“Noi tagliamo, ci vogliono tagliare”. Non è un verso aggiunto all’ultimo momento sulla partitura wagneriana, ma l’appello - accompagnato da immagini proiettate sullo schermo a inizio spettacolo - degli artigiani (costumisti, carpentieri, acconciatori, ...) che contribuiscono a rendere possibile e godibile uno spettacolo. Ai quali va ovviamente la solidarietà di quella - ahinoi - minoranza abbastanza silenziosa di appassionati del teatro d’opera.
Il Siegfried di Padrissa e della Fura, diciamolo subito, non è un esempio - nè deteriore, nè brillante - di Regietheater. Tanto per incominciare, è perfettamente fedele alla concezione wagneriana di Zeitlosigkeit. Azione e personaggi vivono in un tempo non determinato, nè ieri, nè oggi, nè domani, poichè debbono rappresentare gli archétipi di ogni personaggio e di ogni manifestazione degli umani sentimenti. La componente tecnologica dell’allestimento è del tutto innocua, rispetto al condizionamento dello spettatore, e la frequente presenza in scena della troupe circense della Fura non è quasi mai invasiva e distraente, ma volta a rappresentare visivamente concetti o fatti che stanno comunque nella partitura. I costumi dei personaggi principali (Wotan, Siegfried e Brünnhilde) sono assolutamente tradizionali, proprio da museo di Bayreuth, con abbondanza di pelli e orpelli; le immagini proiettate sono di contenuto astratto, quando devono far da sottofondo all’espressione di sentimenti, oppure naturalistico, quando devono supportare le pagine - soprattutto orchestrali - in cui Wagner ci descrive appunto la Natura che fa da sfondo ai sentimenti. Insomma, rispetto a tante re-invenzioni gratuite e insensate del mito wagneriano, qui siamo ad un livello di assoluta dignità.
Qualche osservazione sulla regia dei personaggi: ho personalmente trovato poco appropriato l’atteggiamento esteriore fatto assumere a Siegfried e Wotan, troppo ruvido e a volte manesco il primo, troppo severo e altezzoso il secondo: vedremo poi nei dettagli il perchè. Mime è emerso come il personaggio teatralmente più centrato e riuscito, grazie alla regia e sicuramente alle doti di Ulrich Ress. Gli altri si vedono poco o cantano quasi immobili, o imbragati in complicate strutture, ma va bene così.
Sul piano musicale, rispetto a quanto avevo ascoltato per radio giovedi scorso, decisamente migliorato Zakhozhaev e brava, ma non eccezionale, qui come il 20, Jennifer Wilson (di cui avevo colpevolmente taciuto nel sommario precedente, forse freudianamente, non avendomi mandato in visibilio!) Bene gli altri, soprattutto Ress e Kapellmann. L’orchestra compatta e precisa, salvo - ma forse il mio orecchio è stato tradito dalla posizione di ascolto - nell’incipit del preludio al terzo atto. Strana la disposizione degli ottoni: tutti all’estrema destra, con timpani e percussioni, ma tranne i corni, posti all’estrema sinistra, dietro i legni: certo in una buca normale non si può copiare la disposizione di Bayreuth, dove tutti gli ottoni sono nell’ultima fila in basso, con le percussioni. Quanto a Mehta, magari non ha nel sangue quello si chiama il gene wagneriano, ma ha una sensibilità ed un’esperienza che suppliscono ampiamente.
Ora qualche dettaglio in più.
Atto I
Dopo che un filmato, zoomando dall’intero pianeta giù giù fino alla foresta vicino a Neidhöhle ci ha portato sul luogo dell’azione, Mime scende dall’alto, con tutto il suo laboratorio a metà fra l’alchimistico e il cibernetico. Lui stesso sembra un miscuglio di androide (con cavi che gli entrano-escono dalle spalle del suo camice bianco, e diversi elettrodi e chiodi impiantati in testa) e di dottor Coppelius, con occhialetti tondi, alle prese con le sue invenzioni. Sulla guancia destra reca una sigla: GV9 (data la tecnologia usata dalla Fura, potrebbe stare per Gate Valve 9, codice con cui si identificano componenti di circuiti di trasmissione di gas... o dobbiamo chiedere a Padrissa?) e picchia, come prescritto in partitura, il suo tintinnante martelletto, con la mano sinistra (questo non è precisato da Wagner, ma evidentemente Ress è mancino, come si avrà conferma nella terza scena, allorquando, sempre con la sinistra, impugnerà un coltello per affettare sedano e zucchine, destinati alla broda letale). A proposito, complimenti a lui ed anche a Zakhozhaev per saper interpretare perfettamente i rispettivi personaggi anche nella parte strumentistica (Siegfried martellerà personalmente la spada, e sempre ben a tempo). Ress mostra subito di essere un grande attore, oltre che un degnissimo tenore; si muove quasi danzando, con mimica straordinariamente appropriata al personaggio, una vera e propria macchietta. Tre comparse della troupe passano e ripassano con larghe scope, a mo’ di asciugatori di parquet di pallavolo, il che mi rimane incomprensibile, ma diciamo che non distrae più di tanto.
