo in musica. Ma alcune acute considerazioni che vi si leggono, in particolare sulla posizione dell'opera di Bach nella storia della nostra civiltà musicale e sul velleitarismo di riproporne gli stilemi (che metterebbe a nudo l'impotenza di Mendelssohn - a differenza di Beethoven - a comporre musica che tocchi le corde più sensibili del nostro cuore e della nostra anima) credo che non siano del tutto peregrine.


Prossimamente terzo appuntamento con Dvorak e Aldo Ceccato.
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31 gennaio, 2012

Quello strano Angelo in arrivo a Torino


Valery Abisalovič Gergiev porta al Regio la sua compagnia di allestitori del Mariinski per L'angelo di fuoco di Prokofiev. Domani prima rappresentazione (Radio3, ore 20) e poi altre quattro recite, fino all'11 febbraio.

Questi tre individui – a nome Bryusov, Petrovskaja e Belyj - incarnano la remota origine dell'opera di Prokofiev:


Oltre che remota, origine che rimase sconosciuta al compositore fin quasi ad opera completata: soltanto nell'autunno del 1926, mentre stava dando gli ultimi ritocchi a quella che resterà la versione definitiva dell'Ognennyj Angel, Prokofiev fu portato a conoscenza, da un'amica di Leningrado, dei principali retroscena del triangolo che aveva legato i tre artisti suoi contemporanei (tutti più o meno adepti del movimento simbolista nell'arte) e che era di fatto il motivo ispiratore del romanzo da cui lui aveva tratto il libretto della sua opera.

Lui conosceva bene il primo dei tre, Valerij Jakovlevič Bryusov, essendosi invaghito – mentre era in giro per gli USA nel 1919 e dovendo metter riparo con una nuova opera al crac delle tre melarance (smile!) - del soggetto di un suo racconto di pari titolo, scritto e pubblicato a puntate nel periodico Libra, fra il gennaio del 1907 e l'agosto del 1908 e poi rivisto nel 1909. Lo stesso Bryusov, incontrando Prokofiev a Parigi nel 1922 (quando il compositore stava lavorando ad un primo abbozzo dell'opera) si era detto entusiasta dell'idea tanto da consigliare allo stesso Prokofiev di ritirarsi a Ettal (Alpi bavaresi) dove trarre ispirazione per portare a termine l'impresa (cosa che accadde puntualmente).

Quello di Bryusov è un romanzo cosiddetto storico, ambientato nel 1500 in Germania e avente come oggetto una vicenda triangolare (lui, lei e l'altro) calata nel mondo dell'esoterismo, delle scienze occulte, della magìa nera e con marcati risvolti freudiani quali schizofrenia, sogni, premonizioni, e simili (insomma: la quintessenza del simbolismo…) Come era di moda nell'800 (vedi Manzoni con i suoi Sposi) anche Bryusov si era inventato un manoscritto (ritrovato in qualche polverosa soffitta) in cui il protagonista del romanzo - un erudito e razionalista Cavaliere di ventura lanzichenecco, che si trovava nel 1535 a Bilbao, apprestandosi ad intraprendere un nuovo viaggio in giro per il mondo - narrava autobiograficamente una serie di avventure a sfondo esoterico-erotico vissute tempo addietro dalle parti di Colonia.

