Zelensky e l'alternativa lose-lose, fra perdere:

la dignità VS l’alleato che ti chiede di perderla 

09 marzo, 2012

Orchestraverdi – concerto n 23



Dopo una sola settimana torna sul podio Wayne Marshall con un programma tutto americano. Che (purtroppo) è stato modificato rispetto alla locandina originale, che prevedeva la recente Swing Symphony di Wynton Marsalis, rimpiazzata da più tradizionali e familiari opere di George Gershwin

Resta per fortuna l'interessante proposta di The Age of Anxiety di Leonard Bernstein. Una composizione (del 1949, dedicata al mentore Koussevitsky, poi rivista nel 1965 con aggiunte alla parte pianistica del finale) che assomma in sé diverse caratteristiche (o nessuna di esse?) È intitolata Sinfonia e prevede un pianoforte solista, ma non è un concerto… È fornita di un preciso programma letterario, eppure il suo autore sostiene di aver voluto comporre musica pura, che quel programma ha semplicemente evocato, musica nella quale egli avrebbe introdotto quasi inconsciamente riferimenti diretti al programma medesimo. Mah… personalmente credo che qualunque ascoltatore, anche il più musicalmente preparato, fatichi assai a raccapezzarsi in quest'opera se non ne conosce – e pure dettagliatamente – il programma esterno. 
Peraltro, con un minimo di conoscenza dello stesso, l’opera si lascia apprezzare… pur non potendosi chiamare un capolavoro.

Il programma letterario è un lungo poema di pari titolo – scritto fra il 1944 e il 1947 - di Wystan Hugh Auden, poeta britannico trasferitosi in USA nel 1939, in pratica disertando proprio alla vigilia della guerra. Poema scritto in arcaica rima allitterativa, che risente degli effetti traumatici degli eventi bellici e descrive lo stato di straniamento, di sradicamento e di impotenza di tanta parte dell'umanità, vittima di meccanismi e di forze cui non si può opporre. È strutturato – come precisamente sarà la Sinfonia di Lenny – in sei parti: il prologo, in cui tre maschi (Malin, ufficiale dell'intelligence medica dell'aviazione canadese, Quant, impiegato in un ufficio di spedizioni, nauseato dal mondo ed Emble, una recluta della Marina) e una femmina (Rosetta, impiegata all'ufficio acquisti di un supermercato) – nessuno di loro originario di NewYork, quindi tutti a loro modo piuttosto sradicati - si incontrano per caso in un bar di Manhattan in piena guerra; le sette età, in cui i quattro si raccontano le proprie esperienze di vita, suddivisa appunto in sette fasi, dall'infanzia alla morte; i sette stadi, in cui i quattro immaginano (senza peraltro cavare un ragno dal buco) come ritrovare, attraverso viaggi in onirici paesaggi, una vita serena, lo stadio preistorico di felicità e la fede in Dio; il lamento per la mancanza di un grande condottiero che indichi loro la via da percorrere; la mascherata, che si svolge nell'appartamento di Rosetta, dove tutti (i maschi soprattutto) si ubriacano definitivamente, finchè i due più anziani se ne vanno a casa e il giovane Emble finisce spossato… nel letto di Rosetta; l'epilogo, in cui l'alba riporta ciascuno al proprio quotidiano tran-tran, in cerca di… una fede che pare impossibile da mettere in pratica.

Ma che secondo Bernstein è raggiungibile, nel suo finale, in cui pare di sentire nobili echi mahleriani. La Sinfonia è suddivisa in due parti, di tre sezioni ciascuna: la prima consta delle tre scene nel bar di Manhattan; la seconda contiene la sezione del lamento (mentre i quattro sono su un taxi che li porta verso l'appartamento di Rosetta) e le due sezioni conclusive. Tutta la prima parte potrebbe vagamente essere considerata il primo tempo di una sinfonia (tema e variazioni); poi c'è il movimento lento, ancora una cosa simile ad uno scherzo e quindi il finale.

Nella sua prefazione alla partitura Bernstein, dopo aver ammesso di essere rimasto letteralmente affascinato dal poema di Auden (che invece considerò la Sinfonia una cosa estranea ad esso!) spiega come la parte pianistica rappresenti autobiograficamente se stesso, totalmente immedesimatosi nel poema, che si specchia nell'orchestra (indifferente, se non proprio ostile) come nel mondo circostante. Seguiamo le sue concise note didascaliche per orizzontarci nel gran ginepraio della partitura, aiutati da una minuziosa analisi fatta da una musicofila presso l'Università di Rochester.

Part I

a. Prologue. Presenta l'incontro dei quattro personaggi nel bar della Terza Avenue, dove cercano scampo, bevendo, dai loro quotidiani problemi esistenziali. È una sezione assai breve, che consiste nella malinconica improvvisazione di due clarinetti (in echotone) seguita da una scala discendente che fa da ponte verso l'inconscio in cui si svolge poi il resto della storia.

Sono soltanto 28 battute (Lento moderato, poi Poco più andante) in cui i due clarinetti, con suono appena udibile 
(l’echotone in pratica fa assomigliare il suono a quello di uno zufolo, forse in omaggio al carattere di egloga del poema di Auden) ci introducono un'atmosfera di tristezza, e pure di inquietudine, come testimonia il tritono (RE-LAb) già nella prima battuta:

seguiti dal primo flauto che – su un sottofondo di timpani, con arpa e violoncelli che suonano accordi di quarte sovrapposte - intona una lunga scala discendente (dal RE# acuto a quello due ottave sotto) alla fine della quale il secondo flauto ricorda il primo tema:


Questi motivi torneranno poi nel seguito ed anche nel finale della sinfonia.

b. The Seven Ages (Variations I-VII). Bernstein spiega che quelle che seguono non sono classiche variazioni su un tema predeterminato, bensì ciascuna varia la (e/o risponde alla) precedente, analogamente al flusso dei discorsi dei quattro personaggi che raccontano le loro esperienze. 

È il pianoforte solo ad aprire la prima variazione (sole 15 battute) che rappresenta l'infanzia e ricorda dapprima il tema discendente e subito dopo l'incipit del tema dei clarinetti nel prologo. Poi entra l'arpa ed espone, raddoppiate all'ottava, su un tremolo delle quarte dei violoncelli con sordina divisi in tre parti, le sedici note discendenti udite dal flauto poco prima:

La seconda variazione (l'adolescenza) è più corposa e vi è protagonista il pianoforte, che suona continuamente e sviluppa un frammento del tema discendente udito in precedenza: 

Gli strumentini espongono un nuovo motivo – due quarte ascendenti seguite da una terza minore discendente - che verrà impiegato nelle successive variazioni:
Questa variazione (Più mosso, rubato, come si addice alla turbolenza adolescenziale) è composta da due sezioni (la seconda in effetti è una… variazione della prima) con frequenti esplosioni di semicrome, fino ad adagiarsi (Quasi lento) sulla…

Terza variazione (Largamente) che rappresenta la prima maturità, dove il pianoforte tace e sono violini e corno inglese ad esporre maestosamente il motivo degli strumentini nella precedente variazione:

Si noti il frammento di seconda maggiore ascendente seguito da una quinta giusta discendente, poiché darà l'appiglio alla variazione successiva. Il motivo principale è ripetuto dai corni, con flauto e oboe, prima che il violino solo, in una nuova breve sezione, ne esponga uno specchio:
L’arpa e gli archi accompagnano il tema, ripetuto due volte, più la terza variata, con un ritmo quasi marziale, a sottolineare la determinazione, caratteristica di questa età dello sviluppo umano.

