trallalalera, trallalalà!

droni di qua, razzi di là, bombe di su, spari di giù...

09 giugno, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°30


É il Direttore ospite Patrick Fournillier a dirigere il penultimo concerto stagionale, con un programma comprensibilmente (per lui) patriottico: Camille Saint-Saëns che incastona un desueto Gounod. Programma peraltro dalla struttura tradizionale: pezzo breve di apertura, concerto solistico e sinfonia.

Si parte quindi con la Danse macabre, un breve Poema sinfonico (come lo definisce lo stesso Autore) che Saint-Saëns derivò da un suo precedente Lied su testo di Henri Cazalis (di cui aveva musicato tre delle sette quartine) ambientato in un cimitero dove a mezzanotte spettri e fantasmi si sbizzarriscono in danze più comiche che spaventevoli, per la verità, sulle note di un violino scordato suonato dalla Morte in persona:



Il brano è sostanzialmente bitematico: dopo l’introduzione dell’arpa che scandisce la mezzanotte e del violino solista che accorda significativamente sul tritono LA-MIb (la prima corda è calante, al posto del MI naturale) ecco un primo tema agitato e macabro (esposto inizialmente dal flauto e dai primi violini) e il secondo, assai più cantabile, esposto poco dopo dal violino solista. I due temi vengono via via riproposti con sottili variazioni e vengono anche (come in uno sviluppo di forma-sonata) messi contrappuntisticamente in confronto, con l’apparizione, nella tromba, anche del Dies Irae.

Al posto della voce (protagonista del Lied originale) qui è ovviamente il primo violino che ha la parte del leone (anche Mahler nella sua Quarta evocherà la Morte che suona proprio un violino scordato) e così è Nicolai Freiherr von Dellingshausen a mettere in mostra le sue doti, trascinando l’Orchestra in un’esecuzione accolta da ovazioni.
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Ecco poi l’eclettico Roberto Prosseda arrivare per proporci il Concerto per piano pédalier di Charles Gounod.

Il pianoforte con pedaliera è un’invenzione assai antica, che apparenta lo strumento all’organo, consentendo all’esecutore di aggiungere alle 10 dita delle mani (che operano sulle corde dello strumento principale) anche i due piedi, che consentono di percuotere delle corde supplementari (tipicamente su un’estensione di due o tre ottave gravi). Usato come pianoforte consente ad un singolo esecutore di produrre un volume di suono che altrimenti richiederebbe la presenza di un secondo pianista (pianoforte a 4 mani) o anche di un secondo strumento (due pianoforti). Lo strumento è poi in grado - dal punto di vista della tecnica esecutiva - di surrogare l’organo senza richiedere sistemi (automatici o manuali, vedi i mantici) di produzione del flusso d’aria. Compositori famosi hanno scritto brani per il pedal-piano, a partire da Mozart, per passare a Schumann e su fino a Gounod, appunto, e allo stesso Saint-Saëns.

Roberto Prosseda da parecchi anni è diventato, si può dire, il profeta dello strumento, tanto da riproporne l’impiego attraverso numerosi recital e registrazioni, ma addirittura diventando protagonista attivo nello sviluppo tecnologico di questa specie di mostro che pareva ormai destinato alla totale estinzione. Dapprima valorizzando lo strumento (unico esemplare) prodotto dal vicentino Luigi Borgato, il Doppio Borgato, costituito da un pianoforte tradizionale cui è collegato (sistemato al di sotto) uno speciale pianoforte senza tasti a 37 corde (le prime tre ottave gravi, LA0-LA3, della tastiera standard) colpite da martelletti azionati direttamente dalla pedaliera. Successivamente ideando, insieme al costruttore Fratelli Pinchi, un sistema di pedaliera e registri (relativamente leggero e poco ingombrante, quindi più facilmente trasportabile) collegabile a qualunque coppia di pianoforti standard (i 37 pedali azionano delle dita meccaniche che percuotono i normali tasti del pianoforte inferiore) e con un’estensione di ben 5 ottave, impiegabili a gruppi di tre (LA0-LA3, LA1-LA4, LA2-LA5) attraverso registri che comandano la connessione pedale - dita meccaniche, consentendo anche raddoppi all’8va e alla 15ma.

Chi volesse approfondire i dettagli tecnici e storici può leggere due articoli di Prosseda, relativi al Doppio Borgato e al Pinchi. E proprio il PinchiPedalpianoSystem è stato installato in Auditorium per la bisogna, collegandolo a due strumenti Yamaha.

Bene, fatte queste pedanti premesse extra-musicali, veniamo all’oggetto specifico, intanto segnalando che su youtube è possibile apprezzare la prima esecuzione in tempi moderni del concerto, avvenuta a settembre 2011 a Forlì, dove Prosseda suonava sul Doppio Borgato, accompagnato dalla Toscanini diretta da Jan Latham Koenig: Allegro moderato, in MIb maggiore, dal piglio e dal sapore vagamente mendelssohniano, Scherzo, in SOL minore-maggiore, per la verità piuttosto blando rispetto agli stilemi tradizionali, Adagio ma non troppo, una mesta marcia funebre dalla caratteristica struttura a due sezioni in minore che ne incastonano una in maggiore (sempre DO) e infine l’Allegretto pomposo, ancora in MIb, dall’incedere davvero enfatico, ma dove il solista ha modo di esibirsi anche in qualche volata appariscente. Qui invece il primo movimento del concerto suonato da Prosseda con il nuovissimo Pinchi a Pordenone nel 2012.

Parliamoci chiaro, non si tratta certo di un capolavoro, e la sua scomparsa per più di un secolo dagli auditorium e dalle sale di registrazione non si spiega solamente con la difficoltà di reperire il complicato strumento... Rispetto alla cui resa sonora, pur dando atto al sistema Pinchi di consentire ampie varietà timbriche, resta il dubbio che un risultato apprezzabile si potrebbe ottenere eseguendo il brano a quattro mani su unica tastiera o al massimo impiegando due pianoforti per i quali trascriverlo appositamente. Ieri sera francamente la sonorità del pianoforte basso lasciava a desiderare tanto che spesso veniva coperto bellamente dall’orchestra (cui forse Fournillier ha lasciato troppa briglia sciolta).