Entra Siegfried, insieme ad un ammasso di corpi umani (i circensi della Fura) che dovrebbe simulare l’orso, ma in realtà pare un equino, con lungo collo e vera coda di cavallo! (mah...) Come ho premesso, il suo atteggiamento verso Mime è forse più duro e carognesco di quanto basterebbe (spezza la spada sulle proprie ginocchia, come fosse un bastoncino, dà un calcione all’arrosto che Mime gli porge, non sorride mai, neanche con sarcasmo) senza per fortuna trascendere eccessivamente.
Toccante la scena del ricordo di Sieglinde, supportato da immagini fotografiche molto poetiche ed assai appropriate.
Arriva ora Wotan: senza benda! Finalmente una regia che non ci propina il solito copri-occhio alla pirata, o alla Moshe Dayan! (inutile precisare che in nessuno dei quattro poemi del Ring si accenna a bendaggi o cerotti, ma solo alla tesa del cappello tirata su un occhio). Fedele al testo anche l’approccio del viandante, un passo alla volta, solenne, supportato dagli arcani accordi dell’orchestra.
La tenzone di sapienza fra Wotan e Mime è chiaramente ispirata a Wagner dalla Vafþrúðnismál di Saemund, dove Odin invade la dimora del sapiente, lo sfida a tenzone e lo buggera carognescamente, facendogli una domanda impossibile a rispondersi. Persino alcune parole di Wotan sono quasi copiate dal poema eddico, come ad esempio: “molto viaggiai, molto feci esperienza”. Wagner però ci mostra un Wotan ormai determinato a fare da spettatore e non più da protagonista delle vicende cosmiche, e il suo atteggiamento nei confronti di Mime è un misto di compatimento, bonarietà e addirittura quasi di supporto. Wagner si inventa un sottile processo psicologico, laddove Wotan pone a Mime una domanda assolutamente pertinente e addirittura decisiva per il futuro del nano, una domanda che lo stesso Mime – fosse stato previdente, invece che stupido e presuntuoso - avrebbe dovuto porre lui per primo al Viandante. Tutto ciò per introdurre la critica al modo con cui il Wotan di Padrissa-Uusitalo si comporta nei confronti del nano, un approccio eccessivamente duro e sprezzante.
Interessante ed efficace, durante i racconti che originano dalla tenzone, la descrizione di Nibelheim, dove evidentemente le persone sono trattate come carne da macello: ed infatti si vedono esseri umani, impacchettati a mo’ di quarti di bue, appesi con ganci alla classica rotaia sospesa da sala di macellazione, etichettati ed avviati a spedizione. Quando si parla di Giganti, appaiono due dei semoventi della Fura, che recano Fasolt e... Wotan (anche questo un dettaglio abbastanza gratuito). Come un tantino gratuita è anche l’enfasi posta sul momento in cui Wotan batte la sua lancia a terra: si sente, secondo Wagner, un leggero brontolìo di tuono, sufficiente a spaventare Mime. Padrissa, con la complicità di Mehta, che accentua (da f a ff) le percussioni di timpani e piatti, ci fa tutti sobbalzare con un’esplosione proiettata sullo schermo: qui effettivamente c’è un po’ troppo circo.
Veniamo all’ultima scena, quella del ricondizionamento di Nothung. Prima abbiamo la descrizione della paura, che Mime fa al ragazzo, una fase piuttosto statica, che Padrissa colorisce facendo camminare Siegfried, munito di occhiali da realtà virtuale, su un rullo da palestra. Felice la trovata di far circondare la fornace da comparse che attizzano il fuoco, e poi si occupano della forma in cui verrà colata la spada: se si può far una critica, le dimensioni sono forse troppo ridotte, rispetto alla descrizione wagneriana, che ci parla di una fornace assai grande, in cui Siegfried fa bruciare un albero intero.
Efficaci i movimenti di Siegfried e Mime, il loro alternarsi in primo e secondo piano, con le rispettive opposte esternazioni, fino al momento topico in cui Siegfried brandisce la spada e la cala, invece che sull’incudine... sul tavolo da lavoro del nano, con uno sconquasso generale, ben supportato dal gran fracasso di tutta l’orchestra.
