affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

17 novembre, 2021

laVerdi ancora alla Scala (per MilanoMusica) mentre si prepara al 2022

Ieri sera laVerdi è tornata al Piermarini (abbastanza affollato) nell’ambito del Festival Milano Musica per presentare un programma assai impegnativo, sotto la bacchetta di Michele Gamba, ormai più che una promessa nel panorama direttoriale italiano.

Ha aperto la serata to an utterance di Rebecca Saunders, del 2020, interpretato alla tastiera dal pianista Nicolas Hodges (munito di guanti senza dita, come da precisa prescrizione) che già aveva suonato il brano alla prima assoluta a Lucerna.

Basta un’occhiata alla partitura per avere un’idea, sia pur sommaria, del contenuto: di musica come siamo abituati a pensarla (melodia-armonia, sia pur seriale e dissonante...) non ce n’è. Siamo invece in presenza di continui sussulti, singulti, imprecazioni, cascate e scivoloni (i mille glissando...), strazi sonori che si protraggono per mezz’ora e improvvisamente si estinguono, senza alcuna (fino a prova contraria) narrativa. E la stessa prefazione che l’Autrice pone in testa alla partitura in fondo ce lo conferma. Quanto poi alla meticolosità delle indicazioni per l’esecutore, beh, a me pare già un segno di... impotenza, ecco. 

Detto con tutto il rispetto, sia ben chiaro.

Hodges, che la conosce (quasi...) a memoria, essendone stato primo interprete oltre che dedicatario, e Gamba (che immagino l’abbia conosciuta in questa occasione) l’avranno pur resa secondo le intenzioni dell’Autrice, ma basta questo a far uscire quest’opera dal recinto della musica (?!) di élite autoreferenziali?

Comunque buona parte del pubblico ha applaudito, quindi o tutta l’élite era lì, oppure a molti la cosa è piaciuta, e buon per loro.
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Del maestro (uno dei) della Saunders, Wolfgang Rihm, è stata poi eseguita la Verwandlung III, deI 2007. Qui devo dire che ci si raccapezza già di più, quanto meno melodia-armonia ci sono, e come, magari un po’ ostiche da digerire, ma almeno comprensibili e delineanti un percorso, appunto una narrativa, come del resto indica il titolo (metamorfosi).

Ciò spiega, credo, gli applausi assai più convinti che hanno accolto l’esecuzione dei verdini (! questi sono buoni, però...)
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Ha chiuso la serata Four Sea Interludes di Benjamin Britten. Questo collage estrapolato dal Peter Grimes ha quasi l’aspetto di un poema sinfonico di soggetto marino, musica assai accattivante, anche se personalmente la ritengo più apprezzabile proprio quando inserita nell’originario contesto dell’opera.

Insomma, procedendo a ritroso nel tempo il tasso di musica è cresciuto a vista d’occhio udito d’orecchio! (fossimo retrocessi ancora, tipo a Dvorak, chissà che festa, hahaha!)

Chi ha fatto un figurone è comunque l’Orchestra, che dimostra di non temere alcun terreno, per quanto ostico. Buon viatico per la seconda parte della stagione 21-22, annunciata ieri stesso.
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Poche ore prima in Auditorium si era tenuta infatti la presentazione della seconda parte della stagione 21-22 de laVerdi. La Presidente Ambra Redaelli ha fatto gli onori di casa e il Direttore Generale ed Artistico Ruben Jais ha esposto il programma della stagione principale (20 concerti che spaziano da Capodanno a fine Maggio) e delle sei (!) stagioni collaterali.

Presenti, come da tradizione, gli Assessori alla Cultura di Regione Lombardia (rappresentato da Graziella Gattulli, che ha letto un messaggio del titolare Galli) e Comune di Milano (Tommaso Sacchi) che supportano generosamente le operazioni della Fondazione; gradito anche il messaggio, letto dalla Presidente, del Ministro Dario Franceschini, che ha elogiato l’opera della Fondazione in favore dello sviluppo della cultura in Italia e non solo.

I concerti - si torna ad un approccio degli ultimi anni pre-Covid - avranno per metà tre repliche (giovedi-venerdi-domenica) e per metà due (venerdi-domenica) agli orari consueti (20:30, 20:00 e 16:00).