In ogni caso la proposta di Prosseda e de laVerdi va accolta con interesse, e il pubblico di ieri ha lungamente applaudito orchestra, direttore e solista, che ha concesso ben due encore, dove effettivamente gli strumenti hanno offerto una resa migliore: Alkan e Schumann.  
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L’intervallo ha presentato alla parte del pubblico rimasta in sala un fuori-programma... logistico: lo smontaggio e successivo inabissamento nel sotterraneo sottostante al palco dei due pianoforti e della pedaliera. Il tutto avvenuto in meno di mezz’ora, e vi assicuro che è impresa non da poco.

Ha chiuso la serata la Terza Sinfonia, nella quale Saint-Saëns prevede una parte concertante per l’organo. A proposito, laVerdi ha lanciato un’iniziativa per dotare l’Auditorium di un organo in piena regola (oggi vengono usati strumenti elettronici amplificati). É quindi in corso il processo di reperimento delle risorse finanziarie che servono a raggiungere questo importante obiettivo. 

La Sinfonia è suddivisa formalmente in due sole parti, ma al suo interno in effetti è quadripartita, come nella tradizione classica. É famosa (anche) perchè vi compare un motto che richiama il Dies Irae, presentato fin dall’inizio, e poi protagonista - portato trionfalisticamente in modo maggiore! - nel finale. È stato peraltro osservato come questo tema del finale sia in realtà derivato dall’Ave Maria di Arcadelt (16° secolo) trascritta nell’800 da Pierre-Louis Dietsch e poi ri-arrangiata da Franz Liszt, di cui Saint-Saëns era devotissimo e al quale dedicò la sinfonia.


Sinfonia francamente pretenziosa e piuttosto velleitaria, per la quale (per me) vale la classica definizione di interessante, ma non bella, ecco. Certo Fournillier, che la dirige a memoria, e i ragazzi, han fatto del loro meglio per farcela apparire anche bella... beh, se il bello si rapporta al fracasso del finale, allora ci siamo in pieno!

04 giugno, 2018

Alla Scala arriva Fierrabras


Questa per la Scala è la stagione delle primizie: dopo Fledermaus e Orphée - e in attesa della super-primizia, Fin de partie - ecco arrivare per la prima volta al Piermarini il Fierrabras di Franz Schubert. (La produzione è del 2014 a Salzburg - Pereira regnante - ed è disponibile in DVD).

Opera che l’Autore non potè mai ascoltare e che per la verità in pochi hanno potuto ascoltare in teatro da quasi 200 anni a questa parte. Dopo le prime spurie rappresentazioni di fine ‘800 si dovette arrivare praticamente al 1988 (Vienna) per assistere alla riproposta di quest’opera, grazie alla dedizione di tale Claudio Abbado, la cui interpretazione si può oggi seguire anche su youtube, in questa registrazione audio.

Il genere è apparentabile a quello del Singspiel, comprendendo diversi dialoghi parlati, ma oltre alle arie, concertati e cori, include anche diversi Melodramen, in pratica dei parlati accompagnati. In ciò si differenzia, ad esempio, dal beethoveniano Fidelio (che ne prevede uno solo, nel sotterraneo) dal quale per il resto mutua alcune inconfondibili atmosfere.

Il libretto di Josef Kupelwieser è un farraginoso insieme di vicende che definire astruso e indigeribile è fargli un complimento: di certo è in buona parte responsabile della miserevole considerazione di cui l’opera ha goduto e gode tutt’oggi, a dispetto della qualità della musica di Schubert.

Il soggetto è derivato - per discutibile mescolanza - da almeno due racconti medievali, e presenta, sullo sfondo della guerra fra Carlomagno e i Mori, due vicende amorose che coinvolgono individui delle due diverse e contrapposte etnie e religioni: da una parte il cristiano Roland (eroico paladino carolingio) e la saracena Florinda (figlia dell’Ammiraglio Boland, capo dei mori); e dall’altra il protagonista Fierrabras (figlio di Boland e quindi fratello di Florinda) e la figlia di Carlomagno, Emma, che però è innamorata (e ricambiata) da un altro fedelissimo di suo padre, Eginhard, peraltro privo di titoli nobiliari. Per una di quelle gratuite e ridicole combinazioni che si verificano solo nei libretti d’opera, Roland-Florinda e Fierrabras-Emma si sono incontrati tempo addietro a Roma (dove Boland aveva trafugato reliquie preziose) e poi perduti di vista, ritrovandosi miracolosamente quattro anni dopo sulla scena dello scontro armato ai confini fra il territorio cristiano e quello saraceno. Dopo una serie di vicende improbabili e ai limiti dell’assurdo, le due coppie Roland-Florinda ed Emma-Eginhard possono finalmente coronare i rispettivi sogni d’amore, mentre al povero Fierrabras non resta che convertirsi al cristianesimo, benedire la felicità altrui ed entrare orgogliosamente nel novero dei paladini di Carlomagno...

Con i Singspiel di solito si procede a pesanti sforbiciamenti di grande parte dei parlati (come nell’edizione citata di Abbado) con il risultato di aumentare esponenzialmente il grado di incomprensibilità del soggetto e di lasciare allo spettatore solo il godimento della mirabile musica di Schubert. In questa edizione della Scala pare che invece buona parte dei parlati venga conservata (pur con modifiche all’originale); la regìa di Stein dovrebbe fare il resto per consentirci di apprezzare al meglio quest’opera.

Prossimamente esprimerò qualche considerazione dopo visione diretta.  

