09 ottobre, 2020
laVerdi 20-21. Concerto n°3
07 ottobre, 2020
Scala: un’Aida mai ascoltata prima
La seconda opera di questa stagione
autunnale scaligera è un’Aida
nuova di zecca. Beh, diciamo con qualcosa di nuovo, anzi... d’antico, ecco: l’inizio del terz’atto come originariamente
composto da Verdi, scoperto un anno fa a Parma e che Chailly (il Direttore ormai
passerà alla storia come il maniaco dei reperti archeologici...)
non ha perso l’occasione di presentare in prima
assoluta.
É un caso simile al famigerato Lacrymosa, composto per il Carlos e poi espunto e successivamente infilato nel Requiem: qui abbiamo la musica del coro dei Sacerdoti egizi, che Verdi considererà troppo cerebrale (à la Palestrina) per l’opera, e quindi più adatta al Te decet Hymnus dello stesso Requiem.
Lo scopritore Anselm Gerhard, descrivendo la sua scoperta, incorre però in un clamoroso autogol, sufficiente ad invalidare tutto il valore, non dell’oggetto della scoperta in sè, ma del suo reinserimento nell’opera, quando afferma testualmente:
“Quel fastidioso ritardo [il rinvio di un anno della prima, ndr] ebbe addirittura un effetto vantaggioso. Costretto ad aspettare, Verdi nell’agosto 1871 decise di rielaborare l’inizio del terzo atto: aggiunse la celeberrima romanza strofica per Aida («O cieli azzurri... o dolci aure native»), per nulla prevista nella partitura originale. Allo stesso tempo, tagliò un monologo di Aida in stile recitativo e sostituì il coro dei sacerdoti («O tu che sei d’Osiride») con una nuova musica dai profumi esotici.”
Quindi, a dar credito a Gerhard, ciò che
ci è stato propinato sarebbe qualcosa di svantaggioso...
(effetti del furore filologico?) Una cosa è certa: Verdi difficilmente prendeva
abbagli, nè del resto si è mai pentito delle variazioni/aggiunte introdotte
prima della prima. Nell’Introduzione cambiò l’atmosfera tonale, rimpiazzando
il FA maggiore dello strumentale e del coro palestriniano
(le note di quest’ultimo portate pari pari nel Requiem) con il SOL maggiore (MI
minore) delle sedici battute caratterizzate dall’arpeggio dei violini sul
motivo dei flauti seguite dal coro esotico.
L’intervento di Ramfis-Amneris, che seguiva la tonalità del coro, venne a sua
volta portato tutto in SOL. Ma la variazione più spettacolare fu l’introduzione
della Romanza di Aida (O patria mia) prima dell’arrivo di Amonasro.
E vi assicuro che passare repentinamente dal recitativo di Qui Radames verrà al Ciel! Mio
padre! è una cosa davvero difficile da digerire!
Trionfatrice della serata l’Anitona Rachvelishvili, il cui vocione ha trasformato Amneris in una... belva. Nel grande concertato del second’atto lei ha coperto tutte le altre voci e pure il coro e l’orchestra!
Meli e Hernandez su standard accettabili: lei ha confermato le sue qualità, voce robusta e sempre ben impostata, acuti penetranti e buon fraseggio; lui mi è parso un po’... fuori forma, esordio impacciato con Celeste Aida, poi meglio fino alla fine, con sfoggio delle sue ormai proverbiali mezze voci e di acuti sempre ben controllati.
Chi mi ha impressionato parecchio (lo ascoltavo per la prima volta) è il mongolo Amartuvshin Enkhbat, che ha disegnato un Amonasro assai efficace, voce piuttosto brunita e penetrante come si addice, secondo me, al personaggio.
Su standard accettabili i due bassi: il Re di Roberto Tagliavini e il Gran Sacerdote di Jongmin Park, ex-accademico scaligero che ha sostituito all’ultimo il titolare Dario Russo. Bene anche i due comprimari Francesco Pittari e Chiara Isotton.
Il Coro di Casoni, purtroppo penalizzato dalla forzata disposizione... periferica ha comunque risposto da par suo mostrando la proverbiale compattezza di suono.
___
Ecco, fra poco più di un mese potremo rivedere un’opera in scena: speriamo bene!
