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da stellantis a stallantis

31 dicembre, 2015

Mariss Jansons torna per il Capodanno 2016


Per il tradizionalissimo appuntamento di Capodanno a Vienna torna sul podio del Musikverein Mariss Jansons, alla sua terza presenza, dopo 2006 e 2012. 

Qui la classifica aggiornata dei Direttori delle 77 edizioni (2016 compreso) che si sono succedute senza alcuna interruzione dal 1940 (in realtà il primo concerto si tenne a SanSilvestro del 1939):

Willi Boskowsky
25
1955-1979
Clemens Krauss
13
1940 (31/12/1939)
1941-1945
1948-1954
Lorin Maazel
11
1980-1986
1994
1996
1999
2005
Zubin Mehta
5
1990
1995
1998
2007
2015
Riccardo Muti
4
1993
1997
2000
2004
Mariss Jansons
3
2006
2012
2016
Josef Krips
2
1946-1947
Claudio Abbado
2
1988
1991
Carlos Kleiber
2
1989
1992
Nikolaus Harnoncourt
2
2001
2003
Georges Pretre
2
2008
2010
Daniel Barenboim
2
2009
2014
Franz Welser-Möst
2
2011
2013
Herbert von Karajan
1
1987
Seiji Ozawa
1
2002

Appuntamento audio alle 11:15 su Radio3Video (registrazione) alle 13:30 su RAI2.

30 dicembre, 2015

laVERDI 2016 – Concerto n°1


La fine di dicembre coincide questa volta per laVERDI con l’apertura di una nuova stagione. Ciò che rimane immutato è il programma del concerto di fine anno: la Nona per antonomasia.

Auditorium affollatissimo per la prima delle 4 consecutive serate e successo per tutti: strumentisti, coro e soli. Alla maniera viennese, dopo le prime chiamate, il Buon Anno! gridato da tutti gli occupanti del palco, quindi il bis della travolgente coda dell’Ode schilleriana. 

E Dio solo sa quanto ci sia bisogno di rinverdire gli ideali in essa espressi…


19 dicembre, 2015

Riecco la Giovanna: salvata dal rogo dai registi?


Mah, io mi convinco sempre di più che debba essere salvata – nel senso di tenuta lontana! - da registi cialtroni e da esegeti con la puzza al naso. Dichiaro subito: non considero assolutamente la Giovanna un capolavoro, chè altrimenti dovrei inventarmi qualche astruso neologismo per apostrofare Otello… Ma allo stesso tempo penso che sia sommamente sbagliato sostenere che tutto ciò che capolavoro non è sia per definizione ciofeca. In un’ipotetica piramide suddivisa orizzontalmente in tre sezioni, collocherei Giovanna nella parte alta di quella mediana, ecco. Quindi: tutto salvo che brutta, come la catalogò il pur sommo Massimo Mila, assieme ad altre cinque sorelle derelitte, tra le quali un’altra opera che si appresta ad aprire la stagione 2016 in uno dei principali teatri italiani (Attila, a Bologna).

Nel suo citato testo (dove si riassumono le lezioni universitarie da lui tenute negli anni ’60) Mila affianca a benevoli apprezzamenti di tono paternalistico autentiche stroncature di ferocia inaudita. Della cavatina Pondo è letal il nostro parla come di crollo (estetico); poi di perfetto esempio di oziosa coniugazione melodica a puro scopo edonistico, per blandire l’orecchio dell’ascoltatore e permettere al tenore l’esibizione delle sue facoltà; poi ancora di melodia sciocca e fatua; e infine pure… gaglioffa! Accipicchia: messa così si dovrebbe allora buttare nel cesso mezzo Verdi, dalla pira alla donna mobile, ai bollenti spiriti (tanto per restare alla invece santificata trilogia): non sono altrettanti pretesti per blandire l’orecchio dell’ascoltatore e permettere esibizioni delle facoltà del tenore?