Nella quarta variazione si manifesta l'accettazione della dura realtà della vita. Sul tempo sghembo di 5/8, è dominata dal pianoforte, che ne espone l'idea principale, derivata dall'inciso della variazione precedente (qui è una seconda minore seguita da una quinta discendente):

Negli archi (e terza tromba) torna il motivo esposto originariamente nella seconda variazione:
La prima tromba vi espone infine un motivo da cui germinerà la quinta variazione:
Il tempo mosso e le agitate semicrome del pianoforte accentuano il senso di smarrimento e depressione di questo stato dell'esistenza.

La quinta variazione evoca l'improvviso arrivo del successo e l'apparente raggiungimento del benessere esistenziale. Il tempo è agitato, misterioso ed il clarinetto attacca con semicrome che ripetono il motivo della tromba della precedente variazione:
I legni e poi gli archi espongono un secondo motivo:

Dopo una transizione, affidata al pianoforte con intrusioni dell'orchestra - con i corni che letteralmente urlano - i motivi vengono ripresi, sempre con un ritmo che dà l'idea di una vita che procede da un successo all'altro, fino a… spegnersi su un nuovo motivo del flauto, che caratterizzerà la successiva variazione:
La sesta variazione (poco meno mosso) rappresenta l'invecchiamento e la constatazione della fallacia del successo e l'idea che la felicità si possa trovare solo tornando all'innocenza della fanciullezza. È piuttosto breve (solo 26 battute) ed è il solo pianoforte ad esporla, inizialmente con un motivo derivato da quello appena suonato dal flauto nella variazione precedente, indi richiamando fugacemente il primo motivo del prologo, poi esponendo un nuovo motivo, sempre derivato dal primo, che verrà impiegato nella settima variazione:

La settima variazione rappresenta l'estrema vecchiaia e… la morte. L'oboe espone un motivo derivato dalla variazione precedente, quindi sempre oboe e poi clarinetti espongono il motivo iniziale del prologo:
Infine il pianoforte – con i violoncelli sempre ad accompagnare con quarte sovrapposte - la chiude esponendone il motivo discendente (cui sovrappone il primo) che parte sempre dal RE#, ma questa volta percorre ben quattro ottave discendenti, anzi di più, fino al DO# e finalmente al DO (da cui ripartirà la prossima sezione) come a dipingere il lento cadere della vita nell'abisso del nulla:
Si notino in particolare le quarte dei violoncelli in accompagnamento, poiché sarà da lì che sgorgherà il tema principale della successiva variazione. Flauti e clarinetti accompagnano mestamente la cerimonia…

c. The Seven Stages (Variations VIII-XIV). Sono altre sette variazioni che evocano gli immaginari viaggi dei protagonisti, singolarmente o a coppie, alla ricerca della perduta e irraggiungibile felicità. Al termine dei quali viaggi (per quanto infruttuosi) i quattro si sentono uniti dall'esperienza comune e cominciano ad agire come un unico organismo.

Il primo stadio (ottava variazione
si riferisce alla constatazione, fatta dai quattro protagonisti dopo aver percorso tutti i panorami, dalla preistoria ad oggi, della costante presenza del dolore nella vita dell'uomo, in tutte le epoche della nostra civiltà. Il tema principale (quarte ascendenti SOL-DO) è esposto inizialmente da corno inglese e viole, mentre il pianoforte presenta un motivo ostinato, che verrà ripreso anche dagli archi, caratterizzando l'intera variazione:
Poco più avanti il pianoforte espone un'altra idea:

Tutta la variazione è sostenuta dall'ostinato (il cui incipit pare il dies-irae) su cui si innestano i due motivi principali, ripetuti due volte: il tutto crea – fedelmente al soggetto letterario - un'atmosfera di tristezza e rassegnazione.

Nel secondo stadio (nona variazionei quattro si dividono a coppie (i due giovani, Rosetta ed Emble e i due attempati, Quant e Malin) e partono per un cammino di analisi dei valori della società. 
Sono le note dell’ostinato a costituire il nerbo della variazione, esposte inizialmente dai violini e poi variate in continuazione (l’ultima figurazione servirà poi a sostenere la variazione successiva):

Una seconda idea è presentata dal pianoforte e poi si ripete in altri strumenti durante questa variazione:

Infine vediamo riapparire nell’oboe (alterata nel ritmo) l’idea iniziale della variazione precedente:


La variazione è divisa in due sezioni (separate da una lunga pausa): la prima molto pesante (forte e fortissimo) e la seconda molto tenue e dolce, forse a rappresentare l’atteggiamento delle due coppie (gli attempati e i giovani); poi alla fine il ritmo accelera per arrivare ad una conclusione tutt’altro che serena.

Nel terzo stadio (decima variazionei quattro si ritrovano davanti all'oceano e meditano sulla piccolezza dell'uomo. Formano due nuove coppie (Rosetta-Quant e Malin-Emble) e si mettono alla ricerca della possibilità di rendere il mondo meno insicuro e terribile. Vanno in città e scoprono la tendenza che molti hanno a farsi assorbire dalla sua vita tumultuosa perché timorosi per la propria stessa libertà. 

L’idea principale deriva dall’inciso di seconda minore ascendente seguita da una quinta discendente, che avevamo già incontrato nella quarta variazione e che era tornato anche in chiusura della nona. È il pianoforte ad esporla inizialmente, su un tempo che alterna battute in 4/4 alla breve e in 3/4:


Essa viene poi ripresa a canone dai fiati, mentre il pianoforte si sbizzarrisce in veloci semicrome. In aggiunta al ritmo claudicante, la chiusura improvvisa e sospesa della variazione lascia proprio un senso di insicurezza! 

Il quarto stadio (undicesima variazione) vede i quattro in una moderna città, dalla quale si allontanano avendone toccato con mano la superficialità della cultura e l'infelicità che ne deriva. Il pianoforte espone il primo motivo, una vaga derivazione da quello con cui era iniziata la precedente variazione e subito dopo un suo controsoggetto e ancora un altro motivo, usato poi come accompagnamento:

Il trattamento fugato della variazione è l’unico labile appiglio al testo letterario (la fuga dalla città). 

Nel quinto stadio (dodicesima variazione) i quattro fanno una gara nella speranza di scoprire che l'uomo può vivere felice: vi è rappresentata una grande casa, in cui Rosetta crede di trovare la risposta alle sue aspirazioni (ma ne uscirà profondamente delusa). 

È (quasi) il solo pianoforte ad eseguirla, in due sezioni, di cui la prima ripetuta (da-capo). È ancora la figura dell’ostinato a generare la prima idea; la seconda sezione presenta un motivo caratterizzato da quarte (ascendenti e discendenti) che risentiremo poi nella successiva variazione:


Nel sesto stadio (tredicesima variazione) i quattro capitano in un camposanto e meditano sulla morte e sulle impurità che albergano nei propri cuori. Il motivo principale proviene dalla precedente variazione ed è esposto dal pianoforte, contrappuntato dall’ostinato di tromboni, tube e controfagotto:


Il pianoforte poi improvvisamente tace per il resto della variazione, dove prevale il tema – molto espanso, fino a diventare quello iniziale della variazione precedente, su 15 note – dell’ostinato:


Il quale viene esposto ripetutamente dalle diverse sezioni dell’orchestra, che forse rappresentano i sentimenti dei diversi personaggi del poema. 