Dal prolisso e francamente indigeribile romanzo di Bryusov, che si dilunga narcisisticamente sul protagonista (lui medesimo), sulla sua erudizione filosofica, sulla sua iniziazione all'occulto, oltre che sulle dettagliate biografie dei vari personaggi storici che popolano il racconto, Prokofiev trae un libretto compatto, essenziale, dove protagonista è piuttosto la donna incontrata dal cavaliere a Colonia. Molti particolari ambientali – presi dal testo di Bryusov, ma anche aggiunti dal compositore - sono citati con cura minuziosa, come ad esempio la cattedrale di Colonia ancora incompiuta (ai tempi dell'azione ne esistevano solo uno spezzone di una delle due torri e una porzione dell'abside) e la cui costruzione sarà completata solo 20 anni prima della scrittura del romanzo! E poi la presenza di Henricus Cornelius Agrippa ab Nettesheym, filosofo-mago-astrologo-alchimista nato proprio a Colonia, di cui Prokofiev caratterizza assai bene la figura controversa, di serio scienziato e di mago ciarlatano, perennemente in contrasto con l'Inquisizione, citando anche piccoli particolari: i cani neri che lo circondano, la catoptromanzia e la geozia, di cui si diceva che Agrippa fosse maestro; la diceria sulle monete che Agrippa coniava privatamente, che erano apparentemente autentiche, ma che poi si trasformavano in merda(!); il riferimento che Agrippa fa ai Re Magi, per custodire le cui reliquie la cattedrale di Colonia era stata progettata; e ancora la citazione di Gottfried Hetorpius, editore delle opere di Agrippa e suo confidente, e dell'abate Trithelmius, con cui Agrippa aveva spesso disquisito di magia. Infine, il richiamo, a proposito di vita monastica, a San Bonaventura (doctor seraphicus) canonizzato proprio in quel periodo, e a Santa Brigida.

Tornando alla vicenda, come ripresa da Prokofiev nella stesura definitiva, il lui (Ruprecht) è il Cavaliere appena rientrato in Germania dal Nord-America, dove se l'è vista brutta con i cattivoni pellerossa, la lei (Renata) è una tizia schizoide e invasata, che fin da piccola ha sognato e oniricamente convissuto con l'Angelo di fuoco cercando poi (con esiti nefasti, sul piano del suo equilibrio mentale) di farselo, e che da grande ha creduto di individuarne l'incarnazione nell'altro (Heinrich, o Genrich, nel libretto russo) che però ha messo in atto con lei la consolidata prassi dell'usa-e-getta. Lui incontra casualmente lei, che però è alla disperata ricerca dell'altro. Lui – che in un primo momento pensa di imitare l'altro, dandole un paio di colpi per poi mollarla al suo destino – finisce invece per innamorarsi perdutamente di lei e decide di aiutarla a ritrovare l'altro e ha così occasione di incontrare il luminare Agrippa, la più grande autorità di tutti i tempi in fatto di magia, pratiche occulte e stregonerie assortite, uno che si vuol far passare per scienziato, mentre tre scheletri appesi sopra di lui lo sbugiardano, dandogli del mentitore… Trovatolo finalmente, ma venendo da lui respinta, lei ha deciso che l'altro debba morire e chiede a lui di farlo secco; poi se ne pente, rivedendo in Heinrich la figura dell'Angelo, ma ormai lui ha già sfidato l'altro a duello. Nel quale duello lui rischia di lasciarci le penne; e mentre è in convalescenza dalla ferita infertagli dall'altro, lui incontra in un'osteria la premiata coppia di bontemponi Mefistofele-Faust (che stanno eternamente quanto peripateticamente disputando su quisquilie di nessun conto) con Mefistofele che – dopo aver ingoiato e subito vomitato un garzone – chiede a lui di fargli da cicerone per una visita alla città… Lei, pentitasi di tutta la sua vita sbagliata, decide di ritirarsi in convento, ma vi introduce tutti i suoi complessi e soprattutto i diavoli che si porta appresso, e finisce per inquinare pure l'anima delle monache con la sua schizofrenia a sfondo erotico, e così l'Inquisitore la spedisce direttamente sul rogo.

Sì d'accordo, ammetto di averla buttata un filino in vacca… però, accipicchia, con un soggetto del genere ci si può fare indifferentemente: un reality in 150 puntate, un film tipo Totò, Peppino e la Strega, oppure una seria opera musicale… basta aver fantasia.

