trallalalera, trallalalà!

droni di qua, razzi di là, bombe di su, spari di giù...

13 settembre, 2017

Alla Scala un Tamerlano à-la-carte


Ieri sera Radio3 ha trasmesso la prima delle sette recite di Tamerlano nella nuova produzione scaligera, targata Fasolis-Livermore, appositamente approntata per il battesimo dell’opera al Piermarini, avvenuto a soli 293 (!) anni dall’esordio londinese.

È una nuova tappa del percorso barocco (o... baroccaro?) del Teatro, che ha in Diego Fasolis il suo mentore per quanto attiene la parte musicale: approccio HIP (no, non è l’incipit dell’esclamazione di giubilo...) che significa – oltre a rispolverare strumenti d’epoca - anche fare un po’ i c... propri quanto a contenuti da proporre al pubblico, in ciò seguendo le mode dei tempi andati, dove ad ogni ripresa dell’opera si operavano (da parte dell’Autore, però) rimaneggiamenti, tagli, aggiunte e varianti giustificate dai più svariati motivi, in specie le qualità (o i limiti) ma anche le fisime dei cantanti coinvolti nella recita.

E a proposito di cantanti, qui c’è il vecchio Topone che non sa più cosa inventarsi per sbarcare il lunario: così, dopo il downsizing da tenore a baritono (rigoletti, simoni &C) adesso torna a fare il tenore, però... mezzo tono sotto (i 415Hz del diapason barocco...) In più, dato che il fiato è... corto, ecco che si fa aiutare dal Direttore con qualche sapiente trucco: nel primo atto, aria Ciel e terra armi di sdegno, la ripresa della prima strofa dovrebbe avvenire immediatamente al termine della seconda... invece Fasolis fa un da-capo anche delle 8 battute strumentali, così il nostro ha il tempo di respirare. Nel second’atto, aria A’ suoi piedi padre esangue, vengono omesse brevi ripetizioni di versi, ma il colmo (scandaloso, invero) si raggiunge nel terz’atto, laddove l’aria Empio, per farti guerra si riduce ad un moncherino, un’arietta, causa taglio totale della seconda strofa (E l’ira delli Dei) e della conseguente ripresa della prima!

Ma anche il controtenore protagonista - Bejun Mehta – ha le sue fisime, così nel second’atto rifiuta di cantare Bella gara e la rimpiazza infilando nel Tamerlano un’aria da Amadigi (Sento la gioia) con tanto di trombette.

Per il basso Christian Senn si rispolvera nell’atto terzo (e non è per niente un male, in sè) il recitativo e aria (Nel mondo e nell’abisso) di Leone composti da Händel appositamente per Antonio Montagnana per le riprese del 1731; però si cassa proditoriamente, oltre al recitativo antistante, anche l’aria di Andronico Se non mi rendi il mio tesoro.

Il libretto del Teatro reca un’inversione di numeri (70b e 70c) ma in realtà il 70c viene omesso e si passa direttamente al duetto Coronata di gigli, che però viene mutilato della seconda strofa (E fra mille facelle) e della ripresa della prima.

Può essere che alcuni interventi siano motivati dall’esigenza di... stringere i tempi, il che però non ha scongiurato che lo spettacolo terminasse fuori tempo massimo rispetto all’ultima corsa della linea1 del metro’ (stazione Duomo, ore 00:31): meglio sarebbe anticipare l’inizio alle 19. Fra l’altro (e non è un caso isolato) l’inaccuratezza delle informazioni comunicate al pubblico sul sito del Teatro è davvero deplorevole: fino all’inizio della prima la durata totale era indicata in 4 ore lorde; poi si è in corsa modificata l’indicazione (tuttora presente) in 4 ore e 15 minuti, ma la realtà vi ha aggiunto altri 15 minuti!
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Beh, che dire dei suoni arrivati via etere? Domingo davvero non si... spiega, forse ha fatto bene ciò che per radio non si può giudicare (l’attore) ecco. Bejun Mehta e Franco Fagioli (controtenore e contralto, invenzioni discutibili delle pratiche HIP) non mi sono dispiaciuti, ma voglio proprio sentire se e come le loro vocine passano negli immensi spazi del Piermarini. Bene Christiann Senn e Maria Grazia Schiavo, benino Marianne Crebassa.

Fasolis è indubbiamente un esperto in materia e l’orchestra barocca della Scala sta facendosi con lui le ossa: il fatto che la spalla De Angelis ne faccia parte è un segno di serietà di approccio.
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Sull’allestimento si sa che Livermore ha ambientato il tutto nella Russia del 1917, un  modo come un altro per celebrare il centenario della rivoluzione bolscevica: staremo a vedere quanto valore aggiunto l’idea porti allo spettacolo.