02 ottobre, 2020
laVerdi 20-21. Concerto n°2
Sempre Flor sul
podio dell’Auditorium per questo terzo appuntamento (secondo in abbonamento) del primo
trimestre dell’anno scolastico della stagione concertistica 20-21.
Concerto dedicato alla memoria di Alfonso Ajello,
prestigioso Notaio in Milano (ma di origini partenopee) e soprattutto socio fondatore e già vicepresidente della Fondazione, scomparso prematuramente lo scorso aprile.
Ben coadiuvato da Flor e dai colleghi, Ghiazza ci sciorina un’esecuzione coi fiocchi, senza la minima sbavatura, un Mozart leggero e trasparente che trascina il pubblico all’entusiasmo. Lui ricambia con un bis senza dedica, ma scommetto - stante la scelta fatta - che abbia pensato al suo ammiratore che l‘applaudiva da lassù...
L’Autore medesimo confessava che le bizzarrie formali da
lui introdotte (soprattutto nel primo movimento) finivano per far somigliare la
sinfonia ad una fantasia; e non è un
caso che, dopo aver subito composto la seconda, Weber abbia definitivamente
abbandonato il genere per dedicarsi al teatro e caso mai a quello strumento che
gli era stato negato (dal suo... padrone) proprio per le due sinfonie: il clarinetto!
Flor ne ha comunque messo in risalto le qualità, sottolineando i diversi passaggi solistici (corno, flauto, cello, ma soprattutto l’oboe - ieri suonato da Emiliano Greci) e il risultato è tutto sommato da elogiare, cosa che il pubblico - pur distanziato - non ha mancato di fare.
01 ottobre, 2020
Mehta illustra Strauss alla Scala
Ieri sera il venerabile Zubin Mehta ha offerto la seconda delle
tre serate del concerto
straussiano di questa stagione d’autunno della Scala. In programma
due opere che sono quasi un testa-coda (anzi: un coda-testa, data la sequenza
di presentazione) della produzione del compositore bavarese.
Tocca alla bella nordica Camilla Nylund (i suoi 52 anni li porta davvero bene!) di proporci in apertura le stupefacenti note dei Vier letzte Lieder, sui quali mi sono un pò dilungato quasi tre anni orsono.
Lei è una delle principali specialiste
del repertorio (soprattutto operistico) wagneriano e straussiano e anche qui
non ha smentito la sua fama. Voce ben impostata, acuti sempre fermi e morbidi,
grande espressività. Un poco carente sulle note gravi (il REb del terzo Lied lo
ha carpito a stento); a proposito di Beim
Schlafengehen anche lei (come praticamente tutte) non ha nemmeno provato a
percorrere in apnea l’interminabile legato sul tausendfach, prendendo fiato a metà percorso. Subito prima, mirabile
l’assolo di violino di Laura Marzadori,
la terza spalla dei Filarmonici (ma
terza solo per l’anagrafe, chè qui e poi ancor più nel massacrante passaggio solistico
del poema sinfonico ha dimostrato di non temere confronti con alcuno).
Mehta ha tenuto un approccio assai
sostenuto, tempi sempre comodi e niente enfasi o gratuiti fracassi, nemmeno nella scena della battaglia (qui però c’è
lo zampino della forzata disposizione dell’orchestra, dove soprattutto i
fiati faticano a farsi sentire in sala). Devo supporre che il Maestro abbia
interpretato l’opera dello Strauss giovane eroe spavaldo con lo spirito dello Strauss
disincantato del 1948? Chissà...
Alla fine gli applausi sono fioccati copiosi per tutti, con speciale menzione per il corno di Danilo Stagni (protagonista con la Marzadori dei passaggi solistici, ma in precedenza anche della la chiusa di September, che è sempre cosa... sbudellante). Ripetute chiamate per Mehta, che esce facendosi sorreggere dalla bella e bionda Laura.
C’è ancora una replica... chi può non si perda l’occasione.
29 settembre, 2020
Falsi miti (?) - 2
Riprendo il discorso partendo dal concetto, caro a Roberta Pedrotti, della coerenza in sè dello spettacolo proposto dal regista, che sembrerebbe (almeno così mi pare di interpretare) condizione sufficiente per promuovere un allestimento di opera lirica.
