affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

23 ottobre, 2009

Stagione dell’OrchestraVerdi - 5


Davvero robustissimo il programma del quinto concerto della stagione, diretto da Helmuth Rilling (campione del barocco passato per l’occasione al romantico, che con laVerdi ha ormai lunga consuetudine, e ne è uno dei Direttori ospiti principali). Tre opere che nulla hanno in comune se non le travagliate o complicate vicissitudini legate alla loro nascita.

Qualche vuoto più del solito in Auditorium: a causa dei primi rigori autunnali, o più probabilmente per la forte concorrenza del concomitante concerto in Scala, col duo Chung-Pogorelich impegnato in un programmone russo tardo-romantico.

Si comincia con Schubert e con le musiche di scena per Rosamunde (D797). Un’opera davvero disgraziata (nel senso di caduta in disgrazia) che non superò le due rappresentazioni a dicembre 1823. Colpa, a dir di tutti, del soggetto scritto dalla presuntuosa Wilhelmina Christiane von Chézy, che già aveva buggerato il povero Weber con la farraginosa Euryanthe. Avendo avuto sì e no un mese di tempo per comporre la musica, Schubert ricorse ai soliti mezzucci, tipo scopiazzature di altre sue musiche, fino all’uso, pari-pari, proprio à la Rossini, di un’Ouverture scritta per un’opera precedente (Alfonso&Estrella). Non contento, cambiò poi idea, facendo pubblicare col titolo “Ouverture a Rosamunde” nient’altro che la musica (D644) che apriva Die Zauberharfe, in DO maggiore, che è poi divenuta famosa per la sua brillantezza e ricchezza di temi orecchiabilissimi. Oggi di Rosamunde restano 10 numeri (ouverture esclusa) che prevedono anche l’intervento di coro e contralto (una recente esecuzione è quella di Abbado con i Berliner alla Philharmonie).

Per solito si eseguono però diverse spurie suites: in pratica ciascun Direttore assembla qualche numero secondo la propria sensibilità, e secondo il ruolo che intende riservare a questo titolo nello specifico concerto, o all’interno di una registrazione. Rilling ha proposto un estratto di circa 10’: il Balletti dell’Atto II (Allegro Moderato in SI minore, RE maggiore, SI maggiore e poi Andante in SOL maggiore). La prima sezione è ad orchestra piena; la seconda, presa da Rilling quasi come un allegro, ad organico ridotto (mancano trombe, tromboni e timpani, e gli strumentini la fanno da padroni). Rilling ha poi ripetuto parte dell’Allegro moderato, chiudendo sul SI maggiore. Insomma, un gustoso aperitivo, come nella più classica tradizione dei programmi concertistici; uno di quei pezzi che incontrano naturalmente il gusto e il favore del pubblico, che a dirigere siano (non me ne vogliano!) Rilling o Abbado o …Toscanini.

Poi è la volta del tanto bistrattato quanto famoso Concerto doppio opus 102 di Brahms, con la figliola del Direttore (e fan di Roberto Benigni, come si apprende dal suo profilo su Facebook) Rahel, al violino e Dávid Adorján al violoncello. Bistrattato poiché – anche per colpa di Brahms – è da molti considerato con sospetto, un’opera mal riuscita, né carne né pesce, una quinta sinfonia abortita, un vorrei-non-posso partorito quasi di malavoglia e più che altro per compiacere due solisti (Hausmann e Joachim). La più deludente critica al concerto arrivò da tale Clara Schumann… figuriamoci! Sul tubo si può trovare una ormai storica esecuzione del trio russo Oistrakh-Rostropovich-Kondrashin (Allegro-a, Allegro-b, Andante, Finale) oltre ad una più recente (2004) dei simpatici bolivariani diretti da un impettito Gustavo con capelli corti, pizzetto ed occhiali (Allegro-a, Allegro-b, Andante, Finale).

I due solisti non sono chiamati a virtuosismi impossibili, ma debbono quasi amabilmente dialogare come fossero due gentlemen al club, solo di tanto in tanto risvegliati e interrotti da qualche sussulto dell’orchestra: una specie di quadretto domestico, che musicalmente ben rappresenta lo status di Brahms verso la fine degli anni ’80, al momento per lui di tirare i remi in barca e dedicarsi esclusivamente a composizioni cameristiche. E Rilling ha se possibile ulteriormente accentuato i tratti cameristici del pezzo, deludendo forse le aspettative di chi si aspetta da un concerto per solisti e orchestra una più accesa dialettica.