A chi andrà ad una delle prossime recite consiglio (se non lo ha già fatto) di prepararsi a dovere ascoltando (da youtube) la pregevole edizione firmata da Riccardo Minasi (della quale si può anche scaricare il booklet).

11 settembre, 2017

laVerdi al Piermarini


Fra le ormai consolidate consuetudini de laVerdi c’è quella di riaprire i battenti a settembre con una visita alla Scala; il che è avvenuto ieri sera in un teatro piacevolmente affollato e soprattutto preso d'assalto anche da giovani e giovanissimi, come raramente capita di vedere in queso tempio frequentato per lo più da matusa.    

Sul podio Patrick Fournillier, che già nei mesi scorsi si era presentato in Auditorium, dove ritornerà per i prossimi due concerti della stagione, come Direttore Principale ospite. Apre il programma un estratto dalle due Suite dell’Arlesienne, che combina tre brani della prima e due della seconda, e dove il famoso tema in DO minore che apre il Preludio torna poi – in RE minore - nell’ultimo numero della seconda Suite, dove è seguito dall’altrettanto famoso e trascinante motivo della Farandole, in RE maggiore:


Il Direttore francese esibisce il suo gesto piuttosto enfatico e non ci risparmia anche qualche mossetta gigioneggiante... ma l’orchestra suona comunque da par suo e scalda in fretta un pubblico piuttosto infreddolito da questo autunno anticipato (almeno qui al nord).

Alexandre Tharaud, un pianista che in Francia è ormai considerato un padreterno ma che, con la sua aria da ragazzino, non dimostra per nulla i (quasi) 50 anni che porta sulle spalle è stato interprete del Concerto in sol di Maurice Ravel, che fin dall’inizio mostra chiaramente l’influenza di musica d’oltre oceano (jazz e blues).

Tharaud, che suona regolarmente con gli spartiti sul leggio (evidentemente si fida più dell’autore che della sua memoria...) tiene un approccio assai sostenuto, mettendo in risalto i caratteri più lirici del concerto, rispetto a quelli più spigolosi. In particolare è da incorniciare l’incipit del centrale Adagio assai, con quelle 33 battute del mirabile recitativo del pianoforte solo, che Tharaud ha proprio centellinato, prima di essere raggiunto da archi e legni. Da antologia l’intervento del corno inglese di Paola Scotti (che avrà modo poi di distinguersi anche in Dvořák e infine... nel bis). Vibrante il breve e conclusivo Presto, dove al virtuosismo del solista si accompagna anche quello dei due fagotti e alla fine degli altri legni.  

La sinfonia più inflazionata di Dvořák ha chiuso la parte ufficiale della serata. Una speciale menzione per la bellissima resa del Largo, merito della sensibilità del Direttore e soprattutto della bravura dei ragazzi, che poi si sono scatenati da par loro nel finale. Trionfo annunciato e così Fournillier annuncia un regalo supplementare, riportandoci a Parigi, dove il concerto aveva preso l’avvio e dove il grande Gioachino compose la sua ultima opera. L’Ouverture della quale è da tempo uno speciale biglietto da visita de laVerdi, che anche ieri non ha tradito le aspettative: sugli scudi, oltre alla citata Scotti, il pacchetto dei 5 celli, guidato da Scarpolini. Evviva!

08 settembre, 2017

MITO – Bostridge fa il mugnaio


Fra le mille offerte del MITO (a proposito, eccone il logo twitterino scomposto nei 5 simboli della notazione musicale)


ieri sera ho scelto (non solo perchè a ingresso gratuito...) l’esibizione di Ian Bostridge al Teatro della Cooperativa, una meritoria struttura (con sala da quasi 200 posti) situata in zona Bicocca-Niguarda. Accompagnato dal pianista Julius Drake, il tenore britannico si è esibito nel grande ciclo schubertiano Die schöne Müllerin.

I testi vengono da una delle 5 raccolte di Wilhelm Müller raggruppate sotto il titolo Sieben und Siebzig Gedichte aus den hinterlassenen Papieren eines reisenden Waldhornisten (Settantasette poemi da carte postume di un suonatore di corno itinerante) pubblicate nel 1821. La prima di queste, che è anche la più estesa, consistendo di 25 poemi - le altre ne comprendono rispettivamente 10, 15, 13 e 14 - fu (parzialmente, 20 poemi) musicata da Schubert fra il 1822 e il 1824.

I testi del ciclo sono consultabili in rete, ad esempio su questo sito specializzato in Lieder (tradotti da Amelia Maria Imbarrato).