Torniamo ora ai nostri tre artisti simbolisti. Il lui del romanzo (Ruprecht) è – come detto – lo stesso autore (Bryusov). L'altro (Heinrich, aka Madiel, l'Angelo di fuoco) è l'efebizzante dandy Andrei Belyj, al secolo Boris Nikolaevic Bugaev, esteta, idealista, scrittore e critico letterario. E la lei (Renata) è la scrittrice (morta suicida…) Nina Ivanovna Petrovskaja.

Già sposata, ma piena di complessi, costei aveva incontrato, nel 1903, Belyj che l'aveva poi introdotta in una società di spiritualisti (gli Argonauti). Fra i due era nato un rapporto che Belyj avrebbe voluto puramente platonico (lui si illudeva di poter guarire i di lei complessi) ma che Nina pretendeva dovesse estendersi anche alla sfera sessuale, il che portò Belyj a raffreddare la sua amicizia con lei; guarda caso: proprio il rapporto fra Renata e l'Angelo descritto da Bryusov!

Il quale Bryusov, a sua volta attratto da Nina e dai suoi complessi (ma con obiettivi opposti a quelli di Belyj, smile!) instaurò una relazione con lei, che provocò il risentimento di Belyj. Che lanciò a Bryusov una specie di sfida letteraria, che doveva avere in palio… la Petrovskaja! Alla quale sfida Bryusov rispose scrivendo un poemetto (Loki a Baldur, personaggi delle antiche saghe nordiche, riprese anche da Wagner) in cui Bryusov si mette nei panni dello sbifido e demoniaco Loki, che promette di distruggere l'angelicato Baldur, figlio di Odin. Proprio come raccontano le saghe nordiche, ma anche come si legge nel romanzo di Bryusov! Belyj, sentitosi offeso nelle sue più profonde convinzioni, intimò a Bryusov di smetterla e per tutta risposta… fu sfidato a duello (Ruprecht-Heinrich!)

Il duello non ebbe luogo, ma Belyj rispose letterariamente, con un poemetto in cui descriveva Bryusov come un fallito, e se stesso come un mago che difende la propria integrità morale minacciata. Bryusov ne rimase colpito, persino sognando di venire sopraffatto in un sanguinoso duello dall'avversario - come testimoniò proprio la Petrovskaja - e rispose con un successivo poemetto (Baldur II) dove in pratica si dà per vinto, riconoscendo le sue colpe nei riguardi della donna contesa e la superiorità del rivale. Beh, tutte vicende che finiranno, di lì a pochi mesi, nelle pagine del romanzo storico di Bryusov.

Quanto alla Petrovskaja, prima di suicidarsi (al terzo tentativo) a Parigi, si dirà pubblicamente eccitata dall'essere divenuta la protagonista del romanzo; al punto tale da convertirsi al cattolicesimo, a Roma, prendendo il nome di… Renata!

Ecco, scoperti tutti gli altarini non ci resta che tornare a Prokofiev, che dal romanzo di Bryusov cavò una cosa notevole (ok, magari non proprio un capolavoro assoluto, ammettiamolo) e la pose in musica con grande determinazione, pari peraltro alla difficoltà e lunghezza della gestazione (1920-1927, con una prima stesura nel 1923, poi ampiamente rivista, e con ulteriori ripensamenti del 1930, rimasti però allo stato di abbozzo) e alle successive traversie – inclusa la composizione di una sinfonia (n°3) sui temi dell'opera - legate alla rappresentazione. Che ebbe per la prima volta luogo, dopo spizzichi-e-bocconi di esecuzioni parziali e concertistiche, solamente nel 1955 alla Fenice (direttore Sanzogno, regista Strehler) e quando ormai il compositore riposava per sempre, avendo tolto il disturbo un paio d'anni prima, in perfetta sincronia con quel grande paraculo – per il quale aveva dovuto comporre addirittura una cantata! - che rispondeva al nome di Giuseppe Stalin
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27 gennaio, 2012

Orchestraverdi – concerto n 17


Uno degli ospiti fissi de laVerdi, il venerabile Helmuth Rilling, torna sul podio per dirigere un programma interamente mozartiano, in un Auditorium abbastanza gremito (si sa, Mozart: un nome, una certezza, smile!

