Per carità: lungi da me l’idea di scrivere un epicedio per Barenboim.
Però confesso che ieri sera, mentre lo acoltavo suonare (e dirigere) il primo di Beethoven avevo ancora nelle orecchie (sia pure pervenuta via etere, lunedi) la prestazione della sua connazionale Argerich. Ai punti, si capisce, ma ha vinto lei.
Certo, la Martha aveva accanto la migliore orchestra italiana (S.Cecilia) e poteva concentrarsi sullo strumento, senza dover anche preoccuparsi degli altri: perchè a ciò pensava un direttore oltretutto asceso ormai all’olimpo, come Antonio Pappano.
Però, insomma, da Barenboim personalmente mi aspettavo di più. Oltre a dover fare il doppio lavoro (cosa sempre fastidiosa, credo) lui ha magari anche altre attenuanti, legate proprio al dover (voler...) suonare e dirigere insieme: come ad esempio il pianoforte senza il coperchio (che naturalmente fa da riverberatore dei suoni) e che lui deve far togliere perchè gli orchestrali possano vederlo quando dirige (cosa secondo me poco perdonabile, poichè ciò ottiene l’effetto di una sordina allo strumento). Anche il fatto, apparentemente insignificante, di suonare con le spalle rivolte al pubblico, proprio da direttore e non da solista, credo possa influire in qualche modo sulla performance. Che ieri sera mi è sembrata dignitosa, ci mancherebbe, ma non proprio trascinante, ed anche costellata da alcune sbavature evidenti: nel complesso, tempi eccessivamente ampi e un Beethoven un po’ troppo “settecentesco” (tranne che nella cadenza, eseguita con fuoco). Speriamo bene per i prossimi appuntamenti più difficili, a partire da lunedi con l’Imperatore...
Il Pelleas di Schönberg è un’opera strana, piuttosto equivoca, nel senso di non essere nè carne nè pesce: un poema sinfonico con una forma pseudo-sinfonica, i leit-motive wagneriani e postumi di forma-sonata. In più è musica (formalmente) tonale, ma pervasa di venature espressioniste... insomma ci si rende conto del perchè tale Gustav Mahler, che pure proteggeva il nostro dai critici che ne chiedevano l’internamento in manicomio, affermasse apertamente di non capire quella musica (salvo poi importarne alcune sonorità nella sua settima sinfonia, composta in quel periodo dei primi anni del '900...)
La Filarmonica super-rinforzata (quattro arpe, contro le due previste in origine dall’autore, per dirne una) nel complesso ha retto bene l’urto, destreggiandosi fra le mille sfumature agogiche e dinamiche di questa partitura difficile, oltre che tormentata, tanto da meritarsi da Barenboim un’autentica passerella, quasi un professore alla volta a raccogliere l’applauso del pubblico e quello personale del maestro.
Un piccolo appunto tecnico-estetico: la sordina (anzi... sordona) del contrabbasso tuba è visibilmente ammaccata; forse fa il suo mestiere lo stesso, ma visto che siamo alla Scala, anche l’occhio vorrebbe la sua parte...
(1. Continua)
Però confesso che ieri sera, mentre lo acoltavo suonare (e dirigere) il primo di Beethoven avevo ancora nelle orecchie (sia pure pervenuta via etere, lunedi) la prestazione della sua connazionale Argerich. Ai punti, si capisce, ma ha vinto lei.
Certo, la Martha aveva accanto la migliore orchestra italiana (S.Cecilia) e poteva concentrarsi sullo strumento, senza dover anche preoccuparsi degli altri: perchè a ciò pensava un direttore oltretutto asceso ormai all’olimpo, come Antonio Pappano.
Però, insomma, da Barenboim personalmente mi aspettavo di più. Oltre a dover fare il doppio lavoro (cosa sempre fastidiosa, credo) lui ha magari anche altre attenuanti, legate proprio al dover (voler...) suonare e dirigere insieme: come ad esempio il pianoforte senza il coperchio (che naturalmente fa da riverberatore dei suoni) e che lui deve far togliere perchè gli orchestrali possano vederlo quando dirige (cosa secondo me poco perdonabile, poichè ciò ottiene l’effetto di una sordina allo strumento). Anche il fatto, apparentemente insignificante, di suonare con le spalle rivolte al pubblico, proprio da direttore e non da solista, credo possa influire in qualche modo sulla performance. Che ieri sera mi è sembrata dignitosa, ci mancherebbe, ma non proprio trascinante, ed anche costellata da alcune sbavature evidenti: nel complesso, tempi eccessivamente ampi e un Beethoven un po’ troppo “settecentesco” (tranne che nella cadenza, eseguita con fuoco). Speriamo bene per i prossimi appuntamenti più difficili, a partire da lunedi con l’Imperatore...
Il Pelleas di Schönberg è un’opera strana, piuttosto equivoca, nel senso di non essere nè carne nè pesce: un poema sinfonico con una forma pseudo-sinfonica, i leit-motive wagneriani e postumi di forma-sonata. In più è musica (formalmente) tonale, ma pervasa di venature espressioniste... insomma ci si rende conto del perchè tale Gustav Mahler, che pure proteggeva il nostro dai critici che ne chiedevano l’internamento in manicomio, affermasse apertamente di non capire quella musica (salvo poi importarne alcune sonorità nella sua settima sinfonia, composta in quel periodo dei primi anni del '900...)
La Filarmonica super-rinforzata (quattro arpe, contro le due previste in origine dall’autore, per dirne una) nel complesso ha retto bene l’urto, destreggiandosi fra le mille sfumature agogiche e dinamiche di questa partitura difficile, oltre che tormentata, tanto da meritarsi da Barenboim un’autentica passerella, quasi un professore alla volta a raccogliere l’applauso del pubblico e quello personale del maestro.
Un piccolo appunto tecnico-estetico: la sordina (anzi... sordona) del contrabbasso tuba è visibilmente ammaccata; forse fa il suo mestiere lo stesso, ma visto che siamo alla Scala, anche l’occhio vorrebbe la sua parte...
(1. Continua)
4 commenti:
Anch'io ho sentito sabato mattina alla radio la Argerich con Pappano. Il suo pianismo è sicuramente più brillante di quello di Barenboim e trovo che la sua irruenza (vedi velocità di esecuzione) si adatti bene ai primi due concerti di Beethoven, meno agli ultimi tre. Il suo Rondò del Terzo ad esempio è per me inaccettabile.
Barenboim non è obbligato a cantare e portare la croce, lo fa per scelta da moltissimo tempo, anche con Mozart. Alla Scala aveva fatto lo stesso con il Terzo e la Staatskapelle Berlin e l'esito non era stato entusiasmante.
Le due orchestre hanno poi completato la differenza. Non solo condivido il giudizio di Daland su Santa Cecilia, ma il divario era sicuramente approfondito dalla inevitabile minor cura del direttore nei confronti dell'orchestra scaligera (stecca degli ottoni sull'ultimo accordo del concerto a parte).
Mi ha convinto di più Schoenberg: il merito di Berenboim è stato quello di conservare al Pelléas il suo naturale carattere narrativo, ispirato più che all'opera di Debussy al dramma di Maeterlinck.
La maratona di Barenboim (i concerti Schoenberg-Beethoven si alternano alle repliche del Tristan...) mi sembra un classico caso in cui la quantità va a scapito della qualità. Ma lui non se ne rende conto proprio per niente?
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