01 giugno, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°29

                                           
Il terz’ultimo concerto della stagione principale ci porta in America attraverso un programma incentrato su due dei massimi compositori del ‘900 statunitense: George Gershwin e uno dei suoi più titolati interpreti, Lenny Bernstein. A proporcelo è una premiata coppia di (ancor) giovani ma già collaudatissimi musicisti italici: Jader Bignamini sul podio e Roberto Cominati alla tastiera. Auditorium piacevolmente affollato.

Si apre con il Divertimento for Orchestra, commissionato per celebrare il centenario della Boston Symphony (1980) a Bernstein, che era proprio di casa a Tanglewood, dove sorge il Music Center della BSO. Ora, la sigla BC (Boston Centenary) in musica (anglosassone) sta per SI-DO, e queste due note diventano la sigla dell’opera, suddivisa in 8 brani, infarciti di citazioni più o meno scoperte di musiche famose e/o dello stesso Autore.

I - Sennets & Tuckets sono due termini coniati in Albione ai tempi di Shakespeare, traducendo onomatopeicamente (e maccheronicamente) Sonata e Toccata. Bernstein ci mette ritmi sincopati e grande uso di percussioni e batteria, oltre ad una reminiscenza straussiana (il Till).

II – Waltz dovrebbe essere un walzer, ma è una cosa dall’andamento assai bizzarro, irregolare, anche se delicatissimo. Perché è scritto in 7/8, tempo invero inconsueto (ma anche Ciajkovski nella Patetica aveva usato lo sghembo 5/4).

III – Mazurka, contrariamente a ciò che si può immaginare, è in tempo lento, affidata soprattutto agli strumentini. Vi sentiamo l’oboe suonare un inciso della quinta beethoveniana.

IV – Samba: qui ci siamo proprio, rispetto al titolo, e si scatenano tromba, trombone e caraibiche percussioni, mentre reminiscenze di musical dell’Autore si fanno distintamente riconoscere.

V – Turkey Trot, una divertente parodia del fox-trot, richiama abbastanza scopertamente America da West Side Story.

VI – Sphinxes, sfingi è un breve movimento lento, oscuro, impenetrabile, che rimanda allo schumanniano Carnaval.

VII – Blues prolunga l’atmosfera pensosa del brano precedente, su stilemi chiaramente jazzistici.

VIII – In Memoriam; March “The BSO forever”. Dopo un doveroso omaggio ai padri fondatori della BSO, ecco il panegirico che ricorda parodisticamente... Radetzky, ma sembra anche portarci – con Nino Rota - al circo felliniano!

LaVerdi ha ripreso questo brano dopo più di otto anni (allora con l’apprezzato Marshall) e Bignamini ce lo ha riproposto con immutata verve e totale coinvolgimento.  
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Ora è la volta di Roberto Cominati a cimentarsi con il Concerto in FA di Gershwin. Tenendo prudentemente lo spartito nella cassa del pianoforte (ne girerà le pagine tre volte in tutto) il nostro pianista volante ne dà una lettura asciutta, forse poco appariscente, ma il risultato alla fine è sempre di tutto rispetto, come certificano le ripetute chiamate del pubblico per solista e direttore.
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Dopo la pausa Cominati (sempre con spartito a portata d’occhio) è ancora protagonista con la celebre Rhapsody in Blue, che è dichiaratamente un pot-pourri di motivi sapientemente accostati e variati, dove il jazz la fa da padrone, ma dove (Andantino moderato) emerge anche un cantabile che sarebbe stato bene in bocca a Sinatra.

Strepitosa l’esecuzione di solista e orchestra (forse Bignamini ha esagerato con i decibel, coprendo talvolta il suono della tastiera) che trascina il pubblico all’entusiasmo.
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Entusiasmo che sfocia quasi in delirio dopo l’esecuzione della Suite da Porgy and Bess, predisposta da Robert Russell Bennett. È un brano puramente strumentale, mentre tempo fa avevamo ascoltato l’altra Suite, quella più corposa, che include anche le voci (solisti e coro).

I più celebri motivi dell’opera - dall’iniziale Summertime al conclusivo Oh Lawd, I’m on my way - sono qui sapientemente impacchettati in un mirabile bigino che Bignamini (ha diretto tutto il concerto a memoria!) ha valorizzato al massimo, con sincopati e rubati mozzafiato.

Cosa pretendere di più... visto che nel frattempo a Roma qualcuno si degnava di darci un Governo, per il quale proporrei proprio la rassegnata filosofia dello sfigato Porgy: I got plenty o' nuttin', an' nuttin's plenty fo' me.

31 maggio, 2018

Scala 18-19: Pereira ha presentato la stagione


Alle 17 di ieri al Piermarini è stata ufficialmente presentata agli abbonati la prossima stagione scaligera. Alexander Pereira, come sempre sistemato in platea, in piedi, davanti allo sportello di accesso al podio e parlando a braccio (quale differenza dal Lissner che se ne stava lontano, seduto ad un tavolino sul palco a leggere pedestremente il palinsesto...) ha annunciato e commentato tutti gli spettacoli che daranno corpo alla nuova stagione.

Volendo elencare ciò che manca ciascuno di noi potrebbe fare elenchi kilometrici. Io ad esempio avrei gradito un Wagner (che Pereira ha promesso per la prossima, ma con la ripresa del mediocre Tannhäuser della Fura) e magari il da lui (Wagner, appunto) detestato Meyerbeer... ma accontentiamoci (io, perlomeno) del doppio Strauss (nonostante il Kapellmeister...) e del tetro (no, non è un’offesa ma un mio latinismo maccheronico) Verdi. Graditi a ‘mia sono anche il Musorgski e il Korngold e persino il redivivo Francesconi (perchè il secondo ascolto potrebbe smentire lo scetticismo indotto dal primo). Mozart, Puccini, Rossini, Donizetti, Händel e Salieri completano dignitosamente un percorso senz’altro accettabile (sempre ai miei occhi, orecchi e... tasche).