Fra le due parti, quella del violoncello è probabilmente la più impegnativa ed appariscente, e così e stato anche ieri sera, con Dávid Adorján in bella mostra. La Rilling direi senza infamia nè lode, ha fatto accuratamente il suo compitino. Applausi non proprio trionfali, da parte di un pubblico forse un pochino narcotizzato…

Infine, il clou della serata, la Grande di Schubert. A parte la singolarità di una sinfonia che ha tutti e quattro i movimenti privi di accidenti in chiave, DO maggiore e LA minore (il che fa pensare istintivamente ad una stomachevole mappazza del famoso cacao-meravigliao) ogni sua esecuzione solleva immancabilmente la curiosità e la conseguente domanda: ma sono stati eseguiti tutti i da-capo (le ripetizioni che motivarono la famosa definizione di Schumann di divina lunghezza)? Normalmente (su Youtube si trova ad esempio una ripresa live di Böhm del ‘73 con i Wiener - qui le parti 1a, 1b, 2a, 2b, 3a, 3b, 4a, 4b) il Direttore omette 4 ritornelli: quello dell’esposizione dell’Allegro non troppo iniziale, due dello Scherzo (seconda sezione prima del Trio e seconda sezione del Trio medesimo) e quello – interminabile – del Finale. Tanto per dare un’idea, rispetto alla durata dell’esecuzione citata di Böhm, circa 50’30” (ho un vecchio vinile di Sawallisch con i Symphoniker, che dura un minuto in più…) si tratta di circa 11 minuti di musica che, se eseguiti in toto, porterebbero la durata oltre l’ora, in piena zona-Mahler!

Per l’interpretazione di Rilling la locandina dell’Auditorium reca l’indicazione di circa 55’, che si potrebbe interpretare in vari modi: durata al lordo delle pause fra i movimenti (quindi verosimilmente senza ritornelli) o durata netta, che porterebbe a supporre che il Direttore esegua un paio dei da-capo, o come minimo quello del finale. Poi sul programma di sala, sempre assai ben curato e firmato per questa sezione da Gabriella Mazzola Nangeroni, leggiamo di una durata di 50’ circa, il che sembrerebbe non lasciar dubbi sui tagli divenuti ormai consueti. Invece Rilling sorprende tutti ed esegue per intero i ritornelli, raggiungendo un mirabile equilibrio di durate dei 4 movimenti: 16’-14’-14’-16’ per un totale di un’ora esatta! Certo questo dato matematico non basterebbe a promuovere col massimo dei voti un’esecuzione.

In realtà qualche imprecisione o manchevolezza si è notata (ad esempio i tromboni troppo invadenti nel Finale, archi non sempre compatti, un Andante preso con eccessiva velocità…) però il gran pregio dell’esecuzione è di non essere stata per nulla pesante, menchemeno stomachevole. Lunga, ma gradevole, se non proprio divina. Al termine applausi scroscianti, che ancora perduravano quando il Konzertmeister Luca Santaniello ha dato il rompete le righe ai colleghi, visto che erano quasi le 11 di sera!

E già incombe, fra sette giorni, altro grande appuntamento: Requiem di Verdi.
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17 ottobre, 2009

Ricostruire L’Aquila

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Bene dare la casa a chi l’ha perduta (qualcosa di buono fa anche Berlusconi, come del resto tutti i tiranni o aspiranti tali, da che mondo è mondo…) Ma non dobbiamo dimenticare altre strutture che sono altrettanto importanti per la comunità: una di queste è il Teatro Comunale de L’Aquila, gravemente danneggiato dal recente terremoto.

Nell’ambito delle iniziative di sostegno al restauro del Teatro, La Scala ha ospitato ieri sera l’Orchestra Sinfonica Abruzzese diretta da Giancarlo De Lorenzo per un interessante concerto.

Il tutto con l’adesione del Presidente della Repubblica (un pericoloso comunista, stando ad alcuni) di cui è stato letto un messaggio di saluto in apertura di serata. Nel palco reale personalità varie fra cui ho riconosciuto (perché mi è assai simpatica) la minuscola Presidente della Provincia de L’Aquila, Stefania Pezzopane.

Lodevole anche l’omaggio che l’Orchestra della Scala ha fatto a quella abruzzese, prestandole i quattro solisti del primo brano in programma, la Sinfonia concertante K297b (qualcuno mette in dubbio la paternità del lavoro, ma se questo non è Mozart, allora significa che ai suoi tempi un suo perfetto clone si aggirava per Salzburg!): Fabrizio Meloni, Fabien Thouand, Danilo Stagni, Valentino Zucchiatti, tutti prime parti della Scala. La concertante è un gioiellino, dove i quattro fiati hanno modo di mettersi in mostra, singolarmente, a coppie, trii e insieme. E l’esecuzione è stata invero eccellente. Bravi i solisti, ma bravi anche i professori abruzzesi guidati da De Lorenzo!

Dopo la pausa, la Quinta Sinfonia di Franz Schubert. L’orchestra poco più che cameristica – in tutto l’organico è di 40 esecutori, ieri sera erano ancor meno – ben si confaceva alle caratteristiche di questa deliziosa creatura schubertiana. De Lorenzo ha sempre tenuto tempi vivaci, ha fatto il ritornello dell’esposizione del primo movimento, risparmiandoci invece quello del finale, ma con piena giustificazione (le lungaggini, per quanto celestiali, non si addicono a questo autentico cammeo…) Un esito assolutamente di rilievo.