Dopo aver liquidato di passaggio come poco significante la melodia della cavatina Sempre all’alba, Mila apostrofa come un caso di brutto-oltraggioso e come goffaggine e gagliofferia il coro dei demoni (al ritorno nel second’atto lo definirà futile barcarola). È vero che la bizzarra filastrocca di Solera è perenne oggetto di lazzi e sberleffi, ma in realtà rappresenta perfettamente gli stereotipi radicati nelle usanze del popolino, riassumibili nel concetto: ogni lasciata è persa… Quindi il testo e la musichetta di walzer che lo sorregge sono (per me) un mirabile esempio di equilibrio e di stile, mi verrebbe persino da spendere il termine poesia per definirli. Mila poi così si esprime sul duetto Son guerriera: un’atroce cabaletta (…) su un accompagnamento dozzinale; che dopo la parentesi del terzetto a cappella, viene ripresa dai tre che si mettono a berciare (…) sul suo sfacciato accento giambico.

Le due sezioni dell’aria doppia di Giacomo (atto II) sono (è sempre Mila) melense e oziose, melodicamente cincischiate. Cincischiata è anche la romanza di Giovanna (O fatidica foresta). Il duetto Giovanna-Carlo è affetto dal più vieto e superficiale dinamismo rossiniano (per Gino Roncaglia è uno dei momenti più stolidi dell’opera). Quanto al finale dell’atto II, esso mescola autentiche intuizioni drammatiche a obbrobriose banalità. Qui Mila si lascia purtroppo andare ad una miserabile considerazione di carattere ideologico: a proposito dell’ultimo intervento dei diavoli che cantano vittoria, scrive di brutale arpeggio, una specie di “Allarmi, siam fascisti!” Ora, che quell’inciso sia stato impiegato da tale Mario Ruccione (o chi per lui, e coscientemente o per pura combinazione) per supportare il testo dell’Inno fascista di Luigi Landi sarà pur vero, ma accadrà 90 anni dopo la composizione di Giovanna: e da quando in qua le colpe dei pronipoti ricadono sui bisnonni?

La marcia che apre l’atto III è da Mila benevolmente accreditata di essere un lontanissimo antefatto di quelle (…) del DonCarlo o dell’Aida, ma forse meglio come documento delle attività municipali del giovane Verdi per la banda comunale di Busseto (!) Più avanti affermerà che Verdi non aveva neanche tentato uno sforzo d’ambientazione storica (cioè, ndr: la banda comunale di Reims?!? Ah no, la Messa di Machaut!) Gli interventi di Giacomo (recitativo, romanza, declamato e aria) vengono liquidati come privo di interesse, con accompagnamenti convenzionali, senza importanza musicale, piuttosto banale melodicamente… Il concertato finale ha una realizzazione men che modesta (…) senza reale consistenza di valori né musicali, né drammatici.

Il quarto atto è considerato da Mila (con la prima parte del primo) la cosa migliore dell’opera. E meno male! Perchè anche qui non mancano accuse di cadute nella banalità convenzionale, di incompatibilità stilistiche, di superficiale ed edonistica ricerca della bella melodia. Ancora: recitativo banalevolgari ritmi orchestrali di accordi ribattutiprogressione volgarebrutale, di gusto discutibile… 
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Mah, credo che si possa tranquillamente negare alla Giovanna lo status di capolavoro senza per questo abbassarsi a simili (abbastanza) gratuite denigrazioni, ecco.

