affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

11 gennaio, 2018

Per la prima volta un Pipistrello svolazzerà nel Piermarini (1)


Il prossimo venerdi (19) alla Scala andrà in scena - per la prima volta in assoluto, dal lontano 1874! – Die Fledermaus, operina-operetta-singspiel-divertissement-vaudeville, o come la si voglia definire, del papà (o figlio, ecco) del Walzer, Johann Strauß jr. Come (troppo...) spesso accade, uno dei protagonisti, forse il principale, dello spettacolo, il venerabile Zubin Mehta, ha dato forfait causa convalescenza da un’operazione alla spalla e così Pereira ha dovuto ripiegare sul (comunque) solido Cornelius Meister, che speriamo non faccia rimpiangere troppo il grande assente.

Si usa normalmente attribuire alla straussiana(-bavarese) Rosenkavalier la qualifica e l’onore di opera rappresentante, al più alto grado, uno spaccato della società e della vita viennesi a cavallo fra ‘800 e ‘900. Beh, forse sarebbe il caso di rettificare, almeno in parte, questo giudizio. E non certo perchè lo straußiano(-viennese) Fledermaus possa pretendere di competere artisticamente, esteticamente e musicalmente con il capolavoro  del grande Richard (il solito Hanslick ne scrisse come di musichetta...) ma perchè dipinge e mette alla berlina, con dissacrante e cinica parodia, la corruzione dei costumi della civiltà viennese dei tempi del Re del Walzer, mentre il Rosenkavalier, se letto e osservato bene e da vicino, nella lettera come nello spirito, di quella società presenta e ricorda (e rimpiange, semmai) le remote, sane ed eroiche origini settecentesche.

Il Cavaliere si chiuderà infatti sull’apertura delle porte di un nuovo mondo (Sophie & Octavian) fatto di sincerità e di libertà di scelte e sulla stipula di un nuovo, più moderno patto sociale (Marie-Theres’ & Faninal). Nessuna morale seria, in senso stretto, si può invece cavare dal Pipistrello, dove alla fine della storia (quintessenza di amoralità e di penuria di sani principii) tutto sembra tornare alla normalità e quindi... al preesistente degrado di una società senza ideali e perciò senza futuro. Una società che invece di interrogarsi sulle cause di eventi come il crack della borsa viennese del 1873, seguito alle ubriacature finanziarie dell’Esposizione Universale, e la contemporanea epidemia di colera, sperava di dimenticare tutte le sue disgrazie ballando il walzer e brindando a champagne!    

Nel Fledermaus non c’è un solo, ma proprio neanche mezzo, personaggio cui attribuire caratteri positivi: dal primo all’ultimo, sono tutti gente arida, ipocrita, approfittatrice, priva di scrupoli e di morale. Vediamo: Eisenstein è un ricco ereditiere (volgarmente: mangiapaneatradimento) dedito a intrallazzi e a tradire la moglie. La quale (Rosalinde) ha contratto un matrimonio di pura convenienza, così quando il marito se ne va... in galera lei trova il tempo (sotto apparenti profferte di fedeltà) di ripagarlo ipocritamente della stessa moneta con tale Alfred, tenore e maestro di canto del travestito Orlofsky, che è un classico rampollo di boiardo russo, verosimilmente un affamatore di contadini. La servetta di Rosalinde (Adele) sa benissimo come sfruttare la situazione in quella famiglia di spregevoli padroni (e poi a casa del russo) e si fa i cazzi propri inventando fandonie in quantità industriale. Il mefistofelico dottor Falke è degno sodale di intrallazzi e di avventure di Eisenstein, che non esita a sputtanare – preparandogli un gran trappolone - in risposta all’esser stato da lui sputtanato tempo addietro, quando fu esposto al pubblico ludibrio, bardato appunto da pipistrello. Frank è un direttore di carcere dalla deontologia degna di un camaleonte. Blind (un nome, una certezza!) un azzeccagarbugli da strapazzo. E fermiamoci pure qui, per pietà degli altri minori.

Ne combinano ovviamente di cotte e di crude, meriterebbero tutti, per come si comportano, di finire in galera, e invece... dalla mattinata trascorsa nei locali della galera riemergono tutti ipocritamente purificati e riabilitati dai loro peccati, pronti a riprendere seduta stante la loro normale quanto spregevole esistenza, dopo un bel brindisi a champagne. Insomma, una storia assai poco edificante, di cui la brillantezza della musica e le scenette esilaranti finiscono, invece che per mascherare, per accentuare al contrario tutta la carica negativa.
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La Scala pare volersi distinguere per approccio politically-correct, e così, decidendo di rispettare la volontà dell’Autore riguardo al principe Orlofsky (mezzosoprano en-travesti) revoca lo status alla cantante, presentandocela come Princesse Orlofskaya, roba da bigottismo davvero degno di miglior causa...

Altra curiosità nel cast riguarda l’interprete dell’avvinazzato carceriere Frosch, figura tradizionalmente affidata a personaggi da avanspettacolo. In origine la Scala aveva scelto nientedopodomanichè Nino Frassica, poi ha ripiegato su Paolo Rossi, come dire... dalla padella nella brace.

Da ultimo non si può non ricordare la faccenda dei balletti che precedono la chiusura dell’Atto secondo. Strauß ha previsto una lunga e cosmopolita sequenza di danze, in omaggio agli invitati stranieri di Orlofsky (Vienna aveva ospitato per l'appunto l’Esposizione Universale): peccato che si tratti – stranamente – di musica di ispirazione miserella, come si può constatare qui, in una registrazione completa dei balletti eseguita da Karajan nel 1960: Spagna, Scozia (1’22”), Russia (2’19”), Bohème (3’43”), Ungheria (5’11”, che riprende la czarda cantata poco prima da Rosalinde). E così Harnoncourt si limita a presentare le sole ultime due danze (da 1h41’28” a 1h44’55”). Ecco che allora, già dai tempi delle prime recite, si preferì l’adozione di musiche, diciamo più... trascinanti, quali le polke tipo Trisch-Trasch o Unter Donner und Blitz (qui appunto quest’ultima, adottata dal sommo Karl Böhmche peraltro fa cantare il diciottenne Orlofsky al venerabile Windgassen... - da 1h32‘33“ a 1h35‘56“).