Atto II
Inizia con la scena impercettibilmente schermata da una zanzariera, che serve a proiettarci sopra, a mo’ di ologrammi, prima il cavallo con cui Wotan si avvicina, poi l’anello che ruota tridimensionalmente, infine il drago-serpente, che pare saltare in testa allo spettatore: molto efficace.
Alberich compare aggirandosi su mucchi di corpi che si rotolano a terra, presenze davvero inquietanti (come saranno quelle che appariranno davanti alla caverna di Fafner). Arriva Wotan e c’è lo splendido incontro-scontro fra i due vecchi pretendenti alla guida dell’universo (l’uno che sta ormai rinunciando, e agisce da osservatore, non da esecutore, l’altro che ha assaporato il potere per così poco tempo, da averne ancora una fame incommensurabile). Se posso fare un appunto al regista, qui Wotan assume un atteggiamento troppo cameratesco nei confronti di Alberich: si lascia toccare la lancia, mette una mano sulla spalla al nibelungo, insomma, mi pare dargli eccessiva confidenza, rispetto a quanto prescrive Wagner, che non va al di là di un gli si avvicina tranquillamente. (Se ben ricordo, qualcosa di simile ha fatto a suo tempo Chéreau...)
Kapellmann, con abito scuro, raffinato, mette in mostra tutta la sua esperienza e familiarità col personaggio, che deve avere una personalità di statura altrettanto forte, quanto è moralmente spregevole. Sentiamo qui per la prima volta (e verosimilmente da un megafono) il vocione di Stephen Milling, un Fafner che poi vedremo, da morente, appollaiato su uno dei semoventi della Fura.
Ecco la seconda scena, davvero la scena madre (scusate il gioco di parole) dell’opera. Il regista e lo scenografo hanno qui sempre un gran problema da risolvere: come rendere il poeticissimo contatto di Siegfried con la natura e il suo sognare della madre. Adolphe Appia aveva ragione a sostenere che ciò che è importante qui non è mostrare la foresta (magari scimiottandola con alberi di cartone e foglie di cartavelina) ma esprimere, supportando la musica, le sensazioni che Siegfried prova a contatto con la natura. Non so se la ragione sia questa (andrebbe chiesto a Padrissa) ma qui le luci rivolte verso il soffitto del teatro sono state alzate di intensità, portando l’ambiente quasi ad una mezza-luce, il che ha reso il pubblico stesso parte della scena: personalmente, l’ho trovato un effetto emozionante.
Spettacolare, anche se un poco pacchiano, il librarsi dell’uccellino(one) del bosco sopra la scena, con la brava Chen Reiss impavidamente sorridente. Dopo che Siegfried si è esibito con il suo stridulo zufolo e il suo splendido corno (qui però l’esecutore, disposto dietro le quinte, faceva arrivare il suono troppo flebile e da lontano, contrariamente alla ripresa radiofonica, evidentemente fatta con microfono vicino) arriva il drago meccanico della Fura (precisamente con meccanismi della Festo): certamente meno peggio di tanti mostri più o meno oleografici che fanno più ridere (Leo Tolstoj dixit) che tremare. Una volta ferito a morte, il mostro meccanico viene prima affiancato e poi rimpiazzato sulla scena da un semovente con a bordo Fafner-Milling: in effetti ciò ben rappresenta il ritorno del gigante dallo stato di bestia a quello umano, parallelamente alla scomparsa dal suo canto dei tritoni che ne caratterizzavano musicalmente lo spaventevole travestimento.
Dopo il miracolo procuratogli dal sangue del drago, Siegfried comprende finalmente il canto della Chen, sempre sospesa a mezz’aria, che agita lentamente (onde evitare pericolosi squilibri al cavalcone che la regge) le sue alone da tortorona. E si avvia a recuperare Tarnhelm e anello.
Impeccabile la prima parte della terza scena, con i due fratelli nibelunghi a battibeccare da par loro, in quella che i critici di Wagner più corrosivi definiscono come una parodia del modo di discutere degli ebrei. Torna Siegfried, con elmo magico e anellone, e Mime sfoggia i suoi hihihi-hihihi, che rivelano le sue reali intenzioni al ragazzo, sempre più disgustato. Questo colloquio avviene con i due messi a penzoloni sui bilanceri che fanno parte della foresta, e su cui stanno appollaiate anche altre presenze, dotate di una specie di pinna dorsale fatta di alti ed appuntiti pungiglioni. Alla fine Siegfried stende il nano, il cui fratello fa udire la proverbiale sghignazzata sull’inconfondibile ritmo nibelungico: ha-haha/hahaha/ha-haha/hahaha/ha!
Poi la stanchezza di Siegfried, il suo invocare l’uccellino, che gli dà l’ultimo, emozionante consiglio. E la corsa dei due, con Siegfried quasi aggrappato ad un elicottero, verso la bella addormentata.