E la più chiara risposta alle denigrazioni dei critici alla Mila viene proprio dal fronte musicale di questa produzione scaligera (ieri sera quinta recita - primina del 4 esclusa) e da chi ne è responsabile in-primis: Riccardo Chailly. La cui direzione ha precisamente trasformato in pregi tutti i difetti attribuiti alla musica: nulla di ciò che si ode qui è banale, cincischiato, volgare, brutale o discutibile, poiché tutto ha un senso narrativo assolutamente coerente ed esteticamente nobile. A partire dalla Sinfonia, che in sé concentra mirabilmente sia i contenuti pubblici (storici, religiosi) del dramma, sia quelli legati alla sfera privata ed alla psicologia dei protagonisti. Se devo proprio trovare un pelo nell’uovo nella direzione del Maestro citerò due, massimo tre circostanze in cui il fracasso orchestrale ha parzialmente coperto le voci (di Meli, nella chiusa della cavatina d’esordio, e Álvarez, nelle arie del primo e second’atto). Per il resto, si merita alle mie orecchie un voto fra il buono e l’ottimo. Stesso voto da attribuire all’Orchestra, che ha risposto proprio come un unico strumento alle sollecitazioni di Chailly.      

Anna Netrebko non avrà un timbro di voce dei più gradevoli (quando sale agli acuti) ma la facilità con la quale supera gli ostacoli di una tessitura massacrante (nell’estensione e nelle perorazioni a voce piena, vedi finale terzo) e la potenza del suo strumento, che invade anche gli spazi siderali di un Piermarini, fanno di lei una Pulzella di valore assoluto.

Francesco Meli si conferma tenore di altissima qualità: non una sbavatura sul lato tecnico (intonazione e aderenza al testo) e grande attenzione a tutte le sfaccettature che la parte di Carlo presenta a livello di espressività. La voce non ha certo la potenza di decibel della Netrebko e ciò ha comportato (complice Chailly, come detto) qualche circoscritto problema di udibilità, ma parliamo di piccoli dettagli che nulla tolgono all’eccellenza della prestazione complessiva. E qualche attenuante Meli la può vantare a carico dei registi, che lo costringono a cantare spesso e volentieri sdraiato per terra, appoggiato su un gomito.

Carlos Álvarez, alla sua seconda prova dopo i forfait iniziali, non ha mancato di portare il suo contributo di grande esperienza e mestiere: anche per lui vale il discorso sulla potenza dello strumento fatto per Meli. In ogni caso il suo è stato un Giacomo più che convincente.

Bene i due comprimari: soprattutto Dmitry Beloselskiy, un efficace Talbot; e poi Michele Mauro, onesto Delil.

L’altro personaggio di importanza capitale è il Coro: e quello di Casoni ha mostrato ancora una volta la sua eccellenza in opere come questa; sempre compatto e preciso, sia quando si deve far udire – in modo arcano - cantando fuori scena, sia nelle irruzioni a tutta forza cui è chiamato da Verdi nelle grandi pagine di carattere retorico.

Insomma, una Giovanna per la quale mi sento di sprecare l’attributo di superlativa, ecco.       
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Superlativa sul piano musicale. Quanto ai registi, ciò che compare sul programma di sala sulla loro concezione dell’opera è talmente contorto e contraddittorio da farli apparire come due pesci fuor d’acqua che hanno preteso di mettersi a correre in un autodromo…

Raccontare la storia di un certo personaggio facendola vivere ad un nuovo soggetto che nulla ha a che fare con il personaggio in questione, ma che – causa turbe psichiche assortite - immagina, vorrebbe, millanta, crede o sogna di esserlo, e di lui (lei) veste i panni, è idea tanto geniale quanto frusta, ma soprattutto estremamente rischiosa. Principalmente perché il nuovo protagonista, affinché tutta l’operazione abbia un senso qualsivoglia, deve necessariamente comportarsi in modo difforme dall’originale, e l’ambiente (materiale e umano) in cui esso si muove deve necessariamente essere diverso da quello in cui si muove l’originale. In caso contrario l’idea registica va subito a meretrici, chè si riduce allora a far scimmiottare ad alcune controfigure le stesse gesta del protagonista originale e di chi gli stava attorno, dando luogo ad una semplice, banale, stupida e soprattutto peggiorativa imitazione, o al massimo ad una parodia.