Altre volte si è esagerato, chiamando in scena personaggi tanto famosi quanto... alieni: già nel 1884, per il compleanno dell’Autore, furono invitati cantanti che avevano rese celebri altre operette. Poi l’idea di trasformare la festa del second’atto in una passerella per celebrità del momento fu raccolta da Heinrich (Cohn) Conried, Direttore del MET, che nel febbraio del 1905 fece intervenire le più famose voci del teatro newyorkese, fra le quali Enrico Caruso (nel quartetto del Rigoletto), Antonio Scotti (Falstaff), Maria de Macchi (Semiramide) e fece eseguire poi brani dal Faust e altri pezzi di Grieg e Delibes (e per l’occasione raddoppiò il prezzo dei biglietti...) Nel 1960 Karajan diresse a sua volta un’edizione comprendente il gala del second’atto, con interventi di numerosi e famosi cantanti dell’epoca: Renata Tebaldi, Fernando Corena, Birgit Nilsson, Teresa Berganza, Joan Sutherland, Jussi Björling, Leontyne Price, Giulietta Simionato, Ettore Bastianini, Ljuba Welitsch. 

Più recentemente, in questa recita del 1977 a Londra, diretta manco a farlo apposta da Zubin Mehta, al posto dei 5 balletti originali vengono inseriti (da 1h31’00” a 2h01’53”) addirittura 30 minuti di vero e proprio spettacolo-nello-spettacolo, dove assistiamo (1h31’40”) alla Explosions-Polka; poi (1h34’35”) a Prey che canta il Lagunen-Walzer da Eine nacht in Venedig; quindi (1h38’20”) ad un’esibizione di Barenboim (in Chopin) e poi di Stern (in Mendelssohn, 1h48’55”) prima della chiusura (1h56’05”) con il famoso Frühlingsstimmen. Nell’atto di apertura, con un certo sprezzo del buongusto (cosa non infrequente nello humor albionico...) ci tocca pure di ascoltare (27’26”) l’Addio di Wotan!

Sei anni dopo la cosa si è ripetuta, sempre con Dame Kiri e Hermann Prey (che si ripete in Wotan a 34’08”) diretti dal Topone, ma con ospiti in parte diversi: dopo la polka (1h39’25”) Prey canta (1h42’02”) un brano dallo Zigeunerbaron, quindi ecco (1h45’53”) il famoso (in UK) duo di travestiti George Logan (come Evadne Hinge, al piano) e Patrick Fyffe (come Hilda Bracket); e infine (1h52’18”) il celebre Charles Aznavour.

Nel 1990, sempre a Londra, ci fu un gala dedicato alla Sutherland, con Pavarotti e Horne. Beh, vedremo alla Scala con che cosa ci sorprenderanno.
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(1. continua

29 dicembre, 2017

laVerdi 17-18 – Concerto n°10


Da oggi e fino al prossimo lunedi sera laVerdi offre ben quattro esecuzioni della Nona beethoveniana, tradizionale appuntamento di Capodanno in Auditorium. Quest’anno, dopo averci regalato la sua appassionata lettura dell’altro chiodo fisso delle stagioni dell’Orchestra (il Requiem verdiano) è ancora Elio Boncompagni a salire sul podio per quello che sarà il suo ultimo appuntamento della stagione che si concluderà a giugno ’18.

Questa sera la sala di Largo Mahler è stata letteralmente presa d’assalto (e tutto lascia prevedere che lo sarà nelle tre successive repliche) da un pubblico che ha seguito l’esecuzione di orchestra, coro e solisti in quasi (tossi e raffreddori permettendo) religiosissimo silenzio, per esplodere poi, sulla conclusiva scalata di RE maggiore, in un autentico boato di liberazione, come nessun altro evento musicale sa forse suscitare in corpi e anime. Orchestra stranamente orfana di entrambe le sue spalle, peraltro ben guidata da Danilo Giust: signore in rosso e papillon pure rosso per i maschietti.    
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L’approccio di Boncompagni è stato assolutamente conservativo, sia nella scelta dei tempi (abbastanza... toscaniniani, ecco) che in quella dei contenuti (niente da-capo nella ripresa dello Scherzo). Si è trattato, almeno per me, di un’esperienza più che positiva.

Mediamente all’altezza dei rispettivi compiti almeno tre dei quattro solisti: Cinzia Forte, Stefanie Irányi e Carlo Allemano. Il basso Simon Schnorr, purtroppo per lui, un po’ sotto la sufficienza, per l’eccessivo vociferare. Certo lui ha l’attenuante di essere arrivato all’ultimo momento a sostituire l’indisposto titolare Sebastian Holecek, oltre che quella naturale di dover aprire il canto con quel micidiale recitativo O Freunde! Sempre sui suoi standard il Coro di Erina Gambarini, che Beethoven chiama, insieme ai solisti, ad un impegno proibitivo, superato in assoluta brillantezza!

Alla fine il solito bis con la ripetizione della sezione finale dell’Inno schilleriano.
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Personalmente il momento che sempre mi emoziona di più all’ascolto della nona è quello che arriva quando violini secondi e viole fanno emergere suoni paradisiaci da questi apparenti scarabocchi:


E c’è n’è proprio bisogno, in tempi che ci riservano ogni giorno miserabili spettacoli di inciviltà e di incultura... che c’è poca speranza che anche il 2018 potrà ahinoi evitarci. E allora: un buon anno nuovo in musica, a chi la fa e a chi l'apprezza.

21 dicembre, 2017

laBarocca è tornata con GesùBambino


In vista del Natale, è tornato dopo qualche tempo l’appuntamento con laBarocca di Ruben Jais per il colossale Messiah di Händel. Così come fatto in passato, il Direttore ha presentato in-toto la Prima Parte (che tratta propriamente della Natività) accorpando poi in una sola le successive due Parti (Resurrezione e Secondo Avvento). In complesso due blocchi di circa 60 minuti, abbastanza equilibrati anche rispetto alla... concentrazione richiesta allo spettatore.

Cast interessante, con il soprano Deborah York, che tornava qui dopo 5 anni (allora in Bach); il contralto (o controtenore che dir si voglia) Filippo Mineccia; il tenore Cyril Auvity e il baritono Renato Dolcini. Tutti assai ben preparati e convincenti, così come il collaudato Ensemble vocale di Gianluca Capuano.

Prima parte tenuta da Jais con approccio assai sostenuto, seconda più... vivace. Immancabile bis dell’Hallelujah con auguri natalizi, che il foltissimo pubblico ha accolto con grande entusiasmo.


18 dicembre, 2017

Faust (con chiassata) a Roma


La terza recita della Damnation all’Opera di Roma è stata ieri teatro di una clamorosa contestazione, durante e alla fine del Quadro I. Di questo colorito episodio sono in grado di riferire qualche dettaglio sfuggito al pubblico, dato che casualmente mi trovavo proprio nello stesso palco di platea dove sedeva, ad un posto di parapetto, davanti a me, la solitaria contestatrice.