26 maggio, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°28

                                           
Programma abbastanza inusuale per il concerto di questa settimana (quart’ultimo della stagione principale) che non è diretto - contrariamente a quanto previsto - da Flor, ma da Roberto Polastri. Programma che fornisce ai complessi vocali de laVerdi l’occasione per mettere in risalto le loro qualità e la loro preparazione.

Si inizia con il Requiem in DO minore di Luigi Cherubini, il primo dei due composti dal Maestro italiano che fece fortuna a Parigi a cavallo fra ‘700 e ‘800. Un approccio austero e severo, che nulla concede al teatro (a parte il clamoroso colpo di tam-tam che risuona alla battuta 7 del Dies Irae). Inconsueto quanto efficace l’inserimento - proprio fra Graduale e Sequenza - del Tratto (Absolve Domine...).

Grande prova del coro di Erina Gambarini, accolta con calore dal pubblico, ahinoi ieri sera piuttosto scarseggiante.
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Il secondo brano in programma è il Prologo dal Mefistofele di Arrigo Boito, un po’ di opera che fa capolino in Auditorium (in anni passati si erano date opere integrali). Qui, oltre al Coro SATB, ecco entrare, candidamente vestiti, i ragazzi del Coro di voci bianche di Maria Teresa Tramontin, insieme al solista Federico Sacchi (anche lui di... riserva, del previsto Ivashchenko) voce ben impostata anche se forse poco... mefistofelica, che impersona il diavolaccio pronto a sfidare l’Onnipotente sulla pelle di Faust.

Orchestra (con i sei ottoni fuori scena disposti in galleria) e Cori non lesinano alcunchè della magniloquenza francamente discutibile del brano. La musica ci porta chiarissimi riferimenti al wagneriano Lohengrin e un’anticipazione del finale della Sesta mahleriana: insomma, un’opera che non rinnega il passato ma che cerca - senza trovarle fino in fondo - di aprire strade nuove.

Alla fine unanimi consensi per l’intera compagnia.

20 maggio, 2018

A Torino spopola Anna Caterina Antonacci


Ieri pomeriggio al Regio è andata in scena la seconda recita del dittico imperniato sulla figura di interprete di Anna Caterina Antonacci. (Mercoledi scorso Radio3 ha diffuso i suoni della prima.) Pubblico piuttosto scarseggiante (per illuderci che non sia puro disinteresse diamo la colpa alla contemporanea rappresentazione del settimo sigillo...) Regio che, negli ultimi tempi, ha visto la sostituzione dei principali livelli di responsabilità: Maestro del Coro, Direttore Musicale, Direttore Artistico e Sovrintendente! Il tempo dirà se sarà stato un bene... Intanto - battutaccia - perchè già che c’erano non sono saliti con le sostituzioni anche un gradino più su?

La produzione in onda in questi giorni è di stampo franco-belga-lussemburghese e risale a qualche anno fa; la si può apprezzare (in audio) anche in rete, nella versione parigina:

Il segreto di Susanna, di Ermanno Wolf-Ferrari e

La voix humaine di Francis Poulenc.

Due opere brevi venute alla luce nel ‘900 a 50 anni esatti di distanza (1909 e ’59) ma - o proprio per questo - totalmente diverse come concezione e contenuti. 
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Il segreto di Susanna vede la luce - per inquadrarne lo scenario musicale - nell’anno della straussiana Elektra, dalla quale non potrebbe essere musicalmente più distante. Di Strauss sembra casomai anticipare qualcosa del Rosenkavalier (vedi il tema d’amore per... la sigaretta) in fatto di delicatezze e frivolezza. Insomma, l’italo-tedesco di nascita sembra tenersi alla larga da certe tendenze contemporanee (niente verismo e niente espressionismo): casomai i modelli sono settecenteschi e gli ammiccamenti (vedi Chopin...) guardano al profondo ‘800.

Il soggetto oggi trasformerebbe gli autori in... perseguitati, accusati di istigazione a delinquere; ma ai tempi il fumo stava diventando una moda, anzi un distintivo di promozione sociale e uno dei primi (deteriori?) simboli di femminismo (!) Così il Regio immagino abbia dovuto ottenere qualche specialissima deroga per poter far accendere più di una sigaretta in un luogo pubblico. Insomma, l’attualità del soggetto sarebbe assai discutibile, e qualche regista in vena di genialate si potrebbe inventare segreti più... cool, diciamo.

Invece Ludovic Lagarde si attiene scrupolosamente al testo a ci presenta così questa storia che più inattuale non si può. Ma è la musica, ovviamente, a riscattare la banalità del soggetto. E la musica la fanno la Antonacci e il partner Vittorio Prato, ben coadiuvati dall’Orchestra del Regio diretta da quel prodotto del benemerito Sistema-Abreu che va sotto il nome di Diego Matheuz.

Encomiabile sul piano dello spettacolo anche l’apporto (muto) di Bruno Danjoux.
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Ecco poi La voix humaine, nella quale Poulenc mise in musica il testo di Jean Cocteau risalente al 1930. E qui tutto il mondo ruota attorno alla personalità della Antonacci, che in questi ultimi anni è diventata un punto di riferimento per il ruolo. La sua immedesimazione nel personaggio è totale, ma perfetto è il suo recitar-cantando, che coniuga mirabilmente l’essenziale musicalità di Poulenc con la crudezza del testo di Cocteau (che aveva da parte sua riconosciuto al compositore il merito di aver ricoperto il suo testo di suoni come meglio non si potesse).     

In questa edizione vengono tagliati (nella citata registrazione parigina a 32’24”) due passaggi consecutivi (e precisamente quello che inizia (cifra di lettura 79) con C’est entendu, mon amour; e il successivo (cifra di lettura 81) Voilà deux jours qu’il ne quitte pas l’antichambre… Si riprende (cifra di lettura 84) con Allô ! Allô ! Madam’ retirez-vous. Nel primo dei due passaggi la protagonista (che ha appena confessato il tentativo di suicidio) parla delle sue notti divenute insopportabili, costellate da sogni, e dei risvegli che la ripiombano in una vita senza prospettive. Segue il lungo passaggio dedicato al cane, anche lui divenuto intrattabile da quando l’amante della donna non si fa più vedere. Si tratta di tagli peraltro non infrequenti (chissà, forse messi in atto per evitare di dover conseguentemente portare in scena anche la pora bestia...): passaggi che si possono ascoltare (da 33’46” a 37’02”) in questa edizione integrale con Renata Scotto del 1996.

Anche qui Matheuz mostra di saper il fatto suo, guidando sapientemente l’orchestra sia negli accompagnamenti, che nei dialoghi con la protagonista, ma anche nei... silenzi, che caratterizzano questa difficile partitura dove non mancano, accanto alle prevalenti atmosfere cupe, strazianti se non disperate, anche momenti di serenità e vitalissimi slanci.

Lagarde, che nella Susanna aveva mantenuto la scena fissa (un soggiorno fiancheggiato da due corridoi e con un vano centrale comunicante con finestrella, il tutto illuminato con... 50 sfumature di rosa, fino al violetto) nella Voix impiega la piattaforma girevole per far comparire - oltre al soggiorno di cui sopra - anche altri due ambienti: la camera da letto e il bagno (dove una gran vasca viene riempita d’acqua fino a farla tracimare - chiara allusione allo sfacelo che si compie nella mente della protagonista). Il colore predominante è il bianco, con un po’ di grigio. La base girevole si muove spesso e volentieri, non sempre con motivazioni precise, ma questo è forse un ulteriore modo per sottolineare il girare a vuoto dell’esistenza della donna. I telefoni sono due (nero e rosso) ma senza fili (così si perde un po’ l’allusione al suicidio legata al cavo che la protagonista si dovrebbe avvolgere attorno al collo).
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Successo trionfale - meritatissimo - per Anna Caterina Antonacci, ma applausi anche per gli altri protagonisti: una proposta di alto livello, che ci si deve augurare che il pubblico voglia premiare con presenze più nutrite alle restanti tre recite.

19 maggio, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°27

                                           
Riecco il prezioso Oleg Caetani sul podio dell’Auditorium per offrirci un programma ancora incentrato su Shostakovich, ma con reminiscenze della grande stagione del teatro musicale dell’800, e precisamente dei due compositori che ne rappresentano l’alfa e l’omega: Rossini e Wagner, la cui presenza aleggia proprio nell’ultima Sinfonia del russo.

Se qualcuno aveva dubbi sulla meticolosità del Direttore li avrà di sicuro sciolti vedendolo entrare sul palco in maniche di camicia e panciotto, poco prima dell’ingresso degli orchestrali, per segnare qualche indicazione sulle parti dei contrabbassi!

Si apre con Wagner e il Siegfrieds Rheinfahrt, il viaggio di Sigfrido sul Reno, l’intermezzo strumentale che nell’ultima giornata del Ring separa il Prologo (e in particolare il commiato di Siegfried da Brünnhilde) dall’arrivo del giovane eroe presso la corte dei Ghibicunghi, dove non più di un paio di giorni più tardi troverà morte ignominiosa. E l’incipit della marcia funebre che ne precede le esequie farà capolino nell’ultimo movimento della Sinfonia di Shostakovich.

Seguiamo il fantastico viaggio in questa esecuzione di Klaus Tennstedt.
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In realtà il brano che si ascolta (fu Engelbert Humperdinck ad assemblarlo così, per essere eseguito in forma di concerto) presenta come introduzione al viaggio le 52 battute che sottolineano l’alba e il risveglio di Siegfried e Brünnhilde (che hanno passato la notte nella grotta sulla di lei rupe circondata dalle fiamme).  

In tempo assai tranquillo si ode nel primo trombone il tema dell’Enigma del destino - è quello che ritroviamo appunto in Shostakovich - che sfocia nell’accordo tenuto dai tre tromboni (più la tuba, che Humperdinck prescrive al posto del trombone contrabbasso): una triade di FA# maggiore che convive per altre quattro battute con il MI del primo trombone. I violoncelli (21”) hanno contemporaneamente cominciato ad esporre un sommesso ed arcano recitativo che sale dal FA# grave al DO# sopra il rigo, per poi degradare a dente di sega e finalmente stabilizzarsi sul FA#.

E sul FA# (per loro enarmonicamente SOLb) i corni, in tre battute, espongono (55”) un motivo che fra pochissimo si farà perfettamente riconoscere come attinente a Siegfried. Ancora i violoncelli (1’12”) ripropongono il loro recitativo, stavolta partendo da una terza sopra (LA#) e poi lo sviluppano ampiamente, modulando a SOL minore, fino a disegnare (1’54”) un inciso che viene da lontano (Rheingold): dal tema della Fuga. Ecco: mentre l’alba è sempre più chiara e i bagliori del fuoco di Loge si fanno sempre più deboli, ci stiamo inoltrando all’interno della caverna nella roccia dove ancora dormono i due innamorati.

Ora i corni (2’15”) in SIb maggiore espongono compiutamente quel motivo soltanto abbozzato poco prima (in SOLb), il tema dell’Eroismo di Siegfried, che altro non è se non quello del Grido del fanciullo della foresta (che si ode per la prima volta nel Siegfried) riccamente armonizzato (esposto a due voci, per terze) e caratterizzato da un tempo assai più sostenuto.

Immediatamente lo segue (2’29”) nel primo clarinetto, contrappuntato dal clarinetto basso, il motivo di Brünnhilde non più Valchiria, o Brünnhilde donna. Insomma, a noi sembra quasi di vedere i due giovani aprire gli occhi, l’una dopo l’altro, e stiracchiarsi come ogni comune mortale al risveglio dopo una notte indimenticabile. Ed è incredibile come i due motivi, esposti qui in stretta sequenza, ci appaiano quasi come un’unità indivisibile, il secondo come una logica e consequenziale risposta al primo: ecco la mirabile sintesi musicale della perfetta unione di due cuori, di due anime innamorate!

È il nuovo tema di Brünnhilde a prendere ora decisamente il sopravvento (3’05”) in MIb, con il suo caratteristico piglio: sottodominante LAb, gruppetto rovesciato attorno alla stessa (SOL-LAb-SIb-LAb), salto in alto alla sopratonica FA poi giù alla sesta DO, ancora su alla tonica MIb e giù alla sopratonica FA (la parte iniziale del tema deriva chiaramente dal Rienzi). Il tema si ripete ancora, slanciandosi continuamente da punti più alti (sottodominante, poi sesta, poi tonica, infine ancora dalla sesta superiore) preparando l’arrivo di quello dell’Eroismo di Siegfried.

In realtà qui (4’20”) si salta a piè pari il lungo duetto fra i due innamorati per seguire Siegfried che, dopo aver salutato Brünnhilde, ha preso il cavallo Grane (dono della giovane ex-valchiria) per le briglie e si incammina giù per lo scosceso pendio che separa la roccia infuocata dal Reno, scomparendo alla vista, per andarsene finalmente a scoprire il mondo. È accompagnato appropriatamente da due temi: quello del suo Grido, urlato da oboi, clarinetti e corni, contrappuntato in tromba bassa e terzo trombone da quello della Cavalcata (delle Valchirie) chè lui ora possiede un mezzo di locomozione equino (sia pure non più in grado di... volare). Essi sfociano, sempre in fortissimo e con piena consequenzialità (4’30”) in quello della Libertà, con nuove sporadiche apparizioni (in tromba bassa e prima tromba) di quello della Cavalcata.

Brünnhilde ha seguito Siegfried fin sull’orlo del pendio ed ora la vediamo (anzi… ascoltiamo attraverso l’orchestra) osservare l’eroe che si allontana: allacciandosi al RE (sensibile del MIb che caratterizzava Siegfried) ecco che il suo tema adulto (4’48”) si slancia in alto di un tritono (!) arrivando al LA maggiore, dove passa da una sezione all’altra dell’orchestra, fino a quando Siegfried sembra scomparire anche alla vista della donna amata.

Sì, perché ormai sta arrivando in basso, forse scorge in lontananza la sponda del Reno: con una brusca modulazione a FA maggiore, ecco risuonare nel corno (5’40”) il tema inconfondibile del suo Grido. Ancora un fugace inciso di Brünnhilde (5’55”) che ormai lo sta perdendo di vista e gli lancia un ultimo saluto, dopodichè il tema del Grido aizza in orchestra in tutta la sua pienezza (6’12”) il motivo della Decisione d’amare, che i due avevano intonato alla chiusa della seconda giornata (Siegfried). Un motivo che, al di là della chiara valenza spirituale, richiama irresistibilmente anche l’atto materiale di scendere a balzelloni, e con temporanee risalite, lungo un crinale scosceso.   

Ed ora ecco il vero e proprio viaggio sul Reno, che prepara l’approdo a quello che nell’opera si scoprirà essere un ambiente falsamente accogliente, in realtà un luogo di perdizione! È una vera e propria rapsodia renana, costruita fondendo in mirabile simbiosi e con orchestrazione lussureggiante i vari temi legati in qualche modo al grande fiume, comparsi fin dal Rheingold, con quelli di Siegfried.

La prima parte del viaggio vede Siegfried ancora in fase di discesa dalla rupe di Brünnhilde, come ci precisa la comparsa accanto al tema del Grido (6’43”) adesso divenuto più tranquillo e disteso (il tratto più scosceso del crinale è stato evidentemente superato) del motivo del Fuoco di Loge (7’01”) che tuttora avvolge i piedi della roccia di Brünnhilde: per Siegfried ormai dev’essere uno scherzo attraversarlo, almeno a giudicare dalla languida forma che il tema ha assunto.

Finalmente siamo sulla sponda del grande fiume. Che musica ci accoglie qui? Pare di essere tornati al Preludio del Rheingold: l’Elemento primordiale (7’50”) in tutti i fiati contrappuntato dall’Ondeggiamento negli archi; però la tonalità ha di nuovo virato al LA maggiore, che si trova ancora una volta a distanza di un malefico tritono dal MIb della Vigilia! Ed è quasi per ribellarsi a questa specie di eresia che Wagner introduce una disperata modulazione al MIb (8’17”) proprio mentre il tema dell’Elemento primordiale sfuma temporaneamente in quello speculare del Crepuscolo degi Dèi, prima di riprendere il suo corso in MIb.

Adesso all’Elemento primordiale segue (8’52”) il Canto delle Figlie del Reno, ma nella sua versione dolente, quella cantata dalle tre ninfe desolate alla fine del Rheingold; per di più contrappuntata nei fagotti e violoncelli da cupi incisi del Grido di Siegfried, poi da quelli dell’Oro (9’11”) nelle trombe. Altro chiaro indizio di malessere, di instabilità, altre nuvole che si addensano su uno scenario che pareva presentare tutte le caratteristiche del trionfo e della felicità. 

Ma non è finita: compare anche (9’44”) il tema dell’Anello, nella forma in cui originariamente si ascolta dalla voce di Wellgunde nel Rheingold; poi qui (come là) sfocia (10’09”) in quello della Rinunzia, due volte, seguito da due sinistre apparizioni del tema dell’Oro (10’31”) prima nel corno, poi nella tromba bassa.  

Ecco, il viaggio sarebbe concluso, mentre il povero Siegfried si sta pericolosamente inoltrando in un mondo assai poco raccomandabile... ma Humperdinck pensa bene di aggiungere di suo una decina di battute trionfalistiche in MIb maggiore, così il pubblico è accontentato. (Il buon Tennstedt però le taglia di netto.)
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Brano invero trascinante, che Caetani chiude con le battute di Humperdinck, così  l’applauso scroscia copioso. Devo dire onestamente che non si è proprio trattato di un’esecuzione... storica, ecco: il corno di Siegfried doveva essere ancora poco riscaldato e l’amalgama fra le sezioni dell’orchestra mi è parso migliorabile.
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Si prosegue con Rossini e la Sinfonia dal Guglielmo Tell, uno dei cavalli di battaglia del’Orchestra, che l’ha eseguita una dozzina di volte nel corso della sua storia. Sempre mirabile il recitativo del pacchetto dei cinque violoncelli (guidati nell’occasione da Tobia Scarpolini) che apre la sinfonia, poi è la volta del corno inglese di Paola Scotti ad accompagnarci nella selva opaca. Infine arriva il celeberrimo e travolgente motivo della cavalcata finale, che viene citato da Shostakovich nel primo movimento della sinfonia che chiude il concerto.

Qui davvero non si possono fare appunti di sorta ai ragazzi e al Maestro, che si meritano lunghi applausi dal un pubblico abbastanza folto.
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Ecco infine il clou del programma: la Sinfonia n°15 di Shostakovich, l’ultima sua (1971) che rappresenta una specie di sunto della sua esperienza musicale ed esistenziale. Qui si può ascoltare la registrazione della prima, diretta a Mosca dal figlio Maksim, sabato 8 gennaio, 1972. Caetani - non è la prima volta - arriva sul podio impugnando al posto della bacchetta un... microfono per raccontarci genesi e sostanza dell’opera che si appresta a portare alle nostre orecchie (e da qui a cervello e cuore).

In questa ultima fatica Il compositore - vicino ormai alla fine - sembra divertirsi a giocare con forme e contenuti, mescolando bizzarrie parodistiche e infantili con seriose meditazioni filosofiche. Il tutto con ampie spruzzate di citazioni (proprie ed altrui). Così ecco un primo movimento (Allegretto) che della forma-sonata mantiene a fatica un simulacro, sfociando in realtà in un libero quanto geniale affastellarsi di temi scanzonati, dove (all’interno del secondo gruppo tematico) fa capolino l’inconfondibile motivo della cavalcata che chiude la Sinfonia del rossiniano Tell. E poi una serie di interventi spiritati ed esilaranti di percussioni leggere, insieme a glockenspiel, celesta, xilofono e vibrafono (si noti come questi ultimi strumenti siano presenti nelle battute conclusive di tutti i 4 movimenti della sinfonia.) Compare di sfuggita, nella trombetta, anche un frammento che ricorda il Mahler della quinta. Riguardo all’impertinente e infantile primo tema (MIb-LAb-DO-SI-LA) esposto dal flauto, è stato osservato come la simbologia tedesca di quelle 5 note richiami appropriatamente il nome S-AS-C-H-A, il nipotino dell’Autore (Shostakovich aveva la mania dei temi richiamanti nomi di persona, ad iniziare dal suo proprio - DSCH - citato spesso e volentieri nelle sue musiche, oltre che scolpito sulla lapide della sua tomba).

Segue un Adagio che alterna severi corali di ottoni a lunghe e nobili melodie del violoncello e a meste melopee del trombone solo, intercalate da interventi delle piccole percussioni. Poi uno scherzo (Allegretto) che reintroduce atmosfere ora spiritate ora sognanti e infine un altro Adagio che chiude l’opera nel segno di Wagner. É infatti introdotto dal Leit-motiv dell’Enigma del destino, che sfocia in un Allegretto dal sapore agrodolce nel quale nasce una passacaglia dall’ostinato che ricorda la marcetta teutonica della settima. Questa chiude con un colossale frastuono (ritorno in Adagio) che poi si smorza per far posto ancora all’Allegretto che conduce alla conclusione, introdotta dal motivo del Tristan che torna ancora per accompagnarci, dopo un percorso di fatiche e sofferenze, verso una conclusione che, se non proprio divertita e scanzonata, appare quanto meno serena e rassegnata senza drammi, come testimoniano i sommessi cicalecci della batteria delle percussioni e degli strumenti dal suono argentino.

Shostakovich era arrivato a condannare la tecnica seriale-dodecafonica come il peggior male della musica del 20° secolo. Ma in questa sinfonia (ed in altre opere della maturità) sembra divertirsi ad inventare motivi di 12 note (che poi però manipola con criteri personali, irrispettosi del metodo di Schönberg). Qui alcuni esempi presi dai primi tre movimenti della Sinfonia:


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Caetani, grande specialista di Shostakovich - del quale ha inciso anni fa l’integrale sinfonico proprio con laVerdi - ottiene davvero il massimo da tutti e da ogni singolo strumentista (praticamente tutte le prime parti hanno in carico passaggi solistici di grande impegno). Dopo che archi, celesta, glockenspiel e... triangolo (!) hanno esalato, morendo, la triade perfetta di LA maggiore, il Maestro ottiene almeno 5 secondi di religioso silenzio, prima che il pubblico sia autorizzato a dar sfogo all’entusiasmo.     

11 maggio, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°26

                                           
É proprio destino che il venerabile Vladimir Fedoseyev (in passato spesso di casa in Auditorium) resti ancora una volta tabù (i suoi quasi 86 anni gli creano qualche problema...) Così il concerto di questa settimana è stato affidato in fretta e furia al pur bravo Maxim Rysanov, alla sua terza comparsa con laVerdi. Questa volta il violista-direttore non ha diretto a mani nude, ma impugnando un... lapis (chissà se prima o poi arriverà alla bacchetta!) 

Si è cominciato con la Sinfonietta di Prokofiev, un autentico gioiellino, già udito qui per la prima volta circa tre anni fa, con esito (almeno per me) francamente scarsino (taccio del peccatore). Invece Rysanov ce la propone in tutta la sua freschezza, un brano pieno di leggerezza, di serenità e di humor (buona parte della partitura è in tempo di 6/8... non so se mi spiego). Così il pubblico (non certo oceanico, devo dire) gradisce assai. 
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Conrad Tao, che non viene da Shanghai ma dall’Illinois, torna in Auditorium dopo 18 mesi (allora suonò il più celebre concerto russo) per proporci il Terzo di Prokofiev. Lui oggi non ha ancora 24 anni ma è già un vulcano di... produttività, non limitandosi a suonare, ma anche a comporre e ad organizzare festival ed eventi musicali.

