Zelensky e l'alternativa lose-lose, fra perdere:

la dignità VS l’alleato che ti chiede di perderla 

11 giugno, 2014

La… Herlitzius di Strauss alla Scala

 

Ieri la Scala – in un teatro non propriamente esaurito - ha ospitato l’ultima recita di Elektra, accolta in precedenza da consensi praticamente unanimi, sia per la prestazione musicale di Salonen&C che per la messinscena del compianto Patrice Chéreau.


Devo dire del tutto serenamente che – a giudicare da quest’ultima recita – lo spettacolo è stato salvato quasi esclusivamente dalla Evelyn Herlitzius e – solo in parte – da Salonen. Per il resto siamo in una risicata sufficienza (la Pieczonka, discreta nell’ottava alta ma deficitaria sotto) o addirittura in una desolante nullità (spiace che tocchi alla grande Waltraud Meier, ma quando dal loggione non si riesce a sentire distintamente una sola sillaba di ciò che canta… è detto tutto). Si aggiunga a tutto ciò che il povero Pape è stato in pratica costretto a cantare con mezza voce (e se ne è scusato con eloquenti gesti alla chiamata singola) e il quadro è completo. Tutti gli altri interpreti su un piano di dignitosa routine.

Salonen da parte sua ha fatto suonare assai bene l’orchestra scaligera, però come se in programma ci fosse la… Alpensinfonie! E così le voci (Herlitzius esclusa) già poco o tanto deficitarie di loro, sono state spesso e volentieri coperte dai suoni provenienti dalla buca.

Invece è proprio la straordinaria prestazione della Herlitzius che mi dà lo spunto per sollevare il problema (annoso nella fattispecie) dei tagli che vengono tradizionalmente apportati a questa partitura e che - almeno una volta tanto, quando si dispone come qui del miglior interprete sul mercato - avrebbero potuto essere riaperti, consegnando al pubblico l’opera nella sua splendida interezza. Peccato che così non sia stato: una bella occasione perduta.

In questa produzione ne sono stati praticati cinque (diciamo: statisticamente nella media dei vari allestimenti e incisioni). In termini di durata siamo attorno ai 6-7 minuti, poca roba, che di per sé non giustificherebbe di certo l’operazione. Essendo quasi tutti però sulla parte della protagonista, è comune supposizione che siano fatti per… risparmiarle la voce: spiegazione abbastanza di comodo, direi; e che - fossi nella strepitosa Evelyn - tenderei a respingere decisamente.

Certo, per chi conosce poco il testo e meno ancora sa cavarsela con il tedesco, possono sembrare tagli innocui (se non addirittura… benefici!) ma in realtà innocui non sono proprio per nulla. E che lo stesso Strauss ai suoi tempi li avesse magari tollerati non è un buon motivo per continuare a perpetrarli, specie in produzioni che si vogliono e si definiscono epocali. Purtroppo si tratta di mutilazioni che, piccolo o grande, qualche danno lo fanno: alla musica, privandoci del ritorno di molti dei temi dell’opera, ed anche alla drammaturgia, nascondendoci alcuni interessanti squarci sulla personalità di Elektra. Vediamoli in dettaglio (testi in italiano, traduzione di Franco Serpa per la Scala, con le parti tagliate evidenziate in giallo). Ho indicato i tempi con riferimento ad una delle (due sole?) incisioni complete disponibili sul mercato (Solti/Nilsson).

1. Scontro Elektra-Klytämnestra: dal #240 a #255 della partitura, per un totale di 94 battute (circa 2’10”). È sicuramente il più pernicioso, in quanto devasta letteralmente uno dei momenti topici del dramma, quello in cui Elektra, che ha convinto la madre della necessità di un sacrificio umano (una donna) per esorcizzare i suoi incubi notturni, le annuncia che la vittima sarà proprio lei stessa.

Elettra (balza dal buio verso Clitennestra, sempre più le si accosta facendosi sempre più terrificante)
Quale sangue? Il sangue del tuo collo,
quando t’abbia agguantato il cacciatore!
Sento che corre per le stanze, sento
che alza la tenda del letto: chi scanna
la vittima nel sonno? Egli ti stana,
scappi gridando, e sempre ti è alle spalle:
ti incalza per la casa! Fuggi a destra,
c’è il letto! A sinistra, il bagno fuma
sangue! Dal buio e dalle torce cade
su te rete mortale nero-rossa –
(Clitennestra, sconvolta da muto orrore, vuole rientrare. Afferrandola per la veste, Elettra la trascina in avanti. Clitennestra arretra verso il muro. Ha gli occhi sbarrati, dalle mani tremanti le cade il bastone.)
Giù per le scale lungo i corridoi,
va di portico in portico la caccia –
ed io! io! io che l’ho lanciata,
io sono come un cane sui tuoi passi,
cerchi una tana, addosso mi ti avvento
da un lato, così ancora ti incalziamo –
fino a un muro e lì tutto si chiude,
pur nel profondo buio io lo vedo,
un’ombra, poi le membra e del suo occhio
il bianco vedo, là ci attende il padre:
nulla osserva, ma tutto deve compiersi:
presso i suoi piedi noi ti costringiamo –
Vorresti urlare, ma l’aria ti strozza
l’urlo incompiuto e l’abbandona a terra
giù senza suono. Come ossessa il collo
offri nudato, senti nella sede
della vita vibrare il taglio, invece
egli il colpo trattiene: non è il rito
perfetto. Nel silenzio ascolti il cuore
in petto martellarti: quel momento
– ti si stende davanti come un fosco
golfo di anni. – Il momento ti è dato
per provare quel che il naufrago sente,
quando si perde l’urlo tra le nubi
di caligine e morte, quel momento
ti è dato perché tu possa invidiare
ogni inchiodato al muro della cella,
chi dal fondo di un pozzo invoca morte
come salvezza – perché tu a te stessa,
tu sei tanto inchiodata, come fossi
nel ventre arroventato di una bestia
di bronzo – e come ora non hai grido!
Qui sto io davanti a te, con l’occhio fisso leggi
la tremenda parola che sul volto m’è impressa:
pende dal cappio che tu stessa hai teso,
l’anima, scende l’ascia sibilando,
ed io ci sono e finalmente vedo
la tua morte! Finiscono i tuoi sogni,
né io sognerò più, e chi ancora è vivo
trionfa e della vita può bearsi!