La scelta dei brani in programma ha tenuto conto di eventuali... recrudescenze nelle limitazioni relative al distanziamento, e quindi si è orientata ad opere che - in casi di emergenza, appunto - possano essere eseguite senza danni anche con organici ridotti rispetto allo standard. Quindi poco Mahler, poco Bruckner e niente Strauss, per dire. In particolare è il Coro ad essere abbastanza penalizzato, e l’unica sua presenza (la Nona beethoveniana di Capodanno) lo vedrà cantare dalla balconata.

Oltre a Flor, che dirigerà 5 concerti (più uno con la Sinfonica Giovanile) prima di concludere il suo term come Direttore Musicale, tornano Axelrod, Caetani, Grazioli, Boreyko, Bignamini, Guggeis, Jais, Lintu, Kochanovsky e Sanderling; e poi Kristian Järvi, Gamzou, Forès Veses, Vizireanu e Pascal.

16 novembre, 2021

La foresta di Birnamo si muove...

Quest’anno - complice forse il Covid - il programma di eventi preparatori al Macbeth di SantAmbrogio è meno nutrito rispetto al passato. Il primo (di quanti non è dato sapere...) è andato in onda ieri nel Ridotto Toscanini con un interessante convegno che ha affrontato diversi aspetti dell’opera, in particolare il rapporto Verdi-Shakespeare e le vicissitudini della versione parigina del 1865 in lingua francese.

Il Direttore Musicale, confermando che la versione in programma quest’anno è, appunto, quella del 1865 (ovviamente in lingua italiana) ha anche annunciato la sua proverbiale e immancabile primizia (il Maestro vuol passare alla storia come colui che ha offerto al pubblico cose mai prima udite o presentate, tipo le 5 misure composte da Rossini per l’Attila...) Ed ecco quindi la novità assoluta del suo Macbeth 2021: nel finale vengono re-inserite (dalla prima versione del 1847) le 29 battute di Macbeth morente (Mal per me che m’affidai...)  

Insomma, un nuovo Macbeth mai visto prima? Beh, non proprio, a giudicare da questa produzione ROH del 2011 con Pappano (che si riprende per la 4a volta dal 2002 proprio da questa sera a Londra con Rustioni!) Ecco, dopo 2h25’30” l’inserzione della morte di Macbeth prima del coro di vittoria, come l’ascolteremo a dicembre.


15 novembre, 2021

12 novembre, 2021

laVerdi 21-22. Concerto 7

Il 7° concerto di questa prima parte della stagione 21-22 (la seconda - gennaio-maggio ’22 - verrà annunciata martedi 16/11) propone, con qualche settimana di anticipo, il... Natale!

Quest’anno non è l’Orchestra della Fondazione ad esibirsi, ma l’Ensemble laBarocca del Direttore Artistico nonchè General Manager de laVerdi, Ruben Jais, con Luca Scaccabarozzi a dirigere il Coro.

Il Messiah è ormai un titolo consueto in Auditorium, ed anche la particolare impaginazione prevista da Jais (due sezioni di 60’ ciascuna: parte 1 integrale e parti 2+3 modicamente tagliate, con un solo intervallo) è diventata uno standard de-factu. (Nell’ormai lontano 2010 avevo proposto un bigino dell’opera, consultabile qui, dove sono anche indicate le parti omesse da Jais - con piccole differenze rispetto a oggi - circa 25’ sui 150’ complessivi.)

A parte Jais, la continuità con recenti presentazioni dell’opera è garantita dalla presenza del tenore Cyril Auvity (fin dal 2010) e del baritono Renato Dolcini. Il soprano Amanda Forsythe e il contralto controtenore Alex Potter completano il quartetto (SATB) delle voci.

Voci tutte all’altezza: la Forsythe per il suo timbro penetrante, Potter e Auvity per la nobiltà espressiva e Dolcini per la voce calda e la precisione nei passaggi più virtuosistici, culminata nel trascinante The trumpet shall sound, accompagnata dall’obbligato della tromba barocca di Simone Amelli, portatosi appositamente al proscenio per la circostanza. Coro (anzi... cori, 8 femmine e 8 maschi, posti come sempre ai lati della scena) in gran spolvero.