La mia personale convinzione - già anticipata nella puntata precedente - è invece che la coerenza in sè sia condizione necessaria, ma appunto non sufficiente per dare la sufficienza allo spettacolo. E che il proliferare di allestimenti coerenti in sè ma incoerenti con l’oggetto sottostante stia ormai inducendo nello spettatore un tipico fenomeno di dissociazione, qui intesa come separazione in compartimenti stagni (o in piani paralleli) fra la fruizione della componente suoni (testo+musica) e quella della componente immagini (appunto, la scena); ciascuna delle quali viene fruita (e quindi giudicata) di per sè, e non all’interno di un insieme organico, così come concepito dall’Autore (o Autori) nel quale le due componenti si compenetrano necessariamente per creare un oggetto di forma compiuta.
Pensiamo a ciò che accade ad uno spettatore che assiste per la prima volta ad un’opera della quale non ha alcuna (o ha solo superficiale) conoscenza; magari presentata in una lingua a lui sconosciuta, quindi di non immediata decifrazione. Quali saranno le sue reazioni? Egli naturalmente tenderà a dissociare i due piani: cioè apprezzerà (se apprezzabili secondo i suoi gusti) i suoni che raggiungono le sue orecchie; e separatamente apprezzerà (se apprezzabile secondo il suo gusto) ciò che raggiunge i suoi occhi. Anche volendo, gli sarebbe oggettivamente difficile cogliere, e men che meno giudicare, la coerenza fra i due piani.
Ecco, l’atteggiamento che in quello spettatore ignorante è un fenomeno riflesso, cioè non cosciente, conseguenza naturale della sua stessa ignoranza, e quindi pienamente comprensibile e perfino giustificabile, nello spettatore informato ed esperto rischia sempre più spesso di diventare l’approccio cosciente alla fruizione dello spettacolo. Che viene giudicato separatamente nelle sue due componenti, e non nella sua organica totalità. Così si spiegano giudizi positivi (a volte trionfalistici) di allestimenti che hanno soddisfatto (separatamente) l’orecchio e l’occhio dello spettatore, anche quando invece mancano in tutto o in parte l’obiettivo della coerenza fra le due componenti dello spettacolo.
Naturalmente questa incoerenza non è mai casuale, ma è sempre determinata da una precisa e programmatica scelta (il Konzept, come lo si definisce in Germania, patria del Regietheater) del responsabile dell’allestimento: il regista. Ruolo che ha assunto via via sempre maggior importanza (e visibilità) proprio perchè, evolvendosi, ha ampliato a dismisura il suo raggio d’azione: da puro portatore in scena (interprete) di un oggetto dato, a decifratore (lo scavo cui allude Pedrotti) di aspetti nascosti nell’oggetto originale. Le ragioni di tale fenomeno sono molteplici: si va dalla constatazione della pochezza o della totale inattualità dei testi (i libretti) delle opere da mettere in scena (questo si applica per lo più al melodramma ottocentesco); alla pretesa di estrarre dal soggetto originale, per farli assurgere a pilastri della proposta teatrale, aspetti più o meno importanti o anche marginali che possano però far emergere chiari riferimenti all’attualità politica, sociale, filosofica, religiosa, estetica (ne sono esempio le tante interpretazioni del Ring wagneriano); alla tecnica consistente nel de-strutturare il soggetto originale per poi impiegarne alcune componenti per ricostruirne un altro con caratteristiche diverse se non addirittura contrastanti con quelle dell’originale medesimo. All’uopo, nel tempo la figura del regista è stata affiancata da quella del Dramaturg (uso il termine crucco) responsabile di suggerire al regista potenziali aspetti nascosti nel testo e meritevoli di essere valorizzati e messi in primo piano.
Insomma, il rispetto del testo originale (sul quale, non andrebbe mai dimenticato, è stata composta la musica) è diventato quasi un optional, il che può trovare consenziente qualche spettatore preparato, magari sempre in cerca di nuovi... stimoli purchessia, quando assiste per l’ennesima volta alla messinscena di un titolo conosciuto a menadito; ma che rischia di diventare deleterio proprio per lo spettatore naif o neofita, indotto a fare una conoscenza distorta dell’opera cui ha assistito.