Lo specchietto sottostante mostra la struttura dei poemi originali e quella del ciclo schubertiano:


La colonna più a destra indica una suddivisione in 5 blocchi dell’opera di Schubert, corrispondente ai 5 quaderni in cui essa venne pubblicata per la prima volta a Vienna per i tipi di Suer&Leidesdorf. I titoli riportati sono del tutto arbitrari, frutto di ipotesi di lavoro di alcuni musicologi – Schubert inizialmente prevedeva una pubblicazione in sole 4 rate - tuttavia hanno una loro accattivante plausibilità, rappresentando le vicissitudini vissute dal protagonista, un mugnaio che se ne va per il mondo, arriva al mulino dove incontra la bella e giovane mugnaia di cui si innamora, prima che un cacciatore più attraente/intraprendente di lui gliela soffi di sotto il naso, gettandolo in uno stato di profondo sconforto che lo porta ad augurarsi la morte. Anche la successione delle tonalità dell’opera segue il percorso esistenziale del protagonista, con i primi tre atti prevalentemente in maggiore (ma con frequenti screziature) il quarto in minore e il quinto in un misto dei due modi, a chiudere in modo tragico ma allo stesso tempo serenamente rassegnato.

Come si vede, la collana originale di Müller – a proposito, qui è tutto un mulinare di mugnai: l’autore si chiama Mugnaio e il protagnista è un mugnaio che si innamora di una mugnaia! - comprende 25 poesie, mentre Schubert ne musicò soltanto 20. Infatti il compositore omise di musicare prologo, epilogo e tre poesie della raccolta. A suo tempo (1961) Dietrich Fischer-Dieskau incise il ciclo includendovi (a mo’ di Singspiel) anche il parlato dei due testi estremi, cosa in sè francamente bizzarra, e più tardi colmò la misura leggendo anche i testi dei tre Lieder omessi da Schubert come corredo ad un’incisione proprio di Bostridge. Del quale troviamo in rete un’esecuzione... nipponica del 2005 (ma lui si era già cimentato con l’opera almeno 10 anni prima).

La musica originale è scritta per voce di tenore – certo la più plausibile rispetto al soggetto letterario - ed è poi stata trasposta (di uno o due o tre o fino a quattro semitoni) anche per voci più basse (di baritono o basso). Bostridge ovviamente ha cantato la versione originale (il primo Lied, ad esempio, in SIb e non in LA come lo canta un baritono). Un’incisione tenorile assai interessante è quella storica (1957) di Fritz Wunderlich. E di recente anche il divo Jonas non si è sottratto alla sfida. Seguiamo proprio lui in questo affascinante cammino.

Quaderno I

N°1 Wanderschaft (SIb maggiore, 2/4, moderatamente rapido). Il protagonista, un garzone di mugnaio, ci presenta la sua irresistibile attrazione per il viaggiare, citando come esempi l’acqua del ruscello, la ruota del mulino e la mola, che incessantemente si muovono senza mai arrestarsi. Così chiede ai padroni il permesso di andarsene.

2’43” - N°2 Wohin? (SOL maggiore, 2/4, moderato). Il giovane mugnaio si mette a seguire il corso del ruscello, al quale comincia a parlare come ad un compagno di viaggio dal quale lasciarsi guidare. 

4’56” - N°3 Halt! (DO maggiore, 6/8, non troppo rapido). Il mugnaio arriva nei pressi di un mulino; il paesaggio è idilliaco: mormorio dell’acqua e delle pale, una linda casetta, il sole che splende... è proprio il caso di fermarsi lì. 

6’32” - N°4 Danksagung an den Bach (SOL maggiore, 2/4, piuttosto lento). Il viandante protagonista ha conosciuto la bella molinara e ringrazia il ruscello che lo ha condotto da lei. Ora lui ha un lavoro e un sogno da realizzare. 

Quaderno II

8’56” - N°5 Am Feierabend (LA minore, 6/8, abbastanza rapido). Il ragazzo vorrebbe essere il garzone più forte e laborioso, per ingraziarsi la bella molinara, ma si rende conto di essere come ogni altro lavorante. La sera il padrone loda tutti e la molinara dà la buona notte.

11’37” - N°6 Der Neugierige (SI maggiore, 2/4, adagio). Il giovane ha un cruccio, che vorrebbe risolvere, ma non osa chiedere risposta nè ai fiori, nè alle stelle, così si rivolge all’amico ruscello, che pare stranamente silenzioso. (SI maggiore, 3/4, molto adagio). E gli chiede un o un no: lei mi ama?

15’40” - N°7 Ungeduld (LA maggiore, 3/4, piuttosto rapido). L’innamorato vorrebbe manifestare il suo amore scrivendolo su pietre e fiori, facendolo cantare ad uno storno alla finestra della molinara; vorrebbe che il bosco, l’aria e l’acqua portassero alle orecchie di lei il suo sentimento; che dovrebbe essere evidente dal suo sguardo, dal suo volto e dalla sua bocca silente. E invece lei non se ne accorge!    

