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30 giugno, 2014

Altri libertini a Venezia


Dopo il Regio di Torino è la volta della Fenice a cimentarsi con Stravinski. Impresa peraltro non proibitiva, a suo tempo (1951) essendo stato proprio il teatro lagunare a tenere a battesimo l’ultimo ruggito neo-classico dell’orso russo transumato in occidente. Ieri pomeriggio seconda rappresentazione in un teatro assai gremito. Anche qui si è fatto un solo intervallo che – a differenza di Torino - è stato posto fra il secondo e il terzo atto.

Segnalo subito la – come sempre – brillante recensione di Amfortas, che ha seguito la prima di venerdi. E anche il magnifico programma di sala, già scaricabile via web, vero fiore all’occhiello del teatro veneziano.
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Damiano Michieletto con il suo team fisso (scene di Paolo Fantin, costumi di Carla Teti e luci di Alessandro Carletti) fa ancora il profeta in patria portando a Venezia – però con cast totalmente rinnovato - il suo allestimento già collaudato qualche settimana fa a
Lipsia dove, almeno stando alla stampa locale, ha ottenuto molti consensi e sparute contestazioni. E a proposito di stampa tedesca, è interessante (e torna a tutto suo onore) un’affermazione di Michieletto in risposta all’ultima domanda del Leipzig-Almanach: l’arte non deve insegnare, ma suscitare emozioni. Beh, come risposta a tanti eccessi pseudo-maieutici del Regietheater non c’è male davvero! Ma il rischio è che si predichi bene e poi…

La regìa del suo Rake la definirei superficiale, riscattatasi soltanto nelle due scene finali (quelle oggettivamente più facili da valorizzare e/o più difficili da… rovinare). Vediamo perché.

La prima scena, che almeno inizialmente dovrebbe essere – seriamente e poeticamente! – idilliaca, viene trasformata da Michieletto in una prosaica giornata di week-end in campagna, con tanto di barbecue, dispetti con spruzzi dell’irrigatore e lavaggio di auto. Quest’ultima operazione serve al regista per rappresentare il lavoro alienante (di contabile) proposto a Tom dal futuro suocero, e che il (potenziale, per ora) libertino disprezza nel suo recitativo con aria di sortita. Magari l’autoveicolo può anche evocare il viaggio maledetto di Tom che toccherà diverse tappe per condurlo finalmente alla perdizione, dopodichè si può sorridere dell’ingenuità di portare in scena una vecchia Peugeot 204 degli anni ‘60 (in Inghilterra poi, un’auto francese con guida a sinistra?) come simbolo del viaggiare! Dal che intanto si deduce quale sia il periodo storico in cui Michieletto cala la sua ambientazione; quanto al luogo, effettivamente pare più yankee che british.   

Shadow compare in scena fin da subito e in pratica mai ne uscirà, costituendo una presenza costante e persin troppo asfissiante. Poco giustificate le sue attenzioni (e molestie in piena regola) nei confronti di Anne, forse ai suoi occhi una nemica, in quanto potenzialmente in grado di strappargli dalle grinfie la sua vittima Tom (nulla di tutto ciò si desume, nemmeno lontanamente, dal libretto, manco a dirlo).

L’enorme piscina in cui è ambientata la seconda scena del primo atto (il bordello di Mother-Goose) fa venire in mente LasVegas più che Londra: è riempita di monete d’oro e sopra di essa incombono sette scritte al neon rappresentanti gli altrettanti vizi capitali. Questa scelta è di sicuro impatto, anche se sembrerebbe attribuire surrettiziamente a Tom tutti i vizi possibili e immaginabili (vedremo che non sarà così, ma che ciò provocherà altri problemi). Inoltre è poco appropriata a dipingere un postribolo frequentato da bad-boys (o hooligans violenti, oggidì) dove in definitiva è quasi solo la lussuria ad imperare, contornata magari da accidia e ira: si deve perciò da subito sospettare che questa scena farà da sfondo – via via deteriorandosi - anche a tutte le successive tappe del cammino di Tom. E di volta in volta si accenderanno solo alcune scritte al neon per sottolineare i vizi in quel momento aleggianti sulla scena.

Ecco, l’associazione di taluni vizi a personaggi diversi da Tom finisce però per togliere enfasi e per sfuocare proprio quelli del protagonista, che dovrebbero essere l’oggetto dell’opera. Che ira, gola, invidia e superbia siano attribuibili a Baba (scena 3 dell’atto secondo) può essere tecnicamente plausibile, ma è del tutto fuorviante nell’economia dell’opera, che è focalizzata sui vizi di Tom! Al quale Tom essi vengono anche attribuiti a sproposito: ad esempio la sua infatuazione per la macchina del pane andrebbe imputata a superbia (diventare famoso e meritare l’amore di Anne) non come fa Michieletto ad avarizia (=avidità) vizio che Tom ha già ampiamente dismesso nella prima scena di quello stesso atto, in cui lui manifesta la sazietà e il disgusto per cibo, gioco e donne, cioè gola, avarizia e lussuria. Un discorso a sé meriterebbe l’accidia: la scritta luminosa si accende nella prima scena del second’atto (dove vediamo Tom schifato dell’esistenza da ricco) e quindi comunica il concetto che tale vizio sia un effetto della sua nuova vita a Londra, quando invece sappiamo benissimo che esso è per lui la madre di tutti i vizi e quindi la causa prima e unica di tutte le sue disavventure! Se si voleva chiarire il concetto allo spettatore sprovveduto, allora quella scritta luminosa doveva essere mostrata già nella prima scena del primo atto!

Veramente debole la seconda scena dell’atto 2, con Baba (alias Conchita Wurst) che assiste a volto (e corpo!) scoperto all’arrivo di Anne, ai preparativi delle nozze e all’incontro di Anne con Tom: come minimo va a farsi benedire la sorpresa dello scoprimento della sua fluente barba!

Ridicola anche la terza scena del second’atto, con canotti, salvagenti e pupazzi di plastica a rappresentare i cimeli di Baba: insomma tutto il personaggio e il mondo della donna barbuta vengono banalizzati e irrisi in modo volgare (e non raffinato, come si dovrebbe e potrebbe fare rispettando il libretto!) Bambinesca anche la parte finale della scena, con la macchina del pane ridotta ad una pila di salvagenti, metafora piuttosto ingenua delle bolle economiche dei nostri giorni, gonfiate artificiosamente.

Di conseguenza anche la prima scena del terz’atto (l’asta) diventa tutta una pagliacciata che finisce per metterne in ombra, annegandoli in una generale caciara, proprio tutti gli aspetti più grotteschi.

Come detto, le ultime due scene, dove si materializza il dramma, sono le meglio riuscite: guarda caso, lì Michieletto segue il testo originale in modo quasi pedestre, senza inventarsi nulla. Tranne il due di spade della scena del cimitero, che magari si giustifica proprio per facilitarne la miglior comprensione da parte dello spettatore italiano. E poi – ultima scena – il mostrare il suicidio di Tom che si soffoca infilandosi in testa un sacchetto di plastica. Invece la bambolina-Venus che il regista mette in braccio a Tom (e gli fa rubare da Shadow) è un’idea coerente con lo spirito (se non la lettera) dell’originale e come tale è da apprezzare.

Nell’Epilogo fanno un poco sorridere le quattro coltellate inferte al povero Shadow (che tanto se ne fa un baffo…) dai quattro protagonisti.

In definitiva, un allestimento con parecchie ombre e qualche luce nel finale. Dal confronto diretto, per me McVicar esce vincitore per 3-1!

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Diego Matheuz ha diretto la pregevole orchestra della Fenice con diligenza e compostezza; devo dire che a Torino Noseda mi aveva dato l’impressione di maggior cura dei dettagli (ma sono proprio impressioni…) Bravissimi anche i membri del Coro di Claudio Marino Moretti, a partire dalle sguaiatezze del bordello per finire al mirabile canto funebre conclusivo.

Fra i protagonisti, su tutti un ottimo Juan Francisco Gatell, che ha proposto in modo assai efficace il personaggio di Tom. Accanto a lui una più che discreta Carmela Remigio, efficace in tutta la gamma, che va dal SI sotto il rigo al DO acuto (nella chiusa della cavatina lo ha esploso come nulla fosse). Le perdonerei la forzatura di altri acuti, con tendenza a vetrosità di emissione. 

Lo sbifido Shadow era Alex Esposito, attore consumato in cui Michieletto ha di sicuro trovato il suo diavolo. Ma anche vocalmente se l’è cavata assai bene (la parte peraltro non è proibitiva).

La Baba di Natasha Petrinsky si è meritata ai miei orecchi una larga sufficienza, che sarebbe diventata ancor più solida se le note dell’ottava bassa (tocca il LA sotto il rigo) fossero risultate più udibili.

La Mother Goose Silvia Regazzo e il Sellem Marcello Nardis hanno ben meritato: in particolare il secondo, che ha una parte molto radicata al centro dell’estensione (MI-SOL) ma deve cantare con la voce petulante caratteristica degli imbonitori da strada.

Michael Leibundgut (Trulove) e Matteo Ferrara (guardiano del manicomio) più che onesti nelle loro parti di contorno.

Alla fine il pubblico ha tributato meritati applausi a tutti, per uno spettacolo che evidentemente lo ha divertito ed emozionato.

2 commenti:

Amfortas ha detto...

Ciao Daland, gentilissimo come sempre.
Questo allestimento, almeno da quello che ho letto qua e là, non sembra aver convinto nessuno, seppure con vari distinguo.
Peccato aver mancato Torino, ma è troppo lontana da Trieste.
Ciao e grazie ancora.

daland ha detto...

@Amfortas
Michieletto, da ciò che esprime in varie interviste, sembrerebbe quasi dispiaciuto di dover mettere in scena opere di repertorio: preferirebbe allestire opere "nuove". In effetti si può capire la posizione in cui si trova un regista che è obbligato - non da leggi di natura, ma da "mode" spesso insulse - a dire qualcosa di nuovo su oggetti (e soggetti) ormai sviscerati e pure dissacrati al massimo grado. Così ne escono interpretazioni che magari all'intuizione felice affiancano cadute di stile desolanti.
Ciao e grazie a te!