Il settimo ed ultimo stadio (quattordicesima variazione) vede l'illusione dei quattro, nel giardino ermetico, che credono di sapere come raggiungere il loro obiettivo, ma vengono ricondotti alla triste realtà da cui cercavano di distaccarsi.  

Il pianoforte riespone le 15 note del motivo allargato dell’ostinato, poi gli strumentini rispondono con il motivo principale della variazione precedente:
Più avanti i clarinetti espongono un nuovo motivo che verrà ripreso dai primi violini, in contrappunto con le ultime sette note del motivo allargato dell’ostinato
 
Prima della cadenza conclusiva udiamo un ultimo martellante motivo, esposto a piena orchestra: 
 
La cui conclusione è secca e pare lasciare poche speranze… 

Part II

a. The Dirge. I Quattro – in un taxi – piangono la perdita del colossal Dad (il colossale papà). La sezione impiega armonicamente una serie di 12 note da cui evolve il tema principale. Con esso contrasta una sezione centrale, caratterizzata da romanticismo brahmsiano (sic!) 

È il pianoforte a presentare la serie di 12 note, cui segue, in arpa e fiati, un altro motivo ostinato, di sette note:


Il tema principale, che evolve dalle note 8-10 della serie, viene dapprima esposto dall’ottavino:

Poi il pianoforte ripete più volte, variata, la serie iniziale, contrappuntato dagli archi che suonano il tema principale. Ora tutta l’orchestra espone il motivo ostinato finchè gli archi (violini esclusi) chiudono la prima sezione con una parte del tema principale. 

Nella sezione interna (brahmsiana, stando a Bernstein) è protagonista il pianoforte, che espone un nuovo motivo:

 
Il quale viene successivamente variato, prima per terze, poi per ottave, e su un tempo che continuamente accelera e decelera, allargandosi alla fine, per introdurre la sezione conclusiva, aperta dal pianoforte accompagnato dall’intera orchestra con la serie iniziale (una battuta), dopodiché il pianoforte tace, mentre l’orchestra ripropone l’ostinato; indi il clarinetto e i primi violini tornano sul tema principale, seguiti dal pianoforte, che ricompare con un’ultima reminiscenza del tema con cui aveva aperto la sezione centrale, prima che il lamento termini con le dodici note verticalmente sovrapposte:

 

b. The Masque. I Quattro sono nell'appartamento di Rosetta, decisi a fare un party, ma canzonandosi a vicenda. È uno scherzo per pianoforte e percussioni a base di piano-jazz. Il party si chiude con la partenza dei due più anziani, lasciando il pianoforte-protagonista traumatizzato. 

Per 11 battute l’accordone che ha chiuso Dirge permane negli archi, mentre (a misura 3) il pianoforte, supportato da buona parte delle percussioni, presenta un motto che introduce lo spunto e il ritmo poi impiegato nel primo tema:
 
Il quale tema è esposto sempre dal pianoforte:


 Tema che viene ripetuto più volte, variato e interpolato con altre idee, come questa:
E come quest’altra:

 
Poi sempre il pianoforte espone un quarto motivo, in ritmo rag
 
L’intera sezione è costituita dalla reiterazione di questi quattro motivi, sempre nel pianoforte, con un’eccezione costituita dall’intervento congiunto di celesta, arpa, glockenspiel, xilofono, percussioni e contrabbassi (una jazz-band davvero inusuale!) ad esporre la terza idea. Poi il pianoforte riprende l’iniziativa, ma la celesta lo sfida letteralmente, con velocissime semicrome, seguita poi anche da arpa e percussioni, prima che l’iniziale motto porti alla conclusione, cui si collega senza pause il finale

c. The Epilogue. È il pianino in orchestra che continua al posto del pianoforte solista la musica della mascherata, rappresentando la separazione del protagonista medesimo dal colpevole disertore, e consentendogli di ragionare su ciò che resta dietro tutto il vuoto e l'inconsistenza in cui ha vissuto. E, secondo Bernstein, ciò che resta è la fede. La tromba ne interpreta il concetto con un motivo che Bernstein chiama something pure (qualcosa di puro). Dapprima gli archi rispondono con una malinconica reminiscenza del motivo del Prologue. E abbiamo una specie di prova di forza fra i due motivi, finchè, improvvisamente, anche gli archi cedono a quel qualcosa di puro, nel segno della fede ritrovata. 

Nell'Epilogo il protagonista (pianoforte) - nella versione del 1949 - rimaneva silenzioso, semplicemente osservando  i fatti dall'esterno e limitandosi ad un accordo... di accordo (!) nella quart'ultima battuta. Bernstein revisionò il finale nel 1965, introducendovi la parte del pianoforte, che prende il posto del violino e che ha una cadenza tutta per sè.

Il pianoforte tace alla chiusa della Masque, ma per 4 battute tutta l’orchestra continua a martellarne il ritmo. Al posto del pianoforte le risponde per 22 battute il pianino (in orchestra) che la tromba contrappunta con un motivo (dolcissimo e nobile) per quarte discendenti e ascendenti, che rappresenta la prima idea tematica:

Ora segue un Adagio dove i violini primi espongono un tema che è reminiscenza del Prologue:
Poi ricompare il pianoforte – nella versione del 1965, prima era il violino - che reitera quella reminiscenza, arricchendola ulteriormente e facendone scaturire una nuova idea:
Queste tre idee tematiche vengono presentate alternativamente, prima della Quasi cadenza in cui il pianoforte rievoca motivi del Prologue e delle Seven Ages, mentre il pianino si aggiunge alla fine con una reminiscenza del ritmo della Masque.

Ora il pianoforte tace e l’orchestra (con serenità) espone il tema something pure, in 7/4 (4+3):
Sono le quarte, discendenti e ascendenti, a caratterizzarlo. Anche il tema ostinato dell'ottava variazione torna, ma depurato della sua sinistra somiglianza col Dies-irae, e conduce alla conclusiva perorazione, cui il pianoforte si associa – ma distinguendosi, da solo - con una semiminima, prima delle tre luminose battute dell'intera orchestra, sull’accordo di DO#:


Un finale che, con tutte quelle quarte (dominante-tonica) pare richiamarsi, ad esempio, alla Terza di Mahler, che non per nulla racconta l’amore… 
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Eccellente la prestazione al pianoforte di Emanuele Arciuli (che per sicurezza, non si sa mai… ha tenuto lo spartito nella cassa del pianoforte) ben coadiuvato da Marshall e dall’orchestra, dove la band delle percussioni ha fatto faville, insieme alla brava Carlotta Lusa, che si è letteralmente sdoppiata fra celesta e pianino, facendo per due volte la spola fra la prima (posta al proscenio, sulla destra) e il secondo, dislocato dietro la quinta, per meglio rendere l’effetto di distanza (o per mancanza di spazio sul palco, smile!

Diverse le chiamate per Arciuli, che ci regala anche un bis debussyano (Ministrels). 

Poi tocca a Wayne Marshall esibirsi nel doppio ruolo di direttore e solista, per proporci la celebre Rapsody in Blue di George Gershwin. Il quale ne scrisse nel 1924 la parte del pianoforte, accettando di farsela poi orchestrare da Ferde Grofè, in vista della prima esecuzione a Manhattan. Qui, a parte il pianista, è il clarinettista (nella fattispecie il bravissimo Fausto Ghiazza) a mettersi in mostra subito all’inizio, con il famoso glissando ascendente di 18 note, dal FA grave al SIb due ottave sopra. 

