affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

07 marzo, 2020

Salome-2 la vendetta


Giuro che se trovo quel simpaticone che ha programmato la prima di Salome alla Scala proprio nel giorno della Festa della donna, me lo... beh, ecco, mi fermo qui.

Ma perdinci, come si può pensare che una ragazzina viziata che rifiuta, nell’ordine: la metà di un regno, il più grande smeraldo, cento pavoni bianchi, perle, topazi, opali, crisoprasi, rubini, sardonici, pietre di giacinto, pietre di Calcedonia, cristalli, turchesi, il mantello del Sommo Sacerdote e il Velo del Santuario... sia disposta a ballare nuda davanti a noi in cambio di un misero rametto con quattro fiorellini gialli?

E così lei se l’è presa al punto da mandarci sto fottutissimo virus a guastarci tutte le feste da qui a Pasqua e magari pure Ferragosto e Natale, managgia!

Che Salvini se la porti!

04 marzo, 2020

laVerdi-19-20 - annullato anche il Concerto n°19


Dopo aver provocato la sosta forzata della scorsa settimana (Rysanov interprete di Ciajkovski) lo sbifido Coronavirus ha bloccato anche il concerto di questa settimana, che doveva vedere sul podio il Direttore musicale, per dirigere un programma ancora una volta con i tre brani di taglio classico.

Ma un più attento esame del programma medesimo ci permette di scoprire la vera causa dello stop: è colpa della sempre più portatrice-di-sfiga di quell’opera che va sotto il nome di La forza del destino (!!)

Della quale era prevista la sola Sinfonia, ma ciò è evidentemente bastato a provocare il disastro. E Milano ha la sua parte di responsabilità, poichè il primo colpo inferto all’opera (da Verdi medesimo) fu proprio la versione presentata alla Scala in quel sabato 27 febbraio 1869, con la Sinfonia ipertrofizzata e il finale annacquato...

Tanto per cazzeggiarvi un po’ sopra, a mo’ di esorcismo anti-Covid19, confrontiamo il breve Preludio originale con la Sinfonia che lo ha rimpiazzato. Lo schema sottostante riporta sommariamente le strutture delle due versioni e i riferimenti a due esecuzioni di Gergiev a SanPietroburgo, in omaggio alla città... natale dell’opera (il video della versione 1869 porta erroneamente nel titolo 1862):

contenuto
battute
tempo
tempo
battute
1-8
11”
Destino (due volte)

1-8
9-42
21”
Leonora(-destino)
14”
9-42
43-50
46”
Destino (1)
40”
43-45
51-67
55”
Alvaro (Le minacce, i fieri accenti) (2)
47”
46-62
68-83
1’36”
Leonora (Madre, pietosa vergine) (due volte)
1’38”
63-78

Alvaro (Apriti, o terra) + coda (3)
2’41”
78-96
83-94
2’35”
reiterazione inciso Leonora(-destino)

95-121
2’42”
cadenza
122-128
3’00”
incipit Alvaro (Le minacce, i fieri accenti)
129-148
3’25”
Leonora (Tua grazia, o Dio, sorride alla reietta)
149-154
3’56”
transizione (fanfara)
155-168
4’05”
variazioni inciso Leonora(-destino)
169-182
4’27”
Guardiano (A te sia gloria, o Dio clemente)
183-200
4’50”
nuove variazioni inciso Leonora(-destino)
201-206
5’17”
Leonora (Madre, pietosa vergine)
207-225
5’29”
Leonora (Tua grazia, o Dio, sorride alla reietta)
226-233
5’58”
transizione (fanfara)
234-241
6’09”
Leonora (Tua grazia, o Dio, sorride alla reietta)
242-264
6’20”
coda
(1) 1869: due volte; 1862: una volta;
(2) 1869: accompagnamento Leonora(-destino); 1862: accompagnamento Seguidilla;
(3) 1862: dal finale prima versione

Come si può constatare anche a prima vista, la versione 1869 ha una durata più che doppia rispetto alla prima ed è quasi 3 volte più corposa quanto a numero di battute musicali. Ciò spiega la frequenza della sua presenza (o il suo impiego frequente come bis) anche nei cartelloni concertistici.

Quanto alla stagione de laVerdi, già era programmata una sosta prima del Concerto n°20, per permettere all’Orchestra di suonare a Bonn in occasione dei 250 anni di Beethoven: così si riprende (scongiuri) il 19 marzo ma - guarda un po’ il destino - non con il previsto programma americano, rinviato a giugno, ma con l’anticipo delle Stagioni di Piazzolla e Vivaldi.

03 marzo, 2020

Di necessità... virtù


Update: come non detto... lo streaming con Michieletto è stato annullato.
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La perdurante minaccia posta dal Coronavirus ha - per così dire - aguzzato l’ingegno di chi prova a porre rimedio al rischio di paralisi delle attività (private, ma anche pubbliche) il che avrebbe serie conseguenze su ciò che - in senso lato - va sotto il bizzarro acronimo P.I.L.

E così ecco che anche le aziende italiane scoprono finalmente... l’America, nella fattispecie una pratica da tempo in uso (anche in assenza di emergenze) nei Paesi più intelligenti: il telelavoro, o lavoro da casa, reso possibile - per gran parte delle attività del cosiddetto back-office, ma anche per alcune di front-office - dalle moderne tecnologie.

E anche il mondo della cultura sta (timidamente, per ora) provando ad evitare il totale black-out con qualche lodevole iniziativa. Ne cito un paio di esempi nati in questi giorni a Milano. laVerdi ha lanciato l’hashtag #Lamusicanonsiferma mettendo a disposizione del suo pubblico alcuni concerti da camera, eseguiti, in un Auditorium deserto, dalle prime parti dell’orchestra, con rigoroso rispetto delle... distanze!

Un’altra iniziativa da apprezzare è quella della Fondazione Feltrinelli che, causa il perdurante bando di manifestazioni pubbliche, irradia in streaming (e successivamente on-demand) l’incontro (a porte chiuse) con Damiano Michieletto sulla prossima Salome scaligera (che già ha perso la sua... prima, ahimè e ahinoi).  

Ecco: iniziative nate con l’emergenza che però sarebbe auspicabile entrassero a far parte dell’offerta standard delle istituzioni culturali.

24 febbraio, 2020

Roma ospita un Onegin di alto livello


Ieri pomeriggio il Costanzi - abbastanza, ma non troppo affollato - ha ospitato la terza recita dell’Onegin, una produzione di Carsen del lontano 1997 per il MET, poi già ripresa da altri teatri e qui portata da Peter McClintock. Sul podio il torinese (pro-tempore) James Conlon. Radio3 aveva trasmesso la prima del 18, che mi aveva fatto un gran bella impressione, pienamente confermata dall’ascolto dal vivo.

Come le altre, anche questa recita è edicata al ricordo della grande Mirella Freni, ultima interprete romana di Tatiana nel 2001.

L’allestimento di Carsen compie 23 anni, ma non li dimostra, come accade per ogni opera di valore. L’idea portante del regista è di mettere al centro della vicenda Onegin, che non per nulla appare sempre per primo in scena in apertura dei tre atti: durante il Preludio lo si immagina ricordare ciò che... accadrà, leggendo una lettera; all’inizio del second’atto facendo un sopralluogo nella sala dove si svolgerà la festa che lo porterà ad offendere Lensky e a dare inizio alla tragedia; infine all’inizio del terzo atto, quando verrà abbigliato a dovere per la festa-funerale che preparerà la sua fine ingloriosa.

L’ambientazione rispetta il libretto, nella Russia ottocentesca, come testimoniano i costumi di Michael Levine, il quale cura anche le scene: ambiente praticamente vuoto, di volta in volta popolato da poche suppellettili, piccoli tavoli da lavori domestici, sedie e tavolini da soggiorno. All’inizio il pavimento è ricoperto da (finte) foglie dai tipici colori autunnali (giallo, marrone, rossiccio, verde scuro) per restare via via completamente spoglio. Le luci di Jean Kalman supportano l’idea del regista di illuminare le tre pareti nude con colori diversi e cangianti, a seconda del carattere dei diversi quadri: il giallo della natura e della vita serena per i quadri iniziali dei primi due atti, in casa Larina; il blu-notte nel secondo quadro del primo atto (la lettera di Tatiana) e nel corrispondente del secondo (il duello all’alba, con il sole che sorge poi a inquadrare la silhouette di Onegin piegato sul defunto Lensky); grigio nel terzo quadro del primo atto (la disillusione di Tatiana); bianco nel primo quadro del terz’atto (a far da sfondo ad un nero... funerale) e ghiaccio nel quadro finale (il distacco definitivo).

Una scelta che ai tempi fece discutere è quella di collegare direttamente la fine dell’atto secondo (morte di Lensky) con l’inizio del terzo (festa a palazzo Gremin) che il libretto colloca invece a distanza di anni. (L’idea fu poi scopiazzata - in molto peggio, per la verità - da Kasper Olten, in una produzione passata anche a Torino anni fa.) Ma anche questa si spiega con la concezione di Carsen di porre Onegin al centro dell’opera e quindi vedere la realtà con gli occhi di lui, che dopo l’omicidio dell’amico vede tutto nero e così la festa per lui diventa proprio un funerale, anzi il funerale di Lensky, portato via sulle spalle degli inservienti del Principe, in mezzo agli invitati (maschi e femmine) tutti vestiti di nero, come becchini o pipistrelli. Proprio mentre in orchestra esplode la musica della polacca brillante, qui assurta a grottesca marcia funebre! Insomma, Carsen trasferisce il lancinante contrasto: da quello presentato nel libretto, fra la festa spensierata e il cuore desertificato di Onegin; a quello fra cerimonia funebre e musica brillante che l’accompagna.

A proposito della musica della polonaise, ho sempre considerato l’iniziale esposizione del tema principale come un modo escogitato dal compositore per caratterizzare un ambiente da nobiltà parassitaria: insomma un po’ da... sboroni, ecco. Dopo la fanfara introduttiva e l’approccio degli archi, il motivo principale è di 8 battute e viene esposto due volte, prima che subentri un controsoggetto di 10 battute, cui segue la ripresa del tema principale e la coda conclusiva. Orbene, ci si aspetterebbe che le due esposizioni del tema siano sostanzialmente identiche e quindi sfocino entrambe sulla dominante RE. Invece la prima delle due sfocia inaspettatamente un tono sopra (MI, e in minore, tonalità relativa del SOL) con un effetto francamente poco gradevole, che sembra appunto tipico di chi voglia strafare, mettersi in mostra a tutti i costi, insomma fare una vuota ostentazione di ricchezza... (Ben diversa è invece la condotta del walzer che apre il second’atto, in un ambiente genuinamente e simpaticamente campagnolo e provinciale.)
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James Conlon mostra non solo di conoscere a fondo, ma anche di adorare letteralmente questa partitura, tanta e tale è la cura che mette nel dirigere, quasi prendendo per mano i singoli strumentisti e le voci sul palco. Mai un effetto gratuito, nessuna indebita libertà nella scelta dei tempi, dinamiche mai esasperate, nel pieno rispetto dell’ambientazione sonora che l’Autore volle dare a queste sue scene liriche.

Voci tutte all’altezza, con punte di eccellenza per Markus Werba, un Onegin quasi perfetto, dalla vocalità (per me) appropriata ad un cattivo che però è anche giovane. Benissimo Saimir Pirgu (accolta trionfalmente la sua celebre aria prima del duello). Ottimo anche John Relyea (Gremin) la cui parte è quantitativamente ridotta, ma è fondamentale (forse il parallelo con un Filippo o un Marke è eccessivo, ma insomma...)

Le due sorelle mostrano una grande padronanza e consuetudine con le parti, soprattutto Maria Bayankina è una Tatiana davvero eccellente, capace di immedesimarsi mirabilmente nella ragazza romantica e insieme temeraria (la sua lettera è stata un capolavoro di espressività delle sue passioni) e poi nella rigorosa signora che rispetta fermamente i sacri doveri che la società le impone. Yulia Matochkina le ha fatto da sorellina spensierata e in po’ frivola con buon portamento e bella voce di mezzo.

Discrete le due voci femminili di contorno (Irina Dragoti e Anna Viktorova) cui rimprovero magari un po’ di carenza di... decibel. Efficace e simpatico il Triquet di Andrea Giovannini e oneste le prestazioni degli altri due comprimari, Andrii Ganchuk e Arturo Espinosa.

Benissimo anche il coro di Roberto Gabbiani, che nel second’atto ha pure... ballato. E a proposito di danza, completano il quadro i cinque membri del Corpo di ballo del Teatro, guidati dal coreografo Serge Bennathan.
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Al termine almeno 10 minuti di applausi equamente distribuiti tra tutti i protagonisti di questo spettacolo che merita proprio di esser visto e goduto (RAI5 lo metterà in onda prossimamente). 

23 febbraio, 2020

Il Turco (svizzero) convince Milano


In un Piermarini non proprio stipato (chissà... lo sbifido virus, si son visti spettatori con tanto di mascherina) la prima del Turco in Italia in salsa svizzera (Fasolis) è passata con un franco successo ed ha così rialzato la media della qualità della stagione scaligera, che un Trovatore-così-così aveva un filino abbassato.

Merito della coppia Fasolis-Andò, che ha confezionato uno spettacolo assai godibile e soprattutto ben equilibrato in tutti i reparti: voci, orchestra, coro e messinscena.

A Fasolis mi sento di rimproverare (ma solo nel primo atto) una certa eccessiva sostenutezza di tempi e alcune sbracature bandistiche (copertura di voci inclusa) che sono per fortuna state corrette dopo l’intervallo: la sua è stata comunque una direzione complessivamente apprezzabile, come pure le scelte filologiche del ripristino delle arie di Narciso del primo atto (Un vago sembiante) di Geronio (Atto II, Se ho da dirla) oltre a quella di Fiorilla che segue la cacciata da casa. Condivisibili i numerosi tagli e taglietti ai sempre noiosi (per noi) recitativi secchi.

Andò ha saputo da parte sua trovare il giusto equilibrio fra le componenti buffe e farsesche dell’opera e i risvolti patetici e pure... filosofici del libretto. In particolare è centrata la figura del Poeta, onnipresente in scena ma sempre in balìa degli avvenimenti che si accavallano sotto i suoi occhi. Azzeccata la scelta di far distruggere, nel finale, i fogli del suo lavoro da parte dei protagonisti della vicenda: un modo efficace per mostrare la loro indipendenza dagli stereotipi che il letterato gli ha cucito addosso.
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Bene in generale le voci. Mattia Olivieri è un Prosdocimo autorevole, a dispetto della mancanza, nella sua parte, di vere arie: ma i suoi numerosissimi contributi sono stati esposti con voce solida, senza sbavature, e sempre passante su tutta la tessitura. Stesso discorso per il Selim di Alex Esposito, apprezzatissimo dal pubblico anche per le sue note qualità di attore consumato. Il terzo basso, Giulio Mastrototaro, già buon Sciarrone nella Tosca che ha aperto questa stagione, è stato un po’ la rivelazione della serata, con una maiuscola interpretazione del complesso personaggio di Geronio: che lui ha proposto con proprietà di fraseggio e senza facili e farsesche sbracature da macchietta. Andò lo ha fatto pure cantare in platea (che non è proprio il posto migliore per farsi... sentire) ma lui ha superato brillantemente anche questa difficoltà.

Rosa Feola tornava in Scala dopo l’Elisir dello scorso autunno, ed ha confermato quanto di buono emerso allora: la voce è calda e senza sbavature, gli acuti ben portati; forse le note gravi sono da... rendere più udibili, ma poi anche la sua presenza scenica le ha garantito ampi consensi. La parte di Zaida non è certo proibitiva, ma Laura Verrecchia ce l’ha porta con calore e con quel pizzico di patetismo che ben si addice al personaggio.

I due tenori: Edgardo Rocha (Narciso) si conferma in progresso (lo avevo sentito nel ruolo 5 anni fa a Torino, dove non mi aveva proprio entusiasmato, poi meglio aveva fatto due anni dopo qui in una Gazza ladra): voce sottile, ma che riesce a passare anche in un ambiente come quello del Piermarini. Manuel Amati (Albazar) invece, oltre a voce piccina, fa pure fatica a farla arrivare su in loggione, dove la sua Ah, sarebbe troppo dolce si fatica davvero a udirla come si deve.

Si ode invece benissimo, e fin troppo, il coro di Casoni, che travolge, nei pezzi d’insieme, anche le voci dei protagonisti. Sui suoi livelli l’Orchestra, a parte le citate escandescenze impostele da Fasolis.   
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Roberto Andò - benissimo coadiuvato da Gianni Carluccio per scene-luci e Nanà Cecchi per i costumi - come detto firma una regìa sapiente ed elegante, che il pubblico alla fine ha mostrato di apprezzare assai (che scarto rispetto all’accoglienza riservata al Trovatore di Hermanis!)

La scena è praticamente spoglia, vi trovano posto sporadicamente piccole suppellettili (un divano, un tavolo, sgabelli) tutte rigorosamente dello stesso legno (tinta beige-noisette) del tavolato. Dal quale emergono come dall’aldilà (per poi scomparirvi) attraverso ampie botole i vari personaggi, che altre volte entrano ed escono di scena trascinati da sottili pedane traslanti da sinistra a destra o viceversa. Sul fondo onde di un mare dipinto o una muraglia penetrabile; ai lati e frontalmente scendono e risalgono pannelli raffiguranti interni o esterni di abitazioni; nulla più.

I costumi sono appropriati all’ambientazione dell’opera, tutti assai sgargianti ma raffinati. Le luci ben impiegate, anche a supportare i risvolti psicologici di alcune scene (ad esempio quella del ballo mascherato e del ripudio subito da Fiorilla).

Intelligente e sempre equilibrata la recitazione dei personaggi: niente facili sguaiatezze o cachinni, il tutto sempre mantenuto entro limiti di buongusto, perfettamente appropriati al soggetto agrodolce dell’opera.
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I definitiva, una proposta che si è meritata i lunghi applausi e le ripetute chiamate che il pubblico ha riservato a ciascuno e a tutti. Tre ore ben spese, se non altro per esorcizzare la psicosi della quarantena (!)

Adesso però mi preparo partire per Roma, dove mi aspetta un Onegin dal quale mi... aspetto molto.

22 febbraio, 2020

laVerdi-19-20 - Concerto n°17


Atteso ritorno in Auditorium di Oleg Caetani, che ci presenta Mozart e Scriabin, in un concerto dall’impaginazione classica: Ouverture, concerto solistico e sinfonia.

La serata si apre con Così fan tutte, l’Ouvertura dell’ultima collaborazione Mozart-DaPonte, un brano di meno i 5 minuti che serve davvero a dare la carica a Orchestra e ascoltatori! Una cascata di crome svolazzanti, che impegnano gli archi ma soprattutto i legni e in particolare ancora le prime parti al flauto, oboe e fagotto (un po’ meno al clarinetto). L’Orchestra è guidata dal concertino Danilo Giust, promosso per Mozart a far da spalla; Caetani lascia briglia sciolta e ne esce uno spumeggiante antipasto che mette tutti (i pochi ma buoni in sala...) di buonumore.  
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Ancora Mozart e un concerto - il K242 - che pone serie difficoltà esecutive... ma non tanto a chi suona (fu composto per tre dilettanti, una signora e le due figlie...) bensì a chi deve preparare il palco: come sistemare tre pianoforti! Ecco una soluzione con i tre strumenti allineati e senza il podio direttoriale: è Solti che dirige la English Chamber e suona la parte facile (piano-3) con Schiff al piano-1 e Barenboim al 2. Qui da noi invece i tre catafalchi sono stati messi fianco-a-fianco (piano 1 e 3 con tastiera a sinistra per chi guarda) proprio come in questa esecuzione giapponese dove la grande Argerich fa la... piccola al piano-3, lasciando le due parti principali ai figli d’arte del grande Friedrich Gulda: unica differenza la posizione del podio, che in Auditorium è davanti ai tre pianoforti.

I tre pianisti sono Igor Andreev (32enne di Kaliningrad); Hans Hyung-Min Suh (30enne coreano trapiantato in USA, dove ahilui ha anche avuto qualche disavventura... extramusicale) e Lin Ye (28enne cinese ormai di casa in Europa e USA). Furono i tre primi classificati al Concorso pianistico Rina Sala Gallo (Monza, 2018, Vladimir Ashkenazy presidente di giuria) dove suonarono la prova finale proprio con laVerdi.

Pezzo abbastanza facile (credo) da suonare e gradevole da ascoltare, ed esecuzione accolta con calore e ripetute chiamate per i tre giovani pianisti.
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Dopo un intervallo più lungo del solito (per far scomparire nelle viscere dell’Auditorium i tre pianoforti...) si chiude con la Terza di Scriabin, che l‘immaginifico compositore russo sottotitolò, con impareggiabile modestia (credendosi Dante...) Poema divino! Una delle tappe (con gli altri due poemi-sinfonie, l’Estasi e il Fuoco) verso la fine dell’Umanità e il raggiungimento dell’estasi universale, un progetto da nulla, che per fortuna (o purtroppo, visto che la sua realizzazione avrebbe fermato la storia più di un secolo fa, risparmiando al mondo qualche piccola disgrazia...) rimase in gran parte sulla carta.

Avendo già scritto (denigrazioni incluse, haha...) del Divin poème a suo tempo, non sto qui a ripetermi. Caetani arriva con la bacchetta in una mano e un microfono nell’altra: ma non per spiegarci la sinfonia, bensì per raccontarci aneddoti biografici sull’Autore (evabbè...) L’Orchestra si è ingigantita e vonDellingshausen si è ripreso la sedia del Konzertmeister. Caetani dispone le due arpe alle estremità opposte del palco, per ragioni... stereofoniche; le viole sono al proscenio.

A dispetto dell’indicazione agogica Lento, il maestro parte in quarta, facendo eseguire ai bassi di fiati e archi il motto della Sinfonia a passo di carica! E poi per tutto il tempo non fa che mettere in risalto ogni possibile contrasto. Con ciò rendendo sicuramente più digeribile questa velleitaria mappazza del visionario moscovita.

Il che garantisce sempre un successo travolgente, il cui merito personalmente distribuisco per il 90% alla bravura degli esecutori e del Direttore, lasciando all’Autore le briciole!