Atto III
Il preludio è supportato da immagini - a mò di ripresa fatta da un aliante, o da un piccolo aereo che voli fra le gole, a pelo delle creste - di picchi montuosi, con abbondante neve e ghiacciai. Si ripeteranno, queste immagini, al momento per Siegfried di scalare la roccia di Brünnhilde, dove alla neve e a distese di gelide acque si aggiungerà il fuoco. In Wagner non v’è alcuna traccia di neve, mentre troviamo ovviamente il fuoco, che circonda la dormiente. Però, a ben pensarci, questo connubio fra freddo e caldo, fra ghiacciai e fiumi polari e il fuoco non è fuor di luogo, venendo direttamente dalla mitologia nordica; che ci racconta del gelido Hvergelmir, da cui si dipartivano i fiumi Élivágar, che incontrando le fiamme del Múspellheimr diedero la vita ad Ymir, il cosiddetto uomo-brina, progenitore di Odin(Wotan).
Erda, evocata da Wotan con gesti fin eccessivi (batte sul suolo la punta della lancia, mentre Wagner si limita a prevedere un Wotan solennemente appoggiato alla stessa) compare da una fessura fra le quinte di fondo, sospesa a mezz’aria a bordo di un trespolo, e con copricapo egizio. Drammatico il colloquio fra i due, qui davvero senza nulla a disturbare la nostra concentrazione: e così è davvero emozionante il nascere in orchestra del tema dell’eredità del mondo, questa musicale rivoluzione culturale, che letteralmente capovolge, rivoltandolo come un calzino, dal basso verso l’alto, il tema del Patto, ormai ridotto a legge inefficace.
Sparita Erda, arriva Siegfried, con l’uccellino, altissimo ormai, in procinto di allontanarsi definitivamente. E arrivano anche altri personaggi, sotto forma di saltimbanchi della Fura che recano altissimi pungiglioni grigi, quasi delle lance, che ora dispongono dritti, a mo’ di canneto, coprendo Wotan alla vista di Siegfried, ora incrociano come forche caudine, a significare forse la difficoltà del cammino per il giovane e l’imminente disfatta per il nonno...
Difficile spiegare perchè, contrariamente alle indicazioni, la lancia di Wotan infranta dal giovane non cada a terra, ma i due spezzoni rimangano nelle sue mani: forse che, secondo Padrissa, Wotan è meno disposto di quanto non voglia far credere a mollare il potere?
Ed ora veniamo al gran finale. Brünnhilde dormiente arriva sulla scena stesa su un grande pannello circolare, spinto dall’equipe della Fura, sul cui perimetro sono disposte delle torce accese: un effetto molto suggestivo, anche se gratuito, stando alla lettera della partitura. Ma si può perdonare, a differenza invece di un particolare piuttosto comico: sappiamo che Siegfried deve scoprire il sesso della persona dormiente dopo averle tagliato e sfilato l’armatura. Qui, invece dell’armatura, Siegfried rimuove lo scudo che copre Brünnhilde, esplodendo quindi nel grido di meraviglia mista a paura, supportato dalle scale velocissime dei violini (come si capisce che questa musica viene dopo Tristan!) L’aspetto comico sta nel fatto che lo scudo è di plexiglas trasparente, per cui tutti - meno che Siegfried, evidentemente - avevano potuto vedere fin da subito, al di sotto, stagliarsi le due gran poppone di Jennifer Wilson (in effetti la brava soprano è un po’ - diciamo - sovrappeso... come del resto si addice ad un personaggio che ha poltrito a letto per dieci anni e più).
Il risveglio avviene ovviamente in piena luce, però... una luce forse troppo uniforme, quasi livida, emanante dalle grandi quinte alle spalle della scena: insomma, forse più adatta agli abbruniti accordi di MIb minore e DOb maggiore del prologo di Götterdämmerung, che a quelli davvero solari di MI minore - Do maggiore che qui si fanno udire.
Giochi di luci anche ad accompagnare il passaggio della Valchiria dall’euforia del risveglio al buio della freudiana paura della perdita della verginità e della sapienza, e poi, dopo la parentesi “starnberghiana”, di nuovo all’esaltazione dell’amore lucente. E della ridente morte, che i due cantano disgiunti, piantati di fronte al pubblico, con il DO finale (qui si sono sentiti già degli applausi, more-italico, assai prima che Mehta guidasse lo schianto conclusivo dell’eredità) a suggellare l’opera.
All-in-all, ne valeva - e come! - la pena.