Il brano è di quelli dichiaratamente volti a mostrare come fra i diversi generi di musica i confini siano labili: in questo caso è il jazz a compromettersi con il classico (o viceversa!) con risultati francamente apprezzabili. 

Marshall ci mette parecchio di suo, introducendovi non una, ma addirittura tre cadenze, le prime due a cavallo del celebre Andantino moderato in MI maggiore, e si guadagna applausi ed ovazioni. 

Chiude il concerto l'altrettanto celebre An American in Paris, già eseguito qui (con Zhang Xian) meno di un anno fa. 

Ancora un’ottima prova di Marshall e dell’orchestra, eccellenti a far emergere tutta la frizzante verve di questo brano, ma anche i suoi lati patetici e carichi (direbbe un tedesco) di Sehnsucht. In grande evidenza Alessandro Ghidotti, nell’assolo di tromba che nostalgicamente richiama le mille luci di NewYork all’americano vagabondante per la ville-lumière. Alla fine urla e fischi… all’americana da parte di un pubblico finalmente numeroso come si merita laVerdi.   

Prossimamente avremo il ritorno di XianZhang con un corposissimo programma e un Mahler poco conosciuto.

07 marzo, 2012

Claudio e Martha di passaggio a Reggio Emilia


Ieri sera gran concerto di Claudio Abbado e Martha Argerich al Teatro Valli, gremito come un formicaio, dove hanno replicato la performance del giorno prima a Ferrara.

I due oggi sono dei vecchietti (smile!) ma pare abbiano lo stesso spirito di 30, che dico, 40 e più anni fa, quando si incontravano per le loro prime collaborazioni. Ma ancora oggi fanno le loro (quasi prime) esperienze! Il Concerto K503 di Mozart appunto da 35 anni non era stato eseguito dalla funambolica bairense che qui ne ha dato una visione… serenamente nostalgica, con i suoi polpastrelli che, più che percuotere, sembravano amorevolmente accarezzare la tastiera. Che oltretutto doveva apparirle con una fastidiosa striscia scura al centro, dovuta all'ombra della sua testa folto-crinuta proiettata da un occhio di bue disposto in maniera cervellotica, che la colpiva in piena nuca. Ma lei ovviamente non ha nemmeno bisogno di guardarla, la tastiera, per cavarne i meravigliosi suoni ispirati dal Teofilo

Il trionfo per lei è da stadio e così non può esimersi dal regalarci questo bis (ricordando di quando lei era piccola, smile!) casualmente (?) estratto dalle scene per i piccoli… 

Aveva aperto la serata l'Ouverture dell'Egmont di Beethoven. Che ha destato grande emozione… prima ancora di iniziare! Un comunicato diffuso per altoparlante aveva annunciato: il maestro Abbado, causa indisposizione, ha deciso di demandare la direzione del… Ecco, qualche centinaia di mani deve essere immediatamente calata in basso, o andata vorticosamente alla ricerca di metalli e amuleti diversi! Per fortuna (si fa per dire) san Claudio si è risparmiato solo l'antipasto beethoveniano (lasciato ad un giovine discepolo) dopodiché si è presentato abbastanza arzillo e in forma per Mozart e Schubert.

Del quale Schubert ha presentato la Quarta (Tragica, scrisse il diciannovenne Franz sulla partitura, forse perché c'è un po' di minore…) mostrando come anche un lavoro minore (smile!) possa produrre mirabilie, se eseguito con sensibilità e maestrìa. E soprattutto con un'orchestra, la MCO (48 elementi nella circostanza) che non ha alcunché da invidiare alle più blasonate compagini del pianeta. Qui ha anche sfoggiato un paio di trombe barocche, senza pistoni, che non devono essere propriamente uno scherzo da intonare alla perfezione.

Per il mitico interminabili chiamate, col pubblico ancora plaudente ad orchestra già sparita, fra baci e abbracci, dietro le quinte del Valli. 

Serate che… ringiovaniscono!


02 marzo, 2012

Orchestraverdi – concerto n 22


Ritorna in Auditorium il brillante Wayne Marshall con un programma piuttosto particolare, che sulle prime desta più curiosità che interesse, comprendendo tre opere di assai rara esecuzione, per non dire del tutto sconosciute ai più. Opere di autori nati in un periodo di 15 anni del 1800 ('65 Glazunov - '79 Ireland) e scomparsi in un periodo di 28 anni, in pieno '900 ('34 Holst - '62 Ireland). Quindi autori che hanno vissuto – in modo diverso ma anche con parecchie affinità – quel travagliato periodo che va dal tardo-romanticismo fino alla serialità più spinta, passando per espressionismi, impressionismi, atonalità e dodecafonia.

Si parte dalla perfida Albione, dove Gustav Holst componeva, proprio mentre Mussolini marciava su Roma, la sua strampalata opera in un atto The Perfect Fool. Opera comica, con riferimenti a Verdi, Wagner e Debussy, dove il perfetto idiota sarebbe il pubblico britannico (se lo merita? smile!) In luogo (anzi, prima) dell'ouverture, Holst propone un balletto in un'introduzione e tre quadri: gli spiriti della terra, dell'acqua e del fuoco (per l'aria forse gli mancò l'ispirazione…) Ed è questo balletto introduttivo – unica parte dell'opera ad essere scampata al (meritato) oblio – che ascoltiamo qui. 

Sono i tre tromboni ad introdurre il balletto con un motto che verrà poi ripreso da strumenti diversi nelle transizioni fra un elemento e il successivo e tornerà ancora poco prima della chiusura:
Dopo l'introduzione sono gli Spiriti della Terra ad entrare in azione, su un ritmo sghembo, in 7/8, e con un progressivo crescendo che porta ad una sezione (in 3/8) che serve a dare ulteriore carica alla danza: la quale riprende forsennata in 7/8 per poi sfociare ancora nel ritmo ternario che la porta lentamente ad esaurirsi, sull'Andante che fa da transizione verso l'entrata degli Spiriti dell'Acqua, con viola e violoncello a ripetere il motto. Siamo qui in Allegretto (4/4) e ci accorgiamo trattarsi di acque calme e gocciolanti, rigagnoli o laghetti montani, più che fiumi, mari e oceani, dove arpa e celesta la fanno da padrone. Il perentorio motto – nei corni – richiama ora gli Spiriti del Fuoco, un Allegro moderato in 3/4 che subito sembra sprizzar faville da ogni dove, grazie soprattutto ad ottavino e strumentini (Wagner docet…) Il movimento accelera e contemporaneamente tutti gli strumenti entrano in gioco, proprio a creare un gigantesco falò, che poi pian piano si va spegnendo finchè non ne rimane che… cenere. La viola e il malinconico corno inglese ripetono il motto, prima che il brutale accordo di RE ponga fine alle danze. 

Holst qui conferma certi stilemi già presenti nei suoi Planets (ascoltati tempo fa in Auditorium) come ad esempio il continuo cambiamento di passo e ritmo, caratteristico delle sezioni più mosse del brano, o l'orchestrazione spesso pesante ed enfatica. È musica che si lascia ascoltare, pur non eccitando più di tanto le corde sensibili dell'ascoltatore. 

Ottima prestazione dell'orchestra, soprattutto dei fiati, chiamati a virtuosismi non da poco.

