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da stellantis a stallantis

30 ottobre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 57


Il prezzemolo Campogrande (che rimugina l’Inno ceco infilandoci Dvorak) fa da antipasto (alquanto inappropriato, mi permetto di dire) al Requiem verdiano – ormai diventato uno degli appuntamenti fissi di ogni stagione de laVERDI - che Jader Bignamini torna a dirigere in Auditorium a un anno giusto di distanza.

Come sempre impeccabile l’Orchestra, che ha supportato egregiamente la lettura più sinfonica che melodrammatica (il che personalmente ritengo cosa apprezzabile) di Bignamini. E sempre di alto livello la prestazione del Coro di Erina Gambarini, nelle grandi perorazioni come nei pianissimo al limite dell’udibile.

Così-così i quatto solisti: apprezzabili le due voci femminili, Maria José Montiel in particolare, ma anche Susanna Branchini, che dev’essere arrivata all’ultimo momento per sostituire la titolare Sara Rossi Daldoss. Meno convincenti i maschi: Danilo Formaggia esibisce una voce spesso ingolata, mentre quella di Enrico Iori sopra il DO tende a sbiancarsi.

In ogni caso l’Auditorium (non proprio affollatissimo, devo dire) ha tributato lunghi e meritati applausi a tutta la compagnia.

28 ottobre, 2015

Wozzeck torna alla Scala: 4. È peggio la tosse o la pipì?

 

Atto I, scena IV: Wozzeck arriva dal Doktor, per il quale fa da cavia in cambio di pochi soldi che regolarmente versa a quella… ehm… madre di suo figlio, a nome Marie.

 

Nel (frammentario) originale di Georg Büchner del 1836-7 – che Berg conobbe nella ricostruzione di Karl Emil Franzos, imprecisa persino nel nome, in realtà Woyzeck - uno dei compiti della cavia è riempire una provetta con la sua urina, che il Doktor analizzerà per formulare le sue teorie che dovrebbero (secondo lui) garantirgli il Premio Nobel. Capita però che Woyzeck, invece di tenere la pipì per farla poi nella provetta del Doktor, la faccia contro un muro per strada, osservato dalla finestra dello studio dal medesimo scienziato, che quindi lo rimprovera aspramente:

 

DOKTOR:
Ich hab's gesehn, Woyzeck; er hat auf die Straß gepißt, an die Wand gepißt, wie ein Hund. –
Und doch drei Groschen täglich und die Kost!
Woyzeck, das ist schlecht; die Welt wird schlecht, sehr schlecht!

DOTTORE:

Ho visto, Woyzeck; lei ha pisciato per strada, ha pisciato contro un muro, come un cane. –

E ancora le dò tre soldi ogni giorno più il vitto!
Woyzeck, ciò è male; il mondo diventa cattivo, molto cattivo!

Nello stendere il suo libretto – operazione che comportò la ristrutturazione delle scene e numerosi tagli - Berg cambiò le carte in tavola toilette (!) e mise in bocca al Doktor un rimprovero a prima vista (e anche a...seconda) inverosimile e strampalato:

DOKTOR:
Ich habs gesehn, Wozzeck , Er hat wieder gehustet, auf der Straße gehuset, gebellt wie ein Hund!
Geb’ ich Ihm dafür alle Tage drei Groschen?
Wozzeck! Das ist schlecht! Die Welt ist schlecht, sehr schlecht!
DOTTORE:
Ho visto, Wozzeck, che ha di nuovo tossito, ha tossito nella strada, abbaiando come un cane!
È per questo che le do ogni giorno tre soldi?
Wozzeck! È male questo! Il mondo è cattivo, molto cattivo!

Ed altri riferimenti all’orinare presenti nella scena vennero da Berg sostituiti con il tossire. Gli esegeti si sono ovviamente scervellati per trovare le ragioni di questa bizzarra modifica all’originale (il quale è assolutamente coerente e verosimile, date le circostanze) che Berg apportò per proporci in cambio qualcosa di banale e pochissimo plausibile. Si è ad esempio spiegato che Berg soffriva d’asma e che quindi, identificandosi con il protagonista del suo dramma, lo abbia voluto contagiare con la sua patologia. O che dietro ci fossero contorte ragioni legate all’antisemitismo (ricordiamo che Berg non era ebreo). Mah… 

 

In ogni caso c’è chi non si rassegna, e ripropone (con quanta autorevolezza non saprei dire) la pipì al posto della tosse: lo fece Maderna nel film del 1970 (a 26’19”) poi Carlos Kleiber (qui a 1’02”) quindi anche Claudio Abbado (a Vienna, a 24’34”) oltre alla premiata coppia Chéreau-Barenboim (e magari altri ancora…)  