Trattasi di signora diversamente giovane, francese (di Marsiglia), melomane incallita e abituale frequentatrice del Costanzi, che prima dell’inizio aveva intrattenuto i compagni di palco sciorinando una dongiovannesca lista di frequentazioni di teatri europei (ultimo, Valencia per un DonCarlo col Topone). Spazientita già alla vista del povero Faust michielettiano, affetto da mille complessi, aveva cominciato a dimenarsi emettendo sordi mugugni; ma poi, di fronte alla scena dello smutandamento del protagonista da parte dei tre bulli compagni di classe, ha cominciato ad inveire con termini irripetibili (pur se in lingua gallica, ma erano dei vaffa... e peggio). Devo dire di essere personalmente e rispettosamente intervenuto, a gesti e parole, suggerendole di rimandare le contestazioni a più tardi, evitando di disturbare la recita in corso. Cosa che lei ha fatto, a dir il vero.

Peccato che due minuti dopo, chiusa la Rácóczy, Gatti abbia abbassato la bacchetta per permettere al pubblico di applaudire (meritatamente) l’orchestra (in effetti la marcia è un pezzo di grande effetto e fa quasi da ritardata ouverture all’opera). Apriti cielo! La nostra non vedeva l’ora di poter riprendere la sua rumorosa e lunga lista di improperi, suscitando qualche sporadico fischio di altri contestatori, subito subissato dagli applausi dei più. Qualcuno dalla platea le ha gridato di andarsene, cosa che lei ha fatto davvero, all’inizio del Quadro III... per rientrare poi nel palco solo alla fine della recita (?!)
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Ora, io non voglio certo giustificare le sue intemperanze, davvero maleducate, ma per una come lei che evidentemente conosce il testo di Berlioz a memoria, il biglietto da visita del regista dev’essere stato proprio insopportabile. Ciò mi dà modo di affrontare subito il tema regìa, sul quale mi ero già laconicamente espresso dopo visione televisiva, parlando sostanzialmente di eccesso nel voler strafare da parte di Michieletto.

Il peccato originale della sua impostazione, secondo me, non sta certo nell’aver contestualizzato il soggetto ai giorni nostri, ma di aver palesemente cambiato i connotati al Faust ante-Mephisto (per così dire). In effetti, tutto ciò che il regista ci mostra dopo l’entrata in campo del diavolaccio è perfettamente compatibile con il soggetto di Berlioz(Goethe) che si allontana manifestamente dalla realtà sensibile per inoltrarsi su un territorio di pura speculazione e di metafisica. Dove Faust è tornato giovane e come tale torna anche a provare sentimenti e desideri (e anche a commettere errori) tipici di un giovane, uscendo dallo stato di totale indifferenza per la vita (e di tentazione al suicidio) cui l’aveva portato – attenzione però – l’eccesso di attaccamento morboso alla cultura e non un passato di disgrazie familiari (il padre alcolizzato, la madre morta prematuramente) e di umiliazioni da bullismo patite a scuola, come si inventa il regista di sana pianta!

Per un attimo mi era venuto di pensare che l’idea di Michieletto - mostrarci anche all’inizio dell’opera un Faust adolescente e non maturo - fosse derivata dalla lettura delle Memorie che Berlioz stesso ci ha lasciato, pubblicate in due volumi, e in particolare da quanto si legge nel Capitolo 40, titolato Variété de spleen. L’isolement. Lì troviamo sorprendenti riferimenti ai primi due e al quarto Quadro della Damnation, ma addirittura la prefigurazione dei desideri di Faust! Dunque, Berlioz racconta di quando, ancora studente sedicenne a Côte-Saint-André (suo paese natale, al centro della pianura fra Lione e Grenoble) si trovò un mattino a leggere, sdraiato sull’erba all’ombra di una quercia, un romanzo (di un francese) ambientato a Posillipo. In quel momento arrivarono alle sue orecchie canti di una processione propiziatoria del raccolto, con versi quali Sancta Maria, ora pro nobis, Sancta Magdalena, ora pro nobis (che ritroviamo pari-pari nella cavalcata verso l’abisso del Quadro IV dell’opera). Ma soprattutto la vista delle Alpi maestose all’orizzonte gli provocò un irrefrenabile desiderio di andare di là, verso l’Italia, verso Napoli e Posillipo, dove la sua immaginazione, eccitata dalla lettura del romanzo, gli faceva balenare alla mente passioni, felicità, segreti, amori, la gran vita! (pare proprio Faust...) E invece lui si ritrovava lì, a rotolarsi a terra, stringendo ciuffi d’erba e... margheritine (!)

Ecco il senso di isolamento, che lo colse allora e che sarebbe tornato a coglierlo più volte in futuro. Qui Berlioz fa sfoggio anche di ardite nozioni chimiche, paragonando i moti del suo animo e del suo corpo ad un processo termodinamico: una ciotola d’acqua ed una di acido solforico messe sotto una campana di vetro da cui viene aspirata l’aria, creandovi il vuoto; l’acqua va in ebollizione e viene assorbita dall’acido; quella poca che resta, per reazione esotermica, diventa un blocco di ghiaccio. Una simile reazione viene provocata, dal senso di isolamento, nel corpo del compositore: nel suo petto si crea un vuoto che fa evaporare il cuore; il resto del corpo si surriscalda, mentre la vita sembra sfuggire verso i quattro punti cardinali. Tuttavia non c’è desiderio di morte, nè di suicidio, al contrario cresce un desiderio di vita e di felicità, da soddisfare con immensi, furiosi e divoranti godimenti. Solo dopo arriva lo spleen, che è il blocco di ghiaccio che rimane al termine della reazione chimica; l’effetto è di creare nel soggetto che lo subisce la più grande indifferenza verso l’intero universo (Quadri I e II...)

Ora, dal passo citato emerge chiaramente la personalità di un ragazzo dotato di una straordinaria carica positiva, che gli deriva da attività intellettuali (la lettura di libri, caratteristica del Faust di Goethe come di quello di Berlioz) e non la personalità nichilista di una povera vittima di eventi nefasti. Per Berlioz, e quindi per il suo Faust, lo spleen, che porta all’indifferenza per ogni cosa e all’idea del suicidio (poi scongiurato da un richiamo religioso) arriva dopo una fase di grandi slanci vitali e non a fronte di una serie interminabile di disgrazie e vessazioni come quelle che colpiscono il povero Faust di Michieletto.
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Le Mémoirs contengono poi (secondo volume) la Terza lettera a Humbert Ferrand, dove troviamo un riferimento dettagliatissimo alla Marcia ungherese che Berlioz impiega per chiudere il Quadro I. Essa viene composta in un battibaleno a Vienna, alla vigilia della tappa ungherese del viaggio del compositore nell’Impero austro-ungarico. Nella capitale magiara (Pest, ai tempi non ancora gemellata con Buda...) il compositore ha in programma un concerto, e non gli par vero di infilarci, come brano di chiusura (sempre in grande, il nostro!) la sua freschissima trascrizione del motivo musicale più popolare laggiù (come poteva essere in Francia la Marsigliese!)