Come si può constatare, il taglio ci priva del racconto dei macabri particolari dell’autentica caccia-alla-donna di cui la regina sarà vittima (secondo le allucinate visioni della figlia) e delle terrificanti pressioni psicologiche prima ancora che delle ferite materiali cui verrà sottoposta.

Soprattutto non ci chiarisce fino in fondo chi dovrebbero essere i giustizieri della regina: il testo mutilato infatti lascia in campo soltanto Elektra e il cacciatore (Orest, come si deduce dal contesto e dai suoi temi musicali) ma non permette di riconoscervi (anche a mezzo della musica!) lo spettro di Agamemnon.

E appunto la musica che si perde è tutt’altro che puro riempitivo: è un drammatico declamato della protagonista, accompagnato da almeno una dozzina di Leit-motive dell’Opera, che come sempre ci chiariscono ciò che nemmeno le parole possono spiegare.  

2. Confronto Elektra-Chrysothemis: sono precisamente tre tagli, a breve distanza uno dall’altro, alla scena in cui – dato per morto Orest - Elektra cerca in tutti i modi di convincere la sorella ad essere sua complice nella vendetta.   

a) da #59a a #68a della partitura, per un totale di 72 battute (circa 1’).

Elettra
Tu! Tu!
Sei forte!
(attaccata a lei)
Sei così forte! T’hanno
fatto robusta le virginee notti.
In ogni membro hai forza!
I tuoi tendini sono di un puledro,
agili sono i piedi.
Come agili e flessuosi –
senza sforzo li abbraccio –
sono i tuoi fianchi!
Nei pertugi ti insinui, tu sai sollevarti
per le finestre! Ch’io ti senta le braccia:
come sono fresche e forti! Se mi respingi,
sento che braccia sono queste. Ciò che stringi
a te, tu potresti schiacciarlo. Tu potresti
soffocare me o un uomo tra le tue braccia.
C’è forza in ogni membro!
Erompe come un freddo
sotterraneo torrente dalla roccia. Scorre
nell’onda dei capelli sulle salde spalle.
Sento dalla freschezza della pelle
il calore del sangue, con la guancia
sfioro il tenue velluto delle braccia!
Sei solo forza e sei bella,
sei un frutto nei giorni del raccolto.
Crisotemide
Lasciami!

b) da #89a a #102a della partitura, per un totale di 120 battute (circa 1’45”).

Crisotemide (chiude gli occhi)
No, sorella.
Non dire queste cose in casa nostra.
Elettra
Oh sì! Più che sorella io ti sono
da questo giorno in poi: io t’ubbidisco
come una schiava. Quando avrai le doglie,
presso al tuo letto resto giorno e notte,
scaccio le mosche, attingo l’acqua fresca,
e quando a un tratto una creatura viva
sul nudo grembo sta, nostro sgomento,
in alto la sollevo, così in alto
che il suo sorriso giù fino al profondo
segreto abisso del tuo cuore scenda
e lì per questa luce il freddo orrore,
l’ultimo, si discioglie e in chiare stille
puoi sfogare il tuo pianto.
Crisotemide
Andiamo via!
In questa casa muoio!
Elettra (ai suoi ginocchi)
Bello hai il labbro,
quando si schiude all’ira! Dalla bocca
pura, forte, tremendo un grido certo
risplende, tremendo come il grido
della dea della morte, se ai tuoi piedi
si giace come io ora.
Crisotemide
Di che parli?
Elettra (si alza)
Prima che me tu lasci
e questa casa, devi farlo!
Crisotemide (vuole parlare)
Elettra (le chiude la bocca)
Altra
strada non c’è che questa. Non ti lascio,
se prima bocca a bocca non mi giuri
che lo farai.

c) da #104a a #108a della partitura, per un totale di 36 battute (circa 30”).

Crisotemide (si divincola)
Lasciami stare!
Elettra (la riafferra)
Giura,
verrai stanotte ai piedi della scala,
quando è silenzio tutto!
Crisotemide
Lascia!
Elettra (la tiene per l’abito)
Donna,
non rifiutarti! Il corpo tuo di sangue
non macchierai: dall’abito imbrattato
nelle vesti nuziali intatta entri.
Crisotemide
Lasciami!
Elettra (sempre più incalzante)
Non esser vile! Se ora
il tuo brivido vinci, avrai compenso
di brividi d’amore notti e notti –
Crisotemide
Non posso!
Elettra
Sì, verrai!
Crisotemide
Non posso!
Elettra
Guarda,
giaccio davanti a te, ti bacio i piedi!
Crisotemide
Non posso!
(Scappa dentro la porta della casa.)
Elettra (le urla dietro)
Maledetta!

Questi tre tagli sul piano strettamente musicale ci privano di alcuni splendidi passaggi, e al contempo mutilano non poco l’evocazione della morbosa, quanto interessata, attitudine di Elektra verso la sorella minore: ci troviamo ammirazione quasi erotica, perfida adulazione e promesse di felicità e di aiuto, in cambio della complicità nell’uccisione di madre e concubino. Insomma, tutte caratteristiche salienti della complessa personalità della protagonista che questa amputazione fa abbastanza sfumare, se non proprio scomparire. Fra l’altro, sul piano drammatico, la stessa imprecazione finale di Elektra finisce per diventare affrettata e meno giustificata, in assenza di tutto quel crescendo di pressione cui invano la sorella era stata sottoposta.