Da ultimo il Concerto per Clarinetto di Aaron Copland (scritto nel 1948 su commissione del famoso Benny Goodman) che è stato interpretato ancora da Fabrizio Meloni. Il quale lo suona con bocca e dita – normale! – ma anche con tutto il resto del corpo, dimenandosi con swing appropriato al pezzo jazz-americano, alzando a volte la gamba sinistra e riappoggiando il piede con perfetto ritmo, cosa degna di chi suona nelle migliori band. L’orchestra – soli archi, piano e arpa – lo asseconda benissimo e così il trionfo è assicurato. Meloni fa anche lui un discorsetto di circostanza, prima di concedere, con l’orchestra, un bis: l’Andantino dal concerto di Jean Françaix (con aggiunta, a mò di cadenza, del primo svolazzo dell’Allegrissimo conclusivo) da lui già inciso per Amadeus insieme al concerto di Copland e a quello di Nielsen (su un CD lodevolmente accluso al programma di sala).

L’unica nota stonata della sera è venuta dal pubblico: non quello in sala, calorosissimo, ma quello che ha lasciato desolatamente vuoti interi palchi (specialmente del III e IV ordine). Per fortuna almeno platea e loggione (o ciò che ne rimane per ora) erano praticamente al completo.
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15 ottobre, 2009

La Traviata al regio-TO

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Ascoltata per radio, la prima di ieri sera non ha – per me – deluso le aspettative.

(Certo un livello complessivo di un gradino sopra a quello della Traviata del Maggio, forse fatta troppo in… economia!)

Qui una recensione di Amfortas dell’ascolto radiofonico che mi sento di condividere largamente.
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13 ottobre, 2009

Gianandrea Noseda inaugura il Regio-TO con Traviata

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Mercoledi 14 ottobre il Regio di Torino apre la stagione con Traviata. Sul podio il suo Direttore Musicale, Gianandrea Noseda.

Da suo concittadino, mi piace riportare qui una pagina di uno dei periodici locali, La Gazzetta del Nord Milano di Sesto San Giovanni, in cui si ricorda come il Direttore abbia salito i gradini della fama internazionale grazie all’educazione musicale impartitagli da papà Tarcisio e dalla Scuola Donizetti di Sesto. (click sull'immagine per ingrandirla)

09 ottobre, 2009

Stagione dell’OrchestraVerdi - 4

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Il quarto concerto della stagione ha un programma di opere di compositori nordico-orientali, ma profondamente legati alla tradizione occidentale.

Si comincia con la ventenne Francesca Dego (oltre che brava è pure una gran bella ragazza, lunghe chiome bionde, fisico da modella, ieri fasciata di porpora…) a interpretare Sibelius e il suo concerto per violino. Che dal punto di vista formale, almeno a prima vista, sembrerebbe rispettare la struttura classica dei concerti ottocenteschi. Ma in realtà si era all’inizio del ‘900, con Mahler che mescolava sinfonia e opera, stirava fino all’estremo la tonalità, con Schönberg che la tonalità si preparava ad abbandonarla del tutto, con Strauss che irrideva le forme canoniche per sfogare la sua fantasia con i poemi sinfonici. Insomma, scrivere un concerto dai tratti spiccatamente ottocenteschi forse sembrò a Sibelius un pochino disonorevole e démodé. Però, non avendo l’inventiva di Mahler, né la fantasia di Strauss, né la temerarietà di Schönberg, trovò un modo bizzarro per fare qualcosa di innovativo: stravolgere, sul piano formale e tonale, i sacri canoni della forma-sonata nel suo primo movimento.

E così al primo tema, nella tonalità di impianto (RE minore) ne seguono due in tonalità totalmente aliene (SIb e REb). Qui Sibelius, dopo che il violino ha richiamato il primo tema in SOL minore, infila la cadenza solista che di fatto costituisce lo sviluppo, chiudendo proprio in SOL minore. Tonalità da cui muove il primo tema nella ricapitolazione, che deve poi faticosamente raggiungere il RE minore canonico. Insomma, quasi una fantasia, si potrebbe dire. Qui la Dego se la cava davvero egregiamente, anche dal punto di vista strettamente virtuosistico, con tutti quei passaggi (ottave e seste) in corda doppia (alcuni anche in tripla) di cui la partitura è ricolma. Il suo violino ha una voce calda, che ben si adatta a questo concerto. Marshall tiene al guinzaglio l’orchestra, lasciando sempre la voce solista in primo piano, limitandosi a scatenare tutti - ottoni in primis - nel fff della transizione orchestrale in SI maggiore.