Oggi la stessa critica musicale (e mi pare che la Pedrotti condivida) ha accettato come dato di fatto questa situazione, tanto da proporre una categorizzazione degli allestimenti di opere: fra quelli che raccontano la storia originale e quelli che raccontano un’altra storia. Attribuendo quindi piena legittimità anche ai secondi, purchè siano per l’appunto coerenti in sè.
Naturalmente qui non parlo di storia come di pura trama, ma come di sostrato concettuale dell’opera e - più in dettaglio - di natura di ambienti, personaggi e azioni che ne costituiscono il corpo.
Comincio a far qualche esempio per non cadere nel pedantesco. Oltre a Michieletto, propongo Graham Vick che, insieme al regista veneto, è uno dei beniamini di Roberta Pedrotti, che lo cita più volte nel suo saggio.
Di cosa tratta Un ballo in maschera? Della prosaica storia di un personaggio importante che si fa trascinare dalla sua esuberanza e finisce male. Il protagonista è un’altissima autorità (il Re di Svezia, nientemeno, all’origine... poi diventato un Governatore di Sua Maestà Britannica, per ragioni di censura) al quale l’infatuazione adultera per la moglie del suo fedelissimo plenipotenziario e l’eccesso di trasporto verso il suo popolo giocano un brutto scherzo, che lo porta a lasciarci le penne. Che l’ambientazione sia nella Svezia del testo originale, o nel Massachusetts di un secolo addietro come nel libretto verdiano, fa assai poca differenza, poichè i due macro-socio-e-psico scenari si assomigliano assai (un sovrano e un’emanazione di un sovrano che vivono la stessa vicenda).
Damiano Michieletto (2013) mette in scena l’opera alla Scala. La ambienta nel Massachusetts, precisamente come da copione. Poi però, nel lodevole intento di rendere il soggetto attuale, cioè più immediatamente vicino alla nostra contemporaneità, sposta i tempi dell’azione al giorno d’oggi, durante la campagna elettorale per l’elezione del Governatore dello Stato. Ahi ahi, qui cominciano i guai, poichè la storia di un Governatore che si deve far rieleggere al termine di una campagna elettorale - dove stratagemmi e colpi bassi fra i candidati si sprecano - sta precisamente agli antipodi di quella del testo originale, dove Riccardo ha un’investitura che gli viene dall’alto, non da una maggioranza (anzi minoranza, in termini assoluti) della popolazione: non sto a tediarvi oltre - salvo che proprio non lo vogliate - sulle mille e sostanziali differenze (a livello sociale, psicologico, comportamentale) fra i due scenari. In sostanza, qui si racconta - e assai bene, per carità - un’altra storia, coerente in sè. Domanda: la musica e il testo ci fanno scopa lo stesso?
Ammesso infatti che l’intento di Verdi fosse quello di mandare al pubblico messaggi, per così dire, di natura socio-politica o di costume, e che fosse costretto, dalle usanze e dalle censure di allora, a farlo ricorrendo a soggetti ambientati in altri tempi (al passato, tipicamente) e non immersi nell’attualità, potremmo spiegare il successo dell’opera solo in due modi: a) essa era così immediatamente e superficialmente coinvolgente tanto da essere apprezzata anche senza essere capita dal vasto pubblico; ma allora non si vede perchè ciò non possa funzionare anche oggi (della serie: prima la musica...); b) il camuffamento funzionava perfettamente, essendo il pubblico abbastanza intelligente da individuare il messaggio dietro l’inattualità della presentazione; il che ci farebbe concludere che i nostri trisavoli fossero assai più scafati di noi, se noi abbiamo bisogno del regista attualizzatore per decifrare il messaggio che si cela dietro l’inattualità del soggetto!
Graham Vick (2011) mette in scena l’opera al ROF. La ambienta nel Medioriente del ‘900, mostrandoci gli ebrei compiere azioni terroristiche in serie (le piaghe che Dio manda sull’Egitto) per conquistare la libertà. È quindi la storia - fedele come un documentario giornalistico - della nascita dello Stato d’Israele, con gli attentati al King David, la strage a Deir Yassin, e con Mosè (sembra BinLaden, ma è in realtà Jabotinsky) che canta Dal tuo stellato soglio imbracciando un Kalashnikov; e giù giù fino ai giorni nostri. Proposta assolutamente coerente in sè, e realizzata con la proverbiale maestria del regista albionico. Domanda: la musica e il testo ci fanno scopa lo stesso?