Auditorium (precauzionalmente ancora non al massimo della capienza nominale) assai affollato e pubblico prodigo di applausi per tutti. Non è ovviamente mancato l’ormai tradizionale (in omaggio alla patria del tradizionalismo...) bis dell’Hallelujah!

06 novembre, 2021

Una Calisto astronomica alla Scala

L’aggettivo potrebbe benissimo riferirsi al livello complessivo dello spettacolo messo in scena dalla coppia McVicar-Rousset... in realtà dipinge efficacemente il taglio dell’allestimento del regista albionico de La Calisto di Francesco Cavalli, arrivata ier sera alla terza delle cinque recite in cartellone, in un teatro con parecchi vuoti, ma meno di quanti me ne aspettassi (buon segno, in fin dei conti, data la non entusiastica propensione nostrana per il barocco).

È ovviamente il libretto di Giovanni Faustini (a sua volta tributario di Ovidio e della mitologia greca) ad aver dato l’idea a McVicar: e non solo perchè la conclusione del dramma è ambientata nell’empireo e ci notifica la nascita di una nuova costellazione celeste - l’Orsa Maggiore - in cui la protagonista è trasformata per volontà del (quasi) onnipotente Giove. Ma - e forse soprattutto - perchè uno dei deuteragonisti dell’opera è definito come astronomo! 

Ecco, questa è un’invenzione bella e buona del librettista Faustini che - evidentemente in omaggio al suo contemporaneo Galileo Galilei - trasforma in scienziato della volta celeste il personaggio di Endimione, in realtà un mite ed efebico pastorello che passava ore e ore (apertura dell’Atto II, sul monte Liceo) a contemplare il cielo e particolarmente la Luna (delle luci adorate, ... contemplator segreto) da qui il suo innamoramento (ricambiato!) della casta-diva Diana. La quale lo dipinge così: tu, che della mia sfera i volubili moti dotto investigatore osservi, e noti. E Mercurio così ne parla: con lodevoli studi vuol che l'ingegno sudi in specolar del ciel gl'astri lucenti. Silvano infine, così invita Pan a lasciare Diana con Endimione, per poi screditarla pubblicamente: Partiamo, e col suo astronomo quest'orgogliosa lascisi.

Ecco quindi spiegata l’idea di McVicar di portarci nel planetario, anzi nell’osservatorio astronomico sul monte Liceo (un Monte Palomar in sedicesimo) dove Endimione esplora la volta celeste con una gigantesca copia del cannocchiale di Galileo, sotto il quale poi si addormenta sognando la sua Diana. Idea che peraltro aveva avuto anche tale Guercino che - sempre ai tempi di Galileo e di... Faustini - aveva così rappresentato il pastorello-astronomo, sognante lunatico munito di telescopio:

Quindi, una regìa che - scenograficamente, grazie a Charles Edwards - prende una parte per il tutto, ma senza farci perdere nulla delle altre parti. I costumi di Doey Liithi sono dell’epoca della composizione, alcuni - specie nel prologo e nell’epilogo - paiono usciti da quadri di Rembrandt. Efficacissime le luci di Adam Silverman, a caratterizzare - insieme ai video di Rob Vale, che discretamente animano l’ambiente esterno alla specola - le diverse e continuamente cangianti atmosfere che popolano la tumultuosa successione delle scene. Jo Meredith ha curato le coreografie, assai sobrie e contenute, in particolare il finale dell’atto secondo, sottolineato dalla colonna sonora dell’Ouverture dell’Orione.

McVicar ha poi curato da par suo la caratterizzazione dei personaggi, mettendo in risalto di tutti le qualità, i difetti, i tic e le... ambiguità. E a proposito di ambiguità (Diana, che Pan ci assicura di aver portato a letto, mentre con Endimione pare avere rapporti esclusivamente... platonici) è strabiliante il trattamento che il regista fa del duplice ruolo della dea (quella autentica e la sua imitazione da parte di Giove) impersonata da Olga Bezsmertna. La quale, oltre che sfoderare la sua voce ben impostata e penetrante, riesce a compiere un autentico miracolo, quello di una femmina che interpreta (oltre che il suo proprio) anche il ruolo di un maschio travestito da femmina che mostra atteggiamenti mascolini! Ciò è culminato nella spassosissima scena farsesca (second’atto) della commedia degli equivoci (la falsa Diana insidiata da Endimione e poi da Pan) scena che da sola si merita il prezzo del biglietto.