18’22” - N°8 Morgengruß (DO maggiore, 3/4, moderato). Lui vuol dare il buongiorno all’amata, che però sembra nascondersi. Allora lui guarda da lontano la sua finestra, sperando che lei si affacci. Poi la implora di schiudere i suoi occhi al giorno, e infine osserva l’allodola che parla di amore, tormento e pena.

22’23” - N°9 Des Müllers Blumen (LA maggiore, 6/8, moderato). Il giovane vede nei fiori presso il ruscello gli occhi dell’amata. Allora li vorrebbe piantare sotto la finestra di lei, perchè a sera le trasmettano il suo amore e le sussurrino il suo non-ti-scordar-di-me. E al mattino le lancino uno sguardo d’amore, bagnato dalla rugiada delle sue lacrime. 

Quaderno III

26’03” - N°10 Thränenregen (LA maggiore, 6/8, abbastanza lento). Il garzone ricorda (o immagina, o sogna?) quando stava con la bella molinara a guardare il ruscello. C’era la luna, ma lui guardava solo la sua bella. Lei si chinava verso l’acqua e anche i fiori e le stelle sembravano imitarla e trascinarlo giù nel profondo. Poi lei disse: arriva la pioggia, io me ne torno a casa.

30’03” - N°11 Mein! (RE maggiore, 4/4 alla breve, moderatamente rapido). E finalmente (ma sarà realtà o sogno?) la bella molinara ha corrisposto all’amore del giovane mugnaio. Che chiede al ruscello, al mulino, ai fiori, di smettere i loro suoni per cantare con lui: è mia! La primavera non ha abbastanza fiori e il sole non abbastanza luce, così lui resta solo con la parola mia!, incompreso dal resto del creato.   

32’25” - N°12 Pause (SIb maggiore, 4/4, abbastanza rapido). Il giovane ha appeso il suo liuto al chiodo: il suo cuore è troppo gonfio di felicità per poter cantare. Lui prima cantava la nostalgia e le sue pene, ora la sua gioia è troppo grande per essere espressa in suoni. Se le corde sono mosse da una brezza o da un’ape, ciò lo fa rabbrividire. Spesso il nastro verde che lo regge ne sfiora le corde che emettono lamenti: che sia questo un presagio? 

Quaderno IV

36’52” - N°13 Mit dem grünen Lautenbande (SIb maggiore, 2/4, moderato). La molinara ha osservato che il nastro verde che regge il liuto si sta scolorendo. Il garzone decide allora di mandarglielo. A lui piace il bianco, ma anche il verde, che è il simbolo del loro giovane amore, oltre che della speranza. La prega di annodare il nastro attorno ai suoi riccioli... e il verde gli piacerà ancor di più!

38’45” - N°14 Der Jäger (DO minore, 6/8, rapido). Un cacciatore è arrivato al mulino, e il nostro mugnaio comincia a preoccuparsi per la sua innamorata. Lo invita a tornare nel bosco, lì è fuori posto come un pesce in giardino o uno scoiattolo in acqua. Se proprio vuol fare un favore alla sua amata, che uccida i cinghiali che le devastano l’orto!

39’52” - N°15 Eifersucht und Stolz (SOL minore, 2/4, rapido). Il mugnaio chiede al ruscello dove corra così rapido: forse rincorre il cacciatore? No, invece dovrebbe rimproverare la sua amata, che ha fatto la civetta con quello, ieri sera, affacciandosi al portone mentre il cacciatore tornava a casa. Ma non le dica della sua tristezza: le dica che lui intaglia un flauto per suonare danze e canzoni ai bambini.

41’33” - N°16 Die liebe Farbe (SI minore, 2/4, piuttosto lento). Il verde è il colore dell’amata, e il mugnaio vorrebbe vestirsi di verde e piangere verdi lacrime, poi cercare cipressi e rosmarini, tutti verdi. Andare a caccia nella macchia, la caccia che piace tanto all’amata, ma lui va a caccia della morte! E chiede una tomba nel verde, senza croci o fiori variopinti... solo verde, che è il colore dell’amata.

46’06” - N°17 Die böse Farbe (SI maggiore, 2/4, abbastanza rapido). Il colore verde ora ossessiona il giovane, che vorrebbe distruggere tutto il verde che lo circonda, lui che è una creatura bianca. Poi vorrebbe sdraiarsi alla porta di lei, cantandole lungamente il suo addio. Sogna di poter occhieggiare alla finestra di lei che si affaccia, non per lui, ma per il suono di un corno da caccia... Le chiede di sciogliersi il nastro verde dalla fronte e di salutarlo con la mano. 