Ebbene, smentendo tutte le preoccupazioni e i timori (per le accuse di lesa-maestà) della vigilia, la marcia ha un successo di portata storica, il pubblico va in delirio, la interrompe con manifestazioni di giubilo, la si deve ri-eseguire e alla fine Berlioz è letteralmente portato in trionfo, promosso sul campo eroe nazionale!

E non per nulla la Rácóczy, ricordo di una sua grandiosa impresa, viene infilata da Berlioz nel Quadro I, appositamente ri-ambientato in Ungheria!

Michieletto? Ce la propina come colonna sonora dello smutandamento del suo povero Faust da parte dei tre bulli suoi compagni di classe! Beh, diciamolo francamente: come non comprendere – pur senza giustificarle – le escandescenze della babbiona marsigliese...
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I quadri (il cui titolo appare sul grande schermo) che Michieletto sovrappone alle scene di Berlioz sono tutto sommato rispettosi (esclusa, come ripeto, la rievocazione del passato di Faust) del soggetto originale, pure interpretato in modo... originale!

Ad esempio la premonizione (Faust preparato ad un’operazione al cervello – cui non sopravviverà - su un lettino di ospedale durante la ninnananna di Méphistophélès e il coro di gnomi e silfidi) che vediamo nel Quadro II è una efficace trovata per chiarirci che Faust è ormai vittima del suo diavolo interiore, che alla fine lo perderà.     

Non mancano anche immagini poetiche, come quella dei due bambinetti che impersonano Faust e Marguerite nel Quadro III, in bilico sull’asse di equilibrio nel tentativo di congiungersi, e che vengono sul più bello scaraventati a terra dall’irruzione del bieco Méphistophélès; e poi, poco dopo, la mela che lo stesso Méphistophélès (= serpente di un Eden di cartapesta destinato a crollare miseramente) fa calare ad interporsi fra le bocche dei due amanti, vicinissimi a scambiarsi un estatico bacio.

Ma a proposito di baci, ecco invece uno dei non pochi momenti di caduta-di-stile del regista: il bacio vero, e proprio sulla bocca, che si scambiano Faust e Méphistophélès, puerile quanto becera, e credo controproducente, propaganda pro-matrimoni-gay. E poi la scena di un mezzo stupro consumato dallo sbifido diavolo sulla povera Marguerite (?!) o i nudi (peraltro ipocritamente castigati nel... bottom) infilati un po’ a caso.

Strampalate (anche se evidentemente sono conseguenza del suo... peccato originale) mi sembrano altre trovate del regista: la figura del padre alcolizzato di Faust, che compare in scena infilandosi nello stesso letto del figlio (talis pater...) e che poi scopriamo essere l’indossatore della pelle di topone (no, non Placido, haha!) che serve a supportare la filastrocca di Brander (peraltro efficacemente presentata, tipo-sanremo).

E poi il mistero della chiave, che compare fin dal secondo Quadro sulla bara della madre di Faust, poi è portata da Marguerite sull’asse di equilibrio dove salgono i piccoli alter-ego; quindi ancora protagonista – in centinaia di esemplari – quando il diavolo ne butta un’intera scatola ai piedi della povera ragazza, che invano cerca quella giusta per aprire la porta che la condurrebbe da Faust, per salvarlo. Chiave giusta che poi lei trova, ma in ritardo, e che poserà sulla bara di Faust alla fine. Ora, rileggendo parola per parola il testo di Berlioz, l’unico appiglio per una possibile spiegazione di questa criptica trovata è la frase che Méphistophélès pronuncia per indurre Faust a firmare il patto con lui (ultimo Quadro) in risposta al ragazzo che lo implora di salvare Marguerite: È ancora in mio potere aprirti questa porta! Ma sarà così? E quanti hanno una spiegazione più convincente?
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Il coro, anzi i cori: nella Damnation troviamo contadini, soldati, studenti, folletti, diavoli e angioletti. La loro gestione in scena sarebbe assai complicata (anche se ad un regista come Michieletto non dovrebbero mancare spunti per trovate sorprendenti...) e forse questa è la ragione per cui il regista ha deciso di presentare il coro in-forma-di-concerto (!)

Ecco, vengo alla musica. Gatti su tutti, mi sentirei di dire, per come ha saputo tirar fuori le bellezze e pure le... stranezze del sempre ostico Berlioz. L’orchestra mi pare abbia risposto bene: apprezzabili soprattutto i passi più delicati, in pianissimo, che sottolineano le scene oniriche dell’opera.

Quanto alle voci, rispetto all’ascolto radio-tv le cose sono andate un filino meno bene (ma è normale che il microfono-in-bocca di cui vengono dotati i cantanti per le riprese falsi irrimediabilmente la resa). Mantengo un giudizio largamente positivo solo su Alex Esposito, retrocedendo a sufficiente+ la Veronica Simeoni (con il limitato, nei tempi di canto, s’intende, Goran Jurić) e a sufficiente- Pavel Černoch.

Per tutti, comunque (team registico escluso, poichè non-pervenuto sul palco alla fine) grandi applausi e ovazioni, in un Costanzi piacevolmente affollato. Quindi, una trasferta (per quanto mi riguarda) tutto sommato proficua.

16 dicembre, 2017

laVerdi 17-18 – Concerto n°9


Sul podio de laVerdi torna il violista-direttore Maxim Rysanov, per dirigervi un concerto (quasi) tutto mozartiano.

L’eccezione è il pezzo che apre la serata, Fratres del compositore estone Arvo Pärt, brano di cui viene eseguita qui una delle innumerevoli versioni succedutesi negli anni (a partire dal 1977): quella per archi e percussioni.

Ad un ascolto passivo si rimane piacevolmente coinvolti dalla nobile spiritualità del brano, la cui agogica resta immutata per tutto il tempo (circa o poco più di 10') e dove la dinamica ha un picco poco dopo la metà del percorso. Sempre al primo ascolto si noteranno il continuo bordone di violoncelli e contrabbassi (una quinta vuota grave LA-MI) e i reiterati interventi delle percussioni (clave / tomtom o grancassa coperta) sempre sul primo, terzo e quarto tempo di due battute di 6/4 ad anticipare la melodia degli archi alti (e poi dei celli); cosa che si ripete precisamente per nove volte, semplicemente mutando le altezze dei suoni (la prima nota parte da MI e poi, nelle successive riprese, scende di terza minore o maggiore, quindi: MI-DO#-LA-FA-RE-SIb-SOL-MI-DO#).

Quanto alla melodia (escludendo quindi le due battute affidate alle sole percussioni) essa si snoda su 6 battute suddivise in due blocchi di 3: nel primo blocco viene esposto il tema, a sua volta creato per arricchimento successivo (4 note nella prima battuta in 7/4, 2 note in più nella seconda in 9/4 e altre 2 note in più nella terza in 11/4); il secondo blocco di 3 battute ripresenta il tema in forma cancrizzante, dove cioè in ogni battuta le note si succedono in sequenza retrograda rispetto all’originale:

Il tutto ci dà l’impressione di un imperturbabile fluire sonoro che trasmette oniriche sensazioni di pace.

