Chiuso il ciclo 13579 di Mahler si torna
ad una programmazione più variegata e subito abbiamo un accostamento
interessante, con un’alternanza di due
Mozart e due Bartók.
A proporceli dal podio Tito Ceccherini, che ritorna qui dopo quattro anni, in compagnia di Domenico Nordio per
il violino… ungherese.
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Lunedì 29 dicembre 1783 Mozart poneva la
parola fine ad una composizione per due fortepiano, la Fuga in DO K426. Sono 119
battute in 4/4 e tempo Allegro moderato,
nelle quali il Teofilo mostra tutto il suo magistero in quell’arte che Bach
aveva così splendidamente illustrato. Se ne può ascoltare qui una particolare
interpretazione di Stravinski-padre-e-figlio, del 1938,
un’epoca in cui il compositore russo guardava spesso a Bach. Di questa Fuga si era
innamorato anche Beethoven, che ne aveva realizzato una sua propria
trascrizione per due pianoforti.
Di un giovedì di quasi 5 anni dopo (26
giugno 1788) è invece il completamento dell’opera in programma qui in
Auditorium: l’Adagio e Fuga in DO, K546. Il quale non è altro che
l’estensione (appunto con l’anteposizione dell’Adagio) della precedente Fuga,
il tutto affidato ora agli archi (quartetto o complesso).
L’Adagio
consta di 52 battute in 3/4, ed è una pagina di grande rilievo drammatico, che
serve mirabilmente, proprio a somiglianza dei Preludi e delle Toccate di Bach,
ad introdurre la Fuga. La quale è stata trascritta da Mozart vivacizzandone
leggermente l’agogica (qui siamo in Allegro)
e affidando ai Primi e ai Secondi Violini rispettivamente le parti della mano
destra delle due tastiere, alle Viole e ai Violoncelli (+Contrabbassi)
rispettivamente le parti della mano sinistra delle due tastiere. In più, a
partire dalla battuta 110 della Fuga e per le restanti 10, Mozart ha aggiunto
anche una parte specifica di accompagnamento per i contrabbassi. Un altro
cultore di Bach, Benjamin Britten, ce ne dà qui una
sua vibrante interpretazione, con la
English Chamber Orchestra, nella sua Aldeburgh, 1967.
Convincente
l’esecuzione di Ceccherini, che tiene tempi (Allegro compreso) assai sostenuti e
mette in risalto tutta l’austerità e severità davvero bachiana di questo brano,
ben assecondato dagli archi, ieri guidati da Nicolai (Freiherr von) Dellingshausen.
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Il Secondo Concerto per Violino di Béla
Bartók fu composto alla fine degli anni ’30 del secolo scorso e
coniuga un rispetto abbastanza rigoroso per le forme classiche (3 movimenti, i
due esterni veloci e il centrale più lento; simulacri di forma-sonata; cadenze
solistiche) con la proverbiale predisposizione dell’Autore verso echi di musica
popolare ungherese e – dal punto di vista della tecnica compositiva – anche con
un occhio al sistema seriale schönberg-iano.
Composto espressamente per l’amico
violinista Zoltán
Székely, nelle intenzioni originarie dell’Autore doveva essere un Pezzo da concerto in forma di tema con
variazioni; poi, a fronte delle insistenze del commissionario/dedicatario, Bartók si rassegnò all’idea del concerto tradizionale, ma in qualche modo
si tenne fedele alla sua prima impostazione: infatti non solo il secondo
movimento è (pur non essendo ciò esplicitamente scritto sulla partitura) precisamente
un tema con sei variazioni, ma anche il finale è una specie di variazione sui
temi del primo movimento.
Seguiamo il
Concerto in questa incisione del 1958 di Isaac Stern, con Bernstein e la NYPO.
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Primo movimento (4/4, tonalità di base SI minore, Allegro non troppo). Sono 6 battute (24
accordi, dapprima in SI maggiore, in stile popolare dűvő) dell’arpa, cui si aggiungono il SI tenuto dei corni
e i pizzicati di viole e archi bassi a creare un’atmosfera quasi idilliaca,
nella quale il solista (18”) presenta
il primo tema di 8 battute, caratterizzato da soggetto e controsoggetto:
Il violino sviluppa poi il tema in modo cantabile,
finchè (1’01”) sopraggiunge
un’improvvisa accelerazione, fino a 1’42”
doveil tema riappare in forma variata. A 2’19”
ecco un ponte, assai vivace, che ci porta verso il secondo tema (2’57”) più elegiaco, com’è
tradizione della forma-sonata, il quale è curiosamente costruito su una serie
di 12 suoni:
Pare
che il compositore volesse con ciò ad un tempo riconoscere la validità del
sistema di Schönberg e però mostrare come, applicandolo, si potesse comporre
ancora musica tonale! (Del resto persino Mozart nel Don Giovanni e poi Liszt
nella Faust-Sinfonie avevano utilizzato serie dodecafoniche senza per questo
pretendere di imporne talebanamente l’impiego come regola compositiva…) Dopo
che il tema è stato sviluppato, ecco un altro tema, vivacissimo (4’00”) che funge da sezione di chiusura
dell’esposizione.
Abbiamo
ora un articolato sviluppo (4’45”) introdotto ancora dagli
accordi delle arpe, poi caratterizzato da un’improvvisa accelerazione (6’45”) che porta infine (8’12”)
alla ripresa, con la riproposizione
del primo tema, poi del ponte (9’26”)
quindi del secondo tema (9’40”)
e ancora della sezione di chiusura (10’48”)
che incorpora (da 12’05” a 13’40”)
anche la corposa cadenza solistica. Una
coda (14’28”) chiude il
movimento, che muore su un lunghissimo SI tenuto all’unisono da tutta
l’orchestra.
Secondo movimento (9/8, tonalità di base SOL maggiore). Come detto,
si tratta di un Tema con variazioni:
è il solista ad esporre (in Andante
tranquillo) il dolcissimo e sognante tema (15’26”) dopo
una battuta di attacco con gli armonici dell’arpa e un sottofondo degli archi:
È l’orchestra, in cui si distinguono i rapidi
arpeggi dell’arpa, a suggellare l’esposizione del tema, preparando il terreno
alla Prima variazione (che si ascolta
a 17’02”)
sempre in SOL e in tempo Un poco più
andante. È caratterizzata da spiccato cromatismo e dal muoversi della linea
del solista prevalentemente per gradi congiunti alternati ad ampi intervalli.
L’accompagnamento discreto viene dai contrabbassi e dai timpani.
A
18’15”
ecco la Seconda variazione, in
tonalità MI (Un poco più tranquillo) introdotta dal corno e successivamente
caratterizzata dal formarsi di un’atmosfera liquida, creata dall’arpa e dalla
celesta, che accompagnano la melodia esposta dal solista, con gli strumentini
che pure si mantengono nel registro acuto. La Terza variazione, in tonalità SI (Più mosso) viene presentata a 19’52”: il solista la esegue suonando
quasi costantemente in corda doppia, una vaga reminiscenza della musica
popolare gitana. È ancora il timpano a condurre l’accompagnamento principale.
A
20’38”
ecco la Quarta variazione, 4/4 in
tonalità REb e tempo Lento: a
dispetto del quale il solista si imbarca in una sequenza di velocissime
biscrome che seguono trilli nervosi. La variazione ha un improvviso ritardando (21’20”) per poi
riprendere in Andante chiuso dal REb
e poi dal LAb degli archi. A 22’01” troviamo la Quinta variazione, in tonalità SIb, 9/8 Allegro scherzando: qui il solista si
sbizzarrisce in rapide evoluzioni, ben spalleggiato dall’arpa, dalle
percussioni e dalle volate gli strumentini.
A
22’37”
ecco la Sesta variazione, l’ultima, in
tonalità SIb, tempo Comodo, 3/2: inizia
con semibiscrome del solista accompagnate dal pesante ritmo degli archi, sul
quale si inseriscono i timpani e il tamburino con isolati interventi: il
solista sale poi in tremolo ad altezze vertiginose, prima di acquetarsi in vista
della riesposizione (23’48”) del Tema principale, in SOL, 9/8, dove gli archi lo accompagnano nella
cadenza conclusiva del movimento.
Terzo movimento, Allegro molto, 3/4, SI minore. Qui si manifesta il carattere di
ciclicità del Concerto, a partire dalla struttura del movimento, abbastanza
simile a quella dell’Allegro non troppo di
apertura: vi possiamo riconoscere un’esposizione di due idee tematiche, in
qualche modo legate a quelle del primo movimento; uno sviluppo, una ripresa dei
temi e quindi una coda. La chiusura del Concerto presenta due varianti: quella
originale (riportata però in Appendice della partitura, come opzionale)
affidata alla sola orchestra; e quella reclamata dal dedicatario Székely e normalmente eseguita, che invece impegna il solista fino
all’ultima battuta.
A 25’31” quattro battute occupate da
violente strappate degli archi introducono il solista che (25’36”) espone il primo
tema:
Il quale, come si può notare, ha chiare affinità con il suo
corrispondente del primo movimento, a partire dalle sette note iniziali,
proprio identiche, pur con lunghezze diverse. A 26’00” (Risoluto) ecco uno sviluppo
caratterizzato da veloci terzine del solista accompagnate solo da tocchi del
tamburino e sporadici interventi dell’orchestra. La quale a 26’27”
si scatena invece in ondate sonore, che portano successivamente (26’54”)
ad una sezione di ponte fra il primo
ed il secondo tema, dove il solista torna a muoversi su veloci e fluide
terzine, con accompagnamento assai scarno dell’orchestra.
Si arriva così all’esposizione del secondo tema (27’33”)
che – come il corrispondente del primo movimento – è costituito da una serie
completa delle 12 note della scala cromatica:
Qui certo Schönberg avrebbe da ridire, essendo violata una
delle sue regole fondamentali della dodecafonia (mai ripetere una nota prima di
aver esaurito le restanti 11!) Il tema viene poi sviluppato con interventi di
arpa e celesta e archi, mentre il tempo illanguidisce. Per poi tornare risoluto (28’23”) con il solista
che ancora si imbarca in volate ascendenti e discendenti, imitato
dall’orchestra, che ci portano (29’10”) alla sezione di chiusura
dell’esposizione (Più mosso). Qui il
solista suona frasi in corda doppia, poi l’orchestra prende il sopravvento e
conduce alla sezione di sviluppo (29’41”,
Meno mosso).
Il solista si adagia su note lunghe, mentre sono i
clarinetti a sbizzarrirsi con volate di terzine; poi (30’33”, Mosso, agitato) il solista tace ed è
l’orchestra a incalzare con un crescendo che si esaurisce a 30’54”
(Molto tranquillo) dove il solista
riprende la guida e, accompagnato dagli accordi dell’arpa e poi dei corni,
conduce alla sezione di ripresa.
Qui il solista momentaneamente tace e così il primo tema (31’36”)
viene esposto dai fiati, successivamente anche dagli archi. Il solista rientra
solo in corrispondenza (32’18”) del ponte che separa i due
temi principali. Si arriva così (32’37”, Tranquillo) alla riproposta del secondo tema variato, costituito da
altra serie (non dodecafonica) di dodici note, ottenuta ripetendo (quasi
irriguardosamente rispetto a Schönberg) ciascuna nota a distanza di un’ottava:
A 33’22” (Assai lento) abbiamo la sezione di chiusura di questa
ricapitolazione, introdotta da accordi dell’arpa, che poi si ripetono,
interrotti da una brevissima cadenza
solistica, e che portano alla coda
(35’11”)
con ritorno al Tempo I, dove il
solista si sbizzarrisce ancora in veloci terzine. A 35’48” abbiamo l’epilogo,
che in questa esecuzione vede la presenza… ingombrante del solista.
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L’interpretazione
di Domenico Nordio mette bene in
risalto sia la cantabilità dei temi (come nell’Andante) che gli squarci espressionisti
del concerto, e l’orchestra fa benissimo la sua parte, a cominciare dall’arpa
di Elena Piva, giustamente applaudita
con il solista, che ci regala non uno ma due bis bachiani.
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Dopo
l’intervallo ecco la K543, terzultima delle 41 sinfonie
di Mozart, già udita qui negli ultimi
anni, due volte con Rilling e poi con Xian. Ceccherini non si (e ci) risparmia
nemmeno una nota, rispettando tutti i ritornelli, anche nel finale, per farci
godere di questo gioiellino del grande salisburghese.
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Chiude
il concerto il Mandarino meraviglioso (o miracoloso
che chiamar si voglia) in forma di Suite.
La quale altro non è se non il balletto (anzi, la pantomima) originale troncato
del bizzarro finale in cui il protagonista fa la sua… Tod und Verklärung. Qui invece tutto finisce con la conclusione della
furibonda caccia all’uomo condotta dai malviventi ai danni del povero malcapitato.
Successo e applausi da un pubblico piuttosto… scarno.