Quaderno V

48’13” - N°18 Trockne Blumen (MI minore.maggiore, 2/4, abbastanza lento). Il povero mugnaio parla ora ai fiorellini che lei gli donava e che finiranno sulla sua tomba. Ma ora appassiscono e nemmeno le lacrime li possono far rivivere, come non fanno rivivere un amore morto. Poi a primavera i fiorellini rispunteranno sulla sua tomba e lei andrà per i campi pensando: lui era fedele. E allora sbocciate tutti, fiorellini, è arrivato maggio e l’inverno se n’è andato!

52’02” - N°19 Der Müller und der Bach (SOL minore-maggiore, 3/8, moderato). Il mugnaio parla ora al ruscello: se un cuore fedele si strugge d’amore, i gigli appassiscono, la luna si nasconde e gli angeli cantano singhiozzando mentre accompagnano l’anima al suo riposo. Il ruscello risponde: quando l’amore supera il dolore, allora una stella sorge in cielo, tre rose bianco/rosse fioriscono per mai più appassire e gli angeli si tagliano le ali per scendere ogni mattina sulla terra. Ancora il mugnaio: caro ruscello, hai proprio ragione; sai cosa fa l’amore? Quaggiù, quaggiù è il fresco riposo. Ruscelletto, continua a cantare!

56’04” - N°20 Des Baches Wiegenlied (MI maggiore, 4/4 alla breve, moderato). Il ruscello invita il viandante a riposare presso di lui, finchè il mare non abbia bevuto tutti i ruscelli. Poi chiama a raccolta tutto ciò che possa cullarlo. Se il corno risuonerà nel bosco, allora il suo suono verrà coperto dallo scrosciare dell’acqua. E i fiorellini non guardino qui, per non portare brutti sogni. E tu, cattiva fanciulla, vattene dal mulino, perchè la tua ombra non lo svegli: gettami il fazzoletto con cui gli coprirò gli occhi. Dormi, dormi, fin che tutti si sveglino, mentre sale la luna piena, la nebbia si dirada e il cielo, lassù... oh com’è immenso!
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Dico subito che Bostridge è stato semplicemente straordinario! Per la purezza del suono della sua voce, cristallina come l’acqua del ruscello; per l’espressività con la quale ha ulteriormente impreziosito le note schubertiane; e infine per la teatralità della sua performance, davvero sconvolgente nelle gestualità del corpo e nelle espressioni del volto.

Credo sia impossibile rendere la meravigliosa arcata drammatica della Müllerin con più efficacia e sollevando tanta emozione! Un encomio doveroso al suo impeccabile accompagnatore Julius Drake, che ha realizzato con il pianoforte una perfetta simbiosi con la voce del tenore.

Al termine la piccola sala della Cooperativa, piena come un uovo, è esplosa in lunghi applausi e ovazioni, strameritati. E allora mi permetto di lanciare un appello ai torinesi (e non...): chi  appena può, questa sera vada di corsa al Tempio Valdese di Torino! 

05 settembre, 2017

Una simpatica fiaba musicale alla Scala


Ier sera un Piermarini ricco – ahinoi – di poltrone e palchi vuoti ha ospitato la seconda recita di Hänsel und Gretel, nella nuova produzione del Progetto Accademia: sul palco il secondo (almeno in ordine di apparizione) cast dei giovani cantanti dell’Istituzione scaligera.

Rispetto alle prime indicazioni comparse sul sito del Teatro, redatte evidentemente in fretta da qualcuno poco/male informato (anche da questi dettagli apparentemente insignificanti si desume l’approssimazione e la provincialità della gestione scaligera delle relazioni con il pubblico) che indicavano in 90 minuti la durata dello spettacolo, si è tornati alla realtà e così, a parte i 25 minuti di intervallo prima del quadro finale, l’opera dura circa 1 ora e 45 minuti, il che significa: niente tagli (e ci mancava pure...)

Marc Albrecht ha quindi sciorinato questi 105 minuti di piccola-grande musica con lodevole sensibilità, alternando sonorità delicate e sognanti a esplosioni di decibel sempre coerenti con il contesto: l’Orchestra accademica ha mostrato di non aver alcunchè da invidiare a quella di ruolo, tanto negli archi (da incorniciare la cavata dei celli) e nei fiati, con corni e trombe in evidenza.