Perché invece non accettare la spiegazione più ovvia e immediata, che cioè Berg si sia fatto prendere da una specie di pudore (e magari dal timore della censura…) nel presentare nella sua opera - pur zeppa di bassezze materiali e morali - un gesto comunemente considerato osceno e indecente? Certo, oggi le cose sono cambiate e noi, mentre raccogliamo diligentemente (e con le mani) le deiezioni dei nostri cagnolini, assistiamo con fatalistica indifferenza alle pisciate di cristiani (o islamici, fa lo stesso) sui muri delle nostre strade. Ma io ricordo benissimo (dalla mia infanzia) come gli atti di… bio-dumping fossero considerati cose sporche e inconfessabili. Nel profondo sud delle valli bresciane circolava – non molti anni dopo la fine della guerra – una barzelletta che aveva per protagonisti due adolescenti: dopo un vespro domenicale si infrascano in un bosco e lei (le femmine sono sempre più precoci dei maschietti, si sa) di punto in bianco sbotta (cerco di scrivere in dialèt bresà): Giani, fòm le bröte robe? E lui, dopo un attimo di perplessità e di sconcerto, concorda entusiasta: Sé dài, cagòm! 

Evabbè, se proprio la spiegazione legata al pudore (o alla censura) non convince, allora non resta che concludere che neanche l’atonalità consentì a Berg di inventare il Leitmotif della pipì

(4. fine)

27 ottobre, 2015

Wozzeck torna alla Scala: 3. Metodi di analisi tematica


Poche opere come Wozzeck hanno suscitato l’interesse di musicologi ed analisti. A cominciare da Willi Reich, intimo di Berg, che già nel 1927 pubblicò una Guida all’opera. Per finire con i più (relativamente) recenti lavori di Perle, Schmalfeldt, Hall, Morell, Nagel, Jarman e Forte… tanto per citarne alcuni.

Che fra musica e matematica esistano intime connessioni lo aveva già scoperto tale Pitagora e le relazioni fra i suoni sono ormai da secoli rappresentate da numeri, rapporti, frazioni, radici dodicesime di 2 e così via. L’impiego sempre crescente, nella musica occidentale, della scala cromatica (cioè di tutte le 12 note della tastiera) ha portato ad un indebolimento della tonalità, fino al totale rifiuto di essa da parte dalla Seconda Scuola di Vienna (Schönberg, Berg, Webern): si è arrivati quindi alla atonalità e poi alla serialità. La mancanza di centri di gravitazione tonale ha reso assai complicata, oltre che la comprensione da parte del nostro orecchio (abituato da secoli alla tonalità) anche l’analisi musicale delle composizioni. Mentre con la musica tonale i contenuti di temi, motivi, incisi sono in gran parte afferrabili ad orecchio (caso mai si ricorrerà a strumenti e metodi tipo Schenker per sviscerare l’intima struttura del discorso musicale) con l’atonalità l’impresa diventa assai ardua anche per orecchi ad essa allenati.

A proposito di allenamento, la teoria darwiniana di Schönberg secondo cui i pronipotini della gente del suo tempo (cioè noi e i nostri figli) avrebbero tranquillamente canticchiato e fischiettato motivi atonali mi pare proprio – ad un secolo ormai di distanza – aver fatto ampiamente cilecca: insomma, la tonalità sembra proprio dura da estirpare dal nostro DNA.

Lo prova il fatto che per costruire strumenti e metodi di analisi musicale di composizioni atonali si è dovuti ricorrere alla matematica. Uno dei campioni di questa disciplina è stato l’americano Allen Forte (recentemente scomparso) inventore di un metodo di analisi musicale mutuato dalle teorie matematiche sugli insiemi, metodo che consiste nel catalogare successioni elementari di suoni e poi censire quelle presenti in un brano musicale al fine di individuarne eventuali ricorrenze (e quindi relazioni) all’interno del brano medesimo. Insomma, uno strumento para-scientifico che aiuta l’analista nel procurarsi informazioni sulla struttura tematica di un brano o di un’intera opera.  

È chiaro che se si parla di strumenti matematici con i quali effettuare elaborazioni sulle note, allora queste non potranno più essere chiamate DO-RE-MI-FA… né A-B-C-D… ma invece: 0-1-2-3-4-5-6-7-8-9-10-11, dove 0 è la nota base, 1 la nota un semitono sopra… fino a 11, la nota 11 semitoni sopra quella base (esempio: se DO è la nota base, valore 0, allora MI diventa 4, SOL diventa 7 e SI diventa 11).  

Però per semplificarsi la vita ecco che il metodo prevede alcune convenzioni che già fanno arricciare il naso. Ad esempio, la nota che sta un’ottava sopra quella base, che dovrebbe rappresentarsi con 12, invece assume il valore 0 e così via per i successivi valori 13, 14, etc.: insomma tutti gli insiemi di note comprendono solo valori fra 0 e 11, non di più (cioè si opera sempre all’interno di una sola ottava). Quindi il metodo considera equivalenti, ad esempio, l’intervallo di seconda (0-2) e quello di nona (0-14). Ma noi sappiamo – dalla vecchia e cara musica tonale – che un intervallo di nona ha sull’orecchio un effetto straordinariamente diverso da uno di seconda!