È ancora britannico l'autore del Concerto per pianoforte che ci viene proposto dal 54enne canguro (deve aver gambe lunghe e buone, se lo hanno portato in quaranta continenti, smile!) che risponde al nome di Piers Lane. Si tratta di John Ireland, alla cui scuola studiò – con scarso profitto - anche Britten. Questo è il suo unico concerto, che lui in origine dedicò alla pianista (e compositrice) Helen Perkin, che ne eseguì la prima, nel 1930. Il nostro si innamorò della dedicataria che, per tutta risposta, sposò un architetto (tale George Mountford Adie) e se andò con lui in Australia. Il povero Ireland non dovette prenderla troppo bene, visto che… ritirò la dedica! 

Il concerto – di cui abbiamo la fortuna (!?) di ascoltare un'esecuzione più unica che rara - è pienamente adagiato nel diatonismo e risente di chiare influenze russo-francesi, un misto di romanticheria e di impressionismo, con qualche intervento rumoristico al termine del tempo intermedio (Lento, espressivo) e nel finale (Allegro giocoso, nel quale compare due volte una sezione lenta, prima della cadenza conclusiva). Una cosa mediamente gradevole, senza punte di eccellenza, il che spiega la sua scarsa popolarità sia fra gli interpreti che fra gli ascoltatori. 

Piers Lane, che arriva bardato con coccarda al bavero del frac, scarpe di vernice e calzini a scacchi bianco-neri (quella dei calzini demenziali è una sua specialità!) e che non si vergogna a suonare con spartito sul leggìo e assistente gira-pagine, ce la mette proprio tutta per spremerne il non abbondante succo e si merita l'applauso di un pubblico non propriamente… oceanico. Così, per distendere l'atmosfera piuttosto mogia, si esibisce in un numero tipo pianista matto, alla MacRonay…

Si chiude con Alexander Glazunov e la sua Quarta Sinfonia. Lui ha vissuto quasi contemporaneamente a tale Richard Strauss, da lui cordialmente odiato (era uso andarsene quasi regolarmente nel bel mezzo delle rappresentazioni di opere del bavarese) e, così come quest'ultimo compose i suoi poemi sinfonici prima della fine del 1800, anche Glazunov compose quasi tutte le sue otto (e… mezza) sinfonie in quel periodo. La quarta è più o meno contemporanea della seconda di Mahler, tanto per dare un riferimento. È anche la sinfonia con cui Glazunov si stacca definitivamente dal mondo autarchico dei cinque per guardare – nella scia di Ciajkovski e anticipando Rachmaninov (non certo Stravinski né Prokofiev) - verso ovest, dove si trasferirà sempre più spesso e passerà anche gli ultimi suoi anni, in barba a Stalin (smile!

Sinfonia dedicata all'austero Anton Rubinstein (quello che si mise le mani nei capelli ascoltando il concerto per pianoforte di Ciajkovski…) di cui divenne successore alla guida del Conservatorio di SanPietroburgo (dove in pratica rimase – direttamente o… per procura, dall'estero - fino alla morte).
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La Sinfonia sembra richiamarsi vagamente alla Piccola Russia di Ciajkovski. Come quella ha il primo movimento strutturato in forma-sonata, ma con parecchie libertà. Inizialmente abbiamo un'Introduzione (50 battute di Andante, 9/8) dove, dopo due accordi di MIb minore, è il corno inglese ad esporre una melodia dal caratteristico sapore russo, che sfocia fugacemente sulla tonalità relativa di SOLb maggiore:
E sempre ondeggiando fra SOLb e MIb sono le viole ad esporre un nuovo, cantabilissimo tema:

Dopo la ripresa del tema iniziale, c'è una modulazione a DOb maggiore e infine l'introduzione si adagia sul MIb maggiore, tonalità d'impianto con cui attacca l'Allegretto Moderato in 4/4. L'oboe solo ci fa udire subito un tema sognante:
Risentiremo questo tema, arricchito di enfasi e vivacità, nel Finale. Gli risponde il clarinetto, poi è tutta l'orchestra a sviluppare il motivo, fino a sfociare – come vuole la forma-sonata - nella dominante di SIb, ma non per presentare un secondo tema, bensì (Più mosso, scherzando) per la riproposizione variata dei due temi dell'introduzione, il primo nella relativa SOL minore, il secondo in SIb, e ancora il primo in SOL. 

Adesso il tempo si fa Tranquillo, spariscono gli accidenti in chiave ed il corno solo espone, a mo' di richiamo, il primo tema dell'introduzione, il che dà inizio a quella che si potrebbe chiamare la sezione dello sviluppo, che tosto si anima (Più allegro e agitato) con l'interazione dei due temi introduttivi, seguiti poi dal tema – variato e virante al lugubre - dell'Allegretto

Si torna al Tempo I con una specie di ricapitolazione: è il tema in MIb dell'Allegretto ad occuparne la prima parte, conclusa da una cadenza in Tempo rubato (animato e passionato) che lascia spazio al ritorno dell'Andante e dei temi dell'introduzione, il secondo dei quali, in MIb, porta alla definitiva comparsa del tema dell'Allegretto, che chiude il movimento con un tranquillo accordo dell'intera orchestra. 

Lo Scherzo (canonicamente in SIb) è una danza in 6/8, Allegro vivace, che presenta il suo caratteristico tema principale, esposto dall'ottavino dopo un'introduzione che ce lo lasciava solo intravedere:
Dopo che il tema è stato reiterato, ecco un controsoggetto, in FA maggiore, esposto anche da una fanfara di corni:
Arriva poi il Trio, Poco meno mosso, Tranquillo (3/4 in REb): è il clarinetto ad esporne il languido tema, accompagnato dai flauti con accordi di terze in staccato:

Al termine abbiamo la ripresa dello Scherzo, con i due suoi motivi che lo conducono alla chiusa, su un pizzicato in SIb di tutti gli archi. Non è chiaro con quale plausibilità si dica che questo brano intenda rappresentare un quadro di Böcklin

Anche il finale sembra abbastanza mutuato dalla seconda di Ciajkovski: si inizia in tempo Andante (4/4 MIb) con un'introduzione nella quale il clarinetto e poi altri fiati anticipano, in atmosfera lugubre, il primo tema. Questa introduzione poi sfocia, dopo una serie di animando e dopo 43 battute, nell'Allegro (2/2) che caratterizza il movimento. 

Il primo tema è esposto e riproposto finalmente in MIb maggiore nella sua piena vivacità:

Poi il tema viene ampliato e sviluppato, fino a modulare alla sottodominante di LAb maggiore e da qui, abbastanza sorprendentemente, a SOL maggiore, dove compare nell'oboe – Meno mosso e tranquillo - un secondo tema, più cantabile:

Ora inizia uno sviluppo che presenta moltissime modulazioni: dal MIb al DO maggiore, poi al FA maggiore, quindi ancora a LA maggiore, RE maggiore e SI maggiore! Finalmente si torna… a casa, in MIb su cui converge (le regole!) anche il secondo tema.

Ora ecco l'ultima sorpresa: ricompare il tema dell'Allegretto iniziale - molto mosso e caricato di colori - a conferire alla sinfonia il carattere di ciclicità. Infine è il primo tema, assai sviluppato ed enfatizzato, a condurci alla solenne e pomposa conclusione.
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Marshall affronta la sinfonia con piglio persino eccessivo (l'introduzione più che un Andante pareva un Allegretto) ma in complesso mi è parso rendere adeguatamente lo spirito della composizione. Bene l'orchestra e in particolare i fiati, tutti in gran forma.

E sarà ancora l'esuberante britannico-caraibico-maltese a tenerci svegli la prossima settimana con musica dal nuovo mondo. (Prima però ci sarà da godersi la premiata coppia Claudio&Martha).