Qui siamo in presenza di una diversa, e assai più ardita (io aggiungo: subdola) forma di attualizzazione: si prende spunto dal soggetto originale (la vicenda biblica del popolo ebraico che cerca di sfuggire alla cattività egiziana - con continui riferimenti a fatti miracolosi) per presentare, impiegando testo e musica di Rossini, vicende delle quali noi siamo stati testimoni, avvenute più di un secolo dopo la creazione dell’opera e caratterizzate da fatti tutt’altro che miracolosi. Il risultato è che la colonna sonora (Rossini si deve rassegnare) sia del tutto inadeguata a supportare lo spettacolo...
Damiano Michieletto (2016) la mette in scena, ancora al ROF. E inventa letteralmente un’altra storia, immaginando ciò che avviene dopo il lieto-fine. Rivisitando quindi l’intera vicenda con il senno di poi, rappresentato dalla presenza quasi costante in scena dei due personaggi uniti in matrimonio nel lieto-fine dell’opera, ma con sulle spalle 20 anni in più e le esperienze del matrimonio. E siccome è matematico che anche le unioni più stabili incontrino nel tempo crisi e ripensamenti, ecco che tutta la vicenda oggetto del testo originale viene inquinata dalle ombre che arrivano dal futuro (!) Anche qui: lo spettacolo è ben curato, a parte qualche... imitazione; e soprattutto è coerente in sè. Ma torna, impietosa, la domanda: la musica e il testo ci fanno scopa lo stesso?
Graham Vick vi si cimenta al ROF del 2019. Chi è il protagonista, secondo lui? Mica certo Semiramide (buoni tutti...) No no, è appunto Arsace, quello della vendetta di Ninia, che Vick mette al centro del suo Konzept, lui e la sua vendetta. Vendetta che prende quindi il posto della sacrosanta giustizia divina, della quale nel testo di Rossi si fa tramite il talebano Oroe. Spettacolo ovviamente coinvolgente, dato il mestiere del regista. A costo di essere molesto, chiedo: la musica e il testo ci fanno scopa lo stesso?
Dovessimo esaminare tutte le produzioni di Carsen, Guth, Herheim, DeAna, Loy, Bondi, Bieito, McVicar, Martone e così via troveremmo cose buone e meno buone. É su quelle meno buone (anche se magari tutte coerenti in sè) che mi sento di eccepire, per le ragioni addotte. E infine ribadisco la mia impressione: che la crescente enfasi posta sulla messinscena induca sempre più lo spettatore (ma anche il critico) a giudicare separatamente ciò che arriva all’occhio da ciò che arriva all’orecchio, dando troppo spesso peso prevalente alla prima componente e mettendo in secondo piano la coerenza con la seconda.
Ciascuno a questo punto può giudicare se il fenomeno sia da guardare di buon occhio, come un progresso della civiltà, o invece da considerarsi regressivo (della serie O tempora, o mores...)
(2. fine)
27 settembre, 2020
Falsi miti (?) - 1
Roberta Pedrotti è tornata sullo
spinoso argomento delle regìe del teatro musicale, prendendo lo spunto dal
dibattito (in particolare quello ospitato da Corrado Augias su Repubblica)
seguito alla discussa rappresentazione romana estiva del Rigoletto inscenato da Damiano
Michieletto.
In un lunghissimo post (quasi un saggio) la mia illustre conterranea (lei viene da Lumezzane, io dalla vicina Tavernole) ribadisce il suo convinto sostegno alle regìe moderne (uso questo improprio aggettivo) in disaccordo con ciò che lei definisce falsi miti, che vengono presi in considerazione per essere poi regolarmente (e legittimamente, s’intende) smontati. Andiamo con ordine, capitolo per capitolo.
I registi nuovi divi?