Ed è proprio ciò che succede con questa regìa, che invece di aggiungere valore ad un’opera che ne avrebbe (secondo i registi e gli esegeti con la puzza al naso) assai poco, finisce per sottrarre valore ad un’opera che non è assolutamente la ciofeca che costoro vorrebbero dipingerci. Insomma: ai due registi non è parso vero di poter sfruttare a proprio vantaggio tutte le facili stroncature di cui è fatto oggetto da sempre l’originale (il testo di Solera, ma anche la musica di Verdi) ed hanno quindi avuto buon gioco nel decidere – per loro stessa ammissione – di cambiargli i connotati! Permettendosi quindi di sbeffeggiare non solo il Solera, ma anche il Verdi, che il libretto di Solera aveva evidentemente apprezzato (e sappiamo quanto il cigno di Busseto fosse esigente in fatto di livello estetico dei testi da musicare.) Purtroppo per loro, non siamo ancora arrivati ad accettare che il testo e la musica originali vengano anch’essi modificati in relazione al Konzept registico, cosicchè i poveri registi sono costretti comunque con l’originale a farci i conti: e da qui nascono un’infinità di incongruenze e di stupidaggini, che finiscono per rendere il soggetto da loro manipolato ancor più criptico e paradossale di quanto l’originale non venga da loro dipinto.

Nel soggetto di Solera-Verdi il privato dei personaggi (con tanto di rapporti conflittuali e/o amorosi, di sentimenti e ipocrisie, di egoismi e pregiudizi e di schizofrenie assortite) occupa di certo una posizione preminente, ma non esclusiva, dato che si inserisce in un pubblico rappresentato dallo scenario politico della guerra dei 100 anni. Certo, l’opera non vuole essere un testo di storia per le scuole medie, nondimeno la Storia (per quanto falsificata, proprio a partire dal dramma di Schiller cui si ispirò Solera) ne è parte integrante e irrinunciabile, coinvolgendo comportamenti di popoli, eserciti, sovrani e comandanti (quindi testo e musica di cori e singoli). Così come la Religione, che mette il naso sia nel privato che nel pubblico e condiziona credenze, costumi, giudizi, e quindi comportamenti (leggi sempre: testo e musica) degli individui e delle masse. Insomma, accanto a quelli di natura privata e personale, gli aspetti relativi a tematiche di natura pubblica (politica, religiosa) sono fondamentali nell’originale di Solera-Verdi, dove l’individuo (tutti i protagonisti) opera e si muove all’interno di una società di cui subisce i vincoli e con le regole (politiche, religiose) della quale si deve continuamente confrontare. (È vero o no che si parla di Giovanna come di un passaggio che avvicina Verdi al GrandOpéra meyerbeeriano? e ci sarà pure un motivo…) 

Ebbene, tutti questi aspetti vengono distorti e ridotti a parodia dall’idea dei registi di mettere al centro della loro messinscena nemmeno più una persona, ma addirittura la sua patologia: ecco allora che tutto quanto ruota intorno a quella persona perde totalmente di pregnanza e persino di significato, essendo stato degradato a pura proiezione del subconscio di un individuo malato di mente: ciò che rimane allo spettatore è il racconto di un caso clinico più o meno interessante o disperato, ma nulla più. 

Emblematica della confusione generata nello spettatore dall’idea registica è la figura di Giacomo. Al quale i registi sono costretti (dal libretto di Solera che loro non si azzardano a modificare) a far assumere il magico ruolo di intermediario fra la realtà - di metà ‘800, dove in questa produzione è ambientata l’opera - e le fantasie della figlia (epoca 1429-31). Lui è infatti il padre sano della falsa Giovanna, malata di mente, quindi è chiamato contemporaneamente a prendersi cura della salute della povera figlia, ma anche a tenerle bordone diventando protagonista delle sue allucinazioni: andando a trattare per consegnarla agli inglesi di Enrico VI; poi accettando di svergognarla pubblicamente davanti a Carlo VII a Reims; infine consentendole di compiere la sua ultima impresa guerresca.