27 febbraio, 2012

Così fan tutti… i Michieletto


Una Fenice affollata ospita la conclusione della trilogia Mozart-michielettiana, con Così fan tutte.

No so come fosse in DonGiovanni (da me trascurato in favore di quello scaligero) ma di certo Damiano Michieletto nelle Nozze aveva proprio indossato i panni del dr.Jekyll, stimabile e serio professionista.

Per quest'ultima fatica mozartiana sembrava avviato sulla stessa (buona) strada: ambientazione moderna, ma perfettamente consona allo spirito a-temporale dell'opera, recitazione assai curata, scene (Paolo Fantin) costumi (Carla Teti) e luci (Fabio Barettin) molto intelligenti e coinvolgenti. Insomma, uno spettacolo godibile, anche perché sul fronte musicale la prestazione di tutti, da Manacorda a strumentisti e cantanti è stata di assoluta dignità, di livello non certo inferiore a quello di altre che si odono anche in teatri assai più blasonati.

Peccato però che Michieletto – come Ferrando&Guglielmo – a un certo punto debba aver ingerito il tosco che trasforma Jekyll in Hide, l'assassino di opere liriche (smile!)
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Chiunque legga non distrattamente il libretto e, soprattutto, mediti appena un po' sulla musica, non può non concludere che l'opera sia un garbato - e allo stesso tempo caustico, ma ottimistico – schiaffo in faccia a tutti i tabù, i pregiudizi, gli stereotipi, i luoghi comuni, le dicerie, le consuetudini che sono caratteristiche di ogni era geologica (inclusa la nostra) e che quindi si applichi (lo schiaffo…) a meraviglia a qualunque contesto storico in cui l'opera venga calata. Ma è uno schiaffo salutare e benefico, per nulla distruttivo, anzi a suo modo catartico.

Ferrando e Guglielmo vi rappresentano gli stereotipi, se non gli archetipi, di quella mascolinità vanesia e piena di sé che è seriamente convinta che una donna – qualunque donna – da loro degnata di seria attenzione debba eternamente serbarsi fedele, come ad un principe azzurro che la provvidenza ha portato sulla sua strada. Però qui nasce un problema: se di principi azzurri ce ne sono in giro due, una stessa damigella non potrà cedere al primo e poi anche al secondo? E quella che in origine aveva ceduto al secondo, potrà successivamente cedere al primo? (grande, il DaPonte, nevvero?) 

Dorabella e Fiordiligi a loro volta sembrano due femmine uscite dai racconti di Liala: sono le damigelle che credono di aver incontrato i rispettivi principi azzurri – mandati dalla provvidenza - a cui mantenersi fedeli per l'eternità. Ma poi, incontrati altri due principi azzurri (gli stessi di prima, che però loro nemmeno sanno riconoscere – figuriamoci! - dietro il goffo travestimento da albanesi o valacchi) si dimenticano dei primi e si innamorano anche dei secondi… a parti invertite. 

Poi ci sono uomini e donne che ragionano, con la testa o con… l'utero (smile!) Così DonAlfonso, avendone viste e vissute di cotte e di crude (Ho i crini già grigi, Ex cathedra parlo) dimostrerà ai due stolidi ufficiali che loro - proprio in quanto principi azzurri, pur travestiti – possono far innamorare di sé anche le due morigerate damigelle già precedentemente accasatesi con altri principi azzurri (loro medesimi… a ruoli invertiti). E la navigata plebea Despina darà lezioni di concreto savoir-faire (far all'amor come assassine
alle due nobili e angelicate sorelline estensi, ciascuna pronta - pur dietro pesanti e un tantino ricattatorie sollecitazioni - ad innamorarsi del nuovo principe azzurro di passaggio.

Alla fine Ferrando&Guglielmo dovranno realizzare che il supposto ruolo di principe azzurro – in un mondo dove ce ne sono diversi in circolazione, e quindi nessuno lo è per davvero! - non garantisce alcuna fedeltà femminile (Te lo credo, gioia bella, ma la prova io far non vo' dovranno loro malgrado ammettere, dopo le rinnovate quanto ormai inaffidabili attestazioni di fedeltà delle loro damigelle). E le coppie (ignote) che si riformeranno con la benedizione del filosofo saranno composte da esseri umani (né principi azzurri, né damigelle) che avranno meno certezze di cartapesta in testa ma un po' più di testa sulle spalle. 
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Torniamo ora a Michieletto, partendo dal suo finale, pessimista e nichilista. Un'idea tanto velleitaria quanto gratuita, che il regista si è inventato estrapolando in modo assurdo ed indebito un verso cantato nel primo atto da DonAlfonso. Come il regista stesso ricorda in un'intervista: ''E' proprio don Alfonso a usare le parole 'Mi fa da ridere questo lor ridere, ma so che in piangere dee terminar', e in questo mio allestimento le fila tessute da questa sorta di vecchio don Giovanni si risolvono in un finale drammatico''.

Intanto è inequivocabilmente chiaro dal libretto che il piangere cui fa riferimento DonAlfonso riguarda esclusivamente la perdita della scommessa che i due protagonisti maschi han fatto con lui riguardo la fedeltà delle partner. Insomma, un modo come un altro per dire ride bene chi ride ultimo, quando c'è una posta in palio. Poi basta sempre leggere il libretto e in particolare l'ultima strofe, per convincersi che il finale non sarà certo un lieto-fine bigotto e perbenista, ma tutto è fuorchè drammatico. È invece un mirabile invito – che tutti i protagonisti accolgono e condividono - a prender la vita per il giusto verso, con serenità, disincanto e filosofia (take-it-easy! come dicono efficacissimamente gli anglosassoni) abbandonando stupidi pregiudizi e superstizioni e facendosi guidare dal buon senso, dall'equilibrio e dalla ragione

Che è poi quella che guida il filosofo DonAlfonso, che per DaPonte-Mozart non è per nulla un vecchio alcolizzato-depravato, un perfido guastafeste e rovina-famiglie, come ce lo presenta pervicacemente il regista. Al contrario – basta sempre leggere con attenzione il libretto - lui è l'incarnazione del vecchio saggio, scettico quanto arguto e navigato (pare uscito da un racconto di Eduardo… siamo a Napoli!) Una figura che accoglie in sé tolleranza, realismo, disincanto, il tutto mescolato ad un pizzico di simpatico sadismo… E il cui obiettivo finale non è certo quello di distruggere i rapporti fra le coppie, portandole alla disperazione e al nichilismo, come ci è toccato purtroppo di vedere alla Fenice, ma di portare nel loro mondo un po' d'aria fresca e pulita, liberandolo dagli sgradevoli odori perbenisti e da tutte le ipocrisie che lo caratterizzano. 

Michieletto evidentemente ha voluto distinguersi dalle scelte (quasi) obbligate che i registi devono compiere nel rappresentare il finale dell'opera: si riformano le coppie originali, o quelle createsi nella finzione legata alla scommessa? Invece di proporci altre plausibilissime combinazioni (il formarsi di due coppie omosex, perché no… oppure di un quartetto di liberi pensatori, tipo comune del '68) lui ha voluto far l'originale e non ha trovato di meglio che negare che le coppie si riformino, in una visione del mondo ultra-pessimistica, come a dirci: se agli individui vengono aperti gli occhi si fa il loro danno, chè, privati delle loro ipocrite certezze, perderanno totalmente la capacità di relazionarsi fra loro in modo sereno e costruttivo.