Ecco, questo è un altro aspetto rimarchevole della regìa: saper rendere in modo efficace tutte le diverse facce del drama, quelle leggere, pruriginose, quasi da avanspettacolo (second’atto, come detto) e quelle tremendamente serie (soprattutto nel primo atto) dove non è assolutamente facile mantenere desto l’interesse dello spettatore a fronte di interminabili minuti di puro declamato (il recitar-cantando) quasi in assenza di suoni provenienti dalla buca.

E a proposito di buca, da elogiare tutta la compagine mista (14 strumentisti di Les Talens Lyrique rinforzata da 9 - 8 archi e un cembalo - barocchisti della Scala) guidata dall’eccellente Christophe Rousset (cimentatosi anche al cembalo) che ha saputo produrre suoni compatibili con la vastità del Piermarini ma senza per questo sconfinare in eccessi... ottocenteschi.   

Le voci hanno poi determinato il successo dello spettacolo: tutte, con sfumature diverse, ovviamente, all’altezza del difficile compito. Detto già della Diana della Bezsmertna, pieni voti per la protagonista Chen Reiss, che ha saputo rendere al meglio ogni diversa sfumatura della ninfa: ora casta sognatrice, ora inebriata dall’esperienza sessuale (saffica + ...qualcosina) poi delusa dai rimproveri di Diana e di Giunone, infine onorata (ma con retrogusto amarognolo) dell’onorificenza garantitale da Giove.  

Eccellente Christophe Dumaux in Endimione, voce sottile ma penetrante, perfettamente tagliata per le caratteristiche dell’efebico personaggio: ingenuo sognatore alla mercè dell’instabile e ambiguo carattere di Diana e della gelosia di Pan&satiri.

E fra i satiri, ecco l’impertinente Satirino di Damiana Mizzi, splendida presenza scenica, cui mancano (alla voce) alcuni decibel per essere perfetta!     

Markus Werba è l’interprete ideale di Mercurio: per la voce, di baritono perfettamente a suo agio con una tessitura alta, e per la presenza scenica da consumato viveur...  

Il personaggio musicalmente più controverso, Linfea, è affidato qui ad una vera femmina (sì, poi ci sono anche maschi, maschi e femmine travestiti, ed altro ancora nel variegato mondo LGBT): Chiara Amarù ne è interprete squisita e... determinata a godere di tutte le sue prerogative di femmina! Davvero una scelta azzeccata di regista e direttore.        

Centrata anche l’interpretazione di Giunone da parte di Veronique Gens, che ha messo la sua bella voce di soprano lirico al servizio di questo personaggio che i tradimenti dell’illustre marito hanno reso arcigno e intollerante.

Ed appunto Giove, il fedifrago, capace però non solo di impulsi di bassa animalità, ma anche (nel finale) di nobili sentimenti, è apprezzabilmente reso da Luca Tittoto, voce corposa e gran portamento.    

Un altro basso, Luigi De Donato, è un apprezzabile interprete di Silvano, parte secondaria ma non proprio trascurabile. Così come il Pan (Pane nel testo) di John Tessler, che veste anche i... panni del concettuale personaggio Natura. Completano questo cast di alto livello le due Furie Federica Guida (anche Eternità) e l’omonima (ma non parente, a quanto pare) della più celebre Krassimira, Svetlina Stoyanova (anche Destino).

Inutile dire dell’autentico trionfo finale tributato a tutti indistintamente, per uno spettacolo che merita di essere immortalato (beh, si parla di... divinità) su supporti audiovisivi per i posteri. Per il momento, chi appena può permetterselo non perda le restanti due recite programmate nei prossimi giorni.