E invece, guarda un po’, dietro tutto questo c’è nientemeno che una costruzione scientifica, un’invenzione di Pärt, basata su ciò che lui ha battezzato tintinnabuli. In parole povere, la melodia principale viene accompagnata, nota per nota, da una nota (tintinnabuli, appunto) di una triade caratteristica del brano (nel nostro caso: LA minore, LA-DO-MI). Le note tintinnabuli stanno in altezza sopra o sotto la nota della melodia e possono essere solo due note della triade: quella più vicina o la seconda più vicina a quella della melodia, evitando però consonanze e aspre dissonanze. Ecco qui un esempio preso dalla partitura (battuta 5):

In questo caso (e per l’intero brano) la melodia è suonata da due strumenti a distanza di una decima (MI-DO# sulla prima nota della battuta) e i tintinnabuli sono posti sempre ad altezza intermedia fra quelle delle due note di melodia, secondo la regola esposta. Quindi sulla prima nota (MI-DO#) ecco comparire un LA, che è la nota della triade di LA minore più vicina alle note di melodia DO# e MI (qui il LA è scartato perchè consonante e il DO è scartato per non creare dissonanze con il DO#). Sulla seconda nota (RE-SIb) abbiamo il MI, che permane anche sulla nota successiva (DO#-LA). Segue il DO (su SIb-SOL) e così via.

Proviamo a seguire l’esecuzione di questa versione 1983-1991, diretta da un compatriota dell’Autore, il più giovine rampollo della gloriosa famiglia Järvi:

0”  primo intervento percussioni
13”  prima esposizione tema (parte 1) dal MI
46”  prima esposizione tema (parte 2)
1’16”  secondo intervento percussioni + tema dal DO#
2’33”  terzo intervento percussioni + tema dal LA
3’49”  quarto intervento percussioni + tema dal FA
5’06”  quinto intervento percussioni + tema dal RE
6’19”  sesto intervento percussioni + tema dal SIb
7’35”  settimo intervento percussioni + tema dal SOL
8’53”  ottavo intervento percussioni + tema dal MI
10’21”  nono intervento percussioni + tema dal DO#
11’59”  intervento percussioni di chiusura

Insomma, Pärt ha inventato un metodo compositivo che tende a garantire sempre una stabilità (ed una gradevolezza) armonica; al contrario, per dire, del metodo seriale, che tale stabilità e gradevolezza esclude di fatto.

Per le nostre orecchie (beh no, parlo per me) molto meglio questo Pärt... E ieri sera Rysanov e l’Orchestra ci hanno offerto un’esecuzione invero coinvolgente, dosando perfettamente l’arco delle dinamiche, dal pianissimo iniziale, al limite dell’udibilità, al forte dell’apice sulla sesta ricorrenza, al nuovo pianissimo che chiude il brano.
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Poi, tutto Mozart, come detto. Si parte con la celeberrima Concertante K364 per violino e viola, in cui Rysanov (rientrato in... maniche di camicia) è affiancato dal violino dell’Artista residente Domenico Nordio. Una coppia strepitosa, che ci delizia con quel continuo botta-e-risposta che caratterizza i tre movimenti del brano. Un’Invenzione di Bach corona la loro prestazione, accolta trionfalmente. 
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Dopo la pausa, ancora Nordio nel Quinto Concerto per violino, il più noto ed eseguito dei 5 composti da Mozart, chiamato turco per quel passaggio - appunto, da turcheria – incastrato nel Menuetto finale. Ma anche il primo movimento contiene una... stranezza, con una sezione in Adagio calata inopinatamente nel bel mezzo dell’Allegro aperto.

Nordio ne dà una lettura esemplare, ben supportato da Rysanov e dall’Orchestra, meritandosi a sua volta ovazioni ripagate ancora con Bach.
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Si chiude in bellezza con la K543, la prima del trittico sinfonico con cui Mozart diede l’addio a questo mondo... Rysanov – sempre senza bacchetta – l’affronta col dovuto cipiglio, non risparmia nessun da-capo, nemmeno nel Finale, e i ragazzi (guidati ieri da Dellingshausen) rispondono da par loro. 

Insomma, una serata da incorniciare per chiudere il 2017. A cavallo di Capodanno tornerà l’immancabile Nona.     

14 dicembre, 2017

Chénier in corpore vili


Ieri sera terzo appuntamento per l’opera che ha inaugurato la stagione scaligera, in un Piermarini discretamente affollato.

Dedico l’apertura alla Direzione d’orchestra, che secondo me merita in pieno tutte le lodi che ha ricevuto già dalla sera di SantAmbrogio: Chailly evidentemente non scherzava quando esaltava le qualità di questa musica, che anche ieri lui ha saputo valorizzare al meglio. E l’Orchestra gli ha risposto in maniera adeguata, facendo risaltare la brillantezza della strumentazione di Giordano, senza mai peraltro recar danno all’udibilità delle voci. Non sarà certo un capolavoro assoluto, lo Chénier, ma se viene suonato come si deve il suo figurone lo fa, eccome! E a ciò contribuisce anche la mancanza di soluzione di continuità nel fluire musicale, che fu fortemente voluta dal compositore e che Chailly ha fatto rigidamente rispettare, riportando l’opera alla sua vera natura di dramma, che i tradizionali e pur meritati (dagli interpreti) applausi a scena aperta finiscono per svilire a mera vetrina di gorgheggi privi di sostanza.

Anna Netrebko ha sciorinato la sua voce nobile e ciò è bastato a fare di lei la protagonista della serata. Se la sua presenza scenica fosse pari alla qualità del canto, farebbe forse dimenticare anche Callas, Tebaldi, Stella e tutte le altre interpreti del ruolo di Maddalena (perlomeno da 60 anni a questa parte)!

Il maritino azero (uno dei pochi islamici che persino i leghisti non demonizzano) Youssef Eyvazov è ancora abbastanza acerbo per poter aspirare all’empireo; la sua voce mi vien di definirla secca (in opposizione a morbida...) e quindi per ora finisce (selon moi) alla ghigliottina in quel limbo dove son finiti prima di lui altri cantanti che la Scala ha provato ad inventare quasi dal nulla a SantAmbrogio in anni recenti: Storey e Rachvelishvili, tanto per non far nomi ma cognomi... Limbo da cui gli auguro di uscire in fretta, ma dipende solo da lui, i mezzi naturali non gli mancano di certo, solo vanno meglio disciplinati, il che richiede tanto... olio di gomito.  