Ma era questo ciò che DaPonte-Mozart hanno voluto proporci con la loro opera? La risposta ce la dà – manco a dirlo e come sempre, in questi casi – la musica del Teofilo! Dico, Michieletto, bastava ti facessi la domandina semplice-semplice (che ogni regista si dovrebbe porre quando ha maturato la sua idea e la sua concezione dell'opera): se gli facessi vedere il finale del mio allestimento e gli chiedessi di musicarlo, che musica ci scriverebbe sopra Mozart? Ecco, anche un bambino risponderebbe: ma proprio tutta diversa da quella che ha scritto! Perché, mai ciò che il regista propone qui ai nostri occhi è stato in così stridente contrasto con ciò che il rapsodo ha fatto arrivare alle nostre orecchie! E allora, che si fa? Chiamiamo il solito Allevi per musicare il finale di Michieletto?

Dato al regista ciò che gli spetta (nel bene e nel male) resta da confermare la bontà della prestazione sonora. Su tutti (per me) la Fiordiligi di Maria Bengtsson, che si cala benissimo nella personaggio più complesso – libretto e musica – dell'opera: di alto livello in particolare il suo Rondò. Discreta anche Jose' Maria Lo Monaco, una Dorabella a volte un po' urlacchiante. Caterina Di Tonno ha interpretato splendidamente la navigata Despina: le manca soltanto qualche decibel… 

Fra i signori, buono – a dispetto del regista (smile!) - Andrea Concetti come DonAlfonso e dignitosi il Guglielmo di Markus Werba e il Ferrando di Marlin Miller (applaudita la sua Un'aura amorosa). In forma anche il coro di Claudio Marino Moretti, nelle poche ma efficaci sortite. L'orchestra, invero mozartiana (non più di una trentina di strumentisti) ha supportato al meglio le voci, oltre a distinguersi per pulizia nei brani strumentali: merito dei professori e di chi li ha guidati.

In definitiva, uno spettacolo bello e accattivante, di cui Michieletto ha guastato proprio il finale (che però è il succo dell'opera) lasciandosi prender la mano dall'idea di strafare.
    

24 febbraio, 2012

Orchestraverdi – concerto n 21



Ancora John Axelrod sul podio di un Auditorium quasi esaurito per un concerto che compie un percorso di andata-ritorno fra '800 e '900, muovendo da terreni assai seriosi per poi portarsi in ambito quasi-leggero.


Si parte con Debussy e il Prélude a l'après-midi d'un faune, che pare musica di un… secolo posteriore, che so, alla contemporanea Terza di Mahler. L'abbiamo ascoltato pochi giorni fa dai Filarmonici scaligeri (con Letonja al posto di Salonen…) e devo dire che – forse anche grazie all'ambiente più raccolto dell'Auditorium - l'effetto qui è stato di maggior pathos e raccoglimento.

La rossocrociata francofona Rachel Kolly d'Alba arriva poi per proporci il Concerto per violino di Karol Szymanowski, musicista di etnia polacca nato in Ukraina e morto proprio nella Svizzera francese. Il concerto è del 1916, ispirato da e dedicato a Paweł Kochański, violinista pure lui polacco-ukraino, che scrisse anche la cadenza originale del concerto:


Siamo nel regno dell'atonalità, ma forse più spostata verso l'impressionismo francese (da qui l'appropriato accostamento, in questo programma, con Debussy) che verso la Vienna di Schönberg. (Peraltro pare che Alban Berg, quasi 20 anni più tardi, avesse sotto gli occhi questa partitura di Szymanowski al momento di comporre il suo concerto.) Quanto alla forma, più che di Concerto si potrebbe parlare di Fantasia: abbiamo di fatto un unico ininterrotto fluire di motivi, di carattere alternativamente lirico e mosso, che si susseguono come in una specie di visione onirica (l'ispirazione non a caso venne dal poema Una notte di Maggio di Tadeusz Miciński).

Curiosamente lo stesso compositore parla di nuove piccole note per caratterizzare il lato impressionistico del brano, e persino la partitura a stampa le rappresenta con dimensioni ridotte, come si può osservare qui dalla pagina dove entra per la prima volta il solista:


Dopo un inizio sognante, con uccellini che cinguettano, arriva un ritmo di marcia, dove par di riconoscere certo Stravinski neoclassico. Poi farà la sua comparsa – in una sezione grandiosa e magniloquente – anche un bieco Rachmaninov… e dopo la citata cadenza, c'è spazio anche per un certo Scriabinestatico.

Nella chiusa, dopo il ritorno degli uccellini cinguettanti, il violino, con un frusciare di biscrome, pare proprio imitare un passerotto che ammicca da un ramo e scompare tra le foglie, mentre i contrabbassi esalano un LA grave pizzicato, come dire... ohibò:


Grande prestazione della bella Rachel (a proposito, sbaglio o qui a laVerdi arrivano solo violiniste col fisico da modella? lei per la verità adesso è un filino incicciottita, stante la recente gravidanza…) che non ci fa perdere una virgola di questo emozionante brano, ben coadiuvata da Axelrod - col quale ha già collaborato in Francia - e da tutta l'orchestra, con le note piccole e grandi (smile!)

Chiude il programma Piotr Ciajkovski con due Suite da balletti. Dapprima La Bella addormentata e poi Il Lago dei Cigni. Musica tanto orecchiabile quanto… impegnata (sì, perché troppo spesso la si sottovaluta come prodotto di seconda scelta, un po' come capita ai walzer di Strauss). Anche se ascoltarla ed apprezzarla non richiede la stessa attenzione e concentrazione necessarie per Debussy e Szymanowski, questo è poco ma sicuro!

Della Bella addormentata ci viene presentata una Suite arricchita da… Stravinski, che ne ri-orchestrò - per un balletto di Diaghilev - le Variazioni sulla Fata Lillà. Ma purtroppo impoverita dal taglio del bellissimo Panorama. Il Lago contiene una serie di passaggi solistici che consentono a tutte le prime parti dell'orchestra di avere il loro momento di gloria. Forse nell'orchestra (anche se da quei tempi pochi sono i reduci…) è rimasto qualcosa dello spirito con cui il grande Vladimir Delman, direttore e fondatore de laVerdi, affrontava queste bellissime pagine. Meritato quindi il trionfo per Axelrod&C.

Uno dei Direttori ospiti (il flamboyant Wayne Marshall) sarà protagonista del prossimo concerto, dal programma assai stuzzichevole.

22 febbraio, 2012

L’Aida alla Scala: continua il calvario


Ieri sera terza rappresentazione di Aida in un Piermarini abbastanza gremito e che, fino alla fine, era parso come il proverbiale MET, dove si applaude sempre (quasi) tutto e tutti. Poi è ri-scoppiato il putiferio già udito per radio alla prima.

Dopo la quale, la critica (ufficiale e ufficiosa) non si era stranamente divisa sul giudizio sui cantanti – tutti da protestare con richiesta di risarcimento, pareva – ma su chi dava tutte le colpe del disastro al povero ebreo errante Wellber e chi lo difendeva a spada tratta, puntando minacciosamente i missili della IDF contro quelle terribili armi di distruzione di messa (in scena) costituite dai buu del loggione, ma soprattutto da cerbottane e archibugi che alcuni cecchini annidatisi in buca avrebbero impiegato per colpire a tradimento l'impavido Kapellmeister

Cito letteralmente due (autorevoli?) giudizi – apparsi dopo la prima - sul Maestro e chiedo (e mi chiedo): in che mondo viviamo? 