3. Incontro Elektra-Orest: da 7 battute dopo #166a a #171a, per un totale di 33 battute (circa 1’5”).

Elettra (con un grido)
Oreste!
(pianissimo, tremante)
Oreste! Oreste! Oreste!
Non si muove nessuno! Gli occhi tuoi
lascia ch’io guardi, sogno, visione
a me donata, più bella dei sogni!
. . .
Vedi, fratello? Tutto ciò che ero,
io l’ho sacrificato. Il mio pudore
l’ho offerto, il pudore che è più dolce
di tutto, che come un velo lunare
di argenteo chiarore cinge ogni donna
e lei difende e l’anima sua
da ogni vergogna. Vedi, fratello?
Donare al padre ho dovuto la dolce
trepidazione. Non credi che quando
gioivo del mio corpo, non salivano
i suoi sospiri, non saliva il gemito
fino al mio letto?
(con mestizia)
Sì, sono gelosi
i morti: ed egli mi ha mandato l’odio,
l’odio dagli occhi vuoti, come sposo.
Così mi sono fatta profetessa
e da me, dal mio corpo nulla ho tratto,
nulla se non imprecazioni e angoscia!
Perché mi fissi spaventato? Parla!
Parlami dunque! Tremi in tutto il corpo?

Qui perdiamo invece un particolare importante del morboso e ambiguo rapporto di Elektra col padre, che spiega i disturbi psicotici della donna (che erano studiati dalla psicanalisi proprio negli anni della composizione dell’opera) e soprattutto l’immanente presenza (sia pure soltanto in… musica!) di Agamemnon in ogni angolo dell’opera. E lo stesso regista - alla fine delle sue note apparse sul programma di sala - cita il passaggio tagliato (e con apparente rammarico!) proprio per sottolinearne la valenza psicologica.
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Ciò mi dà lo spunto per qualche considerazione sulla regìa. Della professionalità e delle indiscusse capacità di Chéreau di creare emozioni non è certo il caso di discutere. È invece lecito avanzare qualche dubbio su certe sue, diciamo, trovate, che paiono della serie famola strana.

Allora: il sangue. Chéreau, già prima che incominci la musica, ne fa sparire anche le ultime labili tracce, sparse in giro su scale e cortile, mostrandoci le serve che le cospargono di sabbia. Nessuno pretende di vedere (come è capitato altre volte) scene raccapriccianti con docce di sangue sul palcoscenico, e del resto basta leggere il libretto per constatare come di sangue soltanto si parli, ma non lo si veda giammai. Ecco che invece il regista decide di mostrarci i due omicidi (di cui nel libretto abbiamo soltanto notizia da urla strazianti di Klytämnestra ed Aegisth provenienti dall’interno del palazzo) in primo piano: col cadavere della regina trascinato all’aperto da Orest e poi con il truce, disgustoso e verista accoltellamento dell’usurpatore da parte del precettore (?) del medesimo Orest. Davvero non è un bel servizio fatto alla coppia Hofmannsthal-Strauss!

Che dire della scure (quella con cui fu assassinato Agamemnon) che Elektra ha gelosamente conservato - come ha rivelato alla sorella - seppellendola vicino ad una delle porte della reggia? Il relativo Leit-motiv si ode nientemeno che all’undicesima battuta della partitura, però come per il sangue, anche della scure sentiamo soltanto parlare a più riprese da Elektra ma mai la vediamo. Nemmeno allorquando lei cerca di disseppellirla (allo scopo di usarla personalmente contro madre e concubino) dopo il rifiuto della sorella a farsi complice della vendetta e si mette furiosamente a scavare proprio mentre arriva Orest. Distratta dall’intrusione del (non ancora agnito) fratello, lei dimentica l’ascia e se ne ricorda quando è troppo tardi (Ich habe ihm das Beil nicht geben können!Invece Chéreau, in un impeto didascalico, ci mostra Elektra che recupera la scure, la libera dalle bende in cui era avvolta in modo che tutti la possano chiaramente vedere, e però subito la rinasconde (mah…)

Un’altra gratuita libertà che Chéreau si prende riguarda l’arrivo di Orest presso Elektra: nell’originale ciò avviene solo al termine del confronto fra le due sorelle, chiuso dal disperato Sei verflucht! Nun denn, allein! della protagonista. Invece il regista ci mostra Orest, seduto nella penombra, assistere a pochi metri di distanza a tutto il dialogo fra le sorelle, dal quale dovrebbe a questo punto ed in modo inequivocabile scoprire l’identità di Elektra, il cui nome viene ripetutamente fatto da Chrysothemis. Ma ciò contrasta in pieno con quello che accade subito dopo, quando Orest – come da libretto - mostra di non riconoscere per nulla Elektra!  

Anche il finale lascia perplessi: Orest nell’originale non si vede proprio, ma in compenso Chrysothemis ce ne parla come di un eroe portato in trionfo e letteralmente issato sulle spalle dai suoi fedeli. Chéreau invece lo fa entrare in scena e poi uscire da solo, con atteggiamento disgustato, ignorato da tutti. (?)

Quanto ai singoli personaggi, al di là della maestrìa con cui il regista li fa muovere, mi sentirei di criticare la sua Klytämnestra. Ecco come Hofmannsthal ce la presenta:  La regina è sovraccarica di gemme e talismani. Le braccia sono piene di monili. Le dita sono rigide di anelli. E Strauss letteralmente si supera nell’evocare tutto ciò in musica: il Leit-motif dei talismani magici erompe al #177 della partitura, subito prima dell’esternazione della regina (Ich habe keine guten Nächte). È il flauto, accompagnato dai tintinnii del glockenspiel e dagli accordi arpeggianti delle… arpe (qui si anticipa il Rosenkavalier!) a presentarci l’assurda quanto appariscente bardatura di Klytämnestra. Che però Chéreau minimizza, limitandosi ad una collana da bigiotteria elegante e a diversi anelli, su un abito altrettanto sobrio indossato da una donna dai tratti nobili ed apparentemente equilibrata; ed eliminando il bastone su cui si dovrebbe sorreggere la barcollante e nevrotica regina nell’originale.