Si inizia con la celeberrima K550 in SOL minore. Rilling schiera proprio l'orchestra come doveva essere ai tempi di Mozart: archi ridotti all'osso ad affiancare i soli 7 fiati previsti dalla partitura (flauto, 2 oboi, 2 corni e 2 fagotti, niente trombe nè clarinetti – che Mozart impiegherà in luogo degli oboi in una seconda versione - e pure niente timpani). Ne esce un'esecuzione precisamente settecentesca, dal suono cameristico e leggero. Chi è abituato a truci interpretazioni romanticheggianti, con orchestre di stazza mahleriana magari non ne esce soddisfatto, ma il vero Mozart è questo!

Invece, a proposito di Mozart non propriamente genuino, si passa alla Sinfonia concertante K297b per oboe, clarinetto, corno e fagotto con accompagnamento di archi, oboi e corni.
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Quest'opera è tuttora oggetto di dispute e diatribe, quanto alla sua autenticità. Si sa che Mozart (in gita nel 1778 a Parigi con la mammina, che purtroppo di lì a poco vi morirà e vi verrà sepolta, dopo un misero funerale cui assistettero solo Wolfgang e un amico) si era impegnato a comporre una Concertante per quattro solisti di Mannheim (col flauto al posto del clarinetto). Ma né un originale, né copie autentiche o attendibili sono mai emersi e ciò che abbiamo a disposizione - e che ha dato il nome (francamente usurpato) all'opera - è soltanto un manoscritto di dubbia provenienza, scovato e fatto ricopiare a Berlino da tale Otto Jahn quasi un secolo dopo la presunta composizione e, guarda caso, proprio mentre costui si apprestava a pubblicare una sua biografia di Mozart!

C'è comunque chi sostiene sia musica troppo grande (escludendo magari il modesto accompagnamento orchestrale…) per non essere del Teofilo; chi invece ipotizza sia un pastiche (tre movimenti, tutti nello stesso MIb, orrore!) messo insieme da sconosciuti sulla base di ricordi di qualche concerto; chi pensa sia stata effettivamente scritta da Mozart a Parigi (col flauto al posto del clarinetto) ma poi andata davvero perduta, e quindi riscritta – a memoria – dal compositore per il nuovo organico di solisti; chi invece sospetta che a Parigi Mozart non abbia composto proprio un bel nulla di quel pezzo (tant'è che il concerto dei solisti di Mannheim per i quali era stato commissionato non ebbe luogo…) dopodichè si sarebbe inventato per papà Leopold la scusa del manoscritto non restituitogli dallo sbifido committente (LeGros) e solo successivamente avrebbe buttato giù qualcosa (la parte solistica) senza portarlo a termine; e così via immaginando. Quanto alla pratica, la versione che si esegue normalmente è quella rinvenuta da Jahn e pubblicata nel 1886 da Breitkopf col titolo Concertantes Quartett, che è entrata ed uscita dal catalogo Köchel come in una porta girevole: dapprima inserita fra le opere perdute; poi nel 1936 (Einstein) immessa nel catalogo principale; infine, dagli anni '60 (6a edizione del catalogo) relegata al ruolo di appendice, dentro una specie di limbo di opere di incerta paternità, mentre la 297b è tornata ad assumere lo status di non-parvenu.