Scriveva tale Carla Moreni sul Sole24Ore: Wellber in questa Aida della Scala rappresentava l'unico in locandina veramente da applaudire: per il dominio tecnico nel rapporto buca-palcoscenico, per la quantità di idee musicali in orchestra, per la tensione teatrale complessiva. Gli si poteva rimproverare di non aver forgiato in maniera unitaria i cantanti, che andavano ognuno per la sua strada e con una propria lingua, ma non certo di non saperli accompagnare, con duttilità e sicurezza, senza mai errori. A suo agio con il lessico dell'ultimo Verdi, diabolico nel passaggio repentino dalla massa debordante al dettaglio minuto. Il terzo atto, restituito nella sonorità notturna, increspato nelle tinte laminate degli archi, drammatico nello sbalzo degli accenti spostati, trapuntato di mille finezze, era un autentico pezzo di bravura, reinventato col viso aperto dei trentenni.

Lo stesso direttore, nella stessa serata, era così giudicato dal barcacciaro Stinchelli: Insalvabile, per quanto riguarda la concertazione, Omer M.Wellber: una direzione pessima, trasandata, moscia, demotivata. (…) A fronte di un simile s-concertatore, che definire "incapace" è forse un delicato eufemismo, la barca non poteva che affondare.

Insomma, anche i paludati si sono lasciati andare ad epinici ed epicedi tipici da tifoseria, e quindi costituzionalmente poveri di realismo e sobrietà. Perché Wellber – parliamoci chiaro – non è di certo (ancora quantomeno…) il Toscanini risorto, ma nemmeno è uno salito sul podio ieri mattina per la prima volta.

Poi c'è la critica ruspante, che ben si configura come i classici ultras-folgore vs commandos-tigre. Questi alcuni tipici commenti:

Wellber non sa tenere insieme l'orchestra, tuonano gli ultras-in-kefiah. Sta lì solo perché raccomandato da Barenboim e dai banchieri ebrei!

Manco per niente - replicano le tigri - basta vedere come ha tenuto insieme le orchestre di Valencia e di Bassano del Grappa! Sono i Trepper che fanno schifo!

Ma allora – urlano i folgorini – com'è che gli schifosi Trepper quando arriva tale Harding si trasformano nella bella copia dei Berliner?

Perché sono invidiosi di chi fa carriera in fretta, soprattutto se ebreo, inveiscono i commandos

Beh, direi che il paragone calcistico (compreso qualche tipico flavour razzista) torni proprio a pennello, poiché orchestra e direttore sono esattamente – dal punto di vista dello sviluppo dei rapporti interni ai gruppi organizzati - come la squadra e l'allenatore. Da che mondo è mondo esistono allenatori che fanno sfracelli con la squadra A, mostrando di saperla tenere in pugno con assoluta sicurezza… per poi cadere miserevolmente quando chiamati ad allenare la squadra B, che magari sulla carta sembra migliore della A. Tale Marcello Lippi vinse n trofei con la Juve ma poi – passato all'Inter - dovette dileguarsi col favore delle tenebre per sfuggire ad un linciaggio. Ed è la stessa persona che ha poi vinto un mondiale, mostrando di saper tenere insieme una squadra-di-prime-donne-isteriche, per perderne schifosamente un altro dove si era portato dietro solo i più scodinzolanti yes-men del momento… E nel business, quante volte capita che un CEO porti alle stelle la Corporate-X e poi, assoldato a peso d'oro dalla Corporate-Y, la porti invece sull'orlo della bancarotta? 

È vero che nel calcio (come in quasi tutti gli sport) i risultati sono determinati in modo abbastanza oggettivo, e cioè dai gol fatti e subiti (oltre che anche dal culo, dalla sfiga, dai pali, dai gol-in-fuori-gioco e dall'arbitro-venduto) mentre all'opera si vince o si perde a seconda di come è composto il pubblico giudicante (5% del totale, a dir tanto) e di quanto fiato ha da spendere… però, insomma, il clima che si crea fra squadra e allenatore un minimo di importanza ce l'ha. Ergo, se fosse vero, come si dovrebbe purtroppo dedurre da ciò che si è letto su giornali e web, che fra la squadra dei Trepper e l'allenatore Omer non corre buon sangue, la regola vorrebbe che fosse quest'ultimo a togliere il disturbo, non foss'altro perchè è uno solo da sostituire invece di 18-20 (nel calcio… qui, addirittura, invece di 80-100!) E quindi il presidente del club meneghino (nella fattispecie tale Stefano Lisseneri) non dovrebbe far altro che convincere il suo facpocum-scaligero a rimandare il pupillo Wellber ad allenare il Valencia e il Chievo. In attesa che, chissà – proprio come sta accadendo al mitico Harding, inizialmente vituperato e irriso – fra qualche anno anche Omer possa tornare alla Scala da profeta… 

Ma siamo poi sicuri che il problema stia lì? Torniamo a ieri sera. Intanto, di cerbottane e archibugi in buca non si è vista l'ombra. Poi, durante la recita solo applausi (scarsi, ma chiari); anche per il maestro ai rientri. Poi, chiusa la pesante lapide sui due poveri disgraziati Aida-Radames, ecco ciò che non ti aspetti: uscita collettiva dei cantanti (manca il povero dulcamara Maestri, morto nel frattempo, che si è visto negare la singola alla fine del terz'atto per mancanza di… stimoli) e applausi convinti. Uscita collettiva di cantanti, più Wellber e Casoni e – fra convinti applausi – un coro di buu e di vergogna! in particolare dal secondo loggione! Ohibò, a chi diretti? Dovremmo capirlo alle successive uscite singole: per tutti i cantanti chiari e forti applausi; poi esce Wellber e si prende, fra gli applausi, solo qualche buu rachitico… L'unico a non uscire da solo è Casoni: ergo, si dovrebbe dedurre che i vergogna! erano tutti e solo per lui (e per il coro)? Mi parrebbe francamente assurdo, quindi… che dire dell'arbitro
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Adesso però, anche se so benissimo che non frega nulla a nessuno, devo esprimere – per dignità verso me stesso - la mia impressione su questa recita. In assoluto la giudicherei discreta: nel cast dei cantanti, nel coro e anche nell'orchestra e nel direttore. Che vuol dire in assoluto? Che non ho rilevato errori marchiani, stonature clamorose, abissali scollamenti fra buca e palco, né attacchi fuori tempo. Ma basta questo, alla Scala? Ecco, non me ne vogliano i bocia, ma questo risultato (forse) basta dalle parti di Bassano del Grappa. La Scala deve dare di più, non foss'altro perché chiede di più, molto di più, e a tutti: pubblico, istituzioni e sponsor.
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PS-1: a rincarare la dose è arrivato anche il papà (anzi, il… bisnonno) di questo allestimento, giudicato irriconoscibile! Ma Zeffirelli non se l'è presa col povero Marco Gandini (colpevole di… qualche bacetto di troppo fra Radames e Amneris) bensì con il cast e la produzione musicale in genere, che avrebbero rovinato la reputazione della sua mirabile creatura (!)
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PS-2: da abbonato alla stagione d'opera ricevo ieri una lettera - su carta e in busta rigorosamente giallo-Scala - che mi avverte con profonde scuse del default di Semyon Bychkov per la prossima FroSch… ecco, questo sì che è Customer-Relationship-Management! (Invece, sulla mini-locandina cartacea, è scritto che quella di ieri sera era la quarta rappresentazione: forse la terza l'han fatta sul ponte di Bassano?)