Le voci non saranno (e certo non potrebbero essere) già ai livelli dei professionisti più navigati, ma fanno ben sperare per il loro futuro. Dorothea Spilger (Hänsel) è emersa con maggiore efficacia, ma anche la Gretel di Sara Rossini non ha demeritato (chissà se con lo studio riuscirà a perforare di più i grandi spazi). Dignitose le prestazioni di Paolo Ingrasciotta, cui fa pure un po’ difetto la quantità di decibel, a fronte di una buona impostazione della voce, e della moglie (in palcoscenico) Ewa Tracz, vocione da controllare meglio, ma se non altro appropriato al personaggio. I due maghi (sabbiolino e rugiadino) Enkeleda Kamani e Celine Mellon (che sono le uniche a cantare tutte le 8 recite) hanno fatto scrupolosamente la loro parte. La strega era ieri uno... stregone, Oreste Cosimo, voce di tenore a surrogare quella di mezzosoprano: il risultato non mi è parso esaltante, non perchè lui abbia cantato male, ma perchè a teatro siamo abituati da secoli ai ruoli en-travesti dove un contralto fa il maschio... un po’ meno a quelli speculari dove un tenore fa la femmina! Bravissimi i piccoli di Marco De Gaspari, nella loro ristretta ma assai impegnativa parte nel finale.

Da promuovere (quasi) a pieni voti la regìa di Sven-Eric Bechtolf, che mi pare abbia saputo coniugare nella sua idea di messinscena gli aspetti più fanciulleschi e innocenti del soggetto con quelli (più o meno cripticamente) richiamanti una morale-della-favola che deve far meditare anche e soprattutto i grandi. I 14 barboni che fin dal Vorspiel si vedono aggirarsi con carrelli colmi di cianfrusaglie e che poi tornano per realizzare il cambio-scena del primo atto, poi ancora in veste di angeli-custodi nel secondo e infine arrivano a condividere la festa finale, ma recando due alter-ego di H&G senza vita (!) sono la più perfetta interpretazione dello scenario delle canzoni e poesie raccolte dai Grimm e dagli Arnim&Brentano (che ispirarono i fratelli Humperdinck) a ricordare all’umanità le tragiche sofferenze della povera gente nella guerra dei 30 anni, come in tutte le guerre e tragedie che ancor oggi fanno da contraltare al nostro benessere. 

Insomma, uno spettacolo che merita di essere visto, goduto e applaudito come pochi.

01 settembre, 2017

La prestigiosa Academy a Rimini


Purtroppo orfana del suo leggendario fondatore, la prestigiosa Academy of St.Martin in the Fields ha inaugurato la serie dei concerti sinfonici della 68a edizione della riminese Sagra musicale malatestiana, una delle proposte estive più longeve nel panorama italico (è infatti più anziana della stessa Academy!) Da qualche anno qui si suona e si ascolta nella Sala della Piazza del (quasi) nuovo Palazzo dei Congressi, all’interno del quale è pure presente un auditorium ad anfiteatro, che evidentemente ha però una capienza di meno di un terzo di quella dell’enorme stanzone che ospita i concerti della Sagra, che gli viene quindi preferito.

Il programma – come è di prammatica in queste occasioni, che sanno molto di kermesse - non poteva non essere dei più abbordabili, presentando due pezzi inflazionati come pochi. Ma l’altoparlante ne ha annunciato un terzo, che ha aperto fuori locandina la serata: Egmont-Ouverture (si comincia quindi come si dovrebbe finire - ma non si finirà... - con Beethoven).

L’Orchestra è la dimostrazione di come si possano suonare anche pezzi difficili senza un Direttore: così tocca al leader, Harvey de Souza, dare il LA ai colleghi per un’esecuzione di tutto rispetto. La compagine è assai ridotta: fiati quanto basta e archi all’osso (6 violini primi, 4 celli e 2 bassi, per dire...) ma mostra di saper anche produrre le eroiche sonorità beethoveniane.

Ecco poi Daniel Hope arrivare per il più classico dei concerti per violino, l’Op.64 di Mendelssohn. Che lui esegue proprio con la leggerezza degli elfi del Sogno, quasi sfiorando le note del capolavoro del genio di Lipsia. Esecuzione davvero straordinaria, la sua. Poi, al momento del bis, l’omaggio di un cittadino del Commonwealth alla Principessa più amata in Albione, nell’anniversario della tragica scomparsa: così il bis (la raveliana Kaddish) è in sua memoria.

Ha chiuso degnamente la serata ufficiale la Pastorale di Beethoven (sempre senza Direttore, con l’Orchestra trascinata da de Souza). Sonorità vuoi delicatissime (primi due tempi) vuoi tonitruanti (il temporale) e infine nobili e quasi religiose (il finale ringraziamento). Una sesta come capita davvero raramente di ascoltare.

de Souza ringrazia in italiano e concede anche un bis con i soli archi: il walzerino dalla Serenata op.48 di Ciajkovski (qui Marriner a 9’15”). Poi saluta col classico cenno della bevuta, tutte le coppie si abbracciano come nelle migliori famiglie e noi ce ne torniamo a casa contenti.      


31 agosto, 2017

La Scala riapre anticipando Natale


Solitamente proposta come fiaba natalizia per i piccoli, Hänsel und Gretel viene invece programmata ancora in (piena) estate alla ripresa scaligera dopo la pausa agostana. Si tratta di una produzione del Progetto Accademia della Scala, che prevede 8 recite, a partire da sabato 2 settembre.