Insomma, una storia lunga, travagliata e certamente non ancora chiusa. Ad esempio, il solito (ultimo in ordine cronologico di una lunga serie) primo della classe (Robert D.Levin, nella fattispecie, autore del saggio Who Wrote the Mozart Four-Wind Concertante?) ha provato a ri-arrangiare il brano sulla base di complesse ricerche statistiche sulle tecniche compositive di Mozart. Intanto ha riesumato il flauto (in luogo dell'oboe, che prende il posto dell'espunto clarinetto); poi ha fatto intervenire i solisti da subito, già sulla prima esposizione dei temi dell'Allegro (di cui ha riscritto completamente la cadenza); ha tagliato molta parte orchestrale (dove effettivamente si incontrano bizzarrìe formali assai poco mozartiane…) e anche qualche sezione di quella solistica, ugualmente ritenuta fuori-forma (sempre mozartianamente parlando); ha redistribuito qua e là le linee degli strumenti solisti; ha tagliato le 4 misure introduttive orchestrali dell'Adagio; nel conclusivo Andantino con variazioni ha espunto totalmente le 10 apparizioni dell'interludio orchestrale (che precede le altrettante variazioni al tema, trasformandosi effettivamente quasi nel tema principale di un rondò…) introducendo al loro posto la ripetizione di tutte le (22) linee melodiche dei solisti. Ecco un'interessante esecuzione di Neville Marriner e della St.Martin con Aurele Nicolet al flauto, Heinz Holliger all'oboe, Herrmann Baumann al corno e Klaus Thunemann al fagotto: parte1, parte2, parte3, parte4. Effettivamente va dato atto a Levin di aver messo in piedi un prodotto di tutto rispetto, di qualità e godibilità non certo inferiori a quelle del comunque spurio e apocrifo originale. Ma, diciamolo francamente, a questo punto qualunque Allevi di passaggio (smile!) potrebbe inventarsi la sua propria variante della ricetta, con lo stesso grado di (in)credibilità.
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Qui in Auditorium restiamo invece ancorati alla tradizione (quindi col clarinetto) e i solisti sono quattro prime parti dell'Orchestra Verdi: Emiliano Greci all'oboe, Raffaella Ciapponi al clarinetto, Sandro Ceccarelli al corno e Andrea Magnani al fagotto. Quindi, dopo la Concertante di Haydn di un paio di settimane fa, ecco un'altra occasione di mettersi in mostra per i bravi strumentisti de laVerdi. Che non se la lasciano sfuggire di certo e fanno la loro bella figura, calorosamente applauditi da pubblico e colleghi.

Chiude degnamente la serata la K543, già diretta qui dallo stesso Rilling quasi due anni orsono.

Il quale Rilling sarà ancora protagonista la prossima settimana, salendo sul podio per dirigere il colossale Elias di Mendelssohn.
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24 gennaio, 2012

Gergiev franco-russo alla Scala


La stagione della Filarmonica ha ospitato ieri il peripatetico Valery Gergiev, in un bel programmone di quelli col palinsesto proprio tradizionale: un pezzo brillante in apertura, un concerto solistico al centro e una grande sinfonia per chiudere.