Luca Salsi è un buon baritono, ma più in là di così - nelle lodi - non mi sentirei francamente di andare: solida presenza scenica, voce robusta ma (stesso rilievo fatto al tenore) non gestita al meglio, direi, con alcune vociferazioni e sguaiatezze che rischiano di trasferire il verismo in... osteria.

Chi invece è credibile sotto ogni punto di vista è un... Incredibile: Carlo Bosi infatti non si smentisce, da splendido caratterista qual’è, capace di calarsi alla perfezione in ogni personaggio di contorno gli venga affidato: voce sempre squillante e bene impostata, eccellente presenza scenica; come e cosa pretendere di più?

Nei panni della Bersi Annalisa Stroppa (al suo secondo SantAmbrogio consecutivo) se la cava dignitosamente, mettendo in evidenza, sul piano scenico, la sua evoluzione (stando perlomeno a Illica) da servetta a... ehm, puttanella. Vocalmente, la sua parte (a differenza della Suzuki di un anno addietro) è quantitativamente e qualitativamente circoscritta, ma la lei la disegna con efficacia e sensibilità. Con qualche decibel in più salirebbe ulteriormente in classifica... Altrettanto valido Gabriele Sagona (anche lui tornato dopo il 7 dicembre 2016): voce di buona corposità ed emissione sempre ben controllata che gli ha permesso di proporre un convincente Roucher, ruolo peraltro già da lui sostenuto anni fa a Napoli. Mariana Pentcheva è una brillante Contessa, e la giovane Judit Kutasi si cala efficacemente nella parte di... sua nonna (!) la strappalacrime Madelon. Meritevole di elogi anche Francesco Verna, che incarna con appropriatezza scenica e voce ben passante quel mezzo invasato del sanculotto Mathieu. Agli altri comprimari darò un cumulativo voto di ampia sufficienza, ecco.

Benissimo al solito il coro di Casoni, sia negli impegni separati della componente maschile che di quella femminile e nei turbinosi episodi promiscui in piazza e nel tribunale.
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Sulla regìa mi sono già favorevolmente espresso dopo visione RAIca, e qui non posso che confermare quella positiva impressione. Devo quindi complimentarmi con il regista che, a differenza di altre sue esperienze scaligere, e anche in forza degli stretti vincoli imposti dal soggetto, non si è permesso – per fortuna, aggiungo io - di inventare alcunchè. Cosa che non gli ha impedito di allestire uno spettacolo di alto livello, il che a sua volta ha contribuito a valorizzare i contenuti musicali dell’opera.

L’attenzione con la quale Martone ha predisposto la sua messinscena è attestata anche da alcuni (apparentemente) trascurabili dettagli, che il regista ha curato in modo quasi maniacale, mettendo riparo anche a problemi che Illica, nella sua foga narrativa, ha creato con le sue minuziosissime didascalie. Mi limito a citare un paio di esempi.

L’Abatino, quando nel primo quadro ragguaglia i presenti sul clima politico che si respira a Parigi dovrebbe, secondo il libretto, gustare della marmellata, offertagli dalla Contessa: dapprima assaggiandola timidamente, poi affondandovi platealmente e avidamente il cucchiaio. Atto che potrebbe lasciare perplesso lo spettatore, che nulla sa del contenuto della tazza. Allora il regista opta per una soluzione forse più banale, ma certo più efficace, facendo sorseggiare all’Abatino una tazza di caffè (o the, o cioccolata, plausibimente).

Altro esempio riguarda un particolare del terzo quadro: dopo il drammatico incontro-scontro con Maddalena, Gérard promette di far di tutto per salvare Chénier e subito scrive un biglietto che consegna a Mathieu perchè lo recapiti a Dumas (il Presidente del Tribunale); peccato che Illica si dimentichi quasi del tutto di questo particolare e che quindi lo spettatore, oltre a non poter proprio immaginare a chi è destinato lo scritto, fatichi poi a decifrare il cenno di assenso fatto da Mathieu a Gérard. Di più, del biglietto si perde totalmente traccia. Ebbene, Martone trova la soluzione anche a questa evidente sbavatura del libretto: lasciando lo scritto in mano a Gérard, che lo consegna poi personalmente a Dumas al momento di accusarsi di aver falsificato le prove contro Chénier.

In altri casi il regista propone scenari improbabili, anche se lo fa con evidente intento didascalico. Ad esempio il letto che compare in scena nel terzo quadro, nel locale del tribunale: pezzo d’arredamento che lì è del tutto fuori posto, ovviamente, ma serve a mostrarci Gérard convalescente dalla ferita infertagli da Chénier alla fine del quadro precedente, e poi a far da teatro verista alla minaccia di stupro (però con lei... consenziente, obietterebbe cinicamente l’avvocato difensore) di questo Scarpia-ante-litteram ai danni di Maddalena.

Non mancano anche trovate di carattere volutamente più sarcastico che didascalico: in apertura del secondo quadro Mathieu (secondo Illica) si lamenta della polvere che ricopre il busto di Marat e si mette subito a spazzolarla via. Martone lì ci mostra una cittadina che scopa il tetto dell’edificio che sovrasta il busto, facendovi piovere sopra la polvere, che poi sarà la ex-servetta Bersi a rimuovere con tanto di piumino.

Ma a parte queste piccole curiosità, tutto l’insieme funziona assai bene, sia nelle scene di massa (villa Coigny, piazza di Parigi, tribunale) come in quelle di carattere intimistico o drammatico, dove i movimenti di gruppi o dei singoli sono studiati sempre con appropriatezza e totale aderenza al libretto.

Insomma, una regìa per la quale l’aggettivo tradizionale è – perlomeno per quanto mi riguarda - un grandissimo complimento.
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Ieri sera applausi convinti e reiterati per tutti. Ai quali personalmente mi sono associato e mi associo. 

13 dicembre, 2017

Il Faust in versione Michieletto


Tempo addietro si usava l’espressione andare in super-allenamento per descrivere ciò che accadeva ad atleti che, esagerando con i ritmi di preparazione fisica, finivano per compromettere poi le loro prestazioni, anzichè migliorarle.
   
Ecco, dopo aver visto (in TV, per ora) il risultato, mi sentirei di usare questa espressione per descrivere ciò che dev’esser successo a Damiano Michieletto nella preparazione di questa gara messinscena della berlioziana Damnation che ieri ha aperto la stagione all’Opera di Roma.

Se si volesse censire, catalogare, descrivere, commentare e criticare tutta la montagna di idee, di trovate, di intuizioni e di stranezze di cui il regista ha infarcito il suo spettacolo si riempirebbe una Treccani! Sì, perchè, se è vero come è vero che Berlioz si prese, rispetto a Goethe, mille libertà, allora Michieletto, rispetto a Berlioz, se ne è prese un milione. Ottenendo il risultato di dar piena ragione a chi (Berlioz per primo) ha sempre ritenuto e ritiene che la Damnation sia opera per l’orecchio e non per l’occhio.