Ecco, ciò che lo spettatore fatica a comprendere sono le due trasformazioni della figura del padre (andata e ritorno, fra realtà e sogno della figlia). La prima è appena-appena percettibile allorquando si rialza il sipario (che durante la Sinfonia si era già alzato e poi riabbassato per mostrarci l’ambiente ottocentesco dove Giovanna malata è assistita dal padre): qui si odono i cori (nascosti in penombra dietro una vetrata) e poi qui arriva il dorato Re Carlo. Ebbene, del padre (vero) di Giovanna si intravede solo un braccio sporgente da una poltrona che dà le spalle al pubblico e sulla quale lui è evidentemente addormentato, poiché d’ora in avanti sarà anche lui parte delle allucinazioni di Giovanna. Ma mi domando quanti abbiano potuto afferrare questo dettaglio fondamentale della concezione registica. Peggio ancora la scena finale, dove si torna alla realtà di Giovanna malata e morente: qui testo e musica costringono i registi a far convivere la realtà (la poveretta assistita dal padre) con la fantasia: Re Carlo che assiste di persona, dovendo cantare insieme ai due e agli spiriti. Insomma, un bel… risotto. 

E sì che nell’originale di spunti interessanti per una regìa davvero di rottura ce ne sarebbero: ne cito solo un paio. Diavoli-Angeli: che fosse volontario o meno da parte del librettista, ecco un curioso ma significativo risvolto filosofico nelle figure di questi esseri ultraterreni: i primi (fate l’amore e non la guerra) sono dei pacifisti; i secondi dei biechi guerrafondai!

E poi la Madonnina (che te brilet dè luntan…): i registi ne mettono una statuetta di cartapesta (o di legno o coccio) da giardino (o presepe-gigante) in braccio a Giovanna, che se la porta dietro e poi la lascia al proscenio, sempre a portata di… sguardi del pubblico. Ecco, questa sarebbe anche un’idea condivisibile (a parte le dimensioni esagerate…) stante la devozione che la Giovanna di Solera (così come quella di Schiller) ha per la Vergine Maria, dalla quale ha avuto l’imbeccata per… arruolarsi. (Nella realtà la pulzella aveva invece ben tre sponsor, fra arcangeli e sante.) Però attenzione: in Solera (non in Schiller, ma qui chi fa testo, col permesso dei registi, è di diritto il librettista!) la Madonna è anche l’imbeccatrice di Re Carlo! Che si mostra a lei devoto altrettanto, se non più, della pulzella. E allora ecco che i registi hanno dimenticato di mettere in braccio al reuccio un’altra madonnina, un po’ diversa però da quella di Giovanna. Sì perché avrebbe dovuto avere un manto recante la union-jack, visto che ha ordinato a Carlo di arrendersi all’albionico invasore, cedendogli gentilmente il trono! La madonnina di Giovanna andava a quel punto rivestita con il tricolore, avendo manifestato invece patriottismo per la Francia. Poi, alla fine del primo atto, Carlo avrebbe dovuto strappare il manto traditore alla sua madonnina, e rivestire anche quella con il tricolore, oppure buttarla direttamente in un cassonetto per trastullarsi anche lui con quell’altra, da lì in avanti. Sarebbe stato un modo memorabile per spiegare al pubblico un aspetto della vicenda (secondo Solera) che viene normalmente ignorato e che soprattutto i registi hanno ignorato: una chiarissima allegoria dell’intreccio politica-religione, una delle problematiche capitali di tutta la storia europea dal medioevo ai giorni nostri…

