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04 dicembre, 2009

Stagione dell’OrchestraVerdi - 9

Il nono concerto della stagione è a beneficio di Telethon, ed anche questo è un segnale di attenzione de laVerdi per i problemi di tutti. Il programma è diviso a metà fra Russia e America, avendo come baricentro la Boemia.

Dopo la breve, ma intensa Ouverture di Guerra e Pace, che apre la serata nel nome di Prokofiev, arriva Kun Woo Paik per il Secondo Concerto per pianoforte. Paik è uno dei primi musicisti ad essere approdato ai lidi occidentali dalla lontana Corea. Ha 63 anni suonati, ma non li dimostra proprio, nel fisico e nella verve con la quale affronta il concerto che (1913) aveva provocato scandalo e che Prokofiev fu costretto a riscrivere nel 1923, essendo andato bruciato in una stufa il manoscritto originale. Sarà perché i nostri gusti sono più evoluti di quelli di 90 anni fa, o perché nel riscriverlo Prokofiev ammorbidì parecchio l'originale, ma oserei dire che, specialmente nell'atmosfera del primo movimento, questo sembra quasi un concerto tardoromantico, con ammiccamenti à la Rachmaninov, per intenderci, e irruzioni enfatiche dell'orchestra a rompere la sognante e liquida quiete del solista. Almeno fino alla poderosa cadenza, una sessantina di battute, quasi un vero e proprio movimento di sonata incastonato nell'Andantino iniziale, dove c'è davvero di tutto: molto espressivo, precipitato, pesante, con effetto, colossale, tumultuoso, con tutta forza sono le indicazioni dinamico-agogiche che si leggono sulla partitura.

Nel brevissimo Scherzo, una sorta di frenetico moto perpetuo, il solista la fa da padrone, pungolato da intrusioni di fiati e percussioni e col sostegno discreto degli archi. Si pensi che il pianista, in tempo vivace, deve suonare, con entrambe le mani, esattamente 1500 semicrome (più la croma finale). Il tutto in circa 2'30", quindi 10 tocchi di semicroma al secondo con ciascuna mano per 150 volte di fila, senza una sola presa di respiro! E Paik qui si butta davvero a tutta velocità, mettendo in risalto le sue eccellenti qualità virtuosistiche. L'Intermezzo è una cosa tendente alla marcia funebre, con pochi momenti di relax, ma l'agogica prevalente è il pesante, subito imposto da tromboni, trombe e corni in sequenza. Nel finale Allegro tempestoso emergono i ritmi da catena di montaggio, tipici di Prokofiev (e anche di Shostakovich) alternati a intervalli di relativo riposo. Trionfo per Paik, che mostra tutta la proverbiale gentilezza e finezza orientale, voltandosi ripetutamente a ringraziare tutti gli strumentisti che lo hanno accompagnato al meglio. Numerose chiamate, ma niente bis.

La Nona Sinfonia di Dvorak è un'altra di quelle opere talmente note, suonate ed ascoltate, che si corre il rischio di non seguirla con il dovuto rispetto e il giusto riguardo. Insomma, si tende a subirla un po' passivamente, forse perché è fin troppo orecchiabile e quindi impegna (relativamente) poco il cervello. È la sinfonia americana, ma vi si trova l'America di Spillville, non quella di Atlanta. Michael Schønwandt, che dirige con flessuose movenze fra il danzatore e il mimo, cerca di far emergere dettagli, di aumentare i chiaroscuri, prendendosi anche qualche libertà nei tempi. Forse lo fa lodevolmente, per togliere parte del dolciastro di cui la sinfonia è imbevuta. Ma è un po' come mettere il peperoncino nel cioccolato: si ottiene un sapore interessante, ma alla fine il cioccolato tende comunque a stomacare. Del che peraltro ci si accorge sempre dopo averlo divorato.

In ogni caso, esecuzione encomiabile da parte di un'Orchestra apparsa ieri in gran forma, in tutte le sezioni. Orchestra che la prossima settimana si dedicherà alla Russia minore (? o quasi).

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