Se devo citare invece il  momento più riuscito di tutta la rappresentazione, questo è la scena dell’incontro fra madre e figlia che per un momento – splendidamente sottolineato dalla musica di Strauss – esternano i reciproci sentimenti, e dove Elektra ha l’unico sussulto di amor filiale: perché, come acutamente scrisse uno dei massimi esegeti straussiani, Richard Specht, nel suo saggio sull’opera (1921) l’odio di Elektra (verso la madre) è amore pervertito.
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Peduzzi mi sembra uno che porta sempre lo stesso abbigliamento a Capodanno, Pasqua, Ferragosto e SanMartino: ha al massimo il 50% di probabilità di azzeccarci con la stagione. Così le sue scene vanno bene per questa Elektra, come andarono benissimo per la Casa di morti; ridicole invece furono per Tristan, Carmen e Tosca, per citare solo opere viste qui al Piermarini.

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Allego infine un saggio del sommo Quirino Principe su Strauss (una specie di bigino del ponderoso volume dello stesso Autore) apparso su Musica&Dossier del marzo 1988.


07 giugno, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°37

  

Per il penultimo appuntamento della stagione principale torna sul podio Zhang Xian. Che apre la serata (invertendo l’ordine dei due brani originariamente previsto) con la mozartiana Jupiter.

Che la cinesina prosciuga di note (saltando ogni ritornello, Minuetto escluso) ma arricchisce di sfumature, a volte persino eccessive nella dinamica, come nel centrale Andante. Insomma, un Mozart ristretto, ma come un eccellente brodo con cui aprire la cena.

Il cui piatto forte è la Quinta di Shostakovich. Opera emblematica dell’indecifrabilità dei comportamenti del suo autore, da sempre oggetto di contrastanti giudizi sul piano umano e su quello artistico. Il sottotitolo di un recente, acuto e già controverso libro di Piero Rattalino recita: Continuità nella musica, responsabilità nella tirannide. Insomma, Shostakovich dissidente dentro e connivente fuori? Prima nel mirino di Stalin-Zdanov e poi apologeta del regime a New York? Artista sovietico contrito, che ritira la Quarta sinfonia (che nessuno aveva ancora ascoltato!) temendo di finire in un Gulag (come minimo…) per comporre in fretta e furia la Quinta, in risposta alle giuste critiche del regime alla sua Lady? O artista libero dentro, che si piegava apparentemente alla brutalità del regime mentre in realtà lo metteva alla berlina usando le sue stesse armi?

Ecco, la Quinta – se la giudichiamo da una prospettiva extra-musicale – è proprio lo specchio di questa ambiguità. Così Shostakovich la descriveva in una sua esternazione pubblica: II soggetto della mia Sinfonia è il divenire, è la realizzazione dell'uomo. Perché è lui, l'individuo umano con tutte le sue emozioni e le sue tragedie che io ho posto al centro della composizione (…) Il mio nuovo lavoro può esser definito una sinfonia liricoeroica. La sua idea principale si fonda sulle esperienze emozionali dell'uomo e sull'ottimismo che vince ogni cosa.

Insomma, se non è il sol dell’avvenir, poco ci manca! Ma ecco cosa ne diceva poi in privato: Ritengo sia chiaro a tutti quel che "accade" nella Quinta. Il giubilo è forzato, è frutto di costrizione, esattamente come nel Boris Godunov. È come se qualcuno ti picchiasse con un bastone e intanto ti ripetesse: "II tuo dovere è di giubilare, il tuo dovere è di giubilare" e tu ti rialzi con le ossa rotte, tremando, e riprendi a marciare, bofonchiando: "II nostro dovere è di giubilare". Si può dunque definirla un'apoteosi quella della Quinta? Bisogna esser completamente sordi per crederlo. Ergo: ma quale sol dell’avvenir! Qui siamo al mangiar la minestra per non saltar dalla finestra…

E il colmo è che doveva essere proprio la Quarta, nelle intenzioni dell’autore, a rappresentare la nuova arte sovietica! Mentre se ascoltiamo la Quinta senza troppi pregiudizi e incrostazioni extra-musicali, magari scopriamo che è una degnissima sinfonia di… Mahler! Soltanto arrivata con 30 anni di ritardo. 

C’è qualcosa che non va? Forse che Strauss non continuò a scrivere musica ottocentesca ben oltre lo Shostakovich del 1937? E allora possiamo anche godercela in santa pace, questa sinfonia, dimenticando che era piaciuta anche a… Stalin! Soprattutto se i ragazzi de laVerdi ce la propongono, per tramite della Xian, con eccezionale efficacia. Meritato quindi il grande successo di pubblico, con applausi ritmati e prime parti chiamate ad alzate singole, con particolari ovazioni per il Konzertmeister Dellingshausen e i fiati, ottoni in testa, che nel finale – insieme alle terrificanti bordate della Viviana, tanto brava quanto pettoruta - han messo a dura prova la resistenza delle robuste strutture dell’Auditorium.

03 giugno, 2014

laVerdi presenta una stagione-monstre

 

Nella splendida cornice della Sala Alessi di Palazzo Marino (unico difetto: le dimensioni, che hanno costretto decine di persone ad assistervi all’impiedi) si è tenuta stamani la conferenza di presentazione della stagione 14-15 de laVerdi.

Una cosa impressionante per quantità, ma anche per qualità. Intanto la stagione principale, che parte canonicamente a settembre 2014, e copre però l’intero 2015, in omaggio alla presenza dell’Expo, per un totale di 64 appuntamenti (su 2 o 3 repliche). Vi si aggiungono 11 concerti de laBarocca della coppia Jais-Capuano, 12 concerti Made-in Italy affidati a Giuseppe Grazioli e 14 concerti di una nuova serie affidata a Francesco Maria Colombo, significativamente intitolata Around the World (sempre in omaggio ai Paesi presenti all’Expo). In più le tradizionali iniziative Crescendo in musica (15 concerti) e Discovery (5 concerti). Infine, ben 20 (leggasi: venti!) Concerti straordinari, fra cui spiccano il Concerto per l’Europa e quello per la Chiusura dell’Expo.