Criticabili poi alcuni dettagli della messinscena. Mi limito a citarne solamente uno per tutti: mostrare scene cruente di battaglia contraddice spirito e lettera del libretto e della musica, nei quali esse vengono relegate a pochi accenni fatti da Giovanna alla fine del primo atto, o dagli inglesi all’inizio del secondo, o ancora da Giacomo con la sua cronaca nel finale. Tuttavia, quali che fossero le motivazioni (la censura magari, ma più verosimilmente i canoni estetici che il melodramma si auto-imponeva a quei tempi) sta di fatto che Solera-Verdi si guardarono bene dal mettere in mostra la benchè minima violenza o crudeltà. Che qui invece ci vengono propinate a piene mani alla fine del primo atto, compresa la vista di Giovanna che dà il colpo di grazia - calandovi nel petto a due mani e in modo invero orripilante il suo spadone - ad un soldato nemico già atterrato e indifeso.  
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Che dire? Che ancora una volta si sono buttati soldi del contribuente per mettere in piedi un allestimento tanto strampalato quanto pretenzioso. Una regìa di quelle che i soliti con la puzza al naso chiamerebbero museale avrebbe garantito alla produzione un price/performance assai migliore.

18 dicembre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n°64


Si conclude con questo triplice appuntamento la lunghissima stagione 14-15 de laVERDI, stagione che – EXPO imperante – si è estesa fino ad includere quella che tradizionalmente era la parte iniziale (settembre-dicembre) della stagione successiva.

Come la WWII, anche questa stagione si chiude in Giappone, grazie all’ultimo sforzo di Nicola Campogrande e ad opere delle due principali potenze vincitrici della guerra: USA e URSS Russia. Sul podio il sempre effervescente John Axelrod.

Dopo che Campogrande si è congedato con il suo sayonara è Rachel Kolly d'Alba (che torna in Auditorium a quasi quattro anni di distanza dalla sua precedente apparizione) a presentarci un particolare concerto per violino: la Serenade di Lenny Bernstein, che lei ha già inciso con l’Orchestra di cui Axelrod è Direttore musicale.

Composta su commissione della Fondazione Koussevitzky, esordì alla Fenice nel 1954 con il dedicatario Isaac Stern come solista e l’Autore alla testa della IPO; si ispira al Simposio di Platone, dove si celebrano le magnifiche e progressive sorti dell’Amore. È strutturata in cinque parti, che ripercorrono, senza rispettarne rigorosamente la sequenza, i lavori del Simposio (in realtà una prosaica mangiata&bevuta) evocando i principali interventi di sette dei convenuti, i cui nomi compaiono in testa a ciascun movimento del concerto (le frasi accanto ai nomi non sono di Bernstein, ma sintetizzano il senso dei diversi interventi):

I Lento – Allegro
Phaedrus: Amore è un dio potente, antichissimo e meraviglioso
Pausanias: Ci sono due tipi di amore, e solo uno è positivo (quello omosessuale)

II Allegretto
Aristophanes: Una volta i sessi umani erano tre (maschio, femmina e andrògino)

III Presto
 Eryximachus: Esiste un amore di vita ed un amore di morte

IV Adagio
    Agathon: Diamo una definizione dell'amore: esso è il più buono e il più bello degli dèi

V Molto tenuto - Allegro molto vivace
   Socrates: La meta finale è la contemplazione della Bellezza divina
   Alcibiades: Io non farò l'elogio dell'amore, ma quello di Socrate

Bisognerebbe entrare nella mente di Bernstein per cogliere le oscure sensazioni da lui provate alla lettura del Simposio e poi dalla sua penna tradotte in musica. Il compositore in effetti lasciò alcune note in proposito, che furono redatte però a-posteriori, e che chiariscono più che altro le relazioni di carattere musicale fra i diversi movimenti del concerto. Questa è comunque musica che si può apprezzare anche senza necessariamente rifarsi al platonico testo. E la bella rossocrociata-rossocrinuta Rachel non ci priva di un’esecuzione davvero ispirata, e ben supportata dagli archi e percussioni guidati da uno che il pezzo l’ha studiato nientemeno che con… l’Autore! Poi un impegnativo encore del prediletto Ysaÿe, del quale la nostra ha pure inciso un album.
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Chiude il concerto un simpatico abbinamento di sapore natalizio: gli Schiaccianoci della premiata coppia Ellington-Ciajkovski. Abbinamento anche fra i due gruppi di esecutori: ai ragazzi de laVERDI (che stanno con Ciajkovski) si affiancano quelli della Tomellieri Jazz Band, che interpretano l’arrangiamento di Ellington.