05 novembre, 2021

laVerdi 21-22. Concerto 6

Il rampante Robert Trevino (yankee trapiantato in Europa, come altri suoi colleghi) torna dopo 30 mesi in Auditorium per dirigere un concerto che appaia il giovane scapigliato Shostakovich al romantico Mendelssohn.

Del russo ascoltiamo (e non è la prima volta qui) quel singolare pezzo (l’Op.35) che vede protagonista il pianoforte del 33enne sollevantino Nobuyuki Tsujii con impertinenti interventi della tromba del redivivo Alex Caruana, tornato per una rimpatriata con i vecchi colleghi dalla sua natìa Torino, dove ha trovato impiego nientemeno che alla prestigiosa OSN-RAI.

Tsujii è la dimostrazione vivente dell’inutilità del senso della vista: pensate come sarebbe migliore (!) il mondo se all’essere umano mancasse questa prerogativa...  

Caruana è ormai uno specialista di questo pezzo, che suona qui in Auditorium per la quarta volta (l’ultima fu nel giugno 2016; la prima, da me commentata in dettaglio, nel 2011) e gli schiamazzi (in senso buono, ovviamente!) del suo strumento hanno ben caratterizzato lo spirito leggero del brano. Peccato che sia stato messo in ombra dall’accoglienza trionfale per Tsujii: per lui, che ha suonato seduto in mezzo all’orchestra, nemmeno un richiamo del Direttore, piccolo neo in una grande serata.

Come detto, tutto il trionfo è stato per Tsujii, che entrava e usciva di scena a... rimorchio di Trevino, che non ha mancato di descrivergli le ovazioni del pubblico e di invitarlo non ad uno, ma a due strepitosi bis: dapprima la parafrasi del Rigoletto di Liszt e poi questo incantevole Chopin.   
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Ecco poi la Scozzese di Mendelssohn, che Trevino ha già interpretato con l’Orchestra dei Paesi Baschi, di cui è stato Direttore Musicale per qualche anno, prima di trasferirsi a Malmoe.  

Devo dire che la sua mi è parsa un’interpretazione quasi perfetta. Soprattutto nel creare un suono proprio mendelssohniano, trasparente e sobrio negli archi, davvero gestiti con grande maestria (complimenti a Dellingshausen e soci, naturalmente); corposo ma mai sbracato nei fiati, corni in specie (guidati da Ceccarelli) perfetti nel conclusivo Allegro maestoso assai. A tutto ciò va aggiunta la signorilità e compostezza del gesto, sempre essenziale e mai inutilmente enfatico o plateale. Un piccolo dettaglio poi testimonia della grande cura e meticolosità con le quali Trevino affronta ogni aspetto della direzione: nel concerto solistico, dove lui si trova (a causa del pianoforte) le prime parti di violini I e viole (al proscenio) fuori sguardo, che fa?: scambia le sedie del primo violino e della prima viola con quelle dei rispettivi secondi, in modo da averli al proprio fianco...    

Insomma, una conferma delle grandi qualità del Direttore americano, cui il folto pubblico dell’Auditorium ha tributato lunghe e meritate ovazioni. 

31 ottobre, 2021

La Calisto dalla Scala via etere

In attesa di assistere dal vivo, per poter giudicare complessivamente lo spettacolo, pochi cenni sulla prima de La Calisto di Francesco Cavalli, che Radio3 ha irradiato ieri sera dalla Scala.

Per apprezzare soprattutto le scelte di Christophe Rousset: sulle voci (Giove-in Diana interpretato da... Diana e Linfea affidata ad una voce femminile); sull’organico strumentale (rinforzi solo quanto basta per l’ampiezza del Piermarini); e sulla scelta delle musiche da eseguire in assenza di indicazioni nel manoscritto originale (la sinfonia da Orione dello stesso Cavalli e la trascrizione della passacaglia di Frescobaldi dal secondo libro delle toccate, in chiusura dell’opera).

Per quante riserve si possano fare sull’ascolto tecnologico, mi sentirei di promuovere a pieni voti la prestazione di tutti.

