La figuraccia tanto inaspettata quanto meritata nell’Imperatore deve aver avuto un effetto salutare su Barenboim e l’orchestra. Difficile dire se abbiano provato giorno e notte - da quella disgraziata sera - o semplicemente si siano applicati in modo normale ieri, o se l’infortunio del 16 sia stato solo uno sciagurato quanto episodico accumularsi di circostanze fortuite e irripetibili.
Fatto sta che il Terzo di Beethoven è uscito limpidamente e in modo convincente dai tasti - percossi o accarezzati da Barenboim - e dagli strumenti dell’orchestra, compresi gli ottoni, che oggi come oggi sono il tallone d’achille della Filarmonica. Si potrà ancora disquisire dei tempi, delle sonorità, degli attacchi, ricordare un paio di macchioline nell’esecuzione, ma l’impressione complessiva è stata di un’interpretazione di tutto rispetto (intendiamoci: stiamo qui parlando in termini relativi e non assoluti, stante ciò che il convento scaligero passa). In sostanza: si temeva un nuovo crollo, e invece l’edificio è rimasto in piedi, quindi tutti contenti a tirare un sospiro di sollievo.
Contrariamente a quanto previsto dalla locandina pubblicata sul sito del Teatro, dove Beethoven era incastonato fra le due opere di Schönberg, la serata è iniziata proprio con il Terzo, accolto da applausi convinti e - direi - unanimi (anzi: proprio all’unisono, ritmati). Quanto al motivo dell’anticipo del concerto rispetto al Survivor, si possono fare alcune congetture; da quella legata ai tempi tecnici necessari a spostare il pianoforte (ma il problema si ripresenterà venerdi prossimo, se la sequenza programmata non verrà di nuovo manomessa) ad altre, di opportunità per Barenboim (consentirgli di suonare subito, senza perdere concentrazione) o magari (maliziosamente) per dar modo agli scettici su Schönberg di poter guadagnare l’uscita già alle 20:45. Devo dire che alla ripresa la platea è rimasta quasi al completo, mentre qualche vuoto è comparso nei palchi.
A survivor from Warsaw è un aforistico e veristico grido di un’umanità ridotta alla vita di topi da fogna, che ritrova se stessa nel canto dello Shema Yisroel. Un grido prima e un canto poi che escono davvero dal cuore e dall’anima. Holl e il coro di Casoni hanno reso al meglio la durezza e la drammaticità di questa partitura. A proposito della quale (sarà a dir tanto 20 fogli) incredibile ma vero, si è potuto osservare che Barenboim (che dirige a memoria tomi da centinaia e centinaia di pagine) se l’è fatta portare, con annesso leggìo!
Partitura e leggìo subito rimossi per le Variationen op.31. Che, ahinoi, a distanza di 80 anni dalla loro apparizione ancora sono sconosciute ai più, se è vero che Daniel ha creduto opportuno - prima di eseguirle - di tenere una simpatica lezioncina (con pratica di ascolto) per chiarire la natura del tema ed esemplificare alcune variazioni: un’iniziativa tanto lodevole quanto - temo - irrilevante sulla diffusione di interesse per quest’opera (vorrei vedere in quanti, da oggi, correranno a comprare il CD). Il fatto è che le Variationen sono un costrutto glaciale dell’ingegneria dodecafonica, e non basta conoscerne l’architettura interna per apprezzarle. Tanto per dire: c’è qualcuno che si è innamorato del tema dell’allegretto della prima di Brahms (quello suonato dal clarinetto) perchè è venuto a sapere che ha un conseguente che è l’inverso dell’antecedente? O viceversa, qualcuno che ha cominciato a disprezzare l’incipit della quarta dello stesso autore, dopo aver scoperto che trattasi di una becera sequenza di terze, con un paio di rivolti messi lì per ingannare l’ascoltatore? A volte si tira in ballo Bach (il cui motivo SIb-LA-DO-SI ricorre nell’introduzione e nel finale) come riferimento artistico (dal Wohltemperierte Klavier o da Die Kunst der Fuge) ma è davvero un paragone piuttosto azzardato.
Sul sito ufficiale dell’Arnold Schönberg Center si può leggere una dettagliata analisi fatta dall’autore nel corso di una lezione tenuta alla radio in America. La composizione (520 battute) viene spiegata quasi misura per misura; paradigmatica la descrizione del tema principale: 24 battute, suddivise in 3 sezioni (5+7, 5 e 7) nei cui 4 segmenti viene presentata la serie dodecafonica originale, seguita dalle tre manipolazioni del canone, tipiche della scuola fiamminga (le stranezze, come le definiva Giovanni Bardi): inverso del retrogrado, retrogrado e inverso. Insomma: a dispetto della vaga ascendenza parsifaliana della cellula tematica principale (che il povero Barenboim si è fatto in quattro per cercar di scolpire nelle orecchie degli spettatori) l’impressione che lascia è quella di tutta forma e poco contenuto!
Comunque, data la natura dell’opera, ancor più meritoria è stata la prestazione dell’orchestra e del maestro. Quindi: trionfo per tutti.
Si finirà venerdi con il 2 e il 4, inframmezzati (salvo rimescolamenti dell’ultimo minuto) dall’opera 16 di Schönberg.