Come ci aveva anticipato Axelrod nella presentazione del programma, le due versioni della Suite Op.71a vengono presentate in un geniale incastro: ciascun numero viene eseguito dall’Orchestra in versione originale e subito dopo dalla Band in versione Duke! Axelrod è bravissimo nell’esaltare i contrasti fra le due facce della medaglia: estrae dall’orchestra un suono sottile, etereo, leggerissimo, proprio come in un mendelssohniano sogno natalizio, che contrasta piacevolmente con il suono necessariamente corposo dei fiati della Band, dove Tomellieri&C si superano in strepitosi virtuosismi.

Applausi a scena aperta dopo ciascun numero. Quindi si ripete l’Ouverture, la cui versione-Duke viene accompagnata dal pubblico con battimani stile-Radetzky a Vienna! E ancora il pubblico (Auditorium letteralmente gremito!) non ne vuol sapere di andarsene, attaccando un applauso ritmato… così ecco un nuovo travolgente doppio-Trepak a chiudere una serata da incorniciare.
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Ora aspettiamo, dopo una breve pausa natalizia, l’esordio della nuova stagione 2016 (che coprirà l’anno solare): apertura a fine dicembre con il tradizionale appuntamento con… l’inno europeo.   

12 dicembre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n°63


Il concerto di questa settimana è davvero particolare, per contenuti e… brevità quasi aforistica. Sul podio John Neschling, la cui sospetta combinazione nome-cognome ne tradisce la nazionalità: brasiliana. Pubblico limitato agli irriducibili intimi: fra le numerose assenze, notata quella di Nicola Campogrande, che ormai da mesi saliva regolarmente sul podio per ricevere gli applausi di prammatica per i suoi divertimenti targati EXPO.  

Abbiamo quindi tre poemi sinfonici (o affini): due di Respighi ad incastonarne uno di Sibelius. Questo però secondo la locandina ufficiale, chè la voce di Ruben Jais ci ha avvertito che la sequenza di esecuzione avrebbe più strettamente rispecchiato la cronologia di composizione: che va dalla fine ‘800 (per il finlandese) al 1930, passando per il 1920 (per l’italiano).

Si apre quindi con Il Cigno di Tuonela, la cui prima stesura, seguita da qualche aggiustamento, causa cambi di destinazione del brano, risale al 1893. È il secondo (o terzo, a seconda della collocazione) dei quattro numeri della suite titolata Lemminkäinen, dal nome di un personaggio della principale mitologia finnica, la Kalevala (alter-ego delle Edda norrene).  

Il cignone nero protagonista del brano è quello che maestosamente circumnaviga l’isola di morti di Tuonela, e che il prode quanto incallito sciupafemmine Lemminkäinen dovrebbe far secco per ottenere la mano di una principessa. Invece è lui che fa la fine del cigno del Parsifal, trafitto con una freccia avvelenata da un pastore cieco che poi lo riduce pure a spezzatino. Però sua madre recupera i pezzettini galleggianti sull’acqua (prima che il cigno se li ingoi) e li re-incolla con l’attak, rimettendolo in sesto meglio di prima (!? evabbè… i miti.)