Non mancano all’appello anche contributi di compositori contemporanei, primo fra tutti quello della voce di Radio3 Nicola Campogrande, cui è stata affidata la produzione di ben 24 Expo Variations in omaggio a Paesi presenti alla rassegna universale; poi un divertimento buffo di Luis Bacalov su tema vinicolo (da Cignozzi) e un melologo di Fabio Vacchi su testo di Michele Serra che si ispira all’enorme mare d’acqua su cui è sdraiata Milano.     

Insomma, un impegno di straordinaria levatura, che si accompagna ad una serie fittissima di relazioni con Istituzioni pubbliche e private, quali: La Commissione europea, i Consolati dei Paesi presenti all’Expo, il Forum austriaco di cultura, il Centro ceco, il Teatro alla Scala, il Teatro LaFenice, il Piccolo Teatro, il Conservatorio di Milano, Milano Musica, la Fondazione Ambrosianeum, il Centro Culturale di Milano, il Coro dell’Associazione Nazionale Alpini di Milano, Espressione Danza, l’Orchestra Haydn di Bolzano-Trento, Ricordi Universal e Archivio Ricordi, Classica HD, Charta Best Union e ovviamente con il Comune di Milano.

Anche sul fronte organizzativo e tecnologico ci sono interessanti novità: fra tutte (da informatico…) segnalo la disponibilità di una forma di abbonamento libero che consente al titolare di scegliere di volta in volta e via web il concerto preferito e stamparsi direttamente il biglietto a casa.

Davvero, non c’è che l’imbarazzo della scelta!

30 maggio, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°36

 

Il rampante Jader Bignamini si ripresenta per il terz’ultimo concerto della stagione per cimentarsi su un nuovo terreno: Richard Strauss. Lo Strauss (parecchio o abbastanza) giovane, di cui il palinsesto prevede una delle prime composizioni seguita da un paio di Tondichtungen. In realtà la sequenza è stata poi modificata all’ultimo (per una qualche plausibile ragione, possiamo immaginare) e così è toccato ai due Don di mettere in sandwich la Burleske per pianoforte e orchestra.

Si è quindi aperta la serata con il primo di questi poemi sonori (Aus Italien permettendo): Don Juan, che mancava qui da circa 3 anni (Axelrod). Bignamini, che si è imparato a memoria tutto lo Strauss di questo concerto (chissà se in futuro riuscirà ad immagazzinare anche cosucce come Rosenkavalier o la Frosch…) ha trascinato i ragazzi – disposti alla alto-tedesca - in una performance quasi perfetta, che ha subito riscaldato il pubblico tornato su buoni livelli di presenza.

Ecco poi la Burleske (composta da Strauss a 21 anni): allo strumento solista la simpatica russa-tedesca Lilya Zilberstein, che torna in Auditorium a circa un anno di distanza dall’ultima sua apparizione (allora con Campogrande e Rachmaninov). Una quindicina d’anni fa invece aveva interpretato proprio questo stesso Strauss alla Scala, con Bychkov, come si può seguire qui in una ripresa introdotta da Angelo Foletto. Interessante anche ascoltare cosa pensava della Burleske e di Strauss un suo grande cultore (oltre che di Bach): il brillante Glenn Gould, di cui si può vedere anche l’esecuzione del brano (un filino troppo comoda, per i miei gusti almeno).

Musica nella quale non si stenta a riconoscere molto Brahms e parecchio Liszt, a conferma della situazione di totale apertura del giovane Richard sia all’apparente classicismo del laico-spartano amburghese che alle innovazioni del mistico-libertino ungherese, che proprio in quel periodo cominciarono ad attecchire (insieme ad un certo Wagner…) nel fertile terreno dell’ispirazione di Strauss.   

La struttura del brano (RE minore tonalità di base, tutto in 3/4 salvo un paio di battute in 4) è – sotto apparenze di ostica complessità – abbastanza semplice:

- un gruppo tematico introduttivo;
- tre gruppi tematici principali;
- ripresa dell’introduzione e dei tre gruppi tematici;
- cadenza solistica;
- coda.

Vi si possono individuare elementi di forma-sonata, ma più che nella struttura (praticamente manca una vera e propria sezione di sviluppo) nel trattamento delle tonalità fra le sezioni di esposizione e ripresa dei gruppi tematici (rapporti tonica-dominante e relative).
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Interessante notare subito come singole cellule o componenti di un certo gruppo tematico vengano impiegate all’interno di altri, o come transizione fra loro, il che garantisce al brano una chiara e spiccata personalità. Il tutto impreziosito poi da diversi altri interventi solistici. Non soltanto del pianoforte, ma anche dei timpani, che hanno ad esempio l’onore dell’apertura (poi della chiusura!) con quattro battute da suonare nel generale tacet dell’orchestra, seguite da altrettante a ruoli invertiti (nella pagina sottostante sono omesse le parti di puro riempitivo):


Beh, diciamolo pure: questa introduzione ha tutto l’aspetto di una frase musicale piuttosto sconnessa, oserei dire sgrammaticata, che sa parecchio di impappinamento, di zoppìa, se non addirittura di… balbuzie. Insomma, come dice il titolo, una burla (come sarà Eulenspiegel che già qui si intravede) o una parodia. Per dire, nelle quattro battute orchestrali (i-2) non si possono non sentire echi distorti e irriverenti di sonorità e atmosfere vagamente brahmsiane (che so, il secondo frammento del tema dell’Allegro non troppo del finale della prima…)

Dopo che l’introduzione è stata ripetuta, raddoppiando le battute della sezione orchestrale (i-2) il pianoforte entra per esporre il primo gruppo tematico, dove si distingue un motivo dal fiero cipiglio, con i suoi balzi all’insù (a-1) che avrà grande importanza nel seguito, cui succede una perentoria scala discendente (a-2):


Questa prima sezione viene subito riproposta una seconda volta, quindi viene ancora ampliata in entrambe le sue componenti: in particolare la scala discendente (a-2) sembra quasi sprofondare senza fine, andandosi ad… arenare sul RE grave a fondo tastiera. Qui il solista espone un inciso (m) che ritornerà spesso e volentieri, come un motto dell’opera (anche qui, a proposito di burle, sembra un impertinente richiamo al tema dell’enigma del destino dalla Walküre…):