(3. Continua)
Fatto sta che il Terzo di Beethoven è uscito limpidamente e in modo convincente dai tasti - percossi o accarezzati da Barenboim - e dagli strumenti dell’orchestra, compresi gli ottoni, che oggi come oggi sono il tallone d’achille della Filarmonica. Si potrà ancora disquisire dei tempi, delle sonorità, degli attacchi, ricordare un paio di macchioline nell’esecuzione, ma l’impressione complessiva è stata di un’interpretazione di tutto rispetto (intendiamoci: stiamo qui parlando in termini relativi e non assoluti, stante ciò che il convento scaligero passa). In sostanza: si temeva un nuovo crollo, e invece l’edificio è rimasto in piedi, quindi tutti contenti a tirare un sospiro di sollievo.
Contrariamente a quanto previsto dalla locandina pubblicata sul sito del Teatro, dove Beethoven era incastonato fra le due opere di Schönberg, la serata è iniziata proprio con il Terzo, accolto da applausi convinti e - direi - unanimi (anzi: proprio all’unisono, ritmati). Quanto al motivo dell’anticipo del concerto rispetto al Survivor, si possono fare alcune congetture; da quella legata ai tempi tecnici necessari a spostare il pianoforte (ma il problema si ripresenterà venerdi prossimo, se la sequenza programmata non verrà di nuovo manomessa) ad altre, di opportunità per Barenboim (consentirgli di suonare subito, senza perdere concentrazione) o magari (maliziosamente) per dar modo agli scettici su Schönberg di poter guadagnare l’uscita già alle 20:45. Devo dire che alla ripresa la platea è rimasta quasi al completo, mentre qualche vuoto è comparso nei palchi.
A survivor from Warsaw è un aforistico e veristico grido di un’umanità ridotta alla vita di topi da fogna, che ritrova se stessa nel canto dello Shema Yisroel. Un grido prima e un canto poi che escono davvero dal cuore e dall’anima. Holl e il coro di Casoni hanno reso al meglio la durezza e la drammaticità di questa partitura. A proposito della quale (sarà a dir tanto 20 fogli) incredibile ma vero, si è potuto osservare che Barenboim (che dirige a memoria tomi da centinaia e centinaia di pagine) se l’è fatta portare, con annesso leggìo!
Partitura e leggìo subito rimossi per le Variationen op.31. Che, ahinoi, a distanza di 80 anni dalla loro apparizione ancora sono sconosciute ai più, se è vero che Daniel ha creduto opportuno - prima di eseguirle - di tenere una simpatica lezioncina (con pratica di ascolto) per chiarire la natura del tema ed esemplificare alcune variazioni: un’iniziativa tanto lodevole quanto - temo - irrilevante sulla diffusione di interesse per quest’opera (vorrei vedere in quanti, da oggi, correranno a comprare il CD). Il fatto è che le Variationen sono un costrutto glaciale dell’ingegneria dodecafonica, e non basta conoscerne l’architettura interna per apprezzarle. Tanto per dire: c’è qualcuno che si è innamorato del tema dell’allegretto della prima di Brahms (quello suonato dal clarinetto) perchè è venuto a sapere che ha un conseguente che è l’inverso dell’antecedente? O viceversa, qualcuno che ha cominciato a disprezzare l’incipit della quarta dello stesso autore, dopo aver scoperto che trattasi di una becera sequenza di terze, con un paio di rivolti messi lì per ingannare l’ascoltatore? A volte si tira in ballo Bach (il cui motivo SIb-LA-DO-SI ricorre nell’introduzione e nel finale) come riferimento artistico (dal Wohltemperierte Klavier o da Die Kunst der Fuge) ma è davvero un paragone piuttosto azzardato.
Sul sito ufficiale dell’Arnold Schönberg Center si può leggere una dettagliata analisi fatta dall’autore nel corso di una lezione tenuta alla radio in America. La composizione (520 battute) viene spiegata quasi misura per misura; paradigmatica la descrizione del tema principale: 24 battute, suddivise in 3 sezioni (5+7, 5 e 7) nei cui 4 segmenti viene presentata la serie dodecafonica originale, seguita dalle tre manipolazioni del canone, tipiche della scuola fiamminga (le stranezze, come le definiva Giovanni Bardi): inverso del retrogrado, retrogrado e inverso. Insomma: a dispetto della vaga ascendenza parsifaliana della cellula tematica principale (che il povero Barenboim si è fatto in quattro per cercar di scolpire nelle orecchie degli spettatori) l’impressione che lascia è quella di tutta forma e poco contenuto!
Comunque, data la natura dell’opera, ancor più meritoria è stata la prestazione dell’orchestra e del maestro. Quindi: trionfo per tutti.
Si finirà venerdi con il 2 e il 4, inframmezzati (salvo rimescolamenti dell’ultimo minuto) dall’opera 16 di Schönberg.
(3. Continua)
1 commento:
Sull´assurditá del sistema dodecafonico,si puó leggere il saggio "Schönberg e il nichelino" di Fedele D´Amico,pubblicato nel volume "Un ragazzino all´Augusteo".Oppure anche il capitolo dedicato alla Scuola di Vienna in "Per una storia della musica nel Novecento" di Ugo Duse.
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