Sono meno di 10 minuti di musica proprio… nordica, in cui ha una parte di spicco il corno inglese, che Paola Scotti mostra di saper suonare divinamente. A lei vanno i meritati applausi di pubblico e colleghi.
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Ecco poi Ballata delle gnomidi (1920). Il testo letterario che Respighi musicò è un poemetto di 13 strofe in settenari a rima incrociata, vergato dall’avvocato-musicomane partenopeo Carlo Clausetti, un dirigente della Ricordi. Il soggetto è assai curioso e un tantino macabro, con risvolti hardcore. Siamo in una comunità di gnomi, dove si svolge una specie di rituale sadico-erotico: due gnocche gnome scelgono un maschietto sfigato e lo trascinano in camera da letto per un triangolo erotico, culminante nello schiattamento del malcapitato. Il mattino successivo lo portano in corteo funebre, con seguito di gnomi smoccolanti, fino ad una roccia a strapiombo sul mare turchino, nel quale lo scaraventano senza tanti complimenti. Poi si danno, insieme agli gnometti superstiti, ad una danza sfrenata (Salome docet).

Mah, forse Respighi doveva pagare un debito all’editore, o magari dovette sottostare ad una qualche forma di ricatto da parte del Clausetti, chissà: non altrimenti si spiega un’iniziativa così bizzarra. Che però fa il paio con il bartokiano Mandarino, composto 7 anni più tardi.

Che la musica evochi puntualmente le improbabili vicende uscite dalla fervida fantasia di Clausetti sarebbe tutto da dimostrare: certo ci troviamo una prima sezione rapida (saranno gli gnomi che si agitano quando le due ninfomani sequestrano la vittima?); poi una sezione più lenta che con poca fantasia possiamo immaginare riguardi ciò che accade nell’alcova, dai preliminari di petting alle… ehm, effusioni orgasmiche; un improvviso Allegro con intervento di ottavini, flauti e violini, seguito da un crescendo concluso da alcuni schianti dell’orchestra potrebbe ricordarci il grido selvaggio dello gnomo che tira le cuoia. Ad esso segue l’unica sezione esplicitamente sottotitolata in partitura (la marcia funebre) che potrebbe benissimo evocare un’avanzata di panzer (o, trattandosi di Respighi, di legioni romane sulla via Appia?); quindi un tonfo che magari accompagna il corpo dello gnomo scaraventato in mare, con gli immancabili colpi di timpano a dargli il… colpo di grazia. Infine la danza delle gnome-sado-ninfomani seguita dal sabba selvaggio che chiude la storiella. Possiamo anche riconoscere alcuni temi che tornano a mo’ di Leit-motive, ad evocare i diversi personaggi.

Ma in sostanza non sorprende che il brano – a dispetto del magistero di Respighi in fatto di strumentazione - sia caduto presto nel dimenticatoio, nel quale per quanto mi riguarda (lo considero più fumo che arrosto) potrebbe tornare rapidamente, eccola. Ai ragazzi va l'encomio per l'abnegazione dimostrata.
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Chiude la serata Metamorphoseon (1930) una composizione di circostanza, commissionata dalla Boston Symphony di Koussevitsky per celebrare i 50 anni dalla sua fondazione. Come il successivo bartokiano Concerto per Orchestra, composto 14 anni dopo per la stessa Boston Symphony, è il pretesto per far risaltare le qualità solistiche delle sue prime parti. Il che di conseguenza si ripercuote sugli interpreti ad ogni nuova esecuzione: così anche qui sono i bravissimi ragazzi de laVERDI a mettersi in gran mostra. 

Il titolo tradisce vagamente la struttura dell’opera, che è un tema con (12) variazioni, che Respighi chiama modi, con un’abile ambiguità terminologica, che serve anche a indicare il ricorso a modi musicali antichi (sappiamo della predilezione dell’Autore per il canto gregoriano). Anche questo brano pare più ricco di affettazione e pedanteria scolastica che di genuina ispirazione: insomma, lascia un retrogusto come di vino… maderizzato, cioè invecchiato male.

Però la prestazione dell’Orchestra e dei singoli, chiamati a virtuosismi acrobatici, è come benzina sul fuoco dell’entusiasmo tanto da far sembrare la sala come stracolma di pubblico osannante.