E devo dire che (pur con le cautele da usare a fronte di un ascolto non dal vivo) Daniele Gatti – insieme al cast, ovviamente - l‘orecchio (per lo meno il mio) lo ha pienamente gratificato.

10 dicembre, 2017

Faust in versione Berlioz apre le danze a Roma


Lasciato spazio (noblesse oblige) al SantAmbrogio meneghino, anche il centro-sud sta aprendo la stagione 17-18. Ieri sera il SanCarlo ha ospitato la pucciniana Fanciulla (non disprezzabile, almeno all’ascolto radiofonico) mentre l’Opera di Roma si appresta ad inaugurare il suo cartellone con una proposta non meno intrigante dello Chénier milanese: La damnation de Faust, affidata alla coppia Gatti-Michieletto, o Michieletto-Gatti, per chi dà più importanza a ciò che il regista si inventerà, rispetto a ciò che il musicista ha composto 170 anni orsono e quindi è già noto a (o notabile da) tutti. Allestimento che si trasferirà poi a Valencia (2018, con Roberto Abbado sul podio) e più in là al Regio di Torino, teatri co-produttori.

La natura stessa dell’opera (légende dramatique, la sottotitolò l’Autore) ha fatto sì che tradizionalmente – a partire proprio dalla prima, all’Opéra-Comique, domenica 6 dicembre, 1846 – essa sia stata proposta in forma di concerto, e solo sporadicamente in versione scenica. Lo stesso Berlioz (piuttosto narcisisticamente, o forse per sfiducia nei registi, chissà...) riconobbe che “la musica ha ali talmente ampie che i muri di un teatro non le permettono di espandersi completamente”. Da qui la curiosità particolare che si riversa sul regista, atteso al varco su opposte sponde, da fan e detrattori. Già ovviamente si conosce l’approccio di fondo di questo allestimento, ma come al solito sarà meglio fare i santomaso...

Intanto val la pena notare (per stigmatizzarlo) il taglio che il Teatro ha dato alla presentazione-video dello spettacolo. Parlano i due responsabili, prima Gatti e poi Michieletto. Chiunque si aspetterebbe che il Direttore dica qualcosa sulla musica di Berlioz, sulla sua grandezza e magari anche su qualche sua magagna... Invece Gatti che fa? Un maldestro pistolotto psico-socio-politico sui problemi dell’uomo moderno, schiavo del cosiddetto progresso e delle tecnologie, che gli precludono la possibilità di provare empatia (parole sue) per il resto dell’umanità. Insomma, un discorso da Regisseur, che spiega il suo Konzept di ciò che verrà messo in scena. Musica? Nemmeno una parola, una virgola, che dico, un accenno anche remoto (???!!!) Poi arriva il vero regista e spiega con grande efficacia ciò che ha ideato per lo spettacolo, che effettivamente si preannuncia coinvolgente ed accattivante.   
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L’opera nacque negli anni-40 dell’800 come completamento e riadattamento della primissima fatica del giovine Berlioz: Huit scènes de Faust (qui l’unica incisione conosciuta) che risale al 1828. La lista sottostante riporta le relazioni fra quel primo abbozzo (titoli fra parentesi) e la stesura definitiva della Damnation:

Prémière Partie

Scène I Plaines de Hongrie
Scène II Ronde de paysans (2. Paysans sous les Tilleuls)
Scène III Une autre partie de la plaine – Marche hongroise

Deuxième Partie
Scène IV Nord de l’Allemagne  
   Chant de la Fête de Pâques (1. Chants de la Fête de Pâques)
Scène V Méphistophélès et Faust
Scène VI La cave d’Auerbach à Leipzig
   Choeur de buveurs
   Chanson de Brander (4. Ecot de joyeux compagnons, histoire d'un rat)
   Chanson de Méphistophélès (5. Chanson de Méphistophélès, histoire d'une puce)
Scène VII Bosquets et prairies du bord de l’Elbe – Air de Méphistophélès
   Choeur de Gnomes et de Sylphes, songe de Faust (3. Concert de Sylphes)
   Ballet des Sylphes
Scène VIII Final
   Choeur de soldats (7b. Choeur de soldats, Joyeuse insouciance)
   Chanson d’étudiants 

Troisième Partie
Scène IX Tambours et trompettes sonnant la retraite (7b. Choeur de soldats)
   Air de Faust
Scène X Méphistophélès et Faust
Scène XI Marguerite
   Le roi de Thulé, chanson gothique (6. Le Roi de Thulé, chanson gothique)
Scène XII Une rue devant la maison de Marguerite
   Evocation
   Menuet des Follets
   Serenade de Méphistophélès (8. Sérénade de Méphistophélès, effronterie)
Scène XIII Chambre de Marguerite
Scène XIV Trio et Choeur

Quatrième Partie
Scène XV  Romance de Marguerite (7. Romance de Marguerite - 7b. Choeur de soldats)
Scène XVI Forêts et cavernes - Invocation à la Nature
Scène XVII Récitatif et chasse
Scène XVIII Plaines, montaagnes et vallées - La course à l'abîme
Scène XIX Pandemonium
   Epilogue sur la terre
   Dans le Ciel
   Apothéose de Marguerite
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Balza subito all’occhio come nella composizione giovanile manchi totalmente la presenza di Faust, che invece nella Damnation entra in scena già all’ottava battuta. Inoltre le Huit Scènes appaiono come una serie di squarci scarsamente connessi fra loro, anche se la sequenza è sostanzialmente rispettosa di quella del testo del Faust-I al quale Berlioz (come più tardi Gounod) si ispirò; sequenza che invece la Damnation non rispetta completamente, come si deduce dallo stesso elenco sopra riportato.

Va anche aggiunto che Berlioz rimaneggiò più o meno ampiamente le parti riprese dalla composizione giovanile: un esempio eclatante è l‘ultima delle Huit Scènes, la Serenata di Mefistofele, che vi è accompagnata dalla sola chitarra, del tutto assente nella Scena XII della Damnation, dove la voce è supportata dalla piena orchestra. Altro esempio è il Canto della festa di Pasqua, che nelle Huit Scènes prevede due cori (Angeli e Discepoli) mentre nella Damnation al coro dei Cristiani si aggiunge la voce di Faust, che poi chiude la scena con un recitativo.

Quanto alle voci, Faust è un tenore lirico, Marguerite un mezzosoprano (Berlioz peraltro la indicò come soprano) e Méphistophélès un basso o baritono, laddove nelle Huit Scènes aveva una tessitura decisamente più alta, da baritenore, se non proprio da tenore lirico.