Nel secondo movimento, adagio di molto in SIb, Sibelius torna al più profondo ‘800, con abbondanti manciate di Bruch, che il suo primo e strafamoso concerto l’aveva scritto quando Sibelius aveva sì e no tre anni. Ci fa capolino anche Wagner (una reminiscenza dall’incipit del secondo atto di Walküre, in una battuta del violino, al n°3 della partitura). E la solista asseconda in pieno questo ritorno al passato, con un’interpretazione leggera e cantabilissima. Anche qui, come in tutto il concerto, non mancano difficoltà virtuosistiche, quale la doppia melodia che il violino deve suonare nella sezione in minore, che Francesca restituisce proprio con tutto il possibile romanticismo.

Nel finale allegro (RE maggiore, con divagazioni a SOL minore e RE minore) la Dego tiene – mi pare - un tempo nella fascia inferiore del metronomo prescritto (108-116 semiminime) il che forse non restituisce tutta la grinta di questo pezzo: la stessa chiusa non è così tagliente come ci si aspetterebbe dal tutto crescendo possibile. Rimarchevole comunque la sua prestazione virtuosistica (anche qui la partitura comporta passaggi in corda tripla e, nella sezione in RE minore, armonici artificiali).

Alla fine, grande e strameritato trionfo per questa giovane realtà italiana del violinismo internazionale, che ha generosamente concesso due bis (Ysaÿe e Bach).

Wayne Marshall ha assemblato una sua personale suite – con numeri presi dalle tre pubblicate - del Romeo e Giulietta di Prokofiev. Una musica di altissimo contenuto, questa, certo fra le più interessanti scritte nel ‘900, oltretutto in uno scenario per Prokofiev non proprio gratificante, a Parigi prima, a Mosca poi. E anche musica difficile: certo chi non la conosce e pensa ai balletti di Ciajkovski o di Delibes può rimanere perplesso (cosa che successe proprio ai primi corpi di ballo che furono chiamati a danzare su queste note…)

Grande prestazione dell’Orchestra, sia nei fracassi (incipit dei Capuleti e Montecchi, in apertura, e chiusa del Tebaldo, alla fine) che – e direi soprattutto - nei delicatissimi passaggi riservati ai due giovani amanti, dove strumentini e arpa, con la celesta, la fanno da padroni. Convinti applausi per professori e direttore.

Dopo la Svizzera, adesso inizia un altro tour dell’intero baraccone, stavolta in Italia, da Torino a Mantova, Mestre, Roma per finire, significativamente, il 18 a L’Aquila. Guarda caso, il 16 l’Orchestra Sinfonica Abruzzese sarà ospite della Scala: una specie di staffetta L’Aquila-Milano nel segno della solidarietà e della grande musica. All’Auditorium si torna il 22 con un programma colmo di lungaggini.
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06 ottobre, 2009

Il Culto della Personalità in musica

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Da qualche tempo circola una filastrocca (gli autori mi perdoneranno se non la chiamo inno, o epicinio, o panegirico, o lauda, o magnificat…) sul nostro piccolo-timoniere-con-alti-tacchi, cui in realtà il Nobel per la Pace andrebbe comunque stretto, dati i suoi planetari meriti in almeno altri 15-20 campi delle umane arti, discipline e occupazioni.

Come al solito, nulla di nuovo sotto il sole.
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Nel 1935, un serissimo testo di Teoria e Pratica per l’Insegnamento della Musica e del Canto Corale ad uso degli Istituti Magistrali, delle Scuole di Avviamento, Scuole Medie, Istituti di Educazione e Scuole Corali conteneva la seguente pagina:
























La Mariastella è avvertita… e se avesse problemi per chi mettere al posto del Re e del Papa, può benissimo pubblicare tre foto di una stessa persona: con berretto da ferroviere, con bandana e con distintivo della P2.
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05 ottobre, 2009

Duddy infiamma LosAngeles

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Fino a questa sera (le 11 del mattino sul Pacifico) si può vedere e ascoltare la Nona di Beethoven che Gustavo Dudamel ha diretto per il suo debutto ufficiale a LosAngeles (Hollywood Bowl).
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Forse non da antologia… salvo che per il livello di entusiasmo che Dudamel ha scatenato laggiù. Applausi, anzi urla, fino dal suo ingresso, come per una rock-star.

Il ragazzo ha fatto anche un discorsetto, alla fine, mezzo inglese e mezzo spagnolo: Stiamo uniti per la musica, per Beethoven e facciamolo per questi bambini che sono qui oggi. Un unico continente, niente nord e sud. Sono orgoglioso di essere sud-americano, ma più ancora di essere americano.











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E poi un bis del coro finale con fuochi d’artificio e sparo di mortaretti!

Americanate?
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Meglio tardi che mai

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02 ottobre, 2009

Partito il festival verdiano con il Requiem

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Dopo l’anteprima del 28 settembre a Busseto, si è inaugurato ieri sera a Parma, nella Cattedrale, il Festival Verdi 2009. In programma il Requiem.