Dopo che il solista ha riesposto brevemente il motivo (i-2) dell’introduzione, è l’intera orchestra che apre il completamento di questo primo gruppo tematico, con una linea melodica ancora di sapore brahmsiano (a-3) che germina chiaramente da (a-1) e a cui risponde il pianoforte contrappuntato da una seconda linea dell’orchestra (a-4) questa più di stampo liszt-iano (qui i violini di entrambe le linee):


La tonalità è nel frattempo modulata alla relativa FA maggiore (siamo a scuola!) per dar luogo ad una sommessa cadenza - dove il pianoforte, i timpani e gli strumentini, accompagnati da corni e viole, si palleggiano quell’inciso (m) esposto poco prima dal solista – che porta all’entrata del secondo gruppo tematico (un Walzer, di fatto) ancora affidata al pianoforte, questa volta solo, che mutua l’incipit proprio dall’inciso (m) per poi svilupparsi ampiamente:


In particolare vi si distinguono il motivo (b-2) e il (b-3) derivato da (b-1) per inversione. L’orchestra lo riprende, ma dopo una sommessa cadenza di pianoforte e fiati ne esplode, sempre nel solista, uno nuovo (b-4) invero eroico:


Ripreso brevemente dai legni, lascia ancora spazio al pianoforte che lo sviluppa in crescendo fino ad una sospensione di tutta l’orchestra su una cadenza FA-MI, che apre le porte alla modulazione a LA minore (sacri canoni, anche qui) dove il solista attacca il terzo gruppo tematico - una filiazione del motivo (a-3) - reminiscenza abbastanza scoperta del secondo tempo dal Concerto in SIb di Brahms:

Con l’intervento dell’intera orchestra la tonalità modula rapidamente a MIb minore, poi a SIb minore, quindi al FA, dove irrompe imprevedibilmente l’interminabile scala discendente (a-2) che ci riporta al RE. Qui il solista attacca una specie di cadenza di 48 battute, una stupefacente melodia, che ricorda in certi momenti persino Chopin, accompagnato verso la fine dai violoncelli e poi da interventi di flauto e oboe.

Ora riappare la cellula del motivo (a-3) che apre una transizione dove udiamo anche il motivo (i-1) esposto in FA dall’orchestra e poi variazioni sull’inciso (m). Si torna a RE minore con il pianoforte che ripropone (i-2) anticipando (i-1) nei timpani e ancora (i-2) nell’orchestra. Comprendiamo di essere quindi arrivati al termine dell’esposizione dei gruppi tematici e all’inizio della loro rielaborazione.

La quale non è appunto una semplice e stucchevole ripetizione: il primo gruppo tematico – sempre RE minore - viene per così dire ridotto all’osso, presentando dapprima la sezione (a-1) nel pianoforte, poi direttamente la (a-3) nell’orchestra, quindi  la sezione (a-2) ampliata, con la discesa al RE grave.

Dopo una transizione nella quale il pianoforte ha sommessamente dialogato con timpani, fagotti e archi bassi, ecco che un luminoso accordo di RE maggiore - sul quale si fa sentire nel pianoforte e nei violini il motto (m) - introduce la ripresa del secondo tema (anche qui siamo pertanto assolutamente ligi alle regole tonali della forma-sonata). Questa riesposizione ripercorre abbastanza da vicino la prima, ci risentiamo tutti i motivi (b-1-2-3-4) e come essa chiude con due accordi che preparano l’entrata del terzo gruppo tematico: là FA-MI a preparare LA minore, qui RE-DO# a preparare il FA# minore (sempre le regole!)

In realtà, dopo che (c-1) è stato esposto in FA# dal pianoforte solo, la tonalità cambia abbastanza presto e il motivo torna fortissimo in FA, prima in orchestra e poi nel solista, per lasciare quindi spazio ad una lunga transizione (à la Ciajkovski) che culmina in un accordo – feroce! - sul LA, dominante del RE cui si sta tornando. Ora sono le trombe a reiterare il motto (m) poi ripreso dai timpani che lo ripetono più volte intercalandosi ad entrate degli strumentini e del solista che conducono alla sua corposa cadenza.

La quale apre insistendo ancora sul motto (m) poi percorre in giù (fino al LA grave) e in su tutta la tastiera, arrivando al SIb su cui esplode un terrificante accordo di tutta l’orchestra cui ne segue un altro, dopo tre battute di arpeggi del solista, che risolve sulla dominante LA. Il solista riprende ora indisturbato la cadenza che per 60 battute è caratterizzata da virtuosismi e ottave parallele, fino a sfumare su un tempo tranquillo verso una stupefacente ripresa in SIb, nel pianoforte, del motivo (a-3) allargato nel tempo fino a renderlo quasi irriconoscibile, subito supportato dal caldo suono delle viole che lo sviluppano ulteriormente, tornando a RE, mentre il pianoforte lo contrappunta introducendovi un ritmo di languido Walzer (quindi il sapore del secondo gruppo tematico): un passaggio invero magistrale!

Ora il tempo torna molto vivo e ci si avvia alla conclusione: il solista si imbarca in una serie di scale ascendenti e discendenti portando il clima verso il parossismo, culminante in un accordo di RE minore dell’intera orchestra. Da qui parte una serie di quindici accordi del pianoforte (sul tempo forte di altrettante battute) che pare evocare come dei rantoli, contrappuntati da sporadici interventi di fiati e timpani. Dopo una lunga pausa ecco i timpani che espongono per l’ultima volta il motivo (i-1) ma attenzione, spaccato in tre tronconi di (rispettivamente) 1-1-2 battute; i due intervalli sono coperti da 3 battute: due in cui il solista sembra voler rialzare la testa, la terza è una lunga pausa:


Il solista adesso compie l’ultimo disperato sforzo: per sette battute risale velocemente la tastiera, fino alla dominante LA; dopo una pausa gli rispondono, con un accordo di RE minore, sempre sul LA, gli archi (contrabbassi esclusi) in pizzicato; dopo un’ulteriore pausa è ancora il timpano a chiudere con un singolo rintocco di RE.
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Bignamini e la Zilberstein affrontano con la dovuta determinazione questo autentico gioiello, raccogliendone in pieno tutta la trascinante effervescenza: è in effetti un’opera che meriterebbe di essere più e meglio considerata, oltre che dai musicologi, anche da chi programma i concerti. E lo si è dimostrato qui con un’esecuzione assolutamente di prim’ordine, da parte di tutti.
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Chiude la serata il penultimo dei poemi (se si escludono da questa categoria le due sinfonie-a-programma - domestica e alpina - successive alla Heldenleben): Don Quixote

Due prime parti dell’orchestra sono qui protagoniste: Mario Shirai Grigolato al cello è il Don e Gabriele Mugnai alla viola la sua spalla Sancho. Questo è un pezzo che non viene eseguito tutti i giorni non perché non sia un capolavoro (anzi è giustamente considerato l’apice di questo genere di creazioni straussiane) ma per l’oggettiva sua difficoltà. Onore quindi all’Orchestra, ai suoi alfieri e a Bignamini per avercelo proposto in modo splendido, meritando ovazioni e ripetuti applausi ritmati. Così i due ragazzi ci hanno anche offerto un loro personalissimo bis.
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Mancano due concerti (Xian e ancora Bignamini) alla chiusura di questa stagione e si comincia a pensare alla prossima: martedi 3 giugno laVerdi la presenterà nella splendida Sala Alessi di Palazzo Marino.

23 maggio, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°35

 

Un ragazzino uzbeko, il 26enne Aziz Shokhakimov, sale sul podio de laVerdi (per la seconda volta dopo circa due anni… e la prima non fu proprio un trionfo, diciamolo) per dirigervi un programma che al Beethoven dell’integrale dei concerti pianistici affianca il Prokofiev teatrale. Un palinsesto simile a quello di un concerto della stagione di quattro anni orsono, salvo che allora l’ultima opera in programma fu la ben più corposa seconda di Rachmaninov.

In un Auditorium insolitamente e deplorevolmente disertato da molti (complice forse il maltempo abbattutosi nel pomeriggio su Milano) il protagonista della prima parte è il nostro bravissimo Roberto Cominati (un aficionado ormai di Largo Mahler) impegnato in quello che è forse il più difficile concerto del grande Ludwig, il Quarto.

Lui lo suona divinamente e fa passare in secondo piano alcune iniziali gratuite gigionerie dell’orso uzbeko, che peraltro rinsavisce presto e lo accompagna più che decentemente. Esemplare la cadenza del movimento iniziale (la prima delle due autografe di Beethoven) come la profondità dell’Andante con moto
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Dopo l’intervallo ecco due lavori di Prokofiev legati in qualche modo al teatro. Dapprima la Suite da L’amore delle tre melarance, riproposta, come detto, a distanza di 4 anni (allora diretta dalla Xian). I sei brani riassumono in poco più di un quarto d’ora i contenuti piuttosto surreali dell’opera di cui il terzo (Marcia) è divenuto la vera e propria etichetta, oltre che il leit-motive principale.

L’orso Aziz si mette addirittura a ballare sul podio, creando uno spettacolo nello spettacolo e facendo divertire prima di tutto i ragazzi; che però non si distraggono più di tanto e suonano in modo impeccabile.
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L’orchestra si irrobustisce ulteriormente per la Suite scita, nata da un tempestivo ripiego di Prokofiev che, sfiduciato dal padrino Djaghilev che gli aveva rifiutato, dopo avergliela commissionata, la musica per un balletto dal titolo Ala&Lolly, la trasformò in un pezzo da concerto che ha avuto indubbiamente una certa fortuna, quanto meno all’ombra dello stravinski-ano Sacre.

Il soggetto del (poi abortito) balletto fu scritto da Sergei Gorodetsky, che si basò su storia (o miti) degli Sciti di alcuni secoli avanti-cristo (Prokofiev invece immaginava la vicenda in pieno medio-evo…) che scimmiottano vagamente l’Uccello di fuoco e – sul piano musicale – appunto Le sacre, balletti che Stravinski aveva composto pochissimi anni o mesi prima.

Anche qui abbiamo riti pagani più o meno plausibili, dove si onorano dèi e congiunti (Veles, il sole, e la figlia Ala, una specie di Diana); dove un diavolaccio cattivo (Chuzbog) in combutta con sette spiriti-serpenti poco raccomandabili cerca di far sua la deessa, difesa però da ninfe che incarnano i raggi lunari; e dove un nerboruto mortale (Lolly, ma di che s’impiccia costui?) interviene per salvare la deessa di cui è innamorato e viene a sua volta salvato dall’onnipotente Veles che neutralizza il cattivone Chuzbog; meritandosi comunque un’uscita in gloria accompagnato dal corteggio solare (!?) Come si vede, le analogie con il Firebird sono molteplici, a cominciare dai personaggi: Lolly-Ivan, Chuzbog-Kastchey, Veles-Uccello, Ala-Principessa.   

Lo scenario del balletto doveva essere piuttosto diverso da quello della futura Suite: era in 5 e non 4 quadri e prevedeva la morte di Lolly (là una specie di Orfeo, cantante-poeta) per mano di Chuzbog e poi un finale piuttosto strampalato (Veles che trasforma Lolly in divinità bruciandolo su una pira, e Ala che si butta nel fuoco dietro di lui, e così… perde la divinità!)

La Suite, che richiede un’orchestra ipertrofica, proprio tardo-romantica, con fiati e percussioni in gran numero, consta appunto di quattro parti, il cui contenuto è in qualche modo (e con difficoltà, come detto) deducibile dallo scenario del balletto:

1. Adorazione di Veles e Ala. È suddivisa in due sezioni: la prima, in omaggio al dio, assai pesante (non per nulla l’indicazione agogica è Allegro feroce) caratterizzata da un ossessivo ritmo marziale che invade l’intera orchestra (e curiosamente richiama proprio il motivo dell’ultimo brano delle Melarance); la seconda più contemplativa (Poco più lento) in omaggio alle caratteristiche boschive, ergo romantiche, di Ala, dove si odono cinguettii di uccelli e stormir di fronde, tuttavia in un’atmosfera che non è propriamente idilliaca (qualcosa o qualcuno incombe…)

2. Chuzbog e la danza degli spiriti. Ecco infatti irrompere l’elemento negativo: sarà pure del male, ma pur sempre un dio sembra, questo Chuzbog, almeno a giudicare dalla musica che Prokofiev gli appiccica! Apre con una terrificante esplosione di timpani e grancassa, poi corni e tromboni imperversano su un ritmo marziale insistito, che però – rispetto a quello di Veles - ha un andamento irregolare, come si addice a presenze inquietanti e… serpentine: da 4/4 a 3/4, a 2/4, per finire ancora in 4: insomma, una cosa abbastanza infernale.

3. Notte. Ottavino, arpe, pianoforte e poi celesta introducono un’atmosfera liquida, come di gocce di rugiada che condensano sopra erba e fogliame. Ma non è, ancora una volta, uno scenario del tutto sereno e rassicurante: qualcosa sembra muoversi nell’oscurità, e infatti emerge sommessamente, dalle ondeggianti semicrome degli archi, una specie di sinistra Waldweben a far da sfondo a cupi interventi degli ottoni: che sia il cattivone Chuzbog con i suoi sette sbifidi serpenti che si aggira fra le frasche per insidiare Ala, la protettrice di quei luoghi? Il pericolo sembra svanire presto, con l’arpa che glissando introduce una dolce melodia dei legni: il testo di Gorodetsky fa scendere ninfe sotto forma di raggi lunari che neutralizzano Chuzbog, allergico alla luce. Ma l’atmosfera sembra nuovamente surriscaldarsi (passaggio da 4/4 a 6/4) come se Chuzbog ci stesse riprovando (nel balletto dovevano esserci ben tre suoi assalti ad Ala). Ma i raggi lunari riportano la calma apparente e sono ancora i tocchi dell’ottavino e del glockenspiel a chiudere, con un finale glissando della prima arpa, il movimento. 

4. Marcia di Lolly e corteo del Sole. L’apertura è in tempo Tempestoso, una marcia assillante, che vorrebbe rappresentare l’arrivo trafelato di Lolly in soccorso di Ala, ancora minacciata da Chuzbog. Forse è lei che intravediamo al mutare di tempo in Un poco sostenuto, prima di arrivare ad un Allegro che evoca la preparazione di Chuzbog alla lotta contro Lolly, che sembrerebbe purtroppo soccombere. Ma ecco (Andante sostenuto) il ritorno dei raggi di Veles che neutralizzano definitivamente Chuzbog e accompagnano il trionfo di Lolly.

Certo, non sarà ancora il Prokofiev del fantastico Romeo… ma insomma la stoffa già si sente e come!

Anche qui Aziz ha modo di ancheggiare e sculettare… però senza fare troppi danni, anzi. Così i fedelissimi dell’Auditorium gratificano anche lui, oltre i ragazzi, con convinti applausi.

18 maggio, 2014

L’Orfeo di Gluck con laBarocca

 

Chiusura di stagione in grande stile per laBarocca, l’ensemble di Ruben Jais specializzato nel repertorio del ‘6-700: con l’esecuzione in forma di concerto dell’opera più famosa di Gluck, Orfeo ed Euridice

Si tratta della versione originale (1762, Vienna) quindi in italiano e senza le aggiunte (oltre alla lingua) prodotte per Parigi nel 1774: insomma, la versione più autentica, una cui pregevole esecuzione si può ascoltare qui con Muti a Salzburg nel 2010.

La leggenda, o il mito se si preferisce, di Orfeo è arcinota ed è stata da sempre oggetto di opere letterarie, figurative e musicali: tutti sanno che il povero cantautore, ammesso dagli dei a recuperare dall’oltretomba la consorte Euridice (defunta causa morso di serpe) non sa resistere all’obbligo di non guardarla prima di tornare all’aldiqua, e così la perde definitivamente, ritirandosi in montagna a fare… l’omosessuale (!)

Non così nell’opera di Gluck, dove ci si inventò un incredibile lieto fine, con la seconda resurrezione della bella e il trionfo di Amore. Ecco come si giustificò l’autore della clamorosa innovazione, Ranieri de’ Calzabigi: Per adattar la favola alle nostre scene ho dovuto cambiar la catastrofe. Insomma, per festeggiare degnamente l’onomastico dell’Imperatore… si cambiò anche la storia. Ma fu la storia della musica a cambiare sotto la spinta del combinato disposto del libretto di Calzabigi e della musica di Gluck: un’autentica miscela esplosiva che mutò repentinamente tutte le regole del gioco nel mondo del teatro musicale, gettando una specie di ponte fra la Camerata dei Bardi e… Wagner.

Opera che si ricorda superficialmente per l’aria Che farò senza Euridice? ma che contiene mille altre perle, che ieri Ruben Jais ha splendidamente portato alla luce, con la sua proverbiale cura per il suono e per l’equilibrio delle voci. L’orchestra comprendeva due corni barocchi, due chalumeau e l’arpetta (la lira di Orfeo) dislocata opportunamente al proscenio. Impeccabile l’Ensemble vocale di Luca Dellacasa, autentico protagonista dell’opera. Delle tre soliste, Sonia Prina ha confermato le sue ben note qualità, con un’interpretazione appassionata del personaggio di Orfeo; bene anche Maria Grazia Schiavo (Euridice) a dispetto di una voce che tende al vetroso nelle note alte; sufficiente Francesca Cassinari (Amore), voce piuttosto piccola e non molto penetrante. 

In definitiva, una prova di grande livello dei complessi de laBarocca, che hanno meritato ovazioni da una platea abbastanza gremita e concesso il bis del conclusivo Trionfi Amore.