Qui Pedrotti introduce l’argomento con considerazioni francamente lapalissiane: il teatro musicale è teatro e quindi necessita - da che mondo è mondo - di regista, scenografo, costumista, addetto alle luci e coreografo. Musica e testo letterario sono un tutt’uno dell’opera, che quindi abbisogna dei diversi addetti-ai-lavori per vivere compiutamente: ai registi va concessa quindi la stessa dignità ed importanza che si riserva da sempre ai Musikanten; e se si accetta il fenomeno del divismo per questi ultimi, non si vede perchè stigmatizzarlo per i primi.
La Pedrotti liquida poi come inconsistente e stucchevole il porsi l’eterna domanda: prima la musica o le parole?
Faccio umilmente osservare che è normalissimo (proprio in questo periodo ne siamo testimoni) eseguire opere in forma di concerto (musica senza teatro) mentre mi è ignoto che si siano mai messi in scena testi di libretti d’opera senza l’accompagnamento della musica composta su di essi. Così come non è raro che al musicista venga richiesto di comporre musiche di scena per accompagnare rappresentazioni di testi di prosa. E vorrà pur dir qualcosa...
Arbitrio e libertà
Qui Pedrotti cita un passaggio della lettera di Flores D’Arcais ad Augias, dove ci si chiede se non si debbano porre limiti al regista (per evitarne gli arbitrii) esattamente come non si accetta che il Direttore cambi le note scritte o la strumentazione sulla partitura. La Pedrotti argomenta che la definizione stessa di arbitrio sia affetta da presunzione di colpa e (direi giustamente, in linea di principio) si domanda dove sia e chi stabilisca il confine fra arbitrio e libertà. Poi aggiunge: “che un'interpretazione sia o meno da considerarsi tale [un arbitrio] non lo potremo discutere prima che [l’arbitrio] sia stato perpetrato”. Quanto agli interventi sulla musica, ricorda altrettanto correttamente che tagli, aggiustamenti, trasposizioni e interventi più o meno estesi sulle partiture se ne son sempre fatti e sono entrati in quella che si chiama tradizione (e/o prassi) interpretativa, oggi presa in considerazione persino da chi predispone le cosiddette edizioni critiche delle opere.
Vorrei qui cominciare a porre una questione di quantità e di qualità (di interventi fatti sulla lettera e sullo spirito dell’originale) anticipando un concetto caro a Marx: certe modificazioni quantitative - quando assumono dimensioni ragguardevoli - possono ingenerarne di qualitative... Interpretare in modo personale un’indicazione agogica o dinamica in partitura è cosa del tutto naturale (è addirittura un dovere, più che un diritto dell’interprete) ma trasformare un Largo in un Presto o un ppp in un fff significa snaturare del tutto l’oggetto della creazione artistica, e questo mi pare francamente un arbitrio, così come scambiare le parti fra la sezione degli archi e quella dei fiati dell’orchestra. Mentre interpretare un Allegretto come un Andante con moto, un f come un mf o limitare il vibrato degli archi mi parrebbe degno di massima comprensione.
Quanto al fatto che eventuali arbitrii non siano vietabili a priori, ma soltanto sanzionabili dopo che sono stati perpetrati e giudicati tali è un concetto del tutto condivisibile: è sempre a posteriori che si giudica qualunque atto umano, e la Legge non dice mai “é severamente vietato rubare”, bensì “chi ruba va in galera” (e dopo tre gradi di giudizio...) Nel nostro caso ciò che manca (o non viene di fatto applicato alle problematiche che stiamo discutendo) è un quadro normativo che stabilisca dove si configura l’eventuale reato (l’arbitrio) e quali siano le pene cui va incontro chi sgarra. Oggi si è molto più sensibili a garantire (giustamente) copyright e diritti consimili che non a difendere le opere da eventuali offese alla loro dignità-integrità. Anche perchè è oggettivamente abbastanza facile, per la giustizia, distinguere dagli originali un Rolex o una Lacoste o un VanGogh contraffatti, arduo invece stabilire se una messinscena del Trovatore si configuri come reato.