29 ottobre, 2021

laVerdi 21-22. Concerto 5

Impossibilitato a dirigerla il Direttore Musicale, è il redivivo Kolja Blacher a proporci questa settimana un’opera fra le più impegnative; per l’ascoltatore e per gli esecutori: la Nona di Gustav Mahler. Programmata in tempi di restrizioni-Covid, la sinfonia è eseguita con organico ridotto, quindi nella versione cameristica predisposta da Klaus Simon (del quale già avevamo seguito nel 2020, prima del nuovo stop, la Quarta mahleriana, allora diretta da Flor).

Blacher ha suonato tante volte la sinfonia da Konzertmeister, in particolare sotto la bacchetta di Claudio Abbado, come qui, nel 2010, a Lucerna:

Non mi è dato sapere se questa sia la prima occasione che ha Blacher di dirigere la sinfonia, e di certo è impossibile pretendere che qualcuno faccia resuscitare Abbado... Così devo dire che, del sommo Maestro, Blacher ha perlomeno conservato quella che definirei religiosità dell’approccio interpretativo. Una religiosità... laica per così dire, che del resto pervade quest’opera nella quale Mahler ripercorre, dall’alfa all’omega, tutta un’esistenza: la sua esistenza, ma in fondo anche l’esistenza di tutti noi.

Già le primissime battute dell’iniziale Andante comodo racchiudono simbolicamente l’intero ciclo artistico del compositore: la citazione (secondo corno, battute 4-5) è dall’opus-1 (Das Klagende Lied) del Mahler ventenne diplomato al Conservatorio, e quella (secondi violini, battute 6-8) è dall’ultimo Ewig che la voce esala in chiusura dell’Abschied del Lied von der Erde! Tutto il primo movimento è un susseguirsi di slanci eroici e di scoraggianti cadute; la parte centrale (il Landler-Walzer piuttosto sgangherato e lo spettrale Rondo.Burleske) sembra dipingere gli aspetti più enigmatici che la vita ci presenta ogni giorno. Infine l’Adagio prende atto della caducità delle cose terrene, accettandola con strazio pari alla compostezza.

Devo dire che questa riduzione cameristica (con armonium e pianoforte a far da ripieno di suono) lascia un po’ di perplessità (anche se è complessivamente apprezzabile) proprio a livello di impasto del suono; in compenso premia la bravura degli strumentisti (soprattutto i fiati, che sono soltanto in 8, contro i 29 dell’originale!) i quali diventano altrettanti solisti di un concerto per orchestra... Fa eccezione l’Adagissimo del finale, dove già nell’originale suonano solo gli archi, i quali devono peraltro produrre il meno suono possibile, compatibilmente con la percezione dell’orecchio umano!   

Al proposito, Abbado soleva (come nel 2004 a Santa Cecilia o nel 2010 a Lucerna e nel 2011 a Firenze) far abbassare le luci fin quasi al buio totale sulle ultime battute della sinfonia, per poi restare per interminabili secondi ad ascoltare il... silenzio seguito al morire della triade di REb esalata da violini secondi, viole e celli: una teatralizzazione che a qualcuno poteva sembrare eccessiva, ma che lui poteva davvero permettersi.

Senza arrivare a quei... celestiali eccessi Blacher (che ha diretto a mani nudeha però lasciato il tempo necessario a far decantare la tensione immancabilmente prodotta da quelle ultime battute della Sinfonia, che ci portano in una dimensione... ultraterrena, ecco.

Eccellente - come sempre - la prova dell’Orchestra, premiata con il Direttore, dopo il rispettoso silenzio, da applausi sempre più intensi e prolungati.

26 ottobre, 2021

Alla Scala torna il barocco

Archiviato il suo particolare ROF, la Scala torna al barocco mettendo in scena un’opera di Francesco Cavalli, La Calisto, in programma a partire dal 30 ottobre.

Sul podio Christophe Rousset, che porta con sè i suoi Talens Lyriques a rinforzo dei barocchisti scaligeri. Il musicista francese ha già diretto l’opera anni fa a Strasburgo, con una messinscena e con interpreti diversi da questa nuova produzione del Piermarini, affidata a David McVicar.