L’opera, che ebbe sin dalla sua prima (1893) un enorme successo in Germania, è stata invece accolta con il contagocce (anche se sempre con buon gradimento) all’estero: a Milano debuttò il 6 aprile 1897 (in traduzione italiana); Toscanini la diresse alla Scala nel 1902, poi nel 1903 a Buenos Aires; l’ultima apparizione al Piermarini risale a 58 anni fa: Antonino Votto sul podio e un cast di prima grandezza, che includeva Renata Scotto, Fiorenza Cossotto e Rolando Panerai. L’unica altra presenza scaligera nel dopoguerra è del 1952 (sempre in italiano, diretta da Argeo Quadri):


La direzione e concertazione sono affidati ad un solido direttore di tradizione teutonica, Marc Albrecht, apprezzato qui già nel 2012, quando arrivò in emergenza a dirigere la straussiana Fr-o-Sch, mentre l’allestimento è del salisburghese Sven-Eric Bechtolf

Il sito del Teatro riporta una durata (senza intervalli, ovviamente) di 90 minuti, che è nettamente inferiore a quella di un’edizione completa (ad esempio questa di Solti, tuttora una delle esecuzioni di riferimento) che ne conta 105-110: ciò lascia pensare a tagli non proprio marginali apportati alla partitura... staremo a sentire.

Per un sommario inquadramento dell’opera, mi permetto di rimandare chi legge ad alcune mie note di presentazione, pubblicate un paio d’anni fa in occasione delle pregevoli rappresentazioni del Regio torinese

23 agosto, 2017

ROF-XXXVIII live. Stabat Mater


È ormai tradizione per il ROF chiudere i battenti con un concerto – diffuso su schermo gigante in Piazza del Popolo - in cui si eseguono musiche non-operistiche del maestro oppure si propongono opere in forma di concerto (capitò in anni recenti con Zedda che presentò Barbiere, Tancredi e Donna). Le due composizioni del primo tipo che si spartiscono la torta sono solitamente la Petite Messe Solennelle (che infatti chiuderà il prossimo Festival, nella versione strumentata) e lo Stabat Mater, che ieri sera è tornato sulla scena dopo le due ultime apparizioni guidate da Michele Mariotti (2010 e 2015) con i suoi bolognesi.

Quest’anno è toccato alla OSN-RAI, al Coro Ventidio Basso e a Daniele Rustioni il privilegio di abbassare il sipario del Festival, coadiuvati da quattro voci che il pubblico pesarese conosce ormai benissimo: Salome Jicia e Dmitri Korchak che sono ormai di casa qui (Korchak già cantò lo Stabat nel 2006), Erwin Schrott (che esordì lo scorso anno nel Turco) e la rediviva dal secolo scorso Enkelejda Shkoza (fu Ernestina nientemeno che nel 1996, Marie nel ’97, Emilia nel ‘98 e Melibea nel ‘99).  
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La gestazione dello Stabat durò 9 mesi anni, quanti ne passarono fra una prima stesura frettolosa (1832, a fronte dell’impegno che Rossini aveva preso con Manuel Fernandéz Varela, un agiato prelato - tipo cardinal Bertone, per intenderci - di Madrid) e quella definitiva. Fretta che obbligò Rossini ad... appaltare per buona parte a terzi (nella fattispecie l’amico di studi Giovanni Tadolini da Bologna) la composizione della versione iniziale dell’opera, prima di stenderne (tutta di suo pugno) quella definitiva del 1841.

Una relazione assai dettagliata e documentata di quegli anni della vita di Rossini che videro la composizione dello Stabat si può leggere sul programma di sala del ROF, ed è a firma di Reto Müller (membro del Comitato Scientifico della Fondazione Rossini) il quale, oltre a fare chiarezza su molti approssimativi luoghi comuni riguardo all’opera, presenta anche una tabella comparativa delle due versioni, che mi sono permesso di sintetizzare qui sotto. L’originale rossiniano prevede una distribuzione del quartetto dei solisti abbastanza insolita: due soprani, tenore e basso; stante però la tessitura non impervia del secondo soprano (tocca al massimo il SOL#) è diventata ormai consuetudine affidare la relativa parte ad un contralto/mezzosoprano (cosa che è puntualmente avvenuta anche ieri sera) ristabilendo quindi il tradizionale quartetto SATB:


Come si può notare, Rossini compose originariamente l’introduzione e tutta la seconda parte dello Stabat (dalla strofa 11, parte che rimarrà inalterata) appaltando a Tadolini la prima parte; poi però – ritornatigli tempo e voglia - cassò tutti i numeri composti dall’amico per sostituirli, ristrutturandoli profondamente, con farina del suo sacco.

