apparentamenti

consulta e zecche rosse

29 maggio, 2010

Dalla radio torna un po’ di Oro nel Reno alla Scala

Come poteva prevedersi, l'ascolto elettronico ha restituito ciò che il live aveva tenuto nascosto. Microfoni vicini all'orchestra e – soprattutto – infilati sotto i costumi dei cantanti restituiscono un suono (artefatto, si sa) simile a quello dei dischi, o CD o DVD. E soprattutto non trasmettono le immagini (smile!)

Certo, il timbro sgradevole della voce del Fasolt di Martirossian non può essere rimosso (forse nemmeno in studio) ma almeno le voci arrivano chiare all'orecchio. Cosa che in teatro, e in un teatro enorme come la Scala, accade solo se la materia prima è solida, cosa che poco si applica alle voci di questo Rheingold.

Visto che siamo in tempi di decreti e proteste anti-decreto, bisogna segnalare la differenza di trattamento riservata alla protesta – assai radicale, proprio da Cobas e piuttosto pesante nelle forme e nelle parole – dello scorso mercoledì 26, che fu oscurata dalla trasmissione cinematografica, e quella – più urbana nelle forme e dal freddo e burocratico linguaggio sindacalese – di questa sera, regolarmente andata in onda su Radio3. Lissner non ha perso l'occasione, alla fine, per ripetere che la Scala è diversa da ogni altra Fondazione: il decreto Bondi, par di capire, andrebbe anche benissimo se applicato a tutti tranne che al teatro milanese. Peccato che i fragorosi buh indirizzati anche stasera alla regìa siano lì a dimostrare come certe presunte superiorità di allestimento siano pura millanteria.

28 maggio, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 33


Xian Zhang è salita ieri sul podio per un tour-de-force beethoveniano: due sinfonie, per proseguire l'integrale nella stagione, precedute dalla più celebre ouverture del genio di Bonn.
Si parte infatti con la Leonore-3, scritta nel 1805 in occasione della presentazione della seconda versione dell'opera, ridotta da 3 a 2 atti. Orchestra con le viole sul proscenio e un organico che è quasi il massimo per Beethoven (verrà poi smagrito, in ottoni e archi, per le due sinfonie). Ai timpani – parte estremamente impegnativa qui, ma anche nelle due sinfonie in programma - la bravissima Chieko Umezu.
Se si esclude una piccolissima svirgolata dei corni al termine dell'esposizione, si è trattato di una prestazione davvero eccellente, di un'orchestra compatta e con una precisione rimarchevole, che Zhang ha guidato con grande piglio e sicurezza. Teatrale davvero l'uscita di Alessandro Ghidotti per suonare in modo impeccabile – da dietro la quinta di destra – i due richiami di trombetta in SIb che nel Fidelio anticipano l'arrivo del ministro.
Strepitosa la Zhang nell'interpretare passaggio dal LA in f al LAb in fff al culmine del crescendo finale, prima della chiusa: un impercettibile respiro (del resto previsto da Beethoven, che ha omesso ogni segno di legatura) che ha veramente ottenuto un effetto straordinario (neanche Karajan…):








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È un climax che riascolteremo anche verso la fine della quarta: (SOL-SOLb). Meritatissimi gli applausi scroscianti per tutti, con speciale menzione per tromba e flauto.
Poi la ancora settecentesca Prima sinfonia, dove Beethoven muove i primi passi nel campo di cui diventerà ben presto (già con l'innovativa seconda) il dominatore ed innovatore incontrastato. Zhang ne dà un'interpretazione asciutta, omettendo (come farà per la quarta) il ritornello dell'esposizione nel tempo iniziale e staccando tempi sufficientemente rapidi.
Dopo la pausa, si chiude con la Quarta sinfonia, che certa esegesi semplificatoria (quella che divide le sinfonie beethoveniane fra pari e dispari) colloca fra le leggere, o pastorali, o disimpegnate. Ma basterebbe ricordare l'incipit dello scherzo per definirla eroica!









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Zhang tiene un piglio toscaniniano e cava dalla sinfonia tutto il brio e la positività che la contraddistinguono. Dopo lo scherzo, che già mette a dura prova l'orchestra, attacca il finale senza un millisecondo di sosta e rispettando in pieno il folle metronomo beethoveniano. Una cosa travolgente, che impegna allo spasimo l'intera orchestra e chiede speciali virtuosismi ai fiati (flauto e fagotto in particolare). Travolgente quindi anche il successo decretato da un pubblico che ha quasi esaurito la capienza dell'auditorium. Buon segno davvero.
E prossimamente musica cinese (in omaggio alla Kapellmeisterin!) ma solo come antipasto a grandi opere ed immortali.

27 maggio, 2010

La sabbia del Reno alla Scala

Sì, perchè che di oro - in questo Reno scaligero – se ne setaccia proprio pochino.

Dico subito che una rappresentazione in forma di concerto o magari, come si usa oggi, semi-scenica, oppure con sole proiezioni didascaliche ad accompagnare voci e orchestra, avrebbe sortito risultati complessivamente migliori. A costi di un ordine di grandezza più bassi (questa antifona vale per Lissner e per Bondi allo stesso tempo).

A proposito di Bondi, il poetico ministro, col suo decreto che è la perfetta anticipazione della manovra 3montiana di macelleria sociale, è riuscito nell'impossibile impresa di far mostrare a tutto il mondo (la recita di ieri era diffusa sui circuiti internazionali) una Scala che pareva caduta in mano ad un manipolo di extraparlamentari d'altri tempi, con sipario alzato, alle 20 in punto, su uno striscione con la scritta Decreto infame e proclami declamati al megafono, fra scrosci di applausi intercalati a qualche timida contestazione. L'orchestra peraltro non ha intonato bandiera rossa, forse non tutti sono uniti in quel tipo di protesta, non certo Barenboim, che è arrivato a manifestazione sindacale chiusa.

A chi il Rheingold conosce a fondo, questo allestimento non solo non ha arrecato alcun valore aggiunto (né particolari emozioni) ma anzi ne ha parecchio tolto. A chi non lo conosce ha presentato un minestrone incomprensibile che temo avrà contribuito ad alimentare perplessità, se non disistima, verso Wagner. Bel risultato davvero! Tutti i buoni propositi espressi dal team di regìa, e pubblicati sul programma di sala e sul sito del teatro, sono stati accantonati. Magra consolazione: la stessa fine han fatto anche i propositi cattivi!

Meno male che almeno Barenboim – partitura sul leggìo - ha fatto qualcosa per tenere in piedi la baracca. In particolare evitando eccessive rumorosità che sarebbero state a dir poco deleterie, tenuto conto delle voci non certo potenti che cantavano sul palco. Ma con la conseguenza di propinarci un Rheingold piuttosto timido o – per usare un termine politically-correct – di stampo lirico. Tranne il piccolo Fasolt-Youn, quasi perfetto (il suo fratello Fafner-Riihonen ha voce inversamente proporzionale alla gigantesca mole) dal loggione si faticava a correttamente comprendere le parole di quasi tutti gli altri, e in Wagner ciò è particolarmente penalizzante. Ciò indipendentemente dalla bontà del canto e dell'interpretazione, buona in Loge-Rügamer e Mime-Ablinger, discreta in Wotan-Pape e Alberich-Kränzle, sufficiente poco più o poco meno in tutti gli altri/e.

Al maestro mi sento peraltro di rimproverare una esasperante lentezza nel tempo staccato per il Wie liebliche Luft di Froh-Jentzsch, invero insopportabile. Nelle transizioni alle scene 3 e 4 e poi nel finale, Barenboim ha ecceduto forse fin troppo col fracasso, ma bisogna pur capirlo, dopo interi quarti d'ora di un Wagner tenuto a livello cameristico, per non soffocare le voci!

L'orchestra ha discretamente suonato, anche se gli otto corni (ce n'era anche un nono di riserva) non hanno reso al meglio il dispiegarsi degli armonici al principiare del mondo e le tubette e il trombone contrabbasso han faticato a superare lo sbarramento sonoro nella cadenza conclusiva, un RE bemolle terrificante, quanto informe. Impeccabili davvero gli strumentini, oboe e clarinetto su tutti.

In totale, un altro mezzo passo falso in questa stagione scaligera di sedicenti produzioni da far storia. Peraltro salutato da un pubblico (folto, ma non da esaurimento) con grandi applausi, anche per gli inutili, anzi disturbanti quanto incolpevoli danzatori, salvo stentorei buh per la sola povera Fricka-Soffel, trasformata - suo malgrado per l'occasione - in parafulmine di tutte le critiche. Cassiers non si è fatto vivo, forse è già tornato nelle Fiandre, dopo aver incassato l'ultima rata della lauta quanto immeritata parcella.

25 maggio, 2010

Le note di regia del Rheingold di Cassiers

Il sito del Teatro ha da qualche giorno completato la pubblicazione di materiale (parte del programma di sala) a corredo e supporto della rappresentazione.

Oltre al libretto, nella nuovissima traduzione del professor Franco Serpa (con tutto il rispetto, ce n'era proprio bisogno, dato che apporta piccole e poco significative modifiche a quella - quasi perfetta, celebre e di pubblico dominio - del grande Guido Manacorda?) vengono presentati due articoli relativi alla concezione del Ring (e in particolare del Rheingold) del regista Guy Cassiers.

Il primo, di Michael P. Steinberg, della Brown University nel Rhode Island, è intitolato Proiezione e interazione: verso una nuova concezione drammaturgica del Ring. Attribuisce alla regìa di Cassiers nientemeno che l'apertura di un nuovo fronte interpretativo del Ring, una quinta era nella messinscena del capolavoro wagneriano, dopo quelle da lui etichettate come 1.storia del mito (1876-1944, la conservazione delle idee originarie di Wagner che – secondo Steinberg – presentavano il mito come allegoria della storia della Germania imperiale contemporanea a Wagner) 2.mito (1951-1975, legata alle innovazioni di Wieland, che tendevano – sempre secondo Steinberg - a depurare la messinscena da ogni e qualunque riferimento storico, anche per far dimenticare la compromissione col nazismo) 3.storia (1976-1980, legata sostanzialmente alla regìa di Chéreau, che presentava un Ring profondamente calato nella storia tedesca, da Guglielmo a Weimar, depurandolo dei riferimenti ai miti) e 4.neo-mito (dal 1980 in poi, dove si recupera, secondo Steinberg, il mito, ma senza perdere i contributi che Chéreau aveva apportato in fatto di regìa dei personaggi, delle loro relazioni ed interazioni).

Ecco, il Ring di Cassiers, stando a Steinberg, introduce un paradigma del tutto nuovo. Ohibò, stiamo a sentire: si torna a Chéreau, ed alla sua concezione secondo cui nulla, nemmeno il mito, è fuori dalla storia. Ma invece di mostrare uno svolgersi storico determinato (anni 1870-1945) come fece il francese, ci presenta la storia dell'oggi (globalizzazione e suoi annessi-connessi) legata alla stratificazione dell'eredità storica da noi accumulata, che condiziona la nostra esistenza odierna e prepara quella futura.

Proiezione ed interazione sono gli strumenti che Cassiers usa per raggiungere il suo obiettivo. Proiezione intesa come meccanica riproduzione di immagini, o ombre, ma anche come esternazione di esperienze interiori. Il Ring proietta i suoi contenuti sul pubblico: Wagner fu maestro nella proiezione del suono (l'orchestra sprofondata e i suoi suoni che si amalgamano con le voci, prima di raggiungere l'orecchio dell'ascoltatore). Cassiers si propone di fare lo stesso con le immagini, impiegando le moderne tecnologie. L'interazione consiste nella reazione del pubblico alle proiezioni (sonore e visive) che lo colpiscono, e al suo coglierne – singolarmente e collettivamente – gli stimoli. E diversi soggetti e diversi pubblici – Milano e Berlino - potranno avere reazioni diverse.

In sostanza, queste tecniche consentono di mantenere una relazione costantemente oscillante fra passato e presente, fra un passato, da un lato, che è fissato e trascorso, ma sempre variabile nella sua ricostruzione, e un presente, dall'altro, che è sempre tormentato e carico di tensione in relazione alle scelte d'azione che presenta e agli esiti per il futuro che contiene.

Come pratico esempio di immanenza storica del Ring si cita la brama per l'oro, che sarebbe esplosa ai tempi di Wagner e che oggi permea la nostra società, con forme e manifestazioni sempre diverse…

L'altro contributo è dello studioso belga Erwin Jans, e reca il titolo: Il Ring: nella Twilight zone. Il Ring descrive in sostanza un mondo – proprio come il nostro! - in continua transizione, dove nessuno è al sicuro e dove ciascuno cerca il suo posto al sole, dove sistemi di potere si confrontano e rapporti di forza si modificano. Il tutto all'ombra di un fato inesorabile, che offusca la libertà. Abbiamo ancora un libero arbitrio? Siamo ancora capaci di scegliere le nostre azioni? Oppure esse sono decise altrove? Siamo ancora i fautori delle nostre vite? Le nostre azioni hanno qualche effetto? I nostri atti non sono forse strangolati in una rete fatale? La velocità e l'incomprensibilità che caratterizzano oggi gli sviluppi tecnologici, sociali ed economici possono essere definite, con assoluta serietà, "tragiche". Il mondo non è più nelle nostre mani. Il mondo ci accade.

Secondo Jans, Cassiers intende, con la sua messinscena, confrontarsi e proporci il confronto con la realtà dell'oggi, caratterizzata dai fenomeni di globalizzazione: la dichiarata fine della storia e della politica; il flusso di informazioni e immagini; il ruolo del linguaggio e della retorica; la virtualizzazione della realtà; la società dei consumi; la confusione ideologica; la minaccia del fanatismo e del fondamentalismo; la ricerca di sicurezza e spiritualità. In sostanza: il crepuscolo della società borghese.

Scrive ancora Jans: Nella visione di Guy Cassiers, il Ring racconta la crisi di identità e la collocazione incerta dell'individuo nel disorientante processo di globalizzazione. Poi va ancor più sul politico, laddove afferma testualmente: Il Ring è l'analisi critica della società capitalistica della metà dell'Ottocento e della sua classe media. Ma poi, prendendo atto dello spostamento di Wagner su posizioni, diciamo così, conservatrici, muove una velata critica, mutuata da G.B.Shaw, per la simpatia che Wagner sembrò mostrare per Wotan, più che per il rivoluzionario Siegfried…

Sempre più chiaramente: La messinscena di Guy Cassiers tiene in seria considerazione l'analisi sociale del Ring e la traspone all'inizio del XXI secolo, in un mondo in cui il capitalismo è divenuto globale e senza alternative.

Dopodichè si passa a proporre paralleli fra le vicende del Ring e la globalizzazione: il Walhall costruito con l'oro rubato ai Nibelunghi, così come le grandi fortune di oggi sono ottenute impoverendo milioni di individui: lavoro minorile, clandestini sottopagati, traffico di vite umane, e così via; ecco le mani invisibili che portano l'oro al Walhalla. Non mancano i riferimenti alle rivolte americane del 1992 e alle banlieu parigine del 2005, assimilati alla sete di vendetta di Alberich.

Ora Jans entra nel merito della regìa di Cassiers e pone l'accento sulla sua interdisciplinarietà: luci, coreografie, balletti, funzionali al progetto di decostruzione dei personaggi nelle componenti di corpo, immagine e voce. Dove ogni componente racconta una parte della storia, e dove sarà lo spettatore a ricomporre il quadro, secondo la sua personale percezione.

Infine Jans riassume i significati delle quattro scene del Rheingold. Nella prima le ninfe rappresentano, per Alberich, una realtà virtuale, come quella delle webcam, che può solo creare frustrazione. Nella seconda abbiamo la rappresentazione della decadenza del mondo degli dèi: L'identità degli dei si è disintegrata in pure idee da un lato (i cantanti) e potere fisico, animale dall'altro (i danzatori). Questa scissione della loro identità condurrà alla fine alla morte degli dei, che sembrano figure di sogno catturate fra la vita e la morte. I Giganti sono rappresentati da enormi ombre, anche questa una manipolazione della realtà, che serve a minacciare ed intimorire la controparte. Nella terza scena abbiamo il regno del Grande Fratello. La quarta scena vede il mondo che cade a pezzi, mentre gli dèi salgono al Wahlall sopra un arcobaleno costituito da una grande massa di numeri e lettere proiettati in continuo movimento, stretti l'un l'altro e che richiamano la Borsa e i corsi azionari.

Conclude Jans con considerazioni già lette e udite, del tipo: ambizione, brama di potere, avarizia, amore, desiderio, invidia, disperazione, lealtà… il Ring abbraccia tutto lo spettro delle emozioni umane. E con richiami a moderni fenomeni di alienazione, frustrazione, individuazione di nemici cui imputare le proprie sfortune, ricerca di redentori cui affidare il proprio futuro, etc.

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Che dire? Tante idee, alcune interessanti, altre stantìe, altre banali. E soprattutto si tratta di vedere poi all'atto pratico se e come il Konzept sia stato realizzato sulla scena. Le reazioni – da quelle dei soloni della critica a quelle degli amatori in forum e blog – non sembrano, ad oggi, entusiaste.

24 maggio, 2010

No, non è la RAI…

…ma è la BBC!

Da noi, e non solo in RAI, i 150 anni dalla nascita di Mahler passano quasi inosservati: qualche sinfonia qua e là, ma nessuna speciale programmazione, né cicli sinfonici o liederistici. Chissà, forse si aspetta il 2011 per i 100 anni dalla morte…

La BBC – che a differenza della RAI le sue orchestre sinfoniche le valorizza, invece di chiuderle – sta trasmettendo l'intero ciclo delle sinfonie del boemo. Proprio da poco si è conclusa, da Manchester, la monumentale Ottava, eseguita dalla BBC Philharmonic, con quattro cori (tre della Hallé e uno di Birmingham) sotto la direzione di sir Mark Elder.

Invece qui, alla Scala poi, due "resurrezioni" sparite nel nulla.

Scala-Abbado: un caso da manuale

Sì, il già corposo manuale Tutti i trucchi per attirare la sfiga si arricchisce di un nuovo caso esemplare.

Se non fosse che c'è di mezzo la salute di una persona (e che persona!) si dovrebbe parlare di farsa annunciata.

Naturalmente, auguri a Claudio Abbado di rimettersi al meglio.

21 maggio, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 32

Concerto di quelli davvero corposi, quello propostoci da Xian Zhang ieri sera in un Auditorium gremito.

Si apre con la Suite da L'amore delle tre melarance di Prokofiev, un'opera in un prologo e 4 atti, dai contenuti surreali e fiabeschi. La suite – in 6 brani - ne raccoglie il meglio dei passaggi orchestrali.

1. Gli strampalati: tratto dal prologo, dove i fautori di tragedia, commedia, dramma e farsa discutono – mirabilmente supportati dalla musica che si fa davvero in quattro - su quale sia la forma migliore, e poi sono messi a tacere dagli Strampalati, (o Originali, o Ridicoli, come si trova in diverse traduzioni) che assieme ad un araldo annunciano al pubblico lo spettacolo (Le tre melarance, appunto).

2. Il mago Celio e la fata Morgana giocano a carte: è in pratica una buona parte del secondo quadro del primo atto, quando il mago e la fata – in una scena precisamente infernale - giocano a carte avendo come protettori il re di fiori e il re di picche. Impressionanti gli accordi di ottoni e violini che sottolineano le carte giocate dai due.

3. Marcia: è questo il brano certamente più famoso ed eseguito, spesso anche da solisti al pianoforte o al violino.












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Compare nel primo quadro del secondo atto, dopo l'inconcludente intervento dei comici, allorquando Truffaldino in pratica costringe il principe ipocondriaco a seguirlo alla festa nel palazzo reale. Funge così da interludio e da introduzione al secondo quadro, iniziando assai piano (da lontano) e poi arricchendosi sempre più di forza e colore. Tornerà brevemente anche verso la fine del terzo atto e nel secondo quadro del quarto, quasi fosse un leit-motiv che rappresenta l'autorità regale.

4. Scherzo: è un interludio in 6/8 che compare alla fine del secondo quadro del terzo atto, dopo che il principe e Truffaldino hanno trafugato le tre melarance eludendo la guardia della cuoca della maga Creonta.

5. Il principe e la principessa: siamo nel terzo atto, terzo quadro, allorquando il principe – dopo che Truffaldino ha fatto morire di sete le principesse Linette e Nicolette, aprendo le due melarance in cui erano imprigionate - libera dalla terza melarancia la principessa Ninetta e la salva abbeverandola con dell'acqua procuratagli pietosamente dagli Strampalati.

6. La fuga: è quella dei cattivoni Smeraldina, Leandro e Clarissa, protetti dalla fata Morgana, proprio immediatamente prima dell'apoteosi finale.

In tutto non sono neanche 20 minuti (rispetto ai 100 dell'opera) ma è grande musica, come quasi tutto Prokofiev, del resto. Xian Zhang dosa assai bene gli ingredienti orchestrali, e ce la rende in modo efficace e coinvolgente.

Arriva adesso il pianista turco Hüseyin Sermet per interpretare il celeberrimo quarto concerto di Beethoven.

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Un'interpretazione di tutto rilievo, tenendo conto dell'estrema complessità di questo concerto, forse il più difficile dei 5 del genio di Bonn. Nell'Allegro moderato mi sembra che l'orchestra – almeno all'inizio – fosse un pochino svagata e non abbia supportato a dovere il pianista, poi le cose sono migliorate. Ottima l'esecuzione della cadenza (la prima delle due scritte da Beethoven). Pregevole l'Andante con moto, e in particolare il passaggio che prepara la chiusa, quelle otto spettrali battute dove il pianoforte solo, sul trillo del DO, suona biscrome discendenti alternate alle due crome SOL#-LA. Il Rondò viene eseguito con molta leggerezza, senza inutili enfasi e qui l'orchestra, archi in testa, è molto efficace nei tutti che contrappuntano il solista. Gran successo per il bravo Sermet, che oltre a suonare è anche un pedagogo e compositore! E ci concede un bel bis beethoveniano.

Si chiude infine con Rachmaninov, e la sua pretenziosa seconda sinfonia, già ascoltata di recente alla Scala con Pappano. Orchestra ipertrofica, disposta (come per Prokofiev) con le viole sul proscenio e i violoncelli in secondo piano.

Uno dei (pochi) passi veramente interessanti di questa composizione è il tema dello scherzo, esposto dai corni, che dà modo a Ceccarelli e compagni di mettere in mostra tutta la loro bravura:


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Alla Zhang va il merito di non aver calcato la mano sulle decadenti sdolcinature del russo, proponendoci un'interpretazione asciutta e tutto sommato digeribile, in specie nell'Adagio, dove hanno modo di mettersi in luce le parti soliste di violino, clarinetto, oboe e corno inglese.

Il pubblico – salvo i pochi che se la sono svignata fra un movimento e l'altro - apprezza assai, con lunghi applausi e numerose chiamate, che vengono premiate dall'Orchestra con un bis inaspettato (sono già le 11!): la marcia – ascoltata due ore e mezzo prima – dalle Melarance.

Tutto-Beethoven ci aspetta fra una settimana.

19 maggio, 2010

Domani facciamo i giro...bondi


A Bologna una Carmen havanera


Ieri a Bologna la Carmen con il secondo (?) cast. In realtà la parte del protagonista, come annunciato a inizio-recita, resta sulle spalle del titolare Andrew Richard, invece che su quelle della riserva Raffaele Sepe.
Allestimento proveniente dall'est (Lituania) regìa di Andreys Žagars e ambientazione a Cuba, come lascia intendere da subito il pre-sipario dipinto con gli inconfondibili colori della bandiera di quel Paese. Visto che, a proposito della recente Carmen scaligera, Barenboim aveva richiamato un triangolo (Spagna-Africa-Cuba) viene spontaneo fare della dietrologia e immaginare qui un triangolo rosso: Riga-Bologna-Havana... ai tempi di Brezhnev (?)
Vedremo poi – sembra incredibile – come questa paradossale ambientazione sia assai meno deformante, rispetto all'originale, di quella pretenziosa, cervellotica e incompetente che ci è stata di recente propinata da sua maestà il Teatro alla Scala. E sarei pronto a scommettere che sia costata una piccola frazione del capitale speso da Lissner, fornendo nel complesso un risultato migliore: secondo i sedicenti parametri virtuosi di Bondi, a Bologna dovrebbero andare in proporzione il doppio dei fondi che a Milano! Altra nota positiva: la partecipazione del pubblico. Il Comunale di Bologna sarà pure un teatrino, ma ieri sera era praticamente colmo, proprio come se il pubblico volesse stringersi attorno a chi quel teatro fa vivere per fargli sentire il suo sostegno, in tempi assai grami.
Allora, a Cuba! La manifattura, sullo sfondo, con un gran lider-maximo imbracciante un mitra dipinto sulla facciata, ornata di scritta patriottica (cadente); volantini che scendono con slogan inneggianti il socialismo, gente abbigliata di conseguenza ed anche qualche filo spinato a ricordarci che non è tutto oro ciò che luccica. Micaëla arriva in bicicletta e José, invece che alla sua spilletta, è indaffarato attorno ad un antidiluviano sidecar militare made-in-DDR. Nel secondo atto saremo al Bar-Sevilla (per ricordarci qualcosa?) con foto del Che in bella vista. Nel terzo vedremo in scena un catorcio tipo Buick degli anni di Batista che servirà da mezzo di locomozione (e da alcova, vero Dancaïre?) ai contrabbandieri (e saremo sul molo dell'Avana, invece che sui monti andalusi). Nel quarto atto saremo fuori da un malandato impianto sportivo del regime, dove Escamillo (che è un pugile, datosi che a Cuba la corrida è da tempo proibita, mentre la boxe è sport nazionale) si prepara a trionfare sul ring.
Orbene, se si esclude la bizzarrìa di questa ambientazione, per il resto la regìa è quanto di più rispettoso si possa immaginare dello spirito dell'opera (libretto e musica). A partire dalla scena iniziale, illuminatissima e ben rappresentante l'atmosfera descritta da Meilhac-Halévy e splendidamente musicata da Bizet: una piazza dove regna una sana e ordinaria confusione. La taverna di Pastia del secondo atto è precisamente un bar piuttosto popolare, dove troviamo allegria e gioia di vivere, frammisti ai traffici piuttosto loschi del Dancaïre e soci.
I personaggi si muovono in modo naturale, senza eccessiva affettazione, se si esclude forse la Micaëla, qui presentata all'inizio come un poco sbarazzina e un poco stupidella (ma sempre meglio che bigotta o santarellina) che però si riscatta nel drammatico intervento nel terzo atto. Carmen ha quella giusta dose di volgarità che si addice ad una gitana (che non è certo una professionista di flamenco) e quell'ostinazione viscerale e fatalistica che la portano alla rovina. Ben centrato anche José, un ragazzo apparentemente maturo, che invece passa dall'iniziale serenità dei buoni propostiti alla totale catastrofe determinata dalla sua infatuazione per la gitana. Escamillo è sì un tipo spavaldo, ma che mai eccede in gratuite spacconerie. Gli altri personaggi sono ben calati nei rispettivi ruoli.
Ecco, in definitiva, una regìa affatto propensa ad interpretazioni cervellotiche (Cuba a parte); né ad introdurre elementi estranei all'originale. Insomma, ci presenta (quasi) esattamente ciò che leggiamo sul libretto! Capìta l'antifona, cari Dante&Peduzzi?
La prestazione musicale mi è parsa di livello più che dignitoso. La versione impiegata era quella di Oeser, quindi non la più moderna, ma pur sempre materia prima originale e non adulterata (tipo Guiraud, per intenderci). Recitativi peraltro decimati, forse più del solito, cosa tale da far perdere il senso dell'azione, in un paio di momenti, a chi non ha perfettamente in testa la vicenda. Sul fronte delle note, oltre all'iniziale pantomime, che ormai sembra essere considerata come un refuso, altri tagli più o meno giustificati, come la prima strofa - quella che si sente da lontanissimo - dell'arrivo di José nel secondo atto, con annesso recitativo. E a proposito di Mariotti, per me si merita comunque un bel 7+ per la cura con cui ha sempre condotto l'orchestra in funzione del canto; il modo poi con cui ha affrontato alcuni particolari, oltre che i quattro preludi, testimonia di una grande sensibilità e profondità di lettura. Efficacissimo il suo crescendo nella chanson bohème, dove Bizet prescrive un metronomo accelerante da 100 semiminime (andantino) a 108 (sul primo tra-la-la-la) poi a 126 (animato, sul secondo tra-la-la-la) quindi a 138 (plus vite) e infine a 152 (presto) per l'orgiastica conclusione. Insomma, un Kapellmeister che – a 31 anni – promette assai bene. L'orchestra lo ha seguito benissimo, in specie gli strumentini, che hanno parti fondamentali in quest'opera (perdoneremo un paio di stecchine degli ottoni).
Carmen era Nora Sarouzian (che a dispetto del nome orientaleggiante è franco-canadese): già sentita qui nella Salome, in una parte minore ma non banale (il Paggio) ha mostrato una voce assai potente, anche se come Carmen dovrà ancora crescere (ma avrà occasione di farlo con i suoi prossimi impegni) in specie nell'espressività, oggi ancora così-così, oltre che nella precisione di certi attacchi, dove è parsa talvolta un po' calante.
José, come detto, ancora il titolare Andrew Richards. Voce stentorea, da tenore eroico-verista, che lascia un po' a desiderare nei difficili passaggi del duetto con Micaëla, mentre pare più sicuro ed efficace nei momenti più drammatici. Una prestazione comunque da apprezzare.
Escamillo era il bulgaro Deyan Vatchkov. Fisico e presenza davvero notevoli, gli perdoneremo la pronuncia non impeccabile (vedi toreiador…) a fronte di una prestazione di tutto rispetto. Migliorabile, soprattutto nei suoni alti, un po' forzati, ma insomma, non canta tanto peggio di gente che si vede sulle copertine patinate di riviste glamour!
La Micaëla di Beatriz Diaz è stata, come detto, forse troppo caricaturata dal regista (nel primo atto). Vocalmente se l'è cavata in modo dignitoso, sia nel duetto del primo atto, ma soprattutto nella sua esternazione del terzo.
Frasquita e Mercedes (Anna Marìa Sarra e Giuseppina Bridelli) hanno assolto bene il loro compito: negli interventi del secondo atto e – soprattutto – nella scena delle carte del terzo (dove compare, sui parlez-parlez, una citazione - involontaria? - delle Allegre comari di Nicolai).
Efficaci, vocalmente e senicamente, Mattia Campetti e Antonio Feltraccio nei ruoli del Dancaïre e del Remendado. Bravi, insieme alle tre gitane, nel difficile concertato del secondo atto. Come pure Alexey Yakimov (Zuniga) e Benjamin Werth (Morales) che hanno parti secondarie, ma per nulla irrilevanti.
Bravissimi i piccoli del coro di Silvia Rossi nei due difficili interventi (primo e quarto atto) e sempre all'altezza i grandi di Paolo Vero.
Applausi a scena aperta dopo le principali arie, e gran trionfo per tutti alla fine, col palco invaso anche dagli orchestrali e sul quale è sceso, e da tutti additato, l'articolo della nostra Costituzione che reclama più rispetto da Bondi&C.

17 maggio, 2010

Il Ratto secondo Mehta al Maggio

Ieri pomeriggio al Maggio la seconda di Die Entführung aus dem Serail.

La prima considerazione che viene spontanea riguarda la partecipazione di pubblico. Ahinoi tale da dar ragione, ancora una volta, a chi sostiene che il teatro musicale sia ormai ridotto ad hobby elitario e come tale da finanziarsi privatamente da parte di quella élite e non impiegando fondi pubblici: nonostante tutta l'attenzione e la pubblicità che in queste settimane è stata data al problema – decreto-Bondi e scioperi-anti-Bondi – il Comunale presentava ampi spazi vuoti; ed anche per le due restanti rappresentazioni (19 e 21 maggio) sono tuttora disponibili in internet parecchie decine di posti. Insomma, uno dei capolavori assoluti della musica, rappresentato in una città che ha una millenaria cultura e una tradizione invidiabile (giustamente si vanta di aver inventato il moderno teatro musicale) non riesce ad attirare 8.000 persone in 4 giornate. Erano molti di più gli interisti che nel solo pomeriggio di ieri hanno invaso Siena.

Note del tutto positive, invece, sul fronte artistico: una performance di alto livello, sotto tutti i punti di vista. Si tratta di una ripresa della produzione del 2002, diretta da Zubin Mehta e con la regìa di Eike Gramms. E al proposto, dirò che si tratta di una regìa assolutamente tradizionale, intendendosi con ciò l'assenza di qualunque velleitaria ed intellettualoide proposizione di un Konzept, dal regista immaginato - o inventato di sana pianta – a partire dall'originale.

Che nel Ratto si rappresenti una civiltà (orientale-islamica, più o meno travisata) è certamente vero. Come è vero che l'opera abbia una sua morale, laddove si irride a tutti i mamma-li-turchi di questo mondo, mostrando un Pascià magnanimo e riducendo a caricatura il cattivone integralista Osmin. Ma trarre da ciò conclusioni politiche sarebbe del tutto arbitrario (ma c'è chi arbitrariamente lo fa). Fare insinuazioni sull'irreprensibilità delle due ragazze occidentali è lecito (i sospetti li hanno gli stessi loro fidanzati) ma da qui a presentarle come sgualdrinelle (come si è già visto) ce ne corre parecchio.

Insomma, questa regìa si limita – ed è un suo merito – a presentarci ciò che Mozart e i suoi librettisti ci hanno tramandato: poi ciascuno di noi può trovare da sé mille spunti di riflessione, che vanno dal piano morale a quello politico, da quello sessuale a quello psicanalitico; e divertirsi a scovare, nel libretto e nella partitura, riferimenti più o meno plausibili.

Sul fronte musicale, note generalmente positive. Tagliati buona parte dei parlati, come consuetudine, ma ciò che è rimasto era sufficiente alla comprensione della trama. Zubin Mehta, che ha un'antica consuetudine con il Ratto, ha conservato il suo approccio settecentesco: orchestra con organico cameristico (oggi ci fanno sorridere le lamentazioni di Mozart, che non trovava carta musicale con abbastanza righi per le sue turcherìe…) e suono sempre dosato sapientemente, anche nei fracassi che accompagnano i Giannizzeri (dove ai piccoli timpani, ai tamburi, triangolo e piatti si è aggiunto un curioso strumento turco, due mezzelune con campanellini appesi poste in cima ad una lunga asta, battuta per terra dallo strumentista). Mai l'orchestra ha oscurato le voci, né ha ecceduto in facili enfasi. Encomio speciale per i due corni, davvero impeccabili.

Ingrid Kaiserfeld è stata una Konstanze più che discreta (fisico a parte, smile!) che ha superato bene le impervie difficoltà della parte. Jörg Schneider è un tenorino ben adatto al ruolo di Belmonte. E il suo fisico proporzionato a quello della fidanzata (ri-smile!) Un poco debole sulle note basse la Chen Reiss (Blonde) e molto efficace il Pedrillo di Kevin Conners, voce chiara ma robusta e recitazione davvero notevole. Maurizio Muraro è stato un Osmin eccellente, voce potente anche nelle frequenti escursioni sotto il rigo in chiave di basso cui Mozart lo chiama e ottima presenza scenica. Per tutti applausi a scena aperta dopo le arie principali e dopo i concertati.

Una doverosa menzione anche per il parlante Karl-Heinz Macek, perfetto nella parte di Bassa Selim. Ottimo il coro di Piero Monti, con i quattro solisti in evidenza.

Alla fine gran trionfo e ripetute chiamate, singole e di gruppo. Una bella festa, che francamente molti si sono persa (ma possono ancora rimediare mercoledi e venerdi).

07 maggio, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 30

Ancora Wayne Marshall sul podio de laVerdi – krumiri! obietterà qualcuno (non io, che in due giorni mi son visto scippare un Simone e una Frau) - in un programma davvero tosto.

Si comincia con Il lago incantato di Anatoly Konstantinovich Liadov, uno più o meno contemporaneo di Mahler, tanto per orizzontarsi. In effetti la composizione è del 1909, quando Mahler stava completando Das Lied von der Erde. Si tratta di un breve schizzo (sottotitolato leggenda, in RE bemolle) dove archi, arpa e celesta, con leggeri interventi degli strumentini, la fanno da padroni, per descriverci la pace notturna del laghetto ghiacciato. Il massimo rischio che si corre qui è quello di appisolarsi, e anche Marshall, pur con la sua proverbiale verve, può ben poco. Tutto finisce però in 8 minuti, compresi 30 secondi di silenzio finale, ottenuto dal Direttore che tiene le braccia alzate per un'eternità, neanche fosse la nona di Mahler…

Rischio del tutto scongiurato invece da Alban Gerhardt, che ci suona il celeberrimo Concerto per violoncello di Dvorak.


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Marshall, al suo solito, parte in quarta, poi si placa un pochino. Gerhardt ci fa sentire il suo violoncello con grandi cavate e – specie nel secondo movimento – dà spettacolo. Poi, dopo due bis con cui ringrazia i ripetuti applausi, non contento ancora e non ancora stanco di suonare, si va a sedere a fianco di Mario Grigolato e dà il suo contributo al brano che chiude il concerto.

Che è lo stravinskiano Uccello di Fuoco. Per la verità in origine era stata programmata la versione integrale del balletto, per ricordarne il centenario della composizione (1910). Ma poi si è ripiegato sulla più tradizionale – e breve – seconda suite del 1919, che richiede anche un organico meno ipertrofico di quello del balletto.

Questa suite comprende 5 dei 23 numeri del balletto, più l'Introduzione, e precisamente:

n°3. Danza dell'Uccello di fuoco;

n°9. Danza-rondò delle Principesse;

n°18. Danza infernale delle creature di Kastchei (costui è una sorta di Klingsor! e farà la stessa fine);

n°19. Ninna-nanna;

n°23. Scomparsa del palazzo di Kastchei e delle sue creature magiche e ritorno alla vita dei cavalieri pietrificati, allegrezza generale.

I brani si susseguono con alternanza quasi regolare di tempi lenti e mossi. Bizzarra e pretenziosa la tonalità dell'Introduzione: sette bemolli in chiave (neanche fosse il Götterdämmerung!) DO bemolle, che enarmonicamente si trasformerà alla fine in SI.

La danza dell'Uccello di fuoco è in FA#, tempo Allegro rapace (smile! a Stravinski non faceva difetto lo humor, evidentemente, ma mi dite come fa uno strumentista a suonare rapace?)

La danza delle Principesse è in SI maggiore, con il languido recitativo dell'oboe:





che fa da sostegno al rondò, cui rispondono gli archi prima e i flauti poi.

Torna l'Allegro, qui feroce (3/4) per la danza infernale, caratterizzata nella prima parte da sette schianti che si inframmezzano alle sarabande dei fiati e alle sparate di corno, trombone e trombe; poi si interpone una sezione in 2/4, con le trombe a dettare un ostinato ritmo anapestico (doppia semicroma + croma); ancora una successione di passaggi in 3/4 e 2/4 che porta la danza ad un autentico parossismo, cui segue una caduta proprio da spossamento, che porta alla successiva…

Ninna-nanna, un Andante in MI bemolle minore che, invece di condurre (come nel balletto) al provvisorio risveglio del mago Kastchei, porta direttamente alle 16 battute di misterioso e notturno tremolo (flautando) di tutti gli archi, che prelude al finale. La cui apoteosi, dopo l'esposizione del tema Lento e maestoso (3/2) si apre con la perorazione, in 7/4, degli ottoni:















Che, dopo un passaggio a velocità dimezzata (Maestoso) sfocerà nelle otto battute finali (in 3/2, fff, molto pesante) con tutti gli archi in tremolo a tenere l'accordo di SI maggiore, mentre i fiati percorrono smaglianti accordi su un arco (DO-DO#-FA-DO#-DO) prima di confluire sulla tonalità della chiusa. Qui, prima delle ultime tre battute dell'accordo finale, Marshall si inventa una corona puntata, cosa tanto proditoria quanto di effetto supremo, che strappa ovazioni e grida quasi sconsiderate dal pubblico, testimone di una prestazione davvero maiuscola!

Il prossimo concerto presenterà un piccolo Schubert e il bartokiano Barbablu!.

06 maggio, 2010

Aspettando che inizi il Ring alla Scala

Una interessante conferenza del professor Franco Serpa – nell'ambito dell'iniziativa Prima delle Prime – ha introdotto il tema del Ring, il cui nuovo ciclo (2010-2013) prenderà inizio – scioperi/Bondi permettendo – il 13 maggio alla Scala con Das Rheingold.

Serpa è uno dei nostri massimi esperti wagneriani (e non solo). Può ben vantarsi di aver assistito, nel lontano 1950, al primo ciclo nibelungico in lingua originale, quello di sua-denazificata-maestà Wilhelm Furtwängler, prodotto dalla Scala. Prima di parlarci del Rheingold ha ricapitolato la genesi del Ring all'interno della parabola esistenziale ed artistica di Wagner e nella prospettiva storica e della civiltà europea di metà '800. Io conservo ancora, come una reliquia, il suo saggio sul Ring comparso più di 20 anni fa sulla mai abbastanza rimpianta rivista Musica&Dossier, scritto che ha non poco contribuito a spingermi a studiare, oltre che ascoltare, questa che è da considerare la più straordinaria realizzazione dell'ingegno umano nel campo musicale.

Se posso permettermi un modesto appunto alla sua presentazione del Rheingold – è sempre eccitante, perché temerario, prendersi lo sfizio di muovere un appunto ad un accademico di S.Cecilia! – questo riguarda la luce in cui Serpa ha inquadrato il personaggio chiave (quello che dà il nome all'intero ciclo): Alberich. Che dal professore è stato definito come l'incarnazione del male, un essere congenitamente malvagio. Ecco, qui io mi permetto di dissentire: Alberich diventa malvagio, questo certamente, ma solo dopo che gli è stato fatto un torto (da tre stupidelle note come Le Figlie del Reno) anzi il più gran torto che si possa fare ad un essere vivente, negargli l'amore. Ed è precisamente la prospettiva disperante di dover vivere senza amore - Erzwäng' ich nicht Liebe… - che convince il nano, perso per perso, a maledirlo e ad impossessarsi dell'oro - doch listig erzwäng' ich mir Lust? - con tutto ciò che ne consegue.

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Sistemato (smile!) Serpa, veniamo ad un protagonista chiave della rappresentazione: il regista. Guy Cassiers – con qualche anno in più sulle spalle – sembra ripetere l'esperienza che nel 1976 fece tale Patrice Chéreau (allora trentenne): essendo grande esperto di teatro di prosa, ma poco o nulla conoscendo di teatro musicale e di Wagner e di Ring in particolare, viene chiamato alla messa in scena di un'edizione importante (Bayreuth mi perdonerà l'affronto, se lo paragono alla Scala) dell'Anello. Peraltro Cassiers ha il vantaggio non indifferente di arrivare dopo mille esperienze fatte da altri; essendo – fino a prova contraria – intelligente è da sperare che da esse prenda il grano e butti il loglio, non viceversa!

In web sono disponibili alcuni documenti che testimoniano dell'approccio generale e della preparazione di questo Rheingold. Qui una serie di filmati, girati nelle ultime settimane. Due di questi (1-4) sono – con traduzione italiana - pubblicati sul sito del Teatro. Qui invece (è un pdf di 5Mega, attenzione!) un documento (in tedesco) con alcune considerazioni, diciamo così, filosofiche del nostro. Si può fare qualche illazione, qualche considerazione di prima mano? Vediamo un po'.

Dalla stessa locandina del Teatro, dai vari filmati, e dalle dichiarazioni del regista che li accompagnano si evince, intanto, un aspetto non proprio marginale: la presenza di una coreografia, quindi l'impiego di danzatori ad accompagnare alcune scene del dramma. Come giustificano Cassiers (filmato n°5) e un suo coreografo (filmato n°3) questa scelta piuttosto azzardata? Con la volontà di meglio chiarire allo spettatore ciò che si nasconde nella personalità dei vari protagonisti, spiegandone i reconditi segreti attraverso il movimento di danzatori. È legittimo sollevare seri dubbi su questa trovata? Per me purtroppo sì. Perché? Ma perché in Wagner, e nel Ring in particolare, quel compito che Cassiers intende affidare ai danzatori è invece affidato – e in modo insuperabile – alla musica! È ascoltando questa, i leit-motive che ne emanano, che noi comprendiamo, ricordiamo, anticipiamo fatti, cogliamo sentimenti, sensazioni, collegamenti e relazioni. Quei danzatori, invece, non finiranno per caso per distrarre la nostra attenzione proprio da ciò che è più importante e prezioso?

Quanto all'impostazione concettuale, da ciò che si vede e legge in alcuni spezzoni dei filmati e nel documento pubblicato sul sito della Staatsoper, sembrerebbe di evincere l'intendimento di Cassiers di presentarci – a partire dal Rheingold – un Ring con forte carattere attualizzante, per così dire. Così fanno pensare i riferimenti ai moderni processi di globalizzazione, alla spersonalizzazione delle relazioni, agli egoismi regionali ed etnici, alla ricerca di spazi virtuali in cui rifugiarci, all'affidarsi a capipopolo, alla speranza in improbabili redentori… tutte manifestazioni della nostra attuale (in)civiltà. Ora, che nel Ring si possa trovare tutto ciò è quasi pacifico… tutto sta a vedere però quale strada deciderà di percorrere il regista: ci vorrà mostrare, attraverso riferimenti all'attualità, i caratteri universali del Ring o al contrario – speriamo di no – deriverà, da quei caratteri universali, dei particolari legati alla nostra attualità? In altri termini, userà il particolare per rappresentarci l'universale, oppure ci farà perdere quest'ultimo, mostrandocene una minima, parziale e soggettiva materializzazione?

Sul fronte musicale abbiamo pochi indizi. Uno è del tutto tranquillizzante (o almeno dovrebbe): si chiama Daniel Barenboim. Pochi come lui conoscono il Ring fin nei minimi dettagli e possiamo sperare che ripeta la prestazione del Tristan di un paio d'anni fa. Se devo manifestare un po' di sorpresa dall'ascolto degli spezzoni di musica che sentiamo nei filmati, questa riguarda (video n°2) il tempo che Barenboim fa prendere a Fricka-Kammerloher per la frase Um des Gatten Treue besorgt. Una cosa insopportabilmente lenta! Spero proprio che sia solo l'effetto-prima-prova. Bella sonorità e gran portamento invece nel Folge mir, Frau di Pape, proprio all'inizio dello stesso video.

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Oggi pomeriggio, come mobilitazione anti-Bondi, una specie di lodevole sciopero-alla-rovescia, una prova aperta al pubblico. Divisa in due: alle 14 le prime due scene e alle 19 le altre due. Ho seguito la prima parte (adesso vado in Auditorium per laVerdi). Che dire?

Qualcosa dell'orchestra, che mi è parsa ben messa, soprattutto nella sezione ottoni, che sappiamo essere allo stesso tempo il suo tallone d'achille e la punta di diamante di Wagner. Barenboim ha fatto ripetere più volte l'incipit degli otto corni, ma insomma direi che come partenza non c'è male. Sui cantanti non esprimo alcun giudizio, chè immagino non si impegnino al massimo nemmeno ad una generale, figuriamoci ad una prima prova d'insieme.

Su regìa, scene e costumi invece penso si possa non dico giudicare, ma almeno riferire (ripeto: prime due scene!) Innanzitutto la regìa è di quelle che non fanno danni, quindi nemmeno suscitano entusiasmi (oggi spesso i secondi si accompagnano ai primi). Figlie del Reno in nero lungo, scalze a sguazzare in una bassa piscinetta (recuperata per caso dal Tannhäuser?) e Alberich con abito anonimo, ma con stivali per non bagnarsi troppo. Gratuite ed eccessive le moine delle ninfe, ma nulla di grave. Fondale con immagine marina più che fluviale, con acqua appena increspata (Wagner scrive che si deve vedere il Reno muoversi da destra a sinistra, figuriamoci!) Poi appare una lama di luce e il fondo si indora, ma non troppo, prima di rabbuiarsi dopo l'impresa di Alberich. Un paio di telecamere pendono dall'alto e ogni tanto qualche personaggio vi si avvicina e il suo primo piano è proiettato sul fondo (?!?)

Nella transizione compaiono i danzatori, che accompagnano la salita all'Olimpo con movenze francamente mediocri. Nella seconda scena, fondo fermo fin quasi alla fine, un ambiente a metà fra Cappadocia e Colorado; poi si zooma su una cosa che dovrebbe richiamare la wagneriana gola sulfurea, ma sembra un calanco e basta. Personaggi quasi sempre impalati, tranne Loge, che si muove e contorce come si addice alla sua stramba personalità. A che serva un mimo-ballerino che a sua volta lo scimmiotta, lo sapranno soltanto regista e coreografo. Così come abbastanza cervellotiche sono le silhouette proiettate sullo sfondo. Sospiro di sollievo nel sentire che il tempo di Fricka (Um des Gatten Treue besorgt) non è assolutamente quello del filmato.

Non è colpa sua, ma Youn nella parte di un gigante (Fasolt) è proprio una presa in giro: meno male che ha una voce strepitosa a dir poco! Il suo fratellone Fafner è letteralmente il doppio di lui (per questo non faticherà a farlo secco alla fine, smile!) I personaggi entrano ed escono sempre salendo e scendendo dal/al piano di sotto. Plausibile per la fuga di giganti e Freia, come per la discesa finale di Wotan-Loge. Gratuito per gli ingressi: a che servono le quinte laterali? Dopo la perdita di Freia, l'invecchiamento degli dèi è simulato da accasciamenti e dall'intervento di mimi-danzatori che si aggiungono al mucchio. Mah!

Un'ultima notazione sui costumi. Fricka e Freia (ma sono solo sorelle o anche gemelle?) son vestite identiche. Wotan (con lancia di ordinanza) in giacca e jeans, come Loge. Fasolt in jeans e Fafner in smoking (si deve capire subito che sarà lui a godersela, alla fine). Froh anche lui in casual e Donner senza martello ma con l'impermeabile: sì perché lui è il dio del tuono (smile!)

Ecco, è tutto qui: nessuna particolare ambientazione, né moderna, né vichinga… Si intravede alla fine della prova – Barenboim ci fa sentire per ben tre volte le 18 incudini - un po' della terza scena, dove probabilmente compare molta tecnologia, in onore alla produttività nibelungica, ma vedremo.

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Ultima informazione: venerdi 7, ore 21, sul Canale 5 FD, la RAI trasmette proprio un Rheingold diretto da Barenboim: è una registrazione dal vivo del 1991 a Bayreuth (pubblicata in CD da Teldec).

04 maggio, 2010

Niente Boccanegra alla Scala

Essendo saltata la recita di questa sera ed esauriti da tempo i posti per l'ultima, invece della mia modesta cronaca farò un paio di considerazioni, come dire, ambientali.

La prima è francamente di costume, e riguarda le contestazioni, a chiunque rivolte. Dalle numerose reazioni che si possono leggere sui vari blog, si deduce che i buuh emessi da chi scrive – chiunque egli/ella sia - sono sempre giustificati, ineccepibili, meritati, doverosi, spontanei e disinteressati: stavolta son toccati a Barenboim, peggio per lui, se li è voluti. Invece i buuh emessi – in altre occasioni, vedi al Gatti di SantAmbrogio-08 - da altri spettatori, sono sempre e matematicamente dovuti a prevenzione, pregiudizio, complotto, sabotaggio e malafede. Ecco, allo stadio e al bar-sport tale Aristotele è molto, ma molto più di casa!

La seconda riguarda nello specifico il Kapellmeister Daniel Barenboim. Si leggono al proposito sofismi di questo tipo. Datosi che:

a. Barenboim conosce solo Wagner e con costui si identifica… e che:

b. Verdi e Wagner sono separati da una distanza stellare… ne consegue automaticamente che:
c. Barenboim si trova a distanza stellare da Verdi, e quindi non può che dirigerlo in modo schifoso.

Peccato che i presupposti a. e b. siano – come minimo - assai difficilmente dimostrabili, quando non apertamente e palesemente falsi. Ergo non può che essere contestabile la conclusione c.

Personalmente io trovo invece che la dimestichezza di Barenboim con Wagner possa essere di grande utilità nell'affrontare questo Verdi. Che non per nulla fu da molti biasimato, ma da altri apprezzato, per aver cominciato a recepire taluni concetti e princìpi del musikdrama del crucco. A proposito del quale sarà il caso di ricordare che mise in pratica, in modo totale e insuperabile, proprio quel recitar cantando - di italica invenzione sul triangolo Firenze-Mantova-Venezia - che invece si era poi andato corrompendo e trasformando in scimmiottar gorgheggiando.

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Una nota anche sugli scioperi, conseguenti alla firma del Presidente, conseguente alla presentazione del Decreto Bondi.

Prima considerazione: abbiamo assistito ancora una volta ad una manfrina all'italiana. Eravamo abituati a quelle del SantAmbrogio scaligero: minaccia di scioperi, poi due finte pacche sulle spalle per mandare in onda la prima e quindi regolari scioperi alla seconda e alla terza, magari intervallati da un regolare concerto della "autonoma" Filarmonica.

Stavolta c'era di mezzo la prima del Maggio, con la Loren già scomodatasi, figuriamoci! E così il compaesano della diva si è prestato al giochetto: rimanda la firma di un paio di giorni, e il Maggio può aprire in gloria, per chiudere subito dopo e – pare – ad oltranza! Spiace davvero che il Presidente, quello buono, si sia abbassato a tanto.

Quanto al Decreto in sé, di certo non fa della beneficenza a nessuno. Parliamoci chiaro: come già per la riforma della scuola della neo-mammina Gelmini, questo è un provvedimento che serve principalmente ed immediatamente a tagliare, quindi non è tanto di responsabilità di Bondi, quanto di Tremonti, che deve avere una paura blu di far la fine della Grecia e – non potendo/volendo prendersela con i suoi amici evasori e mentre l'avanzo primario è diventato, grazie al Governo di cui fa parte, un bel ricordo - cerca tutti gli espedienti per raccattare qualche spicciolo, inventandosi scudi, tagli ed altre simili piacevolezze.

Seconda considerazione: se il Presidente ha francamente scherzato, dando ragione a Berlusconi quando parla di "analisi degli aggettivi" dei testi dei decreti, non da meno hanno fatto i Sindacati. Essendo evidente a tutti che le osservazioni di Napolitano erano una foglia di fico. Sappiamo bene che il Presidente può ottenere una radicale revisione di un decreto, o il suo accantonamento, soltanto se ne paventa la palese incostituzionalità o la palese mancanza di copertura finanziaria. Nulla di tutto ciò nelle osservazioni di Napolitano. E allora i Sindacati – fossero ancora una cosa seria – avrebbero dovuto o confermare tutti gli scioperi, incluso il blocco della prima del Maggio, oppure rimandarli tutti, aspettando i previsti incontri con il Governo. Pollice verso anche per loro, sorry!