È quindi il Capriccio spagnolo di Rimski ad aprire la serata e a scaldare i motori all'orchestra. José Inzenga y Castellanos (1828-1891, autore di numerose zarzuelas) aveva pubblicato nel 1873, su incitamento delle autorità culturali spagnole, il primo volume di una raccolta di musiche popolari, Ecos de España, che contiene 49 canti provenienti da 12 diverse regioni: Cataluna (4), Asturias (7), Andalucia(4+5), Castilla la vieja (4), Galicia (3), Valencia (2), Islas Baleares (6), Murcia (3), Isla de Cuba (3), Aragon (1, Jota), Guipuzcoa (4) e Leon (2); più tre canti patriottici. Come il volume sia capitato nelle mani di Rimski non è chiaro: c'è chi sostiene che lo portasse a casa come ricordo del suo servizio in Marina, che lo aveva visto trascorrere qualche tempo sulla costa asturiana (versione assai improbabile, visto che Rimski si trovò laggiù assai prima del 1873, quando la raccolta di Inzenga era ancora in preparazione…) e chi ipotizza gli sia stato recapitato più tardi da un diplomatico spagnolo in servizio in Russia, amico di una persona conosciuta da Rimski appunto in Spagna. Come che sia, nel 1887 Rimski ne trasse il Capriccio su temi spagnoli, musicandone quattro brani, tre di provenienza dalle Asturie e uno dall'Andalusia. I canti di Inzenga sono tutti assai brevi, di poche battute (fa eccezione la Jota) e Rimski ne copia quasi pedestremente le melodie, magari cambiandone tonalità, dopodiché li arricchisce di volta in volta con la sua lussureggiante strumentazione e con sapienti ripetizioni e/o variazioni.
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Il Capriccio è suddiviso in 5 parti, e si apre con Alborada (in LA) che poi torna nella terza parte (in SIb) e nella quinta, a chiudere il pezzo, ancora in LA. Viene da un canto di pastori asturiani che salutano il mattino:

Dopo una prima esposizione nei violini, accompagnati nel ritmo dai fiati, è il clarinetto a porgere per due volte il motivo, prima della conclusione che sfuma in pianissimo, con due pizzicati degli archi e il sommesso rullo del timpano.

Le Variazioni (2° brano) provengono dalla pure asturiana Danza prima (danza serale). Rimski nota Andante con moto, rispetto al Moderato assai di Inzenga e usa il FA in luogo del DO:

Qui Rimski allunga la frase, inizialmente esposta dai corni, con un paio di gruppetti sotto la tonica, poi ripropone il motivo, leggermente variato, negli archi, quindi nel corno inglese, con un sognante inciso del corno; ancora lo presenta negli archi, ben marcato e forte, poi ancora negli strumentini, sostenuti da un pizzicato degli archi; infine ancora negli archi, sulla cui ultima esposizione interviene il flauto solo, con una lunga e ondeggiante scivolata di biscrome, chiusa da un tremolo sulla tonica FA.

Torna ora, in SIb, Alborada (n°3) Vivo e strepitoso (come nota Rimski). Gli strumentini si alternano nell'esporne il motivo per due volte con il violino solo (originariamente Rimski pensava ad una composizione per violino solista) prima che il clarinetto, con ampissimi arpeggi su due ottave, porti alla conclusione sigillata da un pesante accordo in croma e un lungo SIb tenuto di (quasi) tutta l'orchestra.

La Scena e canto gitano (n°4) viene dall'Andalusia, con le sue caratteristiche note diminuite (secondo, sesto e settimo grado della scala). È caratterizzata dall'uso della cadenza (o quasi-cadenza) la prima delle quali è affidata alle trombette affiancate dai quattro corni, preceduti ed accompagnati dal secco e crepitante rullo del tamburino:


Sia Inzenga che Rimski indicano in chiave il RE minore, ma poi il tema principia in altra tonalità: lo spagnolo in LA maggiore, il russo inizialmente in SIb, ma per scendere subito di un semitono con l'ingresso del violino solo, che sul LA (dominante del RE di impianto) chiude anche la sua cadenza. E così riespone il tema il flauto, cui è riservata la terza cadenza brillante, seguita subito dalla quarta, affidata al clarinetto, cui fa eco l'oboe con la sezione finale del tema. La quinta cadenza è per l'arpa, che chiude il suo leggero svolazzo (quattro picchi e tre vallate) su un LA sovracuto. A questo punto (feroce) Rimski introduce di sua iniziativa (non certo di sua invenzione) un secondo motivo, dal tipico carattere iberico:

Ora sono violini, clarinetti e flauti ad esporre il tema, sempre chiuso dalla feroce aggiunta di Rimski; poi ancora lo reiterano, ma adesso dal RE. Più avanti si torna al LA, col tema esposto prima dagli strumentini e poi dagli archi. Il secondo motivo riappare molto staccato (spiccato assai) nei violini ed innesca una progressione che porta direttamente al conclusivo…