Il Siegfried di Padrissa e della Fura, diciamolo subito, non è un esempio - nè deteriore, nè brillante - di Regietheater. Tanto per incominciare, è perfettamente fedele alla concezione wagneriana di Zeitlosigkeit. Azione e personaggi vivono in un tempo non determinato, nè ieri, nè oggi, nè domani, poichè debbono rappresentare gli archétipi di ogni personaggio e di ogni manifestazione degli umani sentimenti. La componente tecnologica dell’allestimento è del tutto innocua, rispetto al condizionamento dello spettatore, e la frequente presenza in scena della troupe circense della Fura non è quasi mai invasiva e distraente, ma volta a rappresentare visivamente concetti o fatti che stanno comunque nella partitura. I costumi dei personaggi principali (Wotan, Siegfried e Brünnhilde) sono assolutamente tradizionali, proprio da museo di Bayreuth, con abbondanza di pelli e orpelli; le immagini proiettate sono di contenuto astratto, quando devono far da sottofondo all’espressione di sentimenti, oppure naturalistico, quando devono supportare le pagine - soprattutto orchestrali - in cui Wagner ci descrive appunto la Natura che fa da sfondo ai sentimenti. Insomma, rispetto a tante re-invenzioni gratuite e insensate del mito wagneriano, qui siamo ad un livello di assoluta dignità.
Qualche osservazione sulla regia dei personaggi: ho personalmente trovato poco appropriato l’atteggiamento esteriore fatto assumere a Siegfried e Wotan, troppo ruvido e a volte manesco il primo, troppo severo e altezzoso il secondo: vedremo poi nei dettagli il perchè. Mime è emerso come il personaggio teatralmente più centrato e riuscito, grazie alla regia e sicuramente alle doti di Ulrich Ress. Gli altri si vedono poco o cantano quasi immobili, o imbragati in complicate strutture, ma va bene così.
Sul piano musicale, rispetto a quanto avevo ascoltato per radio giovedi scorso, decisamente migliorato Zakhozhaev e brava, ma non eccezionale, qui come il 20, Jennifer Wilson (di cui avevo colpevolmente taciuto nel sommario precedente, forse freudianamente, non avendomi mandato in visibilio!) Bene gli altri, soprattutto Ress e Kapellmann. L’orchestra compatta e precisa, salvo - ma forse il mio orecchio è stato tradito dalla posizione di ascolto - nell’incipit del preludio al terzo atto. Strana la disposizione degli ottoni: tutti all’estrema destra, con timpani e percussioni, ma tranne i corni, posti all’estrema sinistra, dietro i legni: certo in una buca normale non si può copiare la disposizione di Bayreuth, dove tutti gli ottoni sono nell’ultima fila in basso, con le percussioni. Quanto a Mehta, magari non ha nel sangue quello si chiama il gene wagneriano, ma ha una sensibilità ed un’esperienza che suppliscono ampiamente.
Ora qualche dettaglio in più.
Atto I
Dopo che un filmato, zoomando dall’intero pianeta giù giù fino alla foresta vicino a Neidhöhle ci ha portato sul luogo dell’azione, Mime scende dall’alto, con tutto il suo laboratorio a metà fra l’alchimistico e il cibernetico. Lui stesso sembra un miscuglio di androide (con cavi che gli entrano-escono dalle spalle del suo camice bianco, e diversi elettrodi e chiodi impiantati in testa) e di dottor Coppelius, con occhialetti tondi, alle prese con le sue invenzioni. Sulla guancia destra reca una sigla: GV9 (data la tecnologia usata dalla Fura, potrebbe stare per Gate Valve 9, codice con cui si identificano componenti di circuiti di trasmissione di gas... o dobbiamo chiedere a Padrissa?) e picchia, come prescritto in partitura, il suo tintinnante martelletto, con la mano sinistra (questo non è precisato da Wagner, ma evidentemente Ress è mancino, come si avrà conferma nella terza scena, allorquando, sempre con la sinistra, impugnerà un coltello per affettare sedano e zucchine, destinati alla broda letale). A proposito, complimenti a lui ed anche a Zakhozhaev per saper interpretare perfettamente i rispettivi personaggi anche nella parte strumentistica (Siegfried martellerà personalmente la spada, e sempre ben a tempo). Ress mostra subito di essere un grande attore, oltre che un degnissimo tenore; si muove quasi danzando, con mimica straordinariamente appropriata al personaggio, una vera e propria macchietta. Tre comparse della troupe passano e ripassano con larghe scope, a mo’ di asciugatori di parquet di pallavolo, il che mi rimane incomprensibile, ma diciamo che non distrae più di tanto.
Entra Siegfried, insieme ad un ammasso di corpi umani (i circensi della Fura) che dovrebbe simulare l’orso, ma in realtà pare un equino, con lungo collo e vera coda di cavallo! (mah...) Come ho premesso, il suo atteggiamento verso Mime è forse più duro e carognesco di quanto basterebbe (spezza la spada sulle proprie ginocchia, come fosse un bastoncino, dà un calcione all’arrosto che Mime gli porge, non sorride mai, neanche con sarcasmo) senza per fortuna trascendere eccessivamente.
Toccante la scena del ricordo di Sieglinde, supportato da immagini fotografiche molto poetiche ed assai appropriate.
Arriva ora Wotan: senza benda! Finalmente una regia che non ci propina il solito copri-occhio alla pirata, o alla Moshe Dayan! (inutile precisare che in nessuno dei quattro poemi del Ring si accenna a bendaggi o cerotti, ma solo alla tesa del cappello tirata su un occhio). Fedele al testo anche l’approccio del viandante, un passo alla volta, solenne, supportato dagli arcani accordi dell’orchestra.
La tenzone di sapienza fra Wotan e Mime è chiaramente ispirata a Wagner dalla Vafþrúðnismál di Saemund, dove Odin invade la dimora del sapiente, lo sfida a tenzone e lo buggera carognescamente, facendogli una domanda impossibile a rispondersi. Persino alcune parole di Wotan sono quasi copiate dal poema eddico, come ad esempio: “molto viaggiai, molto feci esperienza”. Wagner però ci mostra un Wotan ormai determinato a fare da spettatore e non più da protagonista delle vicende cosmiche, e il suo atteggiamento nei confronti di Mime è un misto di compatimento, bonarietà e addirittura quasi di supporto. Wagner si inventa un sottile processo psicologico, laddove Wotan pone a Mime una domanda assolutamente pertinente e addirittura decisiva per il futuro del nano, una domanda che lo stesso Mime – fosse stato previdente, invece che stupido e presuntuoso - avrebbe dovuto porre lui per primo al Viandante. Tutto ciò per introdurre la critica al modo con cui il Wotan di Padrissa-Uusitalo si comporta nei confronti del nano, un approccio eccessivamente duro e sprezzante.
Interessante ed efficace, durante i racconti che originano dalla tenzone, la descrizione di Nibelheim, dove evidentemente le persone sono trattate come carne da macello: ed infatti si vedono esseri umani, impacchettati a mo’ di quarti di bue, appesi con ganci alla classica rotaia sospesa da sala di macellazione, etichettati ed avviati a spedizione. Quando si parla di Giganti, appaiono due dei semoventi della Fura, che recano Fasolt e... Wotan (anche questo un dettaglio abbastanza gratuito). Come un tantino gratuita è anche l’enfasi posta sul momento in cui Wotan batte la sua lancia a terra: si sente, secondo Wagner, un leggero brontolìo di tuono, sufficiente a spaventare Mime. Padrissa, con la complicità di Mehta, che accentua (da f a ff) le percussioni di timpani e piatti, ci fa tutti sobbalzare con un’esplosione proiettata sullo schermo: qui effettivamente c’è un po’ troppo circo.
Veniamo all’ultima scena, quella del ricondizionamento di Nothung. Prima abbiamo la descrizione della paura, che Mime fa al ragazzo, una fase piuttosto statica, che Padrissa colorisce facendo camminare Siegfried, munito di occhiali da realtà virtuale, su un rullo da palestra. Felice la trovata di far circondare la fornace da comparse che attizzano il fuoco, e poi si occupano della forma in cui verrà colata la spada: se si può far una critica, le dimensioni sono forse troppo ridotte, rispetto alla descrizione wagneriana, che ci parla di una fornace assai grande, in cui Siegfried fa bruciare un albero intero.
Efficaci i movimenti di Siegfried e Mime, il loro alternarsi in primo e secondo piano, con le rispettive opposte esternazioni, fino al momento topico in cui Siegfried brandisce la spada e la cala, invece che sull’incudine... sul tavolo da lavoro del nano, con uno sconquasso generale, ben supportato dal gran fracasso di tutta l’orchestra.
Atto II
Inizia con la scena impercettibilmente schermata da una zanzariera, che serve a proiettarci sopra, a mo’ di ologrammi, prima il cavallo con cui Wotan si avvicina, poi l’anello che ruota tridimensionalmente, infine il drago-serpente, che pare saltare in testa allo spettatore: molto efficace.
Alberich compare aggirandosi su mucchi di corpi che si rotolano a terra, presenze davvero inquietanti (come saranno quelle che appariranno davanti alla caverna di Fafner). Arriva Wotan e c’è lo splendido incontro-scontro fra i due vecchi pretendenti alla guida dell’universo (l’uno che sta ormai rinunciando, e agisce da osservatore, non da esecutore, l’altro che ha assaporato il potere per così poco tempo, da averne ancora una fame incommensurabile). Se posso fare un appunto al regista, qui Wotan assume un atteggiamento troppo cameratesco nei confronti di Alberich: si lascia toccare la lancia, mette una mano sulla spalla al nibelungo, insomma, mi pare dargli eccessiva confidenza, rispetto a quanto prescrive Wagner, che non va al di là di un gli si avvicina tranquillamente. (Se ben ricordo, qualcosa di simile ha fatto a suo tempo Chéreau...)