Anche qui non sono mancati i contrattempi, primo fra i quali nientemeno che il cambio di Kapellmeister! Poichè Yuri Khatuevich Temirkanov (71 anni, da quest’anno Direttore musicale del Regio, tuttora citato qui) è stato rimpiazzato da Lorin Maazel, vecchio marpione (79 anni!) rotto a tutte le avventure e a tutti i compromessi, quindi buono per tutte le stagioni (e quindi i maligni insinuano… per nessuna?)

Qui una presentazione non burocratica dell’evento.

Recuperato a fatica un ticket in internet, ho raggiunto Parma in un pomeriggio quasi estivo (26 gradi, al termometro del cruscotto…) e ho anche trovato il tempo per un’esplorazione rapida del Battistero, questa gigantesca costruzione a pianta ottagonale all’esterno e esadecagonale all’interno, con le sue pareti esterne che salgono a nascondere la cupola, e con le sue bizzarre simmetrie (finestroni, finestre e lucernari) ed asimmetrie (loggetta interna, spioncino unico, lanterne grandi e piccole sulla sommità…)

Si entra in cattedrale solo dopo le 19:30, io ho un posto non proprio felice (navata laterale, con un paio di robusti pilastri a farmi da schermo a parte degli esecutori) e faccio solo a tempo a dare un’occhiata in giro: orchestra con disposizione moderna (violoncelli avanti) e assenza dell’oficleide di ordinanza, sostituito come ormai consuetudine da un’argenteo contrabbasso-tuba. Le trombe fuori scena stanno appollaiate sul matroneo, verso metà navata, all’altezza del pulpito. I solisti trovano posto davanti, fra le prime file dell’orchestra, invece che fra orchestra e coro, come è usanza: scelta che mi ha lasciato perplesso. Pubblico? Anche Verdi deve proprio essere un dio, se riesce a gremire una Cattedrale più che per Natale e Pasqua. Un religioso in rappresentanza della diocesi dà il benvenuto, dopo un buon quarto d’ora accademico, e verso le 20:20 Lorin Maazel fa partire il MI dei violoncelli.

Sotto voce, poi il più piano possibile, e poi ancora sempre ppp, prescrive Verdi al coro per l’incipit del Requiem, fino al luceat eis. Effetto grande, al tacere dell’orchestra – che ha suonato in pp e ppp - il forte con cui il coro attacca a canone il Te decet hymnus: questo è uno dei momenti toccanti dell’opera, e Verdi ce lo presenta subito, quasi a voler accattivarsi fin dalle prime battute la partecipazione dell’ascoltatore. Cosa che Maazel&Faggiani hanno saputo fare con gran mestiere, diciamo la verità (il maestro ha avuto poche ore per familiarizzare con gli interpreti). Poi i 4 solisti si presentano (in sequenza: tenore, basso, soprano, alto) e devo dire che non è una presentazione molto felice – l’emozione? - salvo che per la Daniela che, oltre che alto, è proprio alta e impone, oltre alla statura fisica, anche bravura ed esperienza. Meno male che, dopo l’avvio stentato, la resa del Kyrie sia di buon livello. Vinogradov ha una voce che nei bassi pare quella di Titurel quando si fa sentire dal suo giaciglio-sarcofago (nella circostanza ci può anche stare… chissà se la colpa è dei suoi armonici che vanno in risonanza con le volte del duomo). La Vassileva sembra più che altro mancare di esperienza, a volte è imprecisa negli attacchi, sembra quasi stonare, ma vedremo che saprà cavarsela almeno nei passi più tecnicamente difficili. Meli direi senza infamia né lode, una prestazione comunque più che sufficiente. Invece è il coro di Faggiani a mostrare da subito grande affiatamento e precisione. Anche l’acustica del locale sembra meno peggio del paventabile (Titurel a parte).

Lo strafamoso Dies Irae (il cui incipit martellante torna tre volte nell’opera, sempre in SOL minore) è prescritto da Verdi con metronomo di 80 minime al minuto: una cosa davvero feroce! Maazel lo fa forse un filino più trattenuto. Davvero travolgenti le 8 quartine di semicrome degli archi, che sprofondano dal SOL sovracuto per ben 4 ottave, in sole due battute! Verdi scrive – quale meticolosità! - le prime 6 di tali quartine con due note legate e due puntate, quasi il respiro strozzato e il tremor di chi fugge a rotta di collo… ma obiettivamente è difficile, a quella velocità, per un orecchio normale cogliere una tal sottigliezza (ed è obiettivamente difficile anche eseguirla al meglio); qui davvero non resta che immaginare

Impressionante poi il Tuba mirum, col suo incipit arcano e le trombette dall’alto in stereofonia. Dove poi le terzine di archi e ottoni e le sestine degli strumentini creano un effetto davvero di finimondo, che copre la voce del basso, non quelle del coro, prima dello spettrale Mors stupebit, che Alex Vinogradov espone sulle figurazioni, proprio da stupore, degli archi e i rintocchi fatali della grancassa. Ancora la Barcellona a far da protagonista (Liber scriptus) con la precisa scansione delle sillabe forte>piano e poi con grande efficacia sui FA# dello Judex e poi del Quid e ancora al culmine dello Judicetur (LAb acuto, che regge al meglio il fortissimo di tutta l’orchestra). Dopo il nuovo Dies irae, l’Adagio religioso in cui le tre voci alte cantano il Quid sum miser, dove tocca alla Vassileva mostrare di avere anche buone qualità, con una salita al SI naturale. E siamo al Rex tremendae introdotto dai maschi del coro, che conduce al Salva me, al culmine del quale la soprano sale benissimo al DO acuto, la prima delle tre difficoltà vocali per lei in questa partitura. Bravissime poi le due soliste nel Recordare, con l’emozionante crescendo della soprano fino al SIb (Ante diem).

Ora tocca a Francesco Meli con l’Ingemisco. Il tenore lo canta col dovuto portamento supplicante, ed esegue sufficientemente bene i due crescendo fino al SIb acuto. Nel passo Inter oves bravissimi oboe e poi flauto e clarinetto, ad accompagnare il tenore. Bravo poi Vinogradov nel Confutatis, dove alterna assai efficacemente, come Verdi ordina, il canto con forza al dolce cantabile. E poi tiene bene i MI cui Verdi lo spinge prima della seconda comparsa del Dies Irae. Il quale prelude al Lacrymosa, aperto in modo esemplare dalla Danielona, cui si aggiungono poi gli altri, magari non sempre esemplari, solisti (toccante però il contrappunto con il basso) e infine il coro, con un impressionante crescendo sonoro fino alla chiusa in SIb minore del parce Deus. Poco dopo, rabbrividente il tremolo degli archi che introduce, modulando dal SIb minore al maggiore, l’Amen, sugli arcani accordi di SOL e SIb che chiudono il N°2.

Nell’Offertorio, lo dico subito, Maazel mi ha pienamente convinto. Già nel tempo che ha staccato, a orecchio e croce assai vicino a quello prescritto dal metronomo di Verdi (Karajan e peggio Abbado – per fare esempi rintracciabili su Youtube - lo eseguono con eccessiva lentezza, dopodiché si possono anche gradire…) Lo aprono magnificamente violoncelli e flauti, ad introdurre mezzosoprano e tenore, cui si aggrega presto il basso (sul Libera). Più avanti c’è l’altra difficoltà per la soprano, il Sed, un legato di 7 misure (andante mosso in 6/8: 5 battute sul MI naturale, dal pianissimo crescendo sempre e portando la voce, e 2 battute in MIb, tornando al ppp) che comporta – stando al metronomo – circa 13 secondi di tenuta. La Vassileva – oltre al tempo spedito di Maazel-Verdi - evidentemente ha un bel serbatoio d’aria incorporato, e riesce a superare l’ostacolo, sfumando benissimo il MIb. Grande effetto fa il Quam olim, un Allegro mosso incastonato fra il precedente andante e l’Adagio dell’Hostias, con i 4 solisti e tutta l’orchestra a chiudere in religioso diminuendo sul SOL.

Nell’Hostias, Meli rispetta alla lettera Verdi (dolcissimo e lente le semicrome) ben seguito poi dagli altri tre. Tutti bravi nel sottovoce parlando del faceas, Domine, de morte transire ad vitam, che significativamente, dal tempo Adagio, ci riporta all’Allegro del Quam olim, stavolta sfociante in quei tre feroci promisisti, che conducono poi alla chiusa, sul primo tempo dell’andante mosso, e all’estremo morendo del clarinetto e poi degli archi.

Potente e impressionante l’attacco del Sanctus. Qui il coro è sdoppiato (Verdi prevede proprio due cori). Il risultato è comunque efficace, il contrappunto ben eseguito. Strepitosi gli svolazzi degli strumentini (ottavino in testa) a punteggiare la gigantesca fuga. Dal Benedictus si aggiungono le crome puntate degli archi in contrappunto e alla fine dell’Hosanna tutta l’orchestra esplode in fortissimo le crome puntate ascendenti e discendenti, creando tre autentiche ondate sonore (la seconda solo forte, di fagotti e archi bassi) fino alla cadenza conclusiva, con i classici e melodrammatici 6 accordi sulla perfetta trìade di FA maggiore. Davvero travolgente!

Senza un solo attimo di respiro Maazel attacca l’Agnus Dei che fa da intermezzo, con le soliste femminili che introducono la forma allargata, rispetto all’iniziale requiem, del Dona, una parola qui cantata su 7 semiminime, contro le 3 dell’incipit dell’opera (tempo pressoché identico): un chiaro segnale di un cammino compiuto, di una speranza di pace che qui si sta facendo certezza. Dopo il coro, ancora le soliste, con l’Agnus in DO minore. Ma il coro ristabilisce il maggiore, imitato ancora dalle soliste, fino alla chiusa, sul definitivo dona del coro, che accompagna il sempiternam delle due voci.

Il Lux Aeterna è totale responsabilità della Daniela, che lo espone sul misterioso tremolo di tutti i violini divisi in 4 parti, con interventi poi delle voci soliste maschili. La nostra se la cava assai dignitosamente, con il supporto eccellente dell’ottavino, che sul Lux perpetua disegna i suoi trilli a quartine molto staccato in modo davvero impeccabile! Ancora bravi gli strumentini, poi gli archi in staccato, a supportare i solisti, prima della cadenza conclusiva, aperta dal toccante arpeggio di flauto e clarinetto.

Il Libera me si apre con il declamato della Vassileva, seguito da quello del coro. Non efficacissimo l’urlo della soprano sul LAb dell’ignem. Drammatico invece il timeo, che chiude in maggiore la sezione di DO minore, quasi un atto di fede nella misericordia divina, a dispetto dell’ira che irrompe ancora, per la terza volta, sempre uguale a se stessa. Ma adesso, dopo il secondo urlo dell’Ignem cambia tutto… l’ira sbolle e si stempera e oboi e corni introducono il Requiem aeternam, e da qui è tutto in mano (anzi… in bocca!) alla Vassileva che lo chiude con un pulitissimo SIb acuto. Al suo nuovo stentoreo Libera rispondono ora i contralti del coro interpretando al meglio la scansione delle sillabe in forte>piano come puntigliosamente scrive Verdi. La fuga che segue, di proporzioni gigantesche, lascia sempre senza fiato, davvero degna di quelle del Requiem brahmsiano.

La Vassileva si cimenta ancora con un altro paio di SI acuti, ben eseguiti. E si arriva all’esplosione del Domine, dove tutti ci mettono tutta la forza possibile. La Svetla fa lo sforzo supremo, salendo al DO acuto sul Libera me, prima dell’epilogo, dove il DO minore sfuma impercettibilmente in maggiore. Gli ultimi Libera me non sono più cantati, ma sussurrati con un fil di voce (pppp!) quasi un rantolo che si può udire solo accostando l’orecchio alla bocca di un moribondo che esala le ultime sue sillabe. La cattedrale è prossima ad un vuoto pneumatico, l’orchestra cerca a sua volta di suonare ppp, ma i fiati specialmente faticano a fare il morendo e a rendere pienamente quella sensazione di suono terreno che sfuma nel silenzio dell’aldilà… Maazel chiude e ottiene almeno 10 secondi di silenzio. Qui ci vorrebbe a dir il vero il minuto di raccoglimento, ma qualcuno non ne può più e così – appena Lorin abbassa le braccia - scoppia l’applauso, che poi diventa ovazione per tutti.

Che dire? Son quelle esperienze che – se non si fanno di persona dal vivo – non si possono importare da CD, DVD, Youtube, Webcast, iPod e consimili. Poiché queste ultime sono – per l’appunto - diavolerie. Quindi, finchè si può, conviene farle ed anche ripeterle, queste esperienze; nel nostro caso: il 29 ottobre (Orchestra e Coro Verdi all’Auditorium, con Zhang) e il 20 novembre (Orchestra e Coro della Scala al Piermarini, con Barenboim).

Fuori la sera è mite, almeno 20 gradi ancora, e rischiarata da una luna ormai prossima al tondo perfetto.
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01 ottobre, 2009

L’Orfeo alla Grande Scala

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Devo premettere che le recensioni, impressioni, critiche lette sui giornali e sul web dopo le prime rappresentazioni mi avevano un pochino fatto dubitare sulla convenienza dell’investimento di ben 72€ per un posto (arretrato) in palco di IV Ordine, fortunosamente recuperato su internet pochi giorni fa (unico, fra altri posti offerti al minimo di 180€). In particolare si criticava l’idea stessa di rappresentare Monteverdi negli immensi spazi (ambiente e scena) del Piermarini, e si rimpiangeva come non mai la fine invereconda fatta fare alla Piccola Scala, struttura ideale per ospitare simili spettacoli.