La sua tecnica è trascendentale e questo pezzo - dove il solista è chiamato più a svolgere esercizi di virtuosismo che a proporre atmosfere romantiche... - gli consente di metterla proprio tutta in luce. Se qualcuno volesse fare lo scettico, dubitando delle sue capacità di espressione e considerandolo solo un efficiente robot, ecco che il ragazzo lo smentisce con questo scarlattiano bis, davvero ispirato.
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Si chiude con il Quartetto n°8 di Shostakovich trascritto (fedelissimamente) per orchestra d’archi dal compianto Rudolf Barshai (che fu per anni ospite de laVerdi) e ri-nominato Sinfonia da camera. (Qui alcune mie considerazioni estetico... politiche sul brano, in occasione della sua più recente apparizione su queste scene).

Bravissimo Rysanov (che come solista di viola deve saper bene cosa sia un quartetto!) a trovare un eccellente equilibrio fra le due contrastanti esigenze: rendere fruibile al meglio la scarna ma purissima sonorità di un brano composto per pochi strumenti in un ambiente le cui vastità obbligano all’ipetrofico rinforzo delle voci.

Successo pieno per un programma che merita un pubblico più... vasto!

10 maggio, 2018

laVerdi annuncia la stagione 2018-19


Presso la propria sede del M.A.C. laVerdi ha oggi annunciato il programma della prossima stagione 18-19.

Il Presidente della Fondazione, il venerabile Gianni Cervetti, ha dapprima ricordato come il prossimo autunno cada il 25° annversario dalla fondazione dell’Orchestra (artefici Vladimir Delman e Giuseppe Corbani) che in questi anni ha potuto crescere grazie alla presenza di direttori, interpreti, solisti e strumentisti, ma soprattutto grazie ai suoi soci (oggi più di 400) e al suo affezionato pubblico, che nei primi 4 mesi del 2018 (ottima notizia!) è cresciuto del 10% rispetto al primo quadrimestre 2017 (da 57.500 a 63.600).

L’Assessore alla Cultura Filippo Dal Corno (che ormai da anni è ospite fisso di questo evento) dopo aver portato il saluto del Sindaco Sala ha confermato il continuo impegno del Comune di Milano (che si concretizza in voci di spesa corrente specificamente allocate in bilancio) a sostenere questa realtà così importante per la città meneghina (e non solo per essa).

Per la Regione Lombardia, il nuovo Assessore alla Cultura Stefano Bruno Galli ha espresso (e questa è una gradita novità, stante il passato assenteismo) il saluto del Governatore Fontana, ma soprattutto la concreta intenzione di battersi per portare il budget regionale per la cultura dall’infimo 0,07% del bilancio (di 24 miliardi) ad un corposo 2-3% (!!! facciamo tutti il tifo per lui!) Se le parole hanno un senso, non si può non condividere la sua definizione del nesso causa-effetto fra cultura e sviluppo di una società: dove la prima è la causa e il secondo l’effetto! (chi era che sosteneva che con la cultura non si mangia?)

Ambra Redaelli, imprenditrice di successo e Vicepresidente della Fondazione (oltre che musicomane fino al midollo...) ha ringraziato soci e pubblico per aver consentito il raggiungimento del traguardo del quarto di secolo, annunciando l’insediamento di un Comitato d’onore (presieduto dal Sindaco Sala) per celebrare adeguatamente la circostanza. 

Il Direttore artistico ed esecutivo Ruben Jais ha infine presentato il programma dettagliato delle stagioni a venire. Quella principale consta di 32 concerti (8 diretti da Flor, 4 da Fournillier, 3 da Bignamini, 2 da Caetani e 2 da Trevino) con i ritorni  e presenze di Xian, Marshall, Blacher, Rysanov, Say, Lonquich. Riprenderà un nuovo Ciclo Mahler, affiancato da compositori suoi contemporanei (Zemlinsky, Schmidt, Bruckner, Strauss) e il 13-15-18 novembre (i giorni della nascita dell’Orchestra) verranno eseguite le 6 sinfonie di Ciajkovski, tanto care a Delman. Altro ciclo sinfonico quello riservato a Brahms, le cui 4 opere verranno dirette in due concerti da quel Robert Trevino che pochi giorni fa ha trionfato in Auditorium. Ma di Brahms verranno presentati anche i tre concerti solistici. Ci sono poi le altre stagioni ancillari: Musica da camera, Crescendo in musica, LaVerdiPops, Orchestra Junior, Coro di voci bianche. Fabio Vacchi (compositore residente) sarà presente con il suo concerto per violino (Nordio) e poi in appuntamenti cameristici al M.A.C. Per festeggiare un altro anniversario, i 10 anni del Coro sinfonico, verrà eseguito lo Stabat Mater di Rossini (150° dalla morte) cantato dalle voci dell’Accademia di canto del Rossini Opera Festival. A proposito di collaborazioni con altri istituti e manifestazioni, è prevista quella con il Piccolo Teatro, per l’Amleto di Shostakovich e quella con la Filarmonica Toscanini, oltre a quella con Milano-Musica e all’altra, ormai storica, con la Scala, che ospiterà il 16 settembre il concerto inaugurale della stagione. Tournée sono previste in Portogallo-Spagna, a Lucerna e a Linz. Iniziative di diffusione culturale contemplano incontri presso tutti i 9 municipi cittadini. E infine ecco la collaborazione con Idagio, che ha già in catalogo diverse registrazioni de laVerdi e in futuro altre ne immetterà. 

Beh, un menu ricchissimo che val la pena di... gustare!