L’ultima strofa di Jacopone (Quando corpus morietur) è originariamente affidata al solo quartetto solistico (a cappella). Qui a Pesaro tuttavia è ormai invalsa l’usanza – confermata ieri sera - di affidarla al Coro, scelta arbitraria anche se non certo riprovevole, ma che non dà modo ai quattro solisti di sciorinare le loro qualità (e di accommiatarsi prima del finale) in questo brano assai impegnativo e di alta drammaticità. È un po’ come far suonare un quartetto ad un’intera orchestra d’archi... privata delle prime parti: è vero che alcuni famosi quartetti sono stati strumentati per ampio organico, ma si tratta di esercizi di studio. Personalmente trovo assai preferibile la soluzione originaria di Rossini.

In ogni modo l’esecuzione complessiva è stata di livello più che dignitoso: punte di diamante, fra i solisti, le due voci maschili, un Korchak impeccabile (per il quale alcuni spettatori hanno abbozzato un applauso a scena aperta – tanto meritato quanto inopportuno - dopo il Cuius animam, chiuso da uno squillante e stentoreo REb acuto) e poi il papà del primogenito della Netrebko, che ha sciorinato la sua voce scura e potente, in particolare nel Pro peccatis. Le due voci femminili (per me) un filino al di sotto: la Jicia deve meglio saper controllare le sue esuberanti doti naturali, che la portano a forzare gli acuti, che tendono a uscire stimbrati; la rediviva Shkoza ha esibito voce potente e scura, ma (mi) è parsa non perfettamente fluida, soprattutto nella sua cavatina.

Bene ancora il Coro del Ventidio Basso di Giovanni Farina, distintosi nelle parti più religiosamente sommesse (come l’attacco del citato Quando corpus) sia in quelle (vedi il Finale) dove l’impegno anche fisico diventa proibitivo.

Sui suoi notevoli standard la OSN-RAI, dalla quale Daniele Rustioni ha saputo cavare sonorità vuoi delicate e struggenti, vuoi poderose e spettacolari.

Alla fine trionfo per tutti, con ripetute chiamate, in un Teatro Rossini (con pochissime poltrone vuote) che ha così salutato in bellezza la chiusura di questo ROF-38.
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La serata era però stata aperta dall’esecuzione del Preludio Religioso dalla Petite Messe Solennelle, orchestrato anni fa dal compianto Alberto Zedda, esecuzione preceduta da un indirizzo del Sovrintendente Mariotti che ha ricordato con evidente commozione la figura del Maestro che tanto ha dato per il ROF, e ha anche spiegato i razionali che portarono Zedda a decidere di orchestrare quel brano che Rossini aveva affidato al solo organo. È stato insieme un omaggio all’indimenticabile Direttore Artistico e un arrivederci al 2018, quando proprio la Piccola messa tornerà per porre il sigillo all’edizione numero 39 del Festival.

21 agosto, 2017

ROF-XXXVIII live. La pietra del paragone


Ritorno sotto le enormi valve dell’Adriatic Arena (parecchie anche ieri le poltroncine vuote, peraltro) per l’ultima recita de La pietra del paragone, la settima opera che portò al ventenne Rossini il successo e la notorietà sulla piazza milanese. In quel 1812 la Scala aveva in cartellone due opere che avevano avuto un discreto, se non grande, successo: il Ser Marcantonio del Pavesi e Le bestie in uomini del Mosca, che non erano proprio da buttar via, almeno a giudicare da qualche frammento recuperabile anche in rete (la Sinfonia del Pavesi e una scena-e-aria con corno obbligato del Mosca) che sembrano anzi dei modelli di riferimento per il Gioachino. Eppure la Pietra eclissò totalmente le due concorrenti: e il pubblico milanese in quell’autunno non volle più ascoltare altro che Rossini!

Su un libretto di Luigi Romanelli, assai raffinato nella forma quanto inverosimile nel contenuto (basti pensare ai due speculari travestimenti di Asdrubale e Clarice) Rossini compose quasi tre ore di musica che scorre via senza cadute di tensione o rilassamenti, una vera e propria abbuffata di numeri: cavatine, arie, duetti, terzetti, quartetti, quintetti, cori, un temporale e ovviamente i due concertati finali. Non mancano anche qui gli auto-imprestiti (in e out): dall’Equivoco stravagante (sua terza opera, che aveva fatto fiasco a Bologna) arrivano – rielaborati dal compositore - tre numeri della Pietra (coro di cacciatori, quintetto e aria di Clarice-Lucindo); la Sinfonia venne invece presa di peso e trasportata al Tancredi veneziano, il terzetto del duello andrà nella Gazzetta, il Temporale nell’Occasione e successivamente nel Barbiere. