affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

13 novembre, 2013

Orchestraverdi – Concerto n°9

 

Resta sul podio Zhang Xian per proporre, nel ventennale della fondazione de laVerdi, l’identico programma del primo concerto che la neonata orchestra tenne al Conservatorio quel sabato 13 novembre del 1993, sotto la bacchetta del suo mitico co-fondatore Vladimir Delman.

Questa sera, prima del concerto, i massimi responsabili gestionali (presidente Cervetti e dg Corbani) e lo storico Konzertmeister Luca Santaniello hanno rievocato i giorni e le vicende di quella pionieristica e anche parecchio pazza impresa. Che però ha dato i frutti che oggi sono sotto gli occhi di tutti.

Entrando in sala si nota subito la mancanza del… podio. In compenso la sedia di Santaniello è sostituita da un seggiolone da contrabbassista. Sì perché in Ciajkovski sarà lui a guidare con l’archetto e i cenni del capo il pacchetto degli… archi, alcuni dei quali, come Luca, protagonisti di quel primo concerto di 20 anni fa.

E suonano divinamente anche senza Maestro (nell’Elegia confesso che mi son venute le lacrime agli occhi). Però qualcuno lassù a guardarli e guidarli c’era: proprio il leggendario Vladimir, la cui inconfondibile effige campeggiava sui due schermi posti sopra le loro teste.

Successo straordinario: direi che sono musicisti che nulla hanno da invidiare ai colleghi delle orchestre più blasonate del pianeta. Così ci deliziano ancora con la sezione finale del Walzer.

Poi torna il podio per accogliere Zhang Xian che ancora una volta ci propone la sua visione della Fantastique. Senza mezze misure, con la manopola del contrasto girata sul massimo. E senza far mancare nessuno degli effetti speciali (tipo l’oboe di Emiliano Greci posto stereofonicamente dietro le quinte) o il contrappunto dei… timpani (sempre nella scena campestre).

Un bicchiere di spumante per tutti ha chiuso i festeggiamenti. Dopo la replica di domani si dovrà però sudare assai: è in agguato il padre prodigo Chailly con la sinfonia dei mille!

11 novembre, 2013

Servitù fiorentina


Pur tra mille travagli e incertezze che turbano l’esistenza del Maggio – e con un paio di settimane di ritardo rispetto alla programmazione originale - La serva padrona torna a Firenze. Ieri, nella piccola bomboniera del Teatro Goldoni (affollata ma non proprio esaurita) è andata in scena la quarta delle sette recite.

Nel 1733 (epoca in cui Bach componeva Kyrie e Gloria della Messa in SI minore!) il 23enne Pergolesi (morirà, ahilui, solo tre anni più tardi) compose due intermezzi, per un totale di circa 45-50 minuti, da impiegarsi per intrattenere il pubblico nei due intervalli della sua opera seria Il prigionier superbo. Destino volle che l’opera seria venisse del tutto e presto dimenticata, mentre i due intermezzi (La serva padrona, appunto) diventassero un autentico best-seller per tutto il settecento ed oltre!

Musica brillante e coinvolgente, pur nella relativa schematicità delle forme, con arie e duetti tipicamente in forma tripartita, su tonalità contigue (tonica, dominante, relativa minore, o simili) che però contiene germi di ciò che verrà alla luce nei decenni successivi: per dire, l’aria introduttiva di Ubaldo non può non rimandare a quella di Leporello, così come nel Largo di Serpina si trova una vaga premonizione del gluckiano Che farò senza Euridice

La vicenda trattata qui (un’intraprendente servetta che riesce a farsi sposare dall’anziano padrone, complice un maggiordomo… muto) era un po’ uno stereotipo nel’700, ma si potrebbe ambientarla tranquillamente anche ai giorni nostri: il regista potrebbe proporci, per dire, i rapporti fra un tale Silvio e una certa Francesca… come Vespone ci vedrei benissimo un tale Adriano; e si potrebbe aggiungere, per movimentare ulteriormente l’atmosfera, un altro personaggio non-cantante, quale un simpatico quadrupede a nome Dudù.

In ogni caso la regìa di Curro Carreras (del 2011, ripresa ora da Silvia Paoli) pur presentando uno scenario proprio settecentesco rende perfettamente tutta la freschezza e la comicità dell’operina, grazie anche, se non soprattutto, alla bravura dell’interprete del terzo personaggio (Vespone, muto): Alessandro Riccio, autentico trionfatore del pomeriggio. Funzionali le scene (a moduli rotanti che aprono la vista sui diversi ambienti domestici) e i costumi di Raffaele Del Savio, che ha elaborato lavori di un corso di scenografia del Maggio.

Sul piano musicale assai convincenti i due (unici) protagonisti canori: una Lavinia Bini dalla vocina adatta al personaggio sbarazzino di Serpina, e Davide Bartolucci, un Uberto forse un filno troppo… giovane (beato lui, smile!) ma autorevole sia vocalmente che scenicamente.

I suonatori sono 17 archi dell’Orchestra del Maggio, coadiuvati dal sempre più capelluto Andrea Severi al cembalo e guidati con cura e precisione da Massimiliano Caldi. Il quale si è scrupolosamente attenuto alla partitura originale, evitando di aggiungervi brani alieni (tipo sinfonia o altro) ed includendovi il secondo finale (largamente il più rappresentato) con il duetto Per te io ho nel core (preso da Il Flaminio).  

Qui una pregevole edizione cinematografica del 1962, con Montarsolo-Moffo diretti da Ferrara, che ha invece rimpolpato i due intermezzi con una sinfonia e un… intermezzo (smile!) oltre che giustapporre i due numeri finali (il sostituto, Per te io ho nel core, e l’originale, Contento tu sarai).

Pubblico divertito, come ad un avanspettacolo di alto livello, ecco: un’oretta davvero frizzante e gradevole!
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Primo intermezzo
Aria (Allegro, 4/4, SIb maggiore): Aspettare e non venire (Uberto)  
Recitativo: Quest’è per me disgrazia (Uberto, Serpina)
Aria (Allegro assai, 4/4, FA maggiore): Sempre in contrasti (Uberto)  
Recitativo: In somma delle somme (Serpina, Uberto)
Aria (Allegro, 2/4, LA maggiore): Stizzoso, mio stizzoso (Serpina)
Recitativo: Benissimo. Hai tu inteso? (Uberto, Serpina)
Duetto (Allegro, 4/4, SOL maggiore): Lo conosco a quegli occhietti (Serpina, Uberto)

Secondo intermezzo
Recitativo: Or che fatto ti sei (Serpina, Uberto)
Aria (Largo, 4/4 – Allegro, 3/8, SIb maggiore): A Serpina penserete (Serpina)
Recitativo: Ah! Quanto mi sa male (Uberto, Serpina)
>>Recitativo accompagnato: Per altro io penserei (Uberto)
Aria (Allegro, 4/4, MIb maggiore): Son imbrogliato io già (Uberto)
Recitativo: Favorisca, signor, passi (Serpina, Uberto)
Duetto originale (Allegro, 6/8, LA maggiore): Contento tu sarai (Serpina, Uberto)
>>Duetto sostituivo (Allegro, 4/4, RE maggiore): Per te io ho nel core (Serpina, Uberto)

08 novembre, 2013

Orchestraverdi – Concerto n°8

 

L’ottavo appuntamento stagionale de laVerdi propone uno dei cavalli di battaglia dell’orchestra (l’altro è la nona di Beethoven, ormai di tradizione a capodanno): il Requiem di Verdi.

A dirigerlo è tornata – dopo l’avvicendamento con Ceccato e Axelrod nelle due stagioni precedenti – Zhang Xian. Che è anche tornata – dopo esperimenti che evidentemente non l’hanno convinta del tutto – a dislocare strumentisti e solisti in modo abbastanza tradizionale: violoncelli al proscenio, bassi a destra e solisti posti fra orchestra e coro.

Ecco, forse i quattro avrebbero meglio fatto passare le proprie voci, non proprio possenti (salvo la Chiara Angella, la più convincente) se fossero stati messi al proscenio. Agunda Kulaeva e Alexander Vassiliev hanno onestamente fatto la loro parte. Mario Zeffiri, tenore abbastanza leggero, ha sostituito all’ultimo minuto Roman Sadnik (che dal repertorio parrebbe più una voce da Heldentenor) ma ha comunque fatto valere la sua esperienza anche nello specifico del Requiem verdiano.

Per il resto, una prestazione eccellente di tutti, a partire dal coro di Erina Gambarini, che sa gestire alla perfezione i passi più colossali così come gli ultra-pianissimo che Verdi ha disseminato nella partitura.

Insomma, ancora una volta un’esecuzione davvero emozionante, e questo è ciò che si richiede in questi casi: il pubblico ha ricambiato tutti con un autentico trionfo.

Buon viatico per la titanica impresa che i complessi de laVerdi si preparano ad affrontare fra un paio di settimane con il redivivo Chailly.


02 novembre, 2013

Orchestraverdi – Concerto n°7

 

Torna sul podio de laVerdi il venerabile Helmuth Rilling per proporci un delizioso programma tutto mozartiano.

Programma aperto dalla Sinfonia K319 (catalogata come la 33ma) composta da un Teofilo 23enne che era in procinto, con Idomeneo, di spiccare il grande volo delle opere della maturità. 

E proprio nell’iniziale Allegro assai scopriamo un motivo secondario che Mozart riproporrà come tema conduttore dell’ultimo movimento di sinfonia da lui composto, quasi 10 anni dopo:
 
Qualcuno l’ha definita la pastorale di Mozart, e non senza ragione; a giustificarlo basta questo esempio di un motivo del Finale:

Come sempre Rilling dirige con grande sobrietà, ma con assoluto rigore,  ed è davvero un piacere ascoltare da lui – ben assecondato da Dellingshausen che guida l’orchestra da par suo - questo piccolo capolavoro.
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Ecco poi la sorridente tedeschina Mirella Hagen farsi avanti per interpretare Exultate, Jubilate!  Composto dal 17enne Mozart ed eseguito per la prima volta proprio a Milano nel gennaio 1773 (altro anniversario… 240 anni!) fu dedicato e indirizzato al castrato Venanzio Rauzzini, già interprete di opere mozartiane.

A volte è definito mottetto, altre volte aria: in effetti ha un testo vagamente spirituale (non strettamente religioso) su cui Mozart ha scritto una musica assolutamente laica e profana, piena di svolazzi da teatro. E che chiude – sull’Alleluja! - con un accenno all’inno dell’imperatore, nientemeno:

La Hagen fa gorgheggi da usignolo (non per niente quest’estate a Bayreuth ha sostenuto la parte dell’Uccellino del bosco…) e si merita calorosi applausi dal foltissimo pubblico.
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Chiude il programma la Praga (K504) già diretta qui proprio da Rilling anni orsono. Di struttura haydn-iana, a partire dalla lunga introduzione lenta all’iniziale Allegro, che anticipa nelle atmosfere cupe l’imminente DonGiovanni, manca però del Menuetto, cosa che ancora gli esperti devono decidere se sia stata voluta da Mozart, o sia dipesa da… perdite nelle tubature (smile!)

Rilling non si smentisce e ce ne dà ancora un’interpretazione impeccabile, accolta calorosissimamente dal pubblico, che si è goduto una serata davvero… distensiva.    

01 novembre, 2013

Noseda inciampa in Aida alla Scala

 

Ieri sera, in un Piermarini per nulla preso d’assalto, terza delle nove recite di questa ripresa dell’Aida  di Zeffirelli del 2006.

 

Sul podio il milanese Gianandrea Noseda, che dopo aver inaugurato la stagione 13-14 del suo Regio sta chiudendo quella 12-13 della Scala. Un testa-coda che ieri si è materializzato proprio come in pista: una salva di vergogna alla fine del second’atto, buh al rientro per il terzo e altri pesanti buh alla singola finale. Insomma, per lui un autentico calvario… Meritato? Mah, di certo il mio concittadino sestese non ha prodotto una delle sue prestazioni migliori: dopo un avvio promettente con gli archi del preludio, si è fatto prendere la mano da una specie di fregola, che lo ha portato a staccare quasi sempre tempi eccessivamente concitati e a produrre fracassi francamente insopportabili. E proprio la scena del trionfo ne è stata testimone, con le conseguenze descritte. Ma anche in seguito le cose non sono poi migliorate molto. Insomma, una serata storta, ecco.


La compagnia di canto è stata evidentemente riparata dal parafulmine Noseda, ricevendo complessivamente solo applausi: in realtà qualcuno avrebbe meritato le sue belle disapprovazioni. A cominciare da Nadia Krasteva, un’Amneris quasi inesistente: voce scarsa, spesso inudibile e male impostata. Poi Ambrogio Maestri, che ha sfoderato il suo vocione, ma usandolo più per vociferare che per cantare Amonasro (smile!)

In un’onesta sufficienza, ma nulla più, i due bassi Alexander Tsymbalyuk e Marco Spotti, che han fatto dignitosamente la loro parte di Re e Gran Sacerdote.

Per fortuna note (abbastanza o molto) positive dai due protagonisti: Marco Berti conferma le sue grandi doti naturali e se riuscisse a sfoderare un filino di espressione in più potrebbe anche essere un Radames di altissimo livello. Grande l’Aida di Hui He, vera trionfatrice della serata, cui è difficile trovare pecche interpretative.  

I due comprimari erano altri asiatici (Jaeheui Kwon, messaggero e Sae Kyung Rim, sacerdotessa) che hanno assolto onestamente i rispettivi compiti.

Efficace il coro di Casoni e abbastanza in palla l’orchestra, che però Noseda ha guidato come detto più sopra, e come se sul palco non ci fosse nessuno da far ascoltare.

L’allestimento è ultra-conosciuto e poco c’era da scoprirvi: tutto sommato è proprio come uno si immagina l’Aida, coreografie (di Vladimir Vasiliev) incluse; anzi chi è stato all’Arena forse si aspetterebbe qualche… bestia in più (smile!)  

26 ottobre, 2013

Orchestraverdi – Concerto n°6

 

Prima apparizione sul podio, nella stagione 13-14, per il Direttore principale John Axelrod, che continua la sua visitazione delle sinfonie di Brahms e completa il ciclo dedicato ai concerti di Rachmaninov.

In un gremitissimo Auditorium si esegue del russo il Quarto ed ultimo, interpretato da Alexander Ghindin. Un’opera dalla genesi tormentata e dalla vita piuttosto grama… (meritatamente, tirate tutte le somme.)

Concepito ancora a ridosso del terzo, questo quarto dovette attendere anni e anni prima di vedere la luce (1926). E quelli furono gli anni peggiori per Rachmaninov, che era faticosamente – e con grandi compromessi sul piano artistico – uscito dalla tremenda crisi depressiva patita sul finire dell’800 ed ora era volontario esule da una patria che i bolscevichi gli avevano resa invivibile, cittadino errante in un mondo (l’Occidente) che magari lo riempiva di dollari, ma che lui intimamente disprezzava, includendo nella sua diffidenza anche le clamorose novità che vi nascevano in campo musicale: a Vienna (Schönberg) e Parigi (Stravinski, un suo compatriota che però, a differenza di lui, qui da noi aveva davvero trovato… l’america! )

Ecco perché, più che veder la luce, il concerto vide un lumicino, come quello che i simpatici nostri governanti ci indicano da anni baluginare laggiù, in fondo all’interminabile tunnel della crisi (smile?) Rachmaninov, dopo poche esibizioni in USA, accolte, ad essere comprensivi, dalla più totale indifferenza (beh, qualcuno si spinse a scrivere che il concerto sarebbe stato vecchio già 50 anni prima!) non fece nemmeno pubblicare la partitura (la cosa è avvenuta solo nel 2000, quando il manoscritto originale del compositore fu ceduto a Boosey). Questa versione è stata incisa proprio da Ghindin con Ashkenazy, in Finlandia.

Due anni dopo (1928) Rachmaninov si decise a far pubblicare l’opera, non dopo averla un po’ rimaneggiata (soprattutto nel tempo finale) e smagrita. (Il fatto che lui medesimo la ritenesse smisuratamente prolissa, mentre durava poco più di 30’, la dice lunga sul suo valore intrinseco…) Ne esiste, pare, un sola incisione, che si può ascoltare qui, sia pur mutilata del tempo di mezzo.

Ma dopo la riproposizione al pubblico, il lumicino, proprio come quello sul fondo del nostro tunnel, si trasformò in… lumino da cimitero: così il compositore ritirò l’opera dalla circolazione e non se ne riparlò per più di un decennio, fino al 1941, quando un Rachmaninov che forse non immaginava di essere ormai vicino alla fine le diede un’altra robusta sforbiciata e un deciso maquillage (qui Benedetti Michelangeli).

Ed è proprio quest’ultima (delle tre) la versione che si è faticosamente trascinata negli anni fra una sala da concerto e una di incisione, senza però mai sfondare; e che abbiamo ascoltato ieri sera nel primo dei due appuntamenti previsti per il 6° concerto.
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Il primo movimento (Allegro vivace, alla breve) è di struttura quasi indecifrabile, una cosa che si avvicina più alla fantasia o al capriccio che non alla classica forma-sonata. Al primo ascolto (ma non è che al secondo, terzo, ecc. le cose migliorino…) appare come un pot-pourri di motivi affastellati l’uno sull’altro, senza alcuna narrativa a giustificarne la presenza.

Sono almeno sei le idee tematiche (più le relative diramazioni e transizioni!) che compaiono in successione; alcune delle quali rifanno capolino in seguito, ma senza che ciò abbia attinenza con concetti di esposizione, sviluppo e ripresa. La qual cosa per me, più che innovazione, significa… manifesta impotenza ad esprimere in musica qualcosa di sensato. Effetti senza cause? O cause che non sfociano in effetti? Comunque sia, una cosa piuttosto deludente.

Nella figura sottostante sono riportati i principali motivi di questo primo movimento, individuati da lettere corrispondenti alla tabella successiva:


Lo specchietto qui sotto sintetizza la struttura del movimento, nelle due versioni del 1928 e del 1941; nella colonna tagli sono riportate esclusivamente le modifiche apportate da Rachmaninov in termini di accorciamento dei tempi; altre modifiche, più o meno pesanti e diffuse, riguardano la strumentazione:


Come si vede, i motivi ricorrono in modo disordinato, senza alcuna apparente logica formale, il che lascia l’ascoltatore interdetto, come di fronte ad una specie di caos.

Si noti di passaggio come la sforbiciata più decisa del 1941 (circa il 70% delle modifiche) riguardi la transizione nella parte iniziale del movimento.

Il successivo Largo – che è probabilmente la parte più nobile del concerto - ha una struttura semplice: breve introduzione, poi A-B-A e infine una breve transizione verso il Finale; era di sole 80 battute già nella versione 1928 e fu ulteriormente accorciato (di altre tre, nella prima delle tre sezioni) in quella del 1941, dove però subì anche qualche non banale modifica.

L’incipit del tema principale, DO maggiore, che in pratica monopolizza l’intero movimento, essendo riproposto in ben 5 diverse tonalità, scende dalla mediante alla tonica e ricorda ovviamente quello del famosissimo concerto di Schumann. Sembrerà strano, ma Rachmaninov se ne rese conto solo dopo aver riguardato la prima bella copia dell’opera, e ne scrisse stupito (!?) al dedicatario Nicolas Medtner, quasi rimproverandogli di non averglielo fatto notare prima.

Lo specchietto seguente riporta con un certo dettaglio la macro e micro struttura del brano:


Qui il taglio del 1941 è stato davvero impercettibile, mentre sono riscontrabili alcune innovazioni di non poco conto, fra cui è il caso di citare: la ristrutturazione delle 9 battute che nella versione del 1928 (a partire dalla 25) erano interamente affidate al solista, e che nel 1941 vennero distribuite fra solista e orchestra, in pratica riproponendo l’approccio impiegato nella prima esposizione del tema; poi l’inizio della sezione agitata, dove la parte del solista è stata semplificata (pesanti accordi in sostituzione di veloci semicrome) e vi è stato aggiunto un attacco del pianoforte (laddove c’era una pausa); poi il ritorno del tema principale (sezione Come primo) che era esposto esplicitamente in orchestra e poi dal solista, mentre ora è vagamente sfumato e variato; infine è stato cambiato radicalmente il passaggio alle battute 66-72 nella versione 1928, dove il pianoforte divagava sul tema, mentre ora procede con pesanti accordi ribattuti. Francamente è difficile trovare dei razionali convincenti per queste manipolazioni.

L’Allegro vivace finale è il movimento più pesantemente modificato da Rachmaninov nel 1941 (ma già l’incipit e la coda erano stati oggetto di corpose modifiche nel 1928): vi tagliò quasi il 9% delle battute e ne modificò un altro 32%... In particolare rivoluzionò la sezione conclusiva, cambiandone radicalmente anche il tempo (da 2/4 a 3/4). Insomma, un vero e proprio rifacimento!  

La macro-struttura del movimento presenta tre sezioni tematiche principali (A-B-A) ciascuna costituita da diversi motivi, richiamati nella figura seguente:

Lo specchietto qui sotto schematizza la struttura del movimento (di cui riporta soltanto i tratti salienti):


Come si vede, una prima modifica abbastanza marcata fra 1928 e 1941 riguarda l’inizio della sezione B, dove viene introdotto dal pianoforte un motivo impertinente, poi ripreso dopo il cantabile del solista. La ripresa della sezione A è, come detto, in gran parte rimaneggiata.

Dopo la riproposizione dell’Introduzione del primo movimento abbiamo la Coda, che Rachmaninov rifece di sana pianta (esclusa la cadenza conclusiva) nel 1941 portandola, come detto, da 2/4 a 3/4. In essa infilò anche un richiamo al motivo E del primo movimento, enfaticamente dilatato, dando così un (facile) tocco di ciclicità al lavoro; quanto alle novità di questo finale nella versione ultima, esse sono più che altro di natura scopertamente effettistica, e quindi non è che bastino a risollevare le sorti del concerto.
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Ghindin, che oggi ha solo 36 anni ma ne dimostra qualcuno in più (ahilui deve odiare ogni tipo di dieta, smile!) si è impegnato allo spasimo in questo concerto, anche con i muscoli maxillo-facciali, oltre che con le dita… ma più di tanto nemmeno lui può fare per trasformare questo pastiche in un capolavoro!

Così, per addolcirci la pillola, ci regala due bis di un Rach più abbordabile, nel primo dei quali si sente pure un po’ di Malagueña
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Dopo la pausa Axelrod si presenta per… incidere la Prima di Brahms: al pubblico viene chiesta in anticipo la massima collaborazione (leggi: limitare o evitare starnuti e scaracchi di stagione… smile!) e in effetti non si è sentita volare una mosca per l’intera durata della sinfonia.

Axelrod fa eseguire – cosa rara – il ritornello del primo movimento, chissà se per fedeltà alla lettera brahmsiana o perché poi (in studio) sceglierà quale delle due esecuzioni (anzi delle quattro, contando la replica di domenica) immortalare sul nuovo CD…

A parte gli scherzi, una performance pregevole, con il Direttore che ha tenuto un aplomb davvero impeccabile e i ragazzi che han dato il massimo in tutti i reparti: insomma nessuno si può essere annoiato, fosse pure al centesimo ascolto di questo capolavoro immortale.  

21 ottobre, 2013

Il Simon Boccanegra di Noseda a Torino

 

Prendendo direttamente il testimone da quello di Parma, il Regio di Torino ha inaugurato la stagione con Simon Boccanegra.


Già la prima di mercoledi 9 trasmessa da Radio3 aveva lasciato (perlomeno a me) una buona impressione, che si è confermata ieri dopo l’ascolto dal vivo della penultima delle otto rappresentazioni.

Spettacolo originale di Bussotti del 1979 (!) ripreso da Vittorio Borrelli: un esempio di come si possa coniugare il rispetto quasi maniacale per il libretto con la modernità di presentazione e di interpretazione. Modernità che nulla ha a che fare con trasposizioni spazio-temporali cervellotiche, né con la ricerca (che spesso è invenzione bella-e-buona) nell’originale di chissà quali reconditi significati filosofico-politico-psicologico-esistenziali.

Credo che pochi spettatori non si siano commossi fino alle lacrime nella scena dell’agnizione Simone-Maria o in quella che chiude l’opera. Naturalmente il merito preponderante è di tale Giuseppe Verdi, basta affidarsi a lui (come ha fatto Bussotti) senza pretendere di migliorarlo per rendercelo più appetibile…

Strepitosa la prestazione delle masse strumentali e corali del Regio: un Noseda che ha tenuto in pugno buca e palco con l’autorità di sempre (ormai il mio concittadino sestese staziona di diritto nell’Olimpo dei Kapellmeister) e un Fenoglio che ha preparato nel miglior modo i suoi coristi. Credo che il Teatro torinese abbia oggi pochi rivali (in Italia, quanto meno) in fatto di standard qualitativi.

Quanto alle voci, note essenzialmente positive, ovviamente con alti e… meno alti.

Su tutti il Fiesco di Michele Pertusi, vocalmente e scenicamente impeccabile. Come quasi impeccabile è stato Ambrogio Maestri, cui purtroppo mancano, come dire, i connotati somatici per interpretare al meglio ruoli che non siano Dulcamara o Falstaff: intendiamoci, la voce c’è e come, è il portamento e persino il suo ghigno naturale che lo rendono poco plausibile in ruoli drammatici, come questo di Simone o come Amonasro, per citarne solo un altro… Anche per lui comunque, come per Pertusi, un grande successo.

Bella sorpresa (ma già in radio si era apprezzata) da parte di María José Siri, voce per me molto adatta al ruolo di Amelia-Maria, ossia abbastanza pesante (in senso positivo): dopo un avvio con qualche incertezza (in Come in quest’ora bruna) non ha fatto altro che crescere, meritandosi applausi a scena aperta e ovazioni finali.

Roberto De Biasio è stato un Adorno appena sulla sufficienza (per me, ovviamente): è giovane e deve sicuramente migliorare; tutto sta a vedere se la strada migliore per farlo siano questi impegni con l’asticella troppo alta

Convincente il Paolo di Devid Cecconi, che non per nulla fa anche Rigoletto nell’attuale produzione del Regio. Un onesto Pietro è Fabrizio Beggi.

I due ruoli decisamente minori erano interpretati da Dario Prola (Capitano) e dalla brava soprano del Coro del Regio Eugenia Braynova (Ancella) che all’ultimo momento ha sostituito la collega Sabrina Boscarato.

Senza voler avanzare paragoni (che sarebbero improponibili date le due diversissime realtà) fra l’edizione di Parma e questa di Torino, mi sento di dire che la scelta parallela dei due teatri ha meritoriamente consentito di riportare in evidenza quest’opera forse ancora troppo poco valorizzata. 

18 ottobre, 2013

Orchestraverdi – Concerto n°5

 

Riecco in un Auditorium strapieno il rampante-con-juicio Jader Bignamini sul podio de laVerdi per dirigervi un concerto tutto russo, ma di musicisti di… esportazione.

La prima parte è dedicata a Rachmaninov, e precisamente al famigerato Rach3 (ascoltato recentemente agli Arcimboldi dal giovane bresciano Federico Colli con Temirkanov e i suoi) qui interpretato da un altro ventunenne: il milanese Luca Buratto.

Sarà magari perché questo Rachmaninov è, come dire, più di pancia che di testa e quindi non pone all’interprete (né all’ascoltatore, a dirla tutta) problemi metafisici… fatto sta che l’esecuzione del ragazzo è stata proprio travolgente!

Intanto non si è risparmiato una sola nota (sappiamo quanto venga tagliato, col beneplacito dell’Autore, questo concerto) e si è semplicemente cautelato tenendosi lo spartito dentro la cassa del pianoforte.
   
Quanto alla cadenza del primo movimento (che per la prima parte esiste in due versioni, entrambe autografe) Luca ha optato per la seconda (indicata come ossia) che è forse la meno eseguita, ma che non è certo di difficoltà inferiore all’altra.

Meritatissimo successo e grandi ovazioni per questa bella realtà del concertismo italiano, che ci offre un bis (ancora Rach?)
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Poi tutto Stravinski: uno e… due.

Lo Scherzo fantastique è un’opera del primo periodo (russo, 1907-8). Si volge ancora indietro, a Ciajkovski e soprattutto al maestro Rimski; però ci si trovano già i germi di ciò che maturerà di lì a pochi anni (se non mesi) come l’impiego, insieme ad uno spiccato cromatismo, di scale a toni interi e di scale diminuite (o ottofoniche che dir si voglia). L’accostamento con Le Sacre (1913) è quindi assai interessante ed istruttivo.
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La composizione fu ispirata dallo scritto del 1901 La vie des abeilles (La vita delle api) di Maurice Maeterlinck (un vero esperto in materia, avendo fatto per 20 anni l’apicoltore) e in effetti ci si sente il ronzio di insetti e coleotteri (teniamo presente che a quei tempi Rimski aveva già composto il suo Calabrone…)

In tutto consta di 460 battute, suddivise in tre sezioni, più una coda, così articolate in agogica:

a) 1-167 Con moto (6/8)  
b) 168-297 Moderato assai (3/4, 9/8 e 6/8) 
c) 298-460 Tempo I Accelerando-Stringendo-Vivo (6/8)

Si noti ancora la regolarità del tempo, che ha pochissime e morbide variazioni, al contrario di quanto accadrà per le opere successive (Le sacre ha 7 cambi di tempo nelle sole prime 9 battute!)

Le tre sezioni corrispondono al programma letterario pubblicato nella prima edizione della partitura, il quale programma deriverebbe più o meno dal corposo saggio di Maeterlinck, costituito da ben 7 libri, così strutturati:

I Sulla soglia dell’alveare (8 capitoli)
II Lo sciame (31 capitoli)
III La fondazione della città (25 capitoli)
IV Le giovani regine (18 capitoli)
V Il volo nuziale (12 capitoli)
VI Il massacro dei maschi (3 capitoli)
VII Il progresso della specie (19 capitoli)

Così avremmo in Stravinski: (a) la vita dell’alveare, poi interrotta (b) dall’accoppiamento dell’ape-regina con il fuco e, dopo la morte del maschio, (c) ripresa con maggior intensità. Mentre le due sezioni estreme abbondano di cromatismi e scale esotiche, quella centrale è assai più diatonica e ci si sente persino Wagner (l’incantesimo del Parsifal e atmosfere dei Meistersinger…) oltre ad influssi dell’impressionismo di Debussy e a reminiscenze proprio di Rachmaninov (la seconda sinfonia, composta un paio d’anni prima di questo Scherzo).

Nelle due sezioni estreme abbiamo un ampio impiego degli strumentini (fra cui l’ottavino, ovviamente) per evocare l’incessante muoversi e operare degli insetti; ci troviamo anche note rapidamente ribattute, che diventeranno ossessive nel Sacre.  La sezione centrale allarga i tempi e si fa più cantabile ed elegiaca.  

Stravinski a posteriori negò di aver voluto comporre della musica a programma, pretendendo invece che fosse nata come musica pura… ma sappiamo che sulla sincerità del nostro nessuno sarebbe disposto a mettere la mano sul fuoco. Per di più su quella musica fu costruito – toh! - un balletto (proprio col titolo da Maeterlinck) e chissà che la sconfessione di Stravinski non sia legata più prosaicamente a contenziosi economici relativi a come spartire i proventi di quello spettacolo.
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Bignamini ha il merito di averci evocato un ordinatissimo alveare e non un… vespaio (smile!) facendo suonare tutti con grande leggerezza, proprio come fosse un Mendelssohn del Sogno.

Infine ecco il piatto forte della Sagra (traduzione proprio ridicola, che fa pensare a salsicce alla brace, frittura di pesce, zucchero filato e processioni con madonne pellegrine); un capolavoro che ancor oggi – a un secolo di distanza! – sa di avanguardia, di novità, di rottura.

Straordinaria prestazione dell’Orchestra in tutte le sezioni, e sicura conferma del valore di Bignamini, che appare sempre più maturo e autorevole.

Intanto uno dei padri de laVerdi pare destinato a prendere – non proprio domani mattina - il timone della Scala. Intanto sarà protagonista, con l’Orchestra che lui ha guidato per anni, di un avvenimento quasi unico per Milano: l’Ottava di Mahler (21 e 23 novembre alla vecchia Fiera). 

17 ottobre, 2013

Torna alla Scala il Don fatale

 

Sì sì, questo è un altro equivoco (come il famoso ah l’amor, l’amor è un dardo): lo so che il fatale non è DonCarlo (come però ho creduto per anni e anni… smile!) ma il fascino della Eboli che – secondo lei, modestia suprema! – la costringe a compiere azioni sconvenienti e sconsiderate. Poi, dopo il suo pentimento, canta a proposito del Don (questo sì, il Carlo!): Sia benedetto il ciel!... Lo salverò!... Però tutto quello che sa fare per salvarlo, nel finale dell’atto III (che spesso è pure tagliato!) è gridargli Va’! fuggi! quando la folla inferocita reclama la testa dell’amato (?! potenza dei libretti d’opera…)

 

Ieri sera alla Scala – con  molti… buchi, andati aumentando di numero ad ogni intervallo, lungo o breve che fosse - seconda recita del Don Carlo nella ripresa dell’edizione 2008-9, quella che fu precisamente fatale all’incolpevole Filianoti e che passò alla storia non certo per la qualità dello spettacolo – che fu passabile, ma nulla più - ma soprattutto per le contestazioni alla prima ambrogina a Daniele Gatti…

 

Del quale Gatti il concertatore Fabio Luisi ha evitato gli arbitrari ripescaggi di brani che Verdi aveva autorevolmente escluso dall’edizione da lui personalmente ed espressamente curata e pubblicata in occasione dell’esecuzione dell’opera alla Scala (10 gennaio 1884): edizione impiegata per le recite di questa stagione.

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A proposito di versioni dell’opera, ne riporto qui l’elenco sintetico ma sufficientemente esaustivo pubblicato (a cura di Enrico M. Ferrando, sulla base dell’edizione critica integrale di Ricordi) sul programma di sala del Regio di Torino, in occasione della produzione dell’opera nella stagione 12-13:

1a) Versione completa, utilizzata per le prime prove del lavoro (include 8 brani, poi eliminati per contenere la durata dell’esecuzione nei limiti rigidamente stabiliti dalle convenzioni dell’Opéra, e manca del balletto, terminato nel febbraio 1867).
1b) Versione della prova generale (comprende ancora tre degli otto brani eliminati alla prima, e include il balletto, completato nel febbraio 1867).
1c) Versione della prima esecuzione (11 marzo 1867).
1d) Versione della seconda esecuzione (13 marzo 1867): in questa versione l’atto IV è abbreviato e termina con la morte di Rodrigo.
1e) Versione in italiano (San Carlo, Napoli, 1872): include varianti al duetto Filippo-Rodrigo (due terzi del quale furono composti ex-novo su un nuovo libretto) e al duetto finale Carlo-Elisabetta.

2) Versione in quattro atti, in italiano (Milano, 1882-1883). È un radicale rimaneggiamento che elimina più di metà della musica originaria (tutto l’atto I, duetti Carlo-Rodrigo e Filippo-Rodrigo nell’atto II, scena iniziale e balletto nell’atto III, scena Filippo-Elisabetta nell’atto IV, finale dell’atto IV, finale dell’atto V), sostituendola con sette nuovi brani e ricollocando la romanza “Io la vidi” (che Carlo canta nell’atto I della versione parigina) nel Preludio, introduzione e scena del frate (n.1) del nuovo atto I.

3) Versione in cinque atti in italiano (1886). Rispetto alla precedente reintegra l’atto I originale (la romanza di Carlo è ovviamente ricollocata nell’atto I, e viene quindi ripristinato l’inizio dell’atto II).
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Sulla pertinenza, plausibilità, arbitrarietà, abuso… riguardo i contenuti di un’opera come questa da mettere in scena si potrebbe discutere all’infinito. Alla fine però ci si riduce immancabilmente al quesito: vogliamo rispettare le volontà dell’Autore, così come materializzatesi in suoi atti espliciti, o invece ci prendiamo il diritto di costruire noi lo spettacolo, impiegando di volta in volta i pezzi del meccano che più ci piacciono (o che possono fare più cassetta)?

Nel caso del Don, pochi dubbi esistono che le uniche due versioni che Verdi licenziò espressamente dopo averne meticolosamente curato la preparazione siano: a) quella della prima di Parigi (1867, in francese e poi in traduzione italiana) e b) quella della Scala del 1884.

Purtroppo però non ci si ferma qui, poiché anche grandi direttori (vedi Abbado o Pappano, o il Gatti di qualche anno fa) si inventano la loro personale versione del Don, scegliendone una come base e poi infilandoci o togliendoci altri pezzi a loro piacimento. Prendiamo ad esempio il duetto Filippo-Carlo dell’Atto III (che Gatti riscoprì nel 2008): che sia grande musica non si può negare, e Verdi medesimo lo impiegò nel suo Requiem come Lacrymosa; che però il Maestro lo abbia cassato in via definitiva dal Don lo dimostra proprio la versione preparata (con mesi e mesi di lavoro!) per il nuovo allestimento della Scala del 1884 (nel 1868 e 1878 vi si era rappresentata la versione in 5 atti in italiano, ma non senza modifiche). Dove le ragioni del taglio legate alla lunghezza dell’opera (e agli orari dei treni di Parigi…) non reggevano più, visto che la versione in 4 atti recupera una buona mezz’ora rispetto a quella originale del 1867! Invece no, nessuna riapertura: evidentemente il Maestro aveva concluso da tempo – almeno dal 1874, anno di composizione del Requiem e dell’impiego di quel brano del Don come Lacrymosa  - che la drammaturgia della scena, e quindi il suo valore estetico ed artistico venivano seriamente compromessi da quel siparietto in cui tutto un mondo in fermento si deve fermare in surplace per ascoltare l’epinicio che Filippo e Carlo cantano al povero Rodrigo.

Insomma, personalmente mi sento di dire bravo a Luisi anche solo per non aver voluto fare il diverso… In realtà la sua prestazione di ieri ha avuto, per me, altrettante ombre che luci: poiché alla generale correttezza dello stacco dei tempi ha fatto da contraltare una tendenza ad eccessivo fracasso (penso in particolare all’Atto II, ma non solo) con conseguente copertura delle voci. Certo, anche per colpa delle voci, come dirò. Ma il concertatore dovrebbe venire in soccorso, invece di… seppellire.  

Orchestra meglio del solito e Coro di Casoni sui suoi standard.

Mattatore della serata René Pape, che a distanza di 4 anni è stato ancora un Filippo autorevole, commovente e – per giunta – non acconciato come un vecchio rimbambito (a dispetto del suo crin bianco, non dimentichiamo che il RE storico aveva da poco passato i 30!) Non vorrei sbagliare, ma mi pare che nell’aria-madre dell’Atto III non abbia preso bene il suo primo amor… In ogni caso, una prestazione notevole per emissione e sensibilità interpretativa. Per lui trionfo indiscusso.

Con lui abbastanza bene l’altro basso, Štefan Kocán, nei panni del tremendo Inquisitore: cui ha conferito anche quel che di protervo che ben si addice al personaggio. Certo, quando in altre repliche dovrà indossare i panni del Re, sarà bene che trovi il registro appropriato.

Fabio Sartori è un Infante passabile: la voce è un pochino… sporca, squilla poco, anche se ha una potenza tale da sovrastare persino gli eccessi rumoristici di Luisi! Certo, la sua presenza scenica non è proprio delle più accattivanti, e non solo per la circonferenza… pavarottiana del suo adipe (smile!)   

Rodrigo è Massimo Cavalletti, che mi ha favorevolmente impressionato: voce ben impostata e passante, portamento efficace; mi sembra che il 35enne lucchese (ascoltato qui come Ford nel Falstaff di inizio anno) stia continuamente migliorando.

Le due protagoniste femminili hanno funzionato a corrente alternata. Nel senso che le loro voci si sentono quando devono trovarsi nella cosiddetta ottava alta; in quella bassa faticano a farsi udire (e Luisi purtroppo nulla ha fatto per farcele udire). Meglio la Martina Serafin (Elisabetta) che almeno gli acuti li emette con proprietà… mentre Ekaterina Gubanova (Eboli) tende a spararli al limite dello schiamazzo.

Efficace Fernando Rado nella parte non proprio secondaria né banale del Frate. Su standard da minimo sindacale Barbara Lavarian (il Paggio, en-travesti) e Il Conte di Lerma di Carlos Cardoso.

Efficace la prestazione dei sei Deputati fiamminghi: Ernesto Panariello, Simon Lim, Davide Pelissero, Filippo Polinelli, Federico Sacchi e Luciano Montanaro.

Carlo Bosi e Roberta Salvati (che evidentemente ier sera cantava dal suo camerino…) completano il cast.

Alla fine applausi per tutti e per ciascuno, con punte per Pape e Luisi.
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La regìa di Stéphane Braunschweig è rimasta su per giù quella che era. Ho notato che adesso è meno invasiva la presenza dei due bambinelli a far da controfigura a Carlo&Elisabetta. In particolare ad Atocha, dove il piccolo è relegato in fondo-scena e legato ad un patibolo, anziché sostituirsi (come 5 anni fa) a Posa per la consegna della spada di Carlo al Re.

Un allestimento che non ha fatto e non farà storia, nel bene e nel male. Dove il bene consiste principalmente nel non fare danni all’originale; e di questi tempi, in cui assistiamo a travisamenti e adulterazioni di ogni sorta, è già qualcosa.

In conclusione, un ritorno accettabile: di questi tempi c’è di che accontentarsi.