Della filologia
La Pedrotti resta sullo stesso terreno esaminando l’intervento del Prof. Enrico Malato, che scrive ad Augias, chiamando in causa la filologia: “che diritto ha, l'interprete moderno di alterare, stravolgere un documento artistico storico?” Lei qui ha buon gioco a contestare la chiamata in causa dei filologi (che non fanno giurisprudenza!) e a replicare ancora una volta che, essendo l’interprete un anello necessario della catena di produzione dell’oggetto artistico che arriva al pubblico, è inevitabile che si debba assumere qualche responsabilità. Aggiunge poi testualmente: “Credo, invece, sia più rispettoso studiare a fondo un testo e assumersi anche il rischio di un'interpretazione ardita, se fondata e meditata, che puntare tutto sulla decorazione e l'usato sicuro senza andare oltre la convenzione.”
Non posso che ribadire il concetto che l’interprete ha il dovere, non solo il diritto, di lavorare sul testo scritto (parole e note) per rendercelo fruibile nel modo più efficace. In perdurante assenza di norme chiare in proposito, per contrastare possibili abusi si può solo auspicare che la Giustizia venga chiamata in causa da denunce (sporte da privati cittadini o da associazioni) che portino a sentenze che comincino a fare giurisprudenza, come si dice, creando un corpus giuridico di riferimento per tutta la materia. In caso contrario non resta che il diritto di critica, che ciascuno può esercitare in vari modi (dal disertare gli spettacoli incriminati, fino al boicottaggio non violento) e che può portare, nel tempo e se assume dimensioni di massa (ecco l’effetto quantità) a prosciugare le fonti a cui si abbeverano oggi i presunti vandali dell’arte.
Rispetto, cornice e quadro
Torna il riferimento a Flores d’Arcais e al Rigoletto michielettiano: il giornalista-scrittore afferma testualmente che “Rigoletto è quintessenziale che sia un “buffone”, costretto a far ridere anche quando colmo d’angoscia o dolore. Nel giostraio/servo tuttofare [quello di Michieletto, ndr] questa polarità è impossibile”. Quindi par chiaro che Flores se la prenda, più che con quella ambientale, con la trasposizione delle caratteristiche esistenziali e psicologiche del personaggio: solo la professione (forzata) di buffone giustifica la schizofrenica polarità della psiche di Rigoletto, essendo egli pagato per far ridere gli altri (Cortigiani, vil razza dannata...) pur vivendo sotto l’incubo di incombenti catastrofi a casa propria. Nella psiche di un giostraio questa polarità diventa piuttosto gratuita (un giostraio è tutto fuorchè un buffone di corte, fino a prova contraria).
Ma Pedrotti svia furbescamente, sia pur fugacemente, il discorso sull’ambientazione spazio-temporale, e qui ovviamente va a nozze, poichè le è facile sostenere che la Mantova del 1500 fu solo un trucco escogitato per aggirare la censura. Poi torna sul personaggio per esprimere concetti assodati: a Verdi interessava lo scavo psicologico di Rigoletto, un po' meno la sua gobba e nulla del tutto l’abbigliamento e il cappello a sonagli. E porta ad esempio positivo la regìa di Pizzech (Parma e poi Bologna) che toglie a Rigoletto la gobba, ma gli conserva in pieno lo status di mente dissociata fra sporco-lavoro e affetti privati.
Ancora Pedrotti si rifugia in un terreno comodo, quello della presentazione esteriore (scene e costumi) dove le è facile argomentare contro le sedicenti pretese filologiche di chi reclama elmi, corazze, trine e merletti, fondali dipinti e foglioline di cartavelina... E irridere chi pensasse di tornare alla fruizione del teatro di qualche secolo fa.
Infine, cita ancora Flores d’Arcais per confutare il parallelo fatto dallo scrittore fra regista e traduttore, sostenendo (giustamente) che il traduttore si limita a rendere fruibile il testo a chi non conosce la lingua originale.
In realtà Flores esprimeva un concetto ben diverso, anzi un timore: che succederebbe se il traduttore, invece di limitarsi a tradurre, si inventasse, o manipolasse sostanzialmente, la storia? E questo è precisamente il punto cruciale dell’intera diatriba: che succede se il regista, svolgendo la sua attività necessaria a renderci fruibile l’opera, ne manipola il contenuto?
Quel minuetto a Palazzo Te
È Nicola Piovani ad essere qui preso di mira, a fronte di un suo intervento ancora presso Augias, nel quale avanzava un’oggettiva e aperta provocazione: se si ambienta Rigoletto ai giorni nostri, è ridicolo far cantare Duca e Lady Ceprano sulle note di un Perigordino, più appropriati alla circostanza sarebbero una Lambada o un brano rock, con tanto di chitarre elettriche e batteria...