Il soggetto del drama-per-musica, messo in versi da Giovanni Faustini e liberamente tratto dalle ovidiane Metamorfosi - che ebbe la prima a Venezia alla fine del 1651 - è centrato sulla vicenda della ninfa Calisto (seguace osservante della casta Diana) concupita dal Giove travestitosi proprio da Diana; vicenda contornata dalla narrazione di una serie di rapporti sentimentali per lo più proibiti o... equivoci, di cui sono protagonisti la stessa Diana, il pastorello Endimione e il dio Pan. Completano il quadro un Satirino, il figlio e portaborse di Giove (Mercurio) e la gelosa Giunone, oltre alle Furie, ad un paio di altre mitologiche comparse (Linfea e Silvano) e alle divinità concettuali che occupano il Prologo (Natura - Eternità - Destino).

Faustini - a parte due righe poste in calce all’elenco dei personaggi e un fugacissimo accenno nel finale dell’opera - ignora del tutto le implicazioni (leggasi: Arcade) dell’amore Giove-Calisto ed anzi gioca sull’equivoco narrandoci solo di baci-e-baci-e-baci, quasi che Giove avesse assunto proprio tutte le prerogative di Diana - a partire dalla voce, mutata da basso a soprano - e che quindi fra il capo degli dei (sotto le spoglie della dea cacciatrice) e la ninfa fosse intercorso un classico amore saffico, nulla più (?) Poi però ci pensa la perfida Giunone a metterci una pulce nell’orecchio. Conoscendo fin troppo bene le attitudini del fedifrago consorte chiede a Calisto: dì la verità, ma a parte tutti questi baci-e-baci-e-baci, fra te e la tua capitana è mica per caso successo dell’altro? E Calisto, testualmente: Un certo dolce che, che dir non te 'l saprei. Ah ecco, volevo ben dire!

A proposito della mutazione di Giove in Diana, è normale far cantare la parte di Giove(-in Diana) alla stessa interprete (soprano) della dea (mai i due personaggi sono contemporaneamente in scena...) Nel caso in questione noi vediamo in scena prima Giove, poi la falsa Diana e abbondantemente dopo la dea verace, che noi riconosceremo come tale dal suo cadere dalle nuvole e poi dal mostrarsi offesa al sentire Calisto magnificare l’estasi del loro incontro amoroso. Pare che invece nelle prime rappresentazioni veneziane i due ruoli di Giove e Giove(-in Diana) fossero interpretati dallo stesso cantante, il basso Giulio Cesare Donati, capace di cantare (in falsetto, il cosiddetto basso-alla-bastarda) anche la parte della falsa Diana!  

L’altra vicenda piccante riguarda proprio Diana (aka Cinzia, aka Delia, aka Febea, aka Trivia, aka Trigemina) della quale scopriamo un lato interessante, quanto non insolito, del comportamento, non dissimile da quello di molti paladini della castità nonchè fustigatori di costumi: predicare bene e razzolare male! Veniamo a sapere infatti che la dea, prima di darsi alla cacciagione e al proselitismo di ninfe votate al nubilato, se l’era fatta col dio Pan, che l’aveva sedotta con uno dei classici strumenti che i maschi impiegano alla bisogna: coprirla di regali, in particolare di preziose vestimenta. Poi, finiti i regali... finito il piacere, e ora il povero Pan si dispera e sospetta che la dea abbia trovato un altro manico con cui trastullarsi. E non si sbaglia davvero, giacchè scopriamo che un modesto e umile pastorello - tale Endimione - gode delle simpatie della dea, peraltro costretta - onde evitare pubblici... ehm, sputtanamenti - ad aver con lui incontri clandestini e fugaci. Ai quali assiste però il Satirino per riferirne subito a Pan e per poi divulgarli per vendetta sui social dell’epoca (#CinziaLaCastaDèaTuttaÉLussuria).

In effetti questa leggenda che vuole Diana e le sue ninfe come donne caste e pure fa acqua da tutte le parti: oltre alla capitana e alla protagonista, anche l’altra comprimaria (Linfea) non scherza affatto quanto a libidine: basta ascoltarla quando proclama voglio esser goduta! Insomma, che il termine ninfomane abbia assunto nel tempo un ben preciso significato non è certo un caso...