Orbene, al tirar delle somme, mi sentirei di concludere che l’investimento non sia andato per niente in fumo. Intanto perché bisogna pur prendere ciò che il convento (pardon… la Fondazione) passa; poi perché il livello complessivo della rappresentazione mi è parso francamente più che dignitoso. E infine – e soprattutto - perché assistere a L’Orfeo è come rivedere in un film tutta la meravigliosa storia della nascita dell’Opera musicale, da cui poi si diramarono il melodramma, il belcanto e finalmente gli stessi drammi wagneriani! Storia tutta italiana, che si sviluppa sull’asse Firenze-Mantova-Venezia. La Mantova dei Gonzaga, baricentro di questo asse, che rivaleggia con la Firenze dei Medici, dei Bardi, dei Peri, e anche – non canta forse Lasciate ogni speranza… la Speranza di Monteverdi nell’atto terzo? - di Dante, a sua volta ispirato dal mantovano Virgilio! E la Venezia che ispira Monteverdi attraverso l’opera e la ricerca di Gioseffo Zarlino, di cui Monteverdi stesso occuperà il posto di Maestro di Cappella della Serenissima. Ma anche la Venezia di Tiziano Vecellio, cui appropriatamente Robert Wilson si ispira per una delle scene principali (il viale di cipressi dalla Venere con organista e Cupido).

Confermo che la mega-struttura scaligera poco si addice a rappresentare L’Orfeo, oltretutto se i mezzi (strumentisti e scene) sono, credo volutamente, più o meno gli stessi di cui dispose Monteverdi quel benedetto 24 febbraio del 1607, quando creò per la prima volta il suo capolavoro in una stanzetta (sempre relativamente alle dimensioni del ducale palazzo) dell’appartamento di Margherita Gonzaga.

Sul fronte musicale, Alessandrini ha proprio tenuto a smorzare al massimo, già dall’iniziale toccata, dove i cornetti non hanno certo dato un suono molto squillante, come siamo abituati a sentire. Del resto era giusto che gli strumenti – quasi tutti d’epoca, mi è parso, con necessità di riaccordare l’organetto e rifar la tesatura delle corde di un’arpa nell’intervallo - non andassero a coprire le voci (spesso vocine) che faticavano ad emergere dall’immenso palcoscenico. Voci comunque apprezzabili (Nigl su tutti).

Quanto alla scenografìa, direi un minimalismo proprio da mancanza di mezzi. Filologicamente interessante, come detto, l’idea della scena mutuata dal Tiziano, ma lì sembrava ci fosse un deserto con un filare di cipressi posticci che emergono da una moquette da campo di calcetto. Con tutto quel che è costato rifare il palcoscenico e le relative macchine, non si è nemmeno fatto scendere Apollo dall’alto (curiosamente invece, al suo posto, i cipressi!) Vero che il barocco di Monteverdi non è ancora quello di Händel, ma forse qui si è esagerato nel risparmiare sugli effetti magici (per dire: Caronte non solo non ha una barca, ma nemmeno un giaciglio su cui addormentarsi e così fa il sonnambulo).

Di grande effetto invece la regìa dei personaggi. Tutti si muovono al rallentatore e con eleganti gesti – oltre al cerone bianco delle facce - da mimo (complimenti ai cantanti per la prestazione). Nessun cedimento all’esteriorità e alle reazioni brusche: tutto deve essere interiorizzato. E così, ad esempio, la notizia ferale portata dalla Messaggera ha il solo effetto di far aggrottare un sopracciglio ad Orfeo: perché è la musica (oltre che l’abbassamento delle luci) ad incaricarsi di rappresentarci la catastrofe che colpisce quelle anime. L’unico colpo a sorpresa è un rumore da vaso di cristallo infranto, che si ode al momento tòpico dell’Atto IV, rumore che provoca il fatale sguardo all’indietro di Orfeo. Perfetta la resa della definitiva perdita di Euridice: l’occhio di bue che la seguiva si spegne subitaneamente, e lei rimane nella semi-oscurità, mentre lentamente arretra verso gli inferi. Apprezzabile la scelta del ballerino (ieri Nicola Strada) in veste di uccello, che appare e ricompare con le sue leggiadre movenze. Discutibili invece alcune scelte, come il restare in scena di Orfeo fra il primo e il secondo atto (e quando si sposa, allora?) anche se magari spiegabili con i tempi della partitura. O come - all’inizio dell’Atto conclusivo - il far udire solo le voci dei pastori (che cantano, come l’Eco poco dopo, giù nella buca dell’orchestra) lasciando la scena totalmente spoglia: un solo striminzito cipresso, prima che arrivi – a piedi – Apollo e che i filari calino, al suo posto, dall’alto.

Finale quindi apollineo, come da partitura, e non da 24/02/1607. Nel breve dialogo fra il dio ed il figliolo si intravede persino qualcosa che comparirà quasi tre secoli dopo: l’apparizione di Brünnhilde a Siegmund!

Alla fine calorosi applausi per tutti, nessuno escluso. Quindi, bella serata e grazie a chi ci ha permesso di godere di questo interessante pezzo del nostro patrimonio di cultura, arte e bellezza. Peccato che poi il tutto venga regolarmente snobbato, quando non addirittura disprezzato, dall’attuale (in)civiltà che ci circonda. Un andazzo che i nostri simpatici il gatto e la volpe (Brunetta&Bondi) non paiono proprio intenzionati ad ostacolare, anzi.

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