Pedrotti si dichiara stupefatta della banalità della provocazione, e subito reagisce con ferma determinazione: obiettivo di Verdi era di evocare in modo efficace una situazione drammaturgica ben precisa, lo stacco fra il volgare festino e l’approccio sdolcinato e suadente del Duca, che la Lady deve rifiutare controvoglia. E il Perigordino serve perfettamente alla bisogna, anche se è una danza che era del tutto sconosciuta ai tempi dei Gonzaga, essendo venuta di moda due secoli dopo, quindi un chiaro falso storico.
Giusto, ma si potrebbe obiettare che è diverso retrodatare una moda (una danza, nella fattispecie) e invece attualizzarla: la prima operazione è inconsapevolmente accettata, poichè noi tendiamo ad appiattire il passato (secolo XVI o XVIII fa lo stesso, è sempre roba antica, almeno nel terreno che stiamo esaminando) mentre la seconda viene istintivamente rigettata perchè percepita come bizzarra, assurda, illogica, demenziale (proprio perchè fuori-tempo) quindi incompatibile con la supposta seriosità del teatro (musicale e non). Faccio anch’io una provocazione: immaginiamo che Verdi - censura e querele permettendo - ambientasse l’opera (col Perigordino, indicato precisamente nel libretto) invece che presso i Gonzaga del 1500, a Palazzo Litta nel 1850... Come avrebbe reagito il pubblico milanese? Con applausi convinti o con feroci sghignazzate?
Conclude Pedrotti: “Creare sulla scena una struttura logica, non importa quanto irrealistica, ma in sé coerente.” Beh, la coerenza in sè è una condizione necessaria. Ma rischia di non essere sufficiente se vien meno la coerenza con l’oggetto originale, realistico o irrealistico che sia.
Apparenza, sostanza, professionalità
Qui Pedrotti reclama serenità di giudizio e abbandono di posizioni pregiudiziali: si valuti di volta in volta il risultato, senza bocciature (ma io aggiungo anche: senza promozioni) aprioristiche. Perfetto.
Segue un invito ad apprezzare la professionalità dei registi e a non denigrarli a priori come soggetti frustrati che cercano realizzazione di sè usando mezzucci e malafede. Invito da accogliere senza se e senza ma. Personalmente sono convinto, avendoli visti alla prova dei fatti, che i nomi che la Pedrotti cita, ed altri ancora (salvo pochi opportunisti e ciarlatani) siano personaggi di assoluto valore (vengono per lo più dalla prosa) che conoscono ogni aspetto del teatro e sanno perfettamente come costruire spettacoli coerenti in sè. Come ripeto, spesso non basta.
Giovani e futuro
Pedrotti chiude il suo saggio ribadendo la sua incrollabile fiducia nel teatro musicale, legata alla presenza e all’attività di operatori (si parla in primo luogo proprio dei responsabili dell’allestimento) che siano in grado di dargli continuamente nuova linfa vitale. L’innovazione come processo continuo e inestinguibile (“naturale condizione dell'arte, che si evolve, si rinnova, riflette su se stessa”) e non come specchietto per le allodole utile solo per attirare a teatro qualche giovane in più.
Parole sante, ma - posso sbagliare - mi pare di cogliere una certa freddezza, non dico indifferenza, verso la produzione di nuove opere (invocata dallo stesso Michieletto) a favore della continua riproposta del patrimonio consolidato (fino al secolo scorso?) “La traviata o La bohème hanno una forza eterna di capolavori in grado di parlare a tempi diversi attraverso interpreti diversi, in abiti diversi, di rimanere se stesse mostrando ogni volta nuove sfumature, nuovi volti, nuove chiavi di lettura, a essere eterne e inesauribili, se vogliamo leggerle nel profondo”. Già: rimanere se stesse...
Conclude Pedrotti invitando ad abbandonare: “categorie manichee iscritte sulle tavole della presunta e pretesa corretta rappresentazione dell'opera lirica”. Qui non posso che concordare.
Qualche mia considerazione aggiuntiva... alla
prossima puntata.
(1. continua)