Poi nel testo non mancano situazioni da... farsa, come la commedia degli equivoci fra Giove(-Diana) e il povero Endimione, che prende Mercurio - sempre al fianco del padre, pur travestito - per un nuovo amante della dea, la (il) quale gli fa perfidamente credere che la casta-diva ha altri amanti segreti! Salace il commento del tirapiedi Mercurio: caro Giove, lascia perdere questo travestimento, altrimenti invece di belle femmine troverai solo mariti! (però era stato lui a consigliare quel travestimento...) E infatti subito dopo nell’equivoco cade anche Pan, che fa una scenata di gelosia contro Diana(-Giove) minacciando di uccidere il tapino rivale Endimione e inducendo così Mercurio a convincere il metamorfosato papi a squagliarsela in fretta e furia.

In omaggio allo scenario forestale che fa da sfondo alla vicenda, alla fine del primo atto - che ha per protagonisti Pan, Satirino e Silvano - sei orsi escono dalle frasche e inscenano un balletto. Altro balletto alla fine del second’atto, protagonisti satiri e ninfe (le quali, in maggioranza numerica e sotto la minaccia delle loro appuntite frecce, li mettono in fuga). Orsa diventa poi anche Calisto, dapprima trasformata in bestia per punizione dalla petulante Giunone, e infine mutata, come premio, in celeste costellazione dal riconoscente Giove.

Insomma, un soggetto a metà strada fra il serio, il faceto e il piccante, che Cavalli ricoprì di musica secondo i principii - mutuati dal suo maestro Monteverdi e formulati poco meno di un secolo addietro dalla Camerata de’ Bardi - del recitar cantando. Che però Cavalli comincia ad arricchire con qualche innovazione, tipo una maggior vivacità melodica nei declamati (che perdono un po’ di austerità, vero, ma pure quel rischio - per noi schizzinosi - di indigeribile monotonia...) e l’introduzione di virtuosismi canori che qualche tempo dopo la faranno da padrone nei teatri, aprendo la strada al melodramma (incluse le sue degenerazioni) e poi al belcanto, prima che qualcuno (Berlioz, poi Wagner, in parte l’ultimo Verdi) provasse a tornare alle origini del dramma-per-musica.

La prima di sabato 30/10 sarà trasmessa da Radio3 (ore 20).

22 ottobre, 2021

laVerdi 21-22. Concerto 4

É un’altra vecchia conoscenza de laVerdi a far ritorno sui Navigli per il 4° appuntamento stagionale: trattasi di John Axelrod, che vi dirige un concertone di quelli proprio tosti, Schumann e Beethoven!  

Ecco quindi la Quarta del grande Robert, composta quasi contemporaneamente alla prima (1841) e poi rivista 10 anni più tardi, dopo la nascita della seconda e della renana, e quindi pubblicata come la sua ultima...

All’inizio pare Haydn (introduzione lenta al tempo Vivace) ma poi presenta una gran quantità di innovazioni: dal ricorrere di temi in movimenti diversi, all’assenza di cadenze e pause fra i 4 movimenti, alla presenza di autentici colpi di teatro, tutte cose che piaceranno assai ad un certo Mahler che - oltre a permettersi di riorchestrarle - ne trarrà ampiamente ispirazione per le sue sesquipedali sinfonie.     

Poi la Settima beethoveniana, tanto cara a Wagner quanto diversa da Schumann, con le sue mirabili simmetrie e con il suo rigore costruttivo. Due opere quindi assai distanti, e non solo per i 30 anni (o 40) che le dividono, ma per la diversissima concezione che le anima.

Axelrod? Beh, se devo giudicarlo dalle agogiche, cioè dai tempi staccati, potrei dirne solo bene. Peccato che - a mio modestissimo parere - abbia male interpretato le dinamiche, eccedendo nei fracassi soprattutto degli ottoni, che sia in Schumann che in Beethoven hanno nuociuto assai alla resa complessiva, penalizzando gli archi, sempre sovrastati dalle strappate di corni, trombe e (in Schumann) tromboni.

Insomma, eccessiva foga e bandismo, che magari avranno eccitato il pubblico - prodigo di applausi al termine di entrambi i brani - ma che mi sembra abbiano un po’ banalizzato i due capolavori.