Forte ha poi elencato una lista (successivamente ampliata) di 220 insiemi elementari di note a cui ricondurre, attraverso operazioni di riduzione (trasposizione ed inversione) qualunque successione (o accordo) di note: a ciascuno di essi ha associato un attributo di 6 cifre, ciascuna rappresentante il numero di ricorrenze di ciascun intervallo contenuto nell’insieme (intervalli compresi fra 1 e 6 semitoni, dal DO al FA#, che rappresentano anche – per complemento a 12, inversione - i restanti 6 tipi di intervalli presenti nella scala cromatica). Questo attributo viene impiegato per stabilire la somiglianza o la parentela fra insiemi di note, e quindi scoprire relazioni tematiche nel brano analizzato. Bene, osserviamo nella tabella citata le entrate 24 e 25 (denominate 3-11 e 3-11B, dove 3 è il numero di note nell’insieme, seguito dalla sequenza di posizione in tabella): rappresentano rispettivamente la triade minore (DO-MIb-SOL, in numeri: 0-3-7) e quella maggiore (DO-MI-SOL, ossia 0-4-7): ebbene, il vettore degli intervalli (001110) è lo stesso, dato che in entrambe le triadi sono presenti, una sola volta, gli intervalli di 3, di 4 e 5 semitoni (quest’ultimo rappresenta, come si è visto, anche quello di 7 semitoni DO-SOL). Quindi l’analisi musicale che impiega questo metodo porterebbe ad apparentare l’accordo maggiore e il minore (addirittura nella tabella originale di Forte – dove sono inclusi soltanto insiemi che hanno vettori di intervalli diversi - l’entrata 3-11B non è presente) cosa che nella musica tonale sarebbe una bestemmia! Domanda: e perché mai nella musica atonale diventa invece un fatto accettabile? Risposta maliziosa: perché l’anarchia tende ad eliminare le differenze…

A mo’ di esempio ecco come si presenta il famoso tema di Wozzeck Wir arme Leut sul pentagramma e come si arriva alla sua classificazione secondo la teoria degli insiemi di Forte, al fine di individuarne la posizione nella relativa tabella:


Il processo indicato in figura presenta tutti i passi logici elementari descritti da Forte per ricavare l’ordine normale dell’insieme di note. Nella realtà c’è un sistema assai più sintetico ed immediato per arrivare al risultato.

Ecco quindi che d’ora in poi potremmo far riferimento a quel tema con la sigla 4-19 (che è un po’ come raccontare una barzelletta pronunciandone solo il numero di catalogo!)

Va comunque riconosciuta al metodo di Forte la facilitazione indotta dall’impiego di strumenti matematici (quindi anche… computerizzabili) all’individuazione di caratteristiche tematiche principali o derivate (come i sotto-temi, o sotto-insiemi) con maggior velocità ed accuratezza rispetto ai metodi più empirici. Ad esempio Forte ha potuto mettere in luce una certa (labile?) relazione fra il tema succitato di Wozzeck e gli accordi che chiudono i tre atti: i quali (elemento 8-24 della tabella) hanno un vettore di intervalli dove è massima la presenza dell’intervallo di 4 semitoni, proprietà che presenta anche l’elemento 4-19 del tema di Wozzeck.
  
Mentre George Perle, nella sua citata analisi (condotta con metodi tradizionali) ha individuato 20 Leitmotive (le colonne accanto al nome riportano rispettivamente atto-scena – o interludio – dove il tema appare inizialmente e dove viene ripreso)…

N°1: Hauptmann
N°2: “Wir arme Leut!”
N°3: Canzone popolare (Andreas)
N°4: Allucinazioni di Wozzeck
N°5: Fanfara
N°6: Marcia militare
N°7: Marie madre
N°8: Ninnananna
N°9: Vana attesa di Marie
N°10: Entrata e uscita di Wozzeck
N°11: Timori di Marie
N°12: Doktor
N°13: Tambourmajor e Marie
N°14: Seduzione
N°15: Orecchini
N°16: Marie rimprovera il bimbo
N°17: Rimorso
N°18: Il coltello
N°19: Ländler
N°20: Ubriachezza
I-1
I-1
I-2
I-2
I-3
I-3
I-3
I-3
I-3
I-3
I-3
I-4
I-5
I-5
II-1
II-1
II-1
II-3
II-4
II-4
II-2 / III-4-5  
I-1-2 / II-1 / II-5 / III-4-5
III-5
I-3 / II-4
I-3-4 / I-4 / II-3
I-5 / III-2
I-3-4 / I-4 / II-1 / III-2 / III-5
II-1 / II-1-2 / III-2 / III-3 / III-5
I-4 / II-3 / III-2 / III-5
I-4 / II-3 / II-4 / III-1 / III-4-5
I-3-4 / III-2
II-2 / III-4-5
II-3 / II-4 / II-4-5 / II-5 / III-2 / III-3 / III-4 / III-4-5
II-4 / II-4-5 / III-2
II-1-2 / III-2
III-1 / III-5
III-3 / III-4
II-4 / II-5 / III-2 / III-4
II-5 / III-3
II-5

…Janet Schmalfeldt, impiegando la classificazione di Forte per la sua analisi del Wozzeck ha censito decine di insiemi di note (ne compaiono 31 nella sola 5a variazione nella prima scena del terz’atto!) per mostrare poi attraverso le loro relazioni la complessità del rapporto fra Wozzeck e Marie.

A proposito della prima scena del terz’atto lo stesso Forte, in un articolo in cui ne analizza il tema, scova nelle sole battute 7-9 addirittura 12 diversi motivi dal suo catalogo!



Un altro esempio della capacità del metodo di Forte di far emergere relazioni tematiche apparentemente occulte riguarda due motivi di Marie: quello che nella terza scena del primo atto, al passare dei militari guidati dal Tambourmajor, sostiene il canto della donna (Soldaten sind schöne Burschen! con tanto di citazione del mahleriano Revelge) e lo Sprechgesang con cui Marie accoglie Wozzeck all’inizio della scena III dell’atto II (Guten Tag, Franz). A prima vista sembrerebbero non aver nulla in comune, ma l’analisi con il metodo degli insiemi (qui è rappresentato il processo sintetico) rivela invece che hanno la stessa identica origine, l’insieme 4-18.



Acquisito questo dato puramente tecnico, è possibile derivarne delle considerazioni di merito? Per esempio, che inconsciamente Marie continui a pensare al militare che l’ha sedotta, proprio mentre si prepara ad accogliere Wozzeck sapendo di andare incontro ad una scenata di gelosia?

Ma la domanda fondamentale che sorge qui è: Berg era cosciente di tutte queste intricate parentele fra motivi ed ha voluto positivamente sfruttarle, o è il metodo matematico, inventato decenni dopo, che le ha scovate a sua insaputa? (Questa è la principale accusa che i detrattori di Forte, Taruskin in testa, muovono all’impiego del metodo, che potrebbe caso mai servire ad esplorare il comportamento del subconscio del compositore durante l’atto creativo!)   

Resta quindi pacifico che soltanto un adeguato esame del contesto nel quale un tema/motivo è inserito può garantire la plausibilità di relazioni messe in luce da un asettico strumento para-scientifico, onde evitare di trarre conclusioni incoerenti con la (presunta) volontà dell’Autore. Per questo analisi tradizionali (come quella già ricordata di George Perle o quella più recente di Christian Goubault) per me risultano – almeno in prima battuta – più affidabili.

(3. continua)

26 ottobre, 2015

Wozzeck torna alla Scala: 2. Un campionario di forme


Sembra paradossale ma Berg, proprio mentre propugnava (con il maestro Schönberg e il collega Webern) un metodo compositivo che negava ogni diritto di cittadinanza alla tonalità e alle sue regole costituite e consolidatesi in secoli di progresso, decise per il suo Wozzeck di impiegare praticamente tutte le forme che la musica occidentale aveva fatto proprie nel corso di quegli stessi secoli, forme che in buona misura erano legate proprio all’esistenza di centri di gravitazione tonale (basti pensare alla forma-sonata e alle regole che ne definiscono i rapporti di tonalità); ne vedremo l’interminabile lista fra poco. Si noti di passaggio che un approccio analogo terrà Schönberg al momento di codificare il suo metodo dodecafonico, nel quale avranno un ruolo di spicco i trattamenti fiamminghi (la barbarie delle stranezze fiamminghe, come l’aveva definita la Camerata dei Bardi) delle serie musicali. Insomma, a quanto pare l’anarchia allo stato puro non esiste, in musica come in politica!

Interessante la risposta che Berg medesimo (nel suo scritto Il problema dell’Opera) fornisce alla domanda: perché non impiegare sempre il (wagneriano) Durchkomponieren (ossia il seguire la propria ispirazione senza farsi condizionare dalle forme) invece di imbottire la sua opera di Suite, Sinfonie, Passacaglie, Rondò e cose simili (spesso, fra l’altro, di ardua decifrazione anche a tavolino)? Bene, la risposta è di una disarmante ingenuità: perché senza la presenza di quelle forme la sua musica sarebbe apparsa monotona, fino ad annoiare l’ascoltatore!

Ora, le quindici scene rimaste in base a tale selezione e condensazione esigevano una configurazione molto varia, la sola che può garantire l'univocità e l'incisività musicali, e questo vietava la prassi consueta del «musicare da cima a fondo» [durchkomponieren], seguendo semplicemente il contenuto letterario. Una musica assoluta, per quanto ricca nella sua struttura, per quanto appropriata nell'illustrare la vicenda drammatica, non avrebbe potuto impedire che, dopo qualche scena musicata in questa maniera, si avvertisse un senso di monotonia musicale, un senso di sgradevolezza; la serie di una dozzina di interludi - formalmente destinati soltanto a realizzare le conseguenze di una tale scrittura musicalmente illustrativa - non avrebbe fatto altro che acuirlo, portandolo fino alla noia. E la noia è l'ultima cosa da ammettere in teatro!

Mah: chi ha detto che il Durchkomponieren debba per forza annoiare? (O è per caso l’atonalità che rischia di annoiare?) E chi o cosa impedirebbe al compositore di introdurre nel discorso musicale costruito con l’atonalità dei cambi di agogica, di dinamica, di ritmo, di timbro (invece che forme codificate) tali da scongiurare il pericolo di monotonia e conseguente noia? In fin dei conti il terzo atto dell’opera (salvo la prima scena) pur camuffato sotto forma di invenzioni, è praticamente Durchkomponieren, ergo dovrebbe annoiarci? Per di più: Berg fa ampio uso dei wagneriani Leit-Motive, che di per sé dovrebbero orientare l’ascoltatore (però siamo sempre lì: riconoscere al volo un motivo atonale è impresa quasi disperata!) E infine: come si spiega allora la sua convinzione che l’opera si debba e si possa apprezzare anche ignorando la presenza di quelle forme? Insomma, quanto c’è in Wozzeck di stucchevole, accademica quanto ininfluente sovrastruttura? 

In realtà è stato giustamente osservato come l’impiego di forme della tradizione può benissimo essere giustificato dal (mascherato?) intento politico di Berg: denunciare le differenze di classe della società dei suoi tempi e le ingiustizie che ne derivano. Non è un caso che le antiche (e antiquate?) forme musicali siano appiccicate ai rappresentanti dell’establishment retrivo, conservatore e sfruttatore (Hauptmann, Doktor e Tambourmajor) mentre ne è del tutto sprovvisto il proletariato povero e sfruttato (Wozzeck, Marie). La Suite che supporta le prediche del Capitano nella prima scena dell’opera sembra appropriata ad evocare – con i suoi diversi numeri del tutto scollegati fra loro – il contenuto strampalato e insensato, oltre che reazionario, di tali prediche. Wozzeck invece alla fine canta un’aria, forma tipica della musica popolare! Gli sproloqui del Dottore sono accompagnati dalla Passacaglia, che esplode in tutta la sua retorica nell’ultima variazione, sulla vanagloriosa prefigurazione dell’immortalità (o di un Premio Nobel?) ormai a portata di mano. Quanto al Militare, la forma del Rondo ben si attaglia ad evocarne l’attitudine alla disciplina e al comando. Insomma, è più che plausibile che il ricorso alle antiche forme abbia motivazioni molteplici e non soltanto… tecnico-musicali. Altra particolarità: lo Sprechgesang (cantare-parlando) è affibbiato ai poveracci, mentre gli sfruttatori (privilegiati!) cantano (o parlano normalmente) e basta.

Sappiamo anche che Berg era maniaco dei numeri e in Wozzeck ne abbiamo più di una testimonianza. A parte la simmetria della macro-struttura (3 atti di 5 scene ciascuno) è eclatante il caso della Passacaglia (scena IV dell’atto I) dove il numero 7 ritorna in modo a dir poco ossessivo: il tema e 14 delle sue 21 variazioni occupano ciascuno 7 battute; tre variazioni (7-10-12) sono in una sola battuta, ma suddivisa in 7 segmenti; 2 variazioni (18 e 21) occupano 14 battute; solo due variazioni (19 e 20) occupano rispettivamente 9 e 18 battute, quindi hanno a che fare con il 3 e non con il fatidico 7! Il quale 7 torna anche nel tema con 7 variazioni (quasi tutte di 7 battute…) della prima scena dell’atto terzo! Insomma, Berg sembra non aver lasciato nulla al caso, impiegando nella composizione di Wozzeck un alto livello di arte combinatoria. Resta da vedere quanto essa sia determinante, o invece ininfluente, come causa del gradimento dell’opera presso il pubblico.

La tabella che si può esplorare a questo link è derivata da molte dello stesso contenuto presenti in diverse esegesi (incluso il libretto del Teatro): ho semplicemente introdotto un livello di dettaglio molto più fine rispetto al normale (riferendomi prevalentemente alla struttura dell’opera come presentata nel testo di George Perle) tralasciando invece i riferimenti al soggetto. Una curiosità: in due sole occasioni, sempre nell’atto III, Berg impiega l’armatura di chiave, tipica della musica tonale: dapprima nella variazione 5 della prima scena (la parabola del piccolo orfanello, FA minore) e poi nella prima parte dell’interludio dopo la quarta scena (morte di Wozzeck, RE minore).

Qualche nota esplicativa sui contenuti della tabella.

Per la scena IV dell’atto I (Passacaglia) nella colonna componente sono indicati gli strumenti cui è affidata in prevalenza l’esposizione del tema di base nelle diverse variazioni. Analogamente, per le scene II, III e IV dell’atto III, la colonna componente reca i riferimenti agli strumenti cui è affidata in prevalenza l’esposizione dell’oggetto dell’invenzione (nota, ritmo e accordo, rispettivamente).

La colonna più a destra reca invece i riferimenti di minutaggio relativi alla pregevole edizione cinematografica dell’opera, datata 1970 e concertata da Bruno Maderna con la Philharmonische Staatsorkester Hamburg. Anche qui l’esame dei tempi ci porta a constatare come spesso e volentieri le forme impiegate da Berg facciano apparizioni fugaci se non addirittura fugacissime (pochi secondi di musica) il che spiega perché la loro presenza sfugga all’orecchio anche degli ascoltatori più attenti e preparati: soltanto la consultazione della partitura consente di individuarle e censirle.   

E a proposito di censimenti, vedremo nella puntata successiva a quali livelli di paranoica complicazione si sia arrivati.

(2. continua)

Atti di pirateria applauditi a Parma

 

La penultima delle 4 rappresentazioni del Corsaro al Regio parmigiano è stata accolta da applausi e bravi! da un pubblico che occupava sì e no il 60% dei posti del teatro. Forse mancavano proprio i leggendari loggionisti, chè altrimenti i buh si sarebbero sprecati (ciò è almeno quanto penso io della recita di ieri pomeriggio).

Quando si rappresenta un’opera dichiaratamente (da Verdi medesimo!) minore c’è un solo modo per renderla digeribile: eseguirla con il massimo livello di cura e qualità degli interpreti. Bene, qui è mancato tutto: la cura di chi ha allestito lo spettacolo – parlo della parte musicale – con leggerezza (lo testimoniamo i cambi di cast fino all’ultimo) e la qualità degli interpreti (nessuno che abbia, alle mie orecchie, meritato la sufficienza piena).

Peccato, poiché la parte non-musicale (quindi per definizione la meno importante) dello spettacolo ha mantenuto le promesse: si tratta infatti della riproposizione di un pregevole allestimento del compianto Lamberto Puggelli ripreso per l’occasione dalla moglie Grazia Pulvirenti, allestimento già proposto al Regio nel 2004 e poi a Busseto nel 2008.

Il protagonista (Corrado-il-corsaro) Diego Torre aveva già ciccato completamente la prima del 14, tanto da essere sostituito alla seconda del 20: anche ieri (ancora indisposto?) ha mostrato pesanti carenze nella vocalità, con acuti presi alla sperindio e fraseggio approssimativo.

Un filino meno-peggio il suo rivale (Seid-Pascià) Ivan Inverardi, che ha un vocione tanto potente quanto incontrollato, ricordando spesso schiamazzi e stonature da ubriaconi in osteria.

Le due rappresentanti del gentil sesso non alzano la media: la piagnucolosa Medora di Jessica Nuccio esibisce una vocina inconsistente che vira al cartavetro come si sale in alto; Silvia Della Benetta (reduce ripescata all’ultimo dall’edizione del 2008) fa appena-appena di più, ma meno di quanto si può apprezzare dal video di quell’edizione.

Luciano Leoni e Matteo Mezzaro (i tirapiedi dei due protagonisti) e Seung Hwa Paek (che si sdoppia in eunuco e schiavo, chissà quale dei due ruoli preferisce!) li mandiamo a casa con il minimo sindacale.

Il Coro di Martino Faggiani se non altro non fa danni e ciò rappresenta comunque un merito. La Toscanini risponde adeguatamente alle sollecitazioni di Francesco Ivan Ciampa: peccato che il Direttore, alla proverbiale vanga di Verdi, aggiunga di suo – ahilui - anche zappa, falce e forconi!

Morale: una domenica pomeriggio andata storta (e già era cominciata malissimo al mattino con la... pirlata del pirata Valentino!)

25 ottobre, 2015

Wozzeck torna alla Scala: 1. La rinuncia alla tonalità


Uno spiacevole contrattempo (la malattia della moglie che non ha permesso a György Kurtág di completare in tempo per il 2015 la sua Fin de partie – opera rischedulata a fine stagione 15-16) riporta alla Scala dal 29 ottobre il Wozzeck messo in scena da Jürgen Flimm, per la quarta volta in meno di 20 anni. La prima fu nella stagione 1996-7 (sul podio il compianto Sinopoli); poi venne Conlon (1999-0) indi Gatti (2007-8); oggi Metzmacher.
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Wozzeck è per antonomasia l’opera atonale: composta cioè prescindendo da tutta quella serie di regole (codificate e non-) oltre che di consuetudini, stereotipi, usanze, abitudini sulle quali si era appoggiata tutta la musica occidentale dal ‘500 in poi, passando attraverso una lunga serie di innovazioni culminate nell’esasperato cromatismo del wagneriano Tristan, che aveva portato la musica al limite di rottura delle regole consolidate. Dopo Wagner qualcuno aveva cercato di avanzare e progredire ulteriormente sul sentiero della tonalità (Mahler, Strauss); altri (Debussy) si erano indirizzati verso sistemi musicali alieni (scale esotiche); i giovani della seconda scuola di Vienna (Schönberg, Webern e Berg) avevano invece cominciato a contestare radicalmente la tonalità, col rifiutarne precisamente i fondamentali presupposti, primo fra i quali la necessaria presenza di un centro di gravitazione tonale in ciascun brano di musica.

Però l’assenza di qualunque regola è in po’ come l’anarchia: una bella utopia, in pratica… impraticabile. Se ne accorgerà lo stesso Schönberg (del quale proprio Mahler, pur appoggiandolo in quanto innovatore, affermava di non capire la musica) che in questa anarchia si impantanerà e, per uscirne vivo, dovrà inventare (o meglio: codificare cose inventate da altri…) un nuovo metodo compositivo, basato su regole ancor più ferree e cogenti di quelle della vecchia musica: e nascerà allora la dodecafonia, qualcosa di… talebano, ecco.

Ma Berg si interessò al soggetto del Wozzeck nel 1914, quando ancora la dodecafonia con le sue regole era ben di là da venire e così si trovò per primo a sperimentare la composizione atonale su un’opera di grandi dimensioni, mentre fino ad allora la nuova musica si era espressa quasi esclusivamente su oggetti assai limitati, per non dire a livello aforistico. E per non smarrire la rotta, avendo rinunciato alla bussola (la tonalità) decise di orientarsi con… le stelle: cioè ricorrendo all’impiego di tutte le forme musicali conosciute. (Le vedremo in dettaglio nella prossima puntata.)   

Che la musica atonale presentasse potenziali problemi di ricezione e fruizione da parte del vasto pubblico era Berg per primo a temerlo. Dico, opere come il Barbiere o Norma, o Nabucco o anche Lohengrin, pur essendo diversissime - e per certi aspetti rivoluzionarie nei contenuti musicali - da quelle di Paisiello, di Gluck, di Mozart, erano state accolte con entusiasmo da tutti. E Bellini mai dovette tenere conferenze per aiutare il pubblico ad apprezzare la sua Sonnambula! Lo stesso Tristan incontrò all’inizio più ostilità dagli addetti ai lavori che non dal pubblico. Ecco che invece Berg, ancora anni dopo la prima di Wozzeck, sentiva il bisogno di esibirsi in dotte concioni sulla sua opera, per spiegarne tutti gli intimi segreti. Dopodichè – ma guarda un po’… - chiedeva al pubblico di scordare tutto ciò che lui aveva raccontato e di approcciare Wozzeck come si approccia Norma! Si legga al proposito l’ultimo paragrafo del testo di una di tali conferenze (dove c’era tanto di orchestra e cantanti a supportare Berg nella proposizione di esempi concreti) tenuta nel 1929.      

Ma allora: si può apprezzare Wozzeck anche senza conoscerne l’intima struttura? Semplicemente lasciandosi coinvolgere e trascinare da questa musica (così diversa da quella di quasi tutte le altre opere) che evoca passioni, sentimenti, gioie (pochissime) e dolori (soverchianti)? Mah, va riconosciuto che le prime rappresentazioni tedesche ebbero un’accoglienza tipo-Tristan: pubblico tutto sommato plaudente (addirittura Berg ne rimase stupefatto!) e critica a dir poco ostile. Le uniche disapprovazioni a scena aperta si ebbero a Praga, pochi mesi dopo la prima di Berlino del 1925 e molti anni dopo (1952) alla Scala, dove il venerabile Mitropoulos venne rumorosamente interrotto da un pubblico esasperato. In compenso l’opera era già stata rappresentata (in italiano, come alla Scala) con Serafin e Gobbi ben 10 anni prima e con buon successo a Roma, sotto il fascismo, in piena guerra e in barba alla scomunica nazista che l’aveva colpita in quanto musica degenerata.  

Musica che, proprio per la sua congenita struttura (di ostica afferrabilità per le nostre orecchie, inutile negarlo!) pare più adatta ad evocare soggetti cupi o truci, situazioni di squilibrio sociale e psichico, incubi ed allucinazioni, sopraffazioni e delitti (insomma tutti i principali ingredienti di Wozzeck) piuttosto che scenari di normalità (sia pure drammatici, se non proprio idilliaci). Domanda: come mai con il metodo atonale in più di un secolo non è stata composta una sola commedia brillante, un dramma giocoso, e men che meno una farsa? E perché anche in Wozzeck i pochissimi squarci di sereno (o di pietà) in mezzo a tante tempeste sono evocati con il ricorso alla vecchia e cara tonalità ?!

Forse chi teorizzava che dissonanze e tritoni fossero errori e rappresentassero lo scardinamento delle regole costituite non aveva tutti i torti, se la musica che fa delle dissonanze e dei tritoni la regola e non l’eccezione è stata impiegata per lo più a rappresentare fenomeni di sfascio sociale o psicologico. O magari… stonature, come si evince da questo esempio preso dalla seconda scena del primo atto, dove Andres canta un’allegra canzoncina che dopo due incisi (dominante-tonica, MIb-Lab) della tromba - e su un tappeto del flauto (REb-MIb) in quella stessa tonalità - attacca calando su un SOL maggiore per poi sconfinare in un orrendo tritono (LA-RE#)!


Ok, abbiamo capito che Andres ha qualche problema di intonazione, poveretto (ma non datene la colpa al tenore!) Sì, perché la stagione in cui nascevano, rustici ma intonatissimi, i Nemorini era irrimediabilmente finita!

(1. continua)

24 ottobre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 56


Dopo Campogrande, che ha parodiato l’inno turco con la marcia turca di Mozart, il 56° concerto de laVERDI, sotto la bacchetta del Direttore Principale Ospite è dedicato al grande Lenny Bernstein.

Del quale viene dapprima eseguita la Suite dalle musiche del famoso e pluri-oscar-premiato film di Elia Kazan Il fronte del porto (1954) che ci fece conoscere il leggendario Marlon Brando (e non solo lui). Era il Bernstein ormai entrato nella maturità, ed infatti tre anni dopo ebbe la consacrazione con West Side Story.

Qui Axelrod in una registrazione del 2009 con l’Orchestra Nazionale della Rai. Di fronte alla quale non sfigura certo la nostra compagine, guidata ieri sera dal Konzertmeister Dellingshausen.

Dopo l’intervallo ecco la monumentale Terza Sinfonia, Kaddish (Preghiera). Che ha avuto una storia complicata: composta nel 1963 con testi dello stesso Bernstein ed eseguita con la Israel Philharmonic, era caduta nel dimenticatoio, essendone lo stesso Autore insoddisfatto. L’incontro di Bernstein con Samuel Pisar, scampato ad Auschwitz e poi a… Stalin e divenuto consigliere di John F. Kennedy, diede a Lenny, molti anni dopo (1990) l’idea di far scrivere un nuovo testo ad un superstite dell’Olocausto, che aveva vissuto sulla propria pelle le tragedie che avevano insanguinato l’Europa. Cosa che avvenne dopo la morte di Bernstein. 

Così, dal 2003 viene eseguita la Kaddish con il nuovo testo di Pisar: eccone una registrazione fatta nel 2009 a Gerusalemme – in occasione di una celebrazione in ricordo dell’Olocausto, preceduta dall’Inno nazionale Hatikva e da un indirizzo del Presidente Shimon Peres - con lo stesso Pisar in veste di recitante e proprio John Axelrod (pupillo di Bernstein) sul podio.

Purtroppo Pisar è scomparso pochi mesi fa e così il testimone è stato preso dalla moglie Judith e dalla figlia Leah: sono state loro a recitare i versi di Samuel in Auditorium, per la prima esecuzione italiana. Con loro il soprano Kelley Nassief e i cori de laVERDI guidati da Erina Gambarini e Maria Teresa Tramontin.

Il lavoro, che dura circa 50 minuti, ha una struttura in 4 movimenti (da qui il nome di Sinfonia) dove orchestra e cori e poi il soprano intonano 3 preghiere, più una specie di conclusivo Magnificat, in risposta alle voci recitanti, che declamano il testo di Pisar che ricorda le sofferenze patite dal popolo ebraico e con lui dall’intera umanità a causa delle atrocità di ogni colore. Un testo che invita anche alla vigilanza, poichè purtroppo la cronaca di questi anni ci dice che simili atrocità rischiano di tornare a ripetersi.

Un’opera quindi dal forte impatto emotivo, che tutti i protagonisti hanno saputo trasmettere in modo adeguato, meritandosi un autentico trionfo. È un'altra perla che si va ad aggiungere al già nutrito carnet de laVERDI.