Fandango asturiano, in LA maggiore (RE per Inzenga):

In realtà al tema del fandango Rimski ne aggiunge uno proprio, esposto da fagotti e celli, a contrappuntare il motivo principale, modulato a REb. Poi però si rifà largo ancora il Canto gitano, che contrappuntandosi al Fandango porta alla conclusione lasciata, quasi si fosse in un rondò, al ritorno dell'Alborada, in un davvero travolgente LA maggiore.
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Gergiev sottolinea marcatamente i tratti spagnoleggianti del brano e trascina i Filarmonici in un'esecuzione strappa-applausi.

Il quarantenne violinista siberiano Vadim Viktorovič Repin è poi protagonista del Secondo concerto di Prokofiev, composto poco prima del ritorno definitivo del compositore in Unione Sovietica, dopo la non entusiasmante parentesi occidentale (quando si dice: come cadere dalla padella nella brace, smile!) Ma erano ancora i tempi in cui il nostro era animato da serie convinzioni riguardo al ruolo dell'Arte (e quindi dell'Artista) nella società del collettivismo… e solo dopo qualche anno qualcosina – tipo Zdanov… - gli farà capire che non era tutto oro ciò che luccicava. È un concerto romantico – perché deve piacere al popolo - ma scritto con approccio moderno, come dev'essere un'opera della rivoluzione. Così Prokofiev tira fuori la sua ispirazione melodica, e la mescola con qualche intemperanza rispetto alle regole ottocentesche: divagazioni in tonalità lontane e un po' di dissonanza, nulla più.

Il primo movimento (Andante moderato) è un buon compromesso fra il rispetto della forma (-sonata, senza cadere nel formalismo che manderà parecchia gente nei gulag) e la ricerca di un minimo di innovazione: tonalità SOL minore, secondo tema nella relativa SIb, che poi torna a casa sul SOL. Poi un Andante assai, dove il violino canta una lunga melodia in MIb, quindi divaga al LAb, al SI, al RE, fino ad un improvviso Agitato che smuove le acque, prima del ritorno al tempo primo e al MIb, con cui sono gli archi bassi a chiudere. Termina il concerto un Rondò (Allegro, che parte in SIb e arriva nel canonico SOL) che per buona parte ha un procedere pesante, sforzato (il tema ricorda vagamente Borodin); poi si anima fino a sfociare in una corsa travolgente, che si conclude con un esilarante schianto.

Repin pare proprio interpretare al meglio lo spirito del brano, alternando languide sonorità à la Bruch a funambolici virtuosismi, che gli valgono reiterate ovazioni. Quando poi rientra sul palco per l'atteso bis e si mette a confabulare con gli archi dell'orchestra, allora si capisce dove andrà a parare: sul suo vero cavallo di battaglia, il paganiniano carnevale. Più o meno come qui a Parigi, dopo un concerto con Chung. Ma in un happening estivo in Germania aveva fatto anche un po' di avanspettacolo, sotto gli occhi di un attonito Mariss Jansons e di qualche migliaio di tifosi in delirio…

Infine la super-inflazionata Fantastica. A patto di prenderla in dosi moderate, è una sinfonia che ti dà sempre grandi soddisfazioni, soprattutto se diretta in modo esemplare e suonata con partecipazione e passione. Gergiev non inventa nulla (meno male, basta Berlioz… anzi, fa pure il ritornello del primo tema!) ma ci serve un'impeccabile esecuzione, che ha il suo apice nell'apparentemente sonnolenta Scena nei campi.

Evidentemente la Filarmonica, se guidata da qualcuno con le palle (insomma… tipo Harding o Gergiev o Dudamel) dimostra di saper anche produrre cose egregie e si merita un lungo e caloroso applauso dal suo fedele pubblico.
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