Kapellmann, con abito scuro, raffinato, mette in mostra tutta la sua esperienza e familiarità col personaggio, che deve avere una personalità di statura altrettanto forte, quanto è moralmente spregevole. Sentiamo qui per la prima volta (e verosimilmente da un megafono) il vocione di Stephen Milling, un Fafner che poi vedremo, da morente, appollaiato su uno dei semoventi della Fura.
Ecco la seconda scena, davvero la scena madre (scusate il gioco di parole) dell’opera. Il regista e lo scenografo hanno qui sempre un gran problema da risolvere: come rendere il poeticissimo contatto di Siegfried con la natura e il suo sognare della madre. Adolphe Appia aveva ragione a sostenere che ciò che è importante qui non è mostrare la foresta (magari scimiottandola con alberi di cartone e foglie di cartavelina) ma esprimere, supportando la musica, le sensazioni che Siegfried prova a contatto con la natura. Non so se la ragione sia questa (andrebbe chiesto a Padrissa) ma qui le luci rivolte verso il soffitto del teatro sono state alzate di intensità, portando l’ambiente quasi ad una mezza-luce, il che ha reso il pubblico stesso parte della scena: personalmente, l’ho trovato un effetto emozionante.
Spettacolare, anche se un poco pacchiano, il librarsi dell’uccellino(one) del bosco sopra la scena, con la brava Chen Reiss impavidamente sorridente. Dopo che Siegfried si è esibito con il suo stridulo zufolo e il suo splendido corno (qui però l’esecutore, disposto dietro le quinte, faceva arrivare il suono troppo flebile e da lontano, contrariamente alla ripresa radiofonica, evidentemente fatta con microfono vicino) arriva il drago meccanico della Fura (precisamente con meccanismi della Festo): certamente meno peggio di tanti mostri più o meno oleografici che fanno più ridere (Leo Tolstoj dixit) che tremare. Una volta ferito a morte, il mostro meccanico viene prima affiancato e poi rimpiazzato sulla scena da un semovente con a bordo Fafner-Milling: in effetti ciò ben rappresenta il ritorno del gigante dallo stato di bestia a quello umano, parallelamente alla scomparsa dal suo canto dei tritoni che ne caratterizzavano musicalmente lo spaventevole travestimento.
Dopo il miracolo procuratogli dal sangue del drago, Siegfried comprende finalmente il canto della Chen, sempre sospesa a mezz’aria, che agita lentamente (onde evitare pericolosi squilibri al cavalcone che la regge) le sue alone da tortorona. E si avvia a recuperare Tarnhelm e anello.
Impeccabile la prima parte della terza scena, con i due fratelli nibelunghi a battibeccare da par loro, in quella che i critici di Wagner più corrosivi definiscono come una parodia del modo di discutere degli ebrei. Torna Siegfried, con elmo magico e anellone, e Mime sfoggia i suoi hihihi-hihihi, che rivelano le sue reali intenzioni al ragazzo, sempre più disgustato. Questo colloquio avviene con i due messi a penzoloni sui bilanceri che fanno parte della foresta, e su cui stanno appollaiate anche altre presenze, dotate di una specie di pinna dorsale fatta di alti ed appuntiti pungiglioni. Alla fine Siegfried stende il nano, il cui fratello fa udire la proverbiale sghignazzata sull’inconfondibile ritmo nibelungico: ha-haha/hahaha/ha-haha/hahaha/ha!
Poi la stanchezza di Siegfried, il suo invocare l’uccellino, che gli dà l’ultimo, emozionante consiglio. E la corsa dei due, con Siegfried quasi aggrappato ad un elicottero, verso la bella addormentata.
Atto III
Il preludio è supportato da immagini - a mò di ripresa fatta da un aliante, o da un piccolo aereo che voli fra le gole, a pelo delle creste - di picchi montuosi, con abbondante neve e ghiacciai. Si ripeteranno, queste immagini, al momento per Siegfried di scalare la roccia di Brünnhilde, dove alla neve e a distese di gelide acque si aggiungerà il fuoco. In Wagner non v’è alcuna traccia di neve, mentre troviamo ovviamente il fuoco, che circonda la dormiente. Però, a ben pensarci, questo connubio fra freddo e caldo, fra ghiacciai e fiumi polari e il fuoco non è fuor di luogo, venendo direttamente dalla mitologia nordica; che ci racconta del gelido Hvergelmir, da cui si dipartivano i fiumi Élivágar, che incontrando le fiamme del Múspellheimr diedero la vita ad Ymir, il cosiddetto uomo-brina, progenitore di Odin(Wotan).
Erda, evocata da Wotan con gesti fin eccessivi (batte sul suolo la punta della lancia, mentre Wagner si limita a prevedere un Wotan solennemente appoggiato alla stessa) compare da una fessura fra le quinte di fondo, sospesa a mezz’aria a bordo di un trespolo, e con copricapo egizio. Drammatico il colloquio fra i due, qui davvero senza nulla a disturbare la nostra concentrazione: e così è davvero emozionante il nascere in orchestra del tema dell’eredità del mondo, questa musicale rivoluzione culturale, che letteralmente capovolge, rivoltandolo come un calzino, dal basso verso l’alto, il tema del Patto, ormai ridotto a legge inefficace.
Sparita Erda, arriva Siegfried, con l’uccellino, altissimo ormai, in procinto di allontanarsi definitivamente. E arrivano anche altri personaggi, sotto forma di saltimbanchi della Fura che recano altissimi pungiglioni grigi, quasi delle lance, che ora dispongono dritti, a mo’ di canneto, coprendo Wotan alla vista di Siegfried, ora incrociano come forche caudine, a significare forse la difficoltà del cammino per il giovane e l’imminente disfatta per il nonno...
Difficile spiegare perchè, contrariamente alle indicazioni, la lancia di Wotan infranta dal giovane non cada a terra, ma i due spezzoni rimangano nelle sue mani: forse che, secondo Padrissa, Wotan è meno disposto di quanto non voglia far credere a mollare il potere?
Ed ora veniamo al gran finale. Brünnhilde dormiente arriva sulla scena stesa su un grande pannello circolare, spinto dall’equipe della Fura, sul cui perimetro sono disposte delle torce accese: un effetto molto suggestivo, anche se gratuito, stando alla lettera della partitura. Ma si può perdonare, a differenza invece di un particolare piuttosto comico: sappiamo che Siegfried deve scoprire il sesso della persona dormiente dopo averle tagliato e sfilato l’armatura. Qui, invece dell’armatura, Siegfried rimuove lo scudo che copre Brünnhilde, esplodendo quindi nel grido di meraviglia mista a paura, supportato dalle scale velocissime dei violini (come si capisce che questa musica viene dopo Tristan!) L’aspetto comico sta nel fatto che lo scudo è di plexiglas trasparente, per cui tutti - meno che Siegfried, evidentemente - avevano potuto vedere fin da subito, al di sotto, stagliarsi le due gran poppone di Jennifer Wilson (in effetti la brava soprano è un po’ - diciamo - sovrappeso... come del resto si addice ad un personaggio che ha poltrito a letto per dieci anni e più).
Il risveglio avviene ovviamente in piena luce, però... una luce forse troppo uniforme, quasi livida, emanante dalle grandi quinte alle spalle della scena: insomma, forse più adatta agli abbruniti accordi di MIb minore e DOb maggiore del prologo di Götterdämmerung, che a quelli davvero solari di MI minore - Do maggiore che qui si fanno udire.
Giochi di luci anche ad accompagnare il passaggio della Valchiria dall’euforia del risveglio al buio della freudiana paura della perdita della verginità e della sapienza, e poi, dopo la parentesi “starnberghiana”, di nuovo all’esaltazione dell’amore lucente. E della ridente morte, che i due cantano disgiunti, piantati di fronte al pubblico, con il DO finale (qui si sono sentiti già degli applausi, more-italico, assai prima che Mehta guidasse lo schianto conclusivo dell’eredità) a suggellare l’opera.
All-in-all, ne valeva - e come! - la pena.
2 commenti:
Sabato c'ero anch'io, ho scritto le mie impressioni.
Non so se Dohmen (che ha salvato la patria) sia stato più morbido di Uusitalo perché non ho termine di paragone: sicuramente non ho avuto la tua sensazione, quindi al di là della sensibilità personale, forse Dohmen ha imposto un Wotan più soft.
Ciao, il tuo articolo è bellissimo e l'ho letto in preparazione della mia recita.
Bravo e grazie.
@amfortas
Grazie a te per i complimenti. Sui particolari, le impressioni di ciascuno contano solo a mò di cronaca, soprattutto se poi un interprete cambia da una recita all’altra.
Vedo - dal tuo resoconto - che invece siamo sostanzialmente daccordo nel giudizio complessivamente positivo.
Speriamo proprio che i tagli non lascino questo Ring senza... testa!
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