Quanto alla fedeltà al testo di Goethe (tradotto da Gérard de Nerval) Berlioz se ne occupò relativamente, o proprio per nulla; e di proposito, come lui stesso spiegò, sostenendo come assurdo il solo pensare di mettere in musica l’intero dramma di Goethe; per cui tanto valeva prenderlo solo come base di riferimento e ispirazione. Ecco quindi che il finale di Berlioz vede Faust irrimediabilmente perduto (da cui il titolo dell’opera); e l’apertura viene disinvoltamente quanto arbitrariamente trasportata in Ungheria, solo ed esclusivamente (lo ammette candidamente lo stesso compositore nella prefazione alla partitura) per avere il pretesto di infilarci un trascinante pezzo di bravura orchestrale, la celebre Marcia di Rácóczy...
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In attesa dello spettacolo romano, come termine di paragone (a futura memoria) si può proporre questa produzione belga de La Monnaie (2002) con Kaufmann e Pappano.

Martedi 12 la prima, ripresa in diretta (19:00) da Radio3 e in differita (21:15) da RAI5.

09 dicembre, 2017

laVerdi 17-18 – Concerto n°8


Romeo and Juliet tengono banco nell’ottavo concerto all’Auditorium, diretto da uno dei Direttori Principali Ospiti de laVerdi, Patrick Fournillier, arrivato già al suo quarto dei cinque concerti stagionali. In programma tre celebri brani che l’Orchestra conosce a menadito per averli quasi stabilmente in repertorio; il che è di per sè una garanzia di qualità.

Si va per via temporale a dente di sega, partendo dal tardo ‘800 dell’Ouverture di Ciajkovski (versione 1880) costruita sui tre temi: di Frate Lorenzo (un corale dal taglio religioso); della faida Capuleti-Montecchi (violenti strappi dell’intera orchestra) e – ovviamente – dell’amore sbocciato fra i due rampolli delle famiglie rivali (il famoso tema sbudellante reiterato in varie forme). Un brano di grande effetto che è sempre un piacere riascoltare. Fournillier non risparmia proprio nulla del romanticismo magari un po’ mieloso del russo, ma ottiene così applausi calorosi da una sala abbastanza gremita.
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Si retrocede quindi di quasi mezzo secolo, al Roméo di Berlioz, di cui viene eseguita la scena d’amore, ovviamente escludendo la parte iniziale cantata dal doppio coro dei ragazzi Capuleti reduci dal ballo e attaccando dall’Adagio. Musica sublime che il francese Fournillier evidentemente ha nel sangue, e ce la sa quindi proporre con grande delicatezza e sensibilità, proprio con il più autentico esprit-de-finesse...
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Chiude la serata un salto nel ‘900 (ogni volta che sento questa musica non posso esimermi dal manifestare una mia convinzione: è la musica più grande del secolo scorso!) Si tratta di Prokofiev e di un assemblaggio di brani dal suo Romeo e Giulietta. Forse lo ripeto per la settima volta, ma se anche si pescassero random 5-6-7-10 brani dai numeri del balletto e li si suonasse poi in sequenza casuale, ne uscirebbe sempre ed invariabilmente qualcosa di mirabile. Fournillier ce ne propone una decina, ma verrebbe voglia di ascoltare anche gli altri 42!

Si spiega così l’accoglienza trionfale riservata a Maestro e Professori.


07 dicembre, 2017

Chénier in TV


RAI1 ogni tanto ne combina una giusta, a livello di programmazione, e anche quest’anno ci ha permesso di godere la prima di SantAmbrogio senza dover chiedere prestiti in banca per potervi assistere dal vivo. Sulla qualità delle riprese (audio e video) mi pare che qualcosa sia migliorato rispetto al passato (sui conduttori un po’ meno...)

Detto ciò – e rimandando all’audizione dal vivo i giudizi su cantanti e suonatori – è possibile commentare per ora la messinscena che (pur con il filtro della regìa televisiva) penso si possa valutare anche senza andare materialmente a teatro.

Partiamo da un fatto abbastanza scontato: un soggetto come questo, per mille ragioni, è praticamente impossibile da ri-ambientare (o ri-concettualizzare) sia a livello spazio-temporale, che a livello di relazioni fra i personaggi. Sostituire a Chénier ghigliottinato dal terrore di Roberspierre, per dire, un Mejerchol'd fucilato dal terrore di Stalin (solo perchè a noi un po’ più vicino) farebbe semplicemente ridere. Così come trasformare la lotta politica fra giacobini e girondini in una guerra fra moderne cosche mafioso-camorristiche (corleonesi vs casalesi). O anche ambientare il classico triangolo amoroso in un paesino siciliano, scimmiottando la Cavalleria...

E quindi il buon Martone – che con i suoi Oberto e Beffe scaligeri si era preso libertà per me eccessive - ha dovuto fare buon viso e restare allo scenario originale, cosa che di per sè farà magari venire l’orticaria a qualcuno che non può soffrire i musei, ma peggio per quel qualcuno. A me l’allestimento – che ha fatto tesoro delle minuziose ed efficacissime didascalide di Illica - non è per nulla spiaciuto e vi ho ritrovato tutto ciò che ci si può aspettare precisamente leggendo il libretto. Ed anche sbirciando la partitura – qui faccio una piccola invasione nel campo musicale – che Chailly ha presentato proprio come Giordano la pensò e la fece pubblicare, cioè come un continuo flusso sonoro (tipo Wagner, per intenderci) e senza soluzioni di continuità. In ciò assecondato dalle scene girevoli della Palli, che consentono rapidi mutamenti di quadro. Ben fatti i costumi (di ricchi&poveri) ideati dalla Patzak così come assai efficace l’impiego delle luci da parte di Mari. Anche il Corpo di Ballo della Schiavone ha avuto modo di distinguersi nella scenetta delle Pastorelle.

I tre protagonisti hanno mostrato diverse qualità, diciamo così, attoriali: Salsi è stato decisamente quello che (mi) ha convinto di più, anche perchè il suo è un ruolo così poliedrico e sanguigno (veramente... verista) che di per sè si presta (se il cantante non è proprio una cariatide) a grandi effetti scenici e drammatici. Eyvazov ha un fisico da armadio (il futuro è da Pavarotti, a parte la voce...) che non pare proprio il più confacente  a quello dello smilzo poeta francese, e per di più – per non correre troppi rischi sul piano musicale – canta quasi sempre volgendo lo sguardo al Direttore, con grave danno alla scioltezza di movimenti e di espressioni. Ma peggio ha fatto la signora Eyvazov (haha!!) che ha proprio cantato come una bambolotta (dal faccione purtroppo gonfiatosi pericolosamente in questi ultimi tempi) piuttosto rigida e quasi priva di reazioni proprie.

Più sciolti gli altri comprimari, dei quali citerò la Stroppa, Sagona e Bosi per tutti. Ben guidati dal regista i movimenti delle masse, esemplare al proposito la scena del processo.


Per ora è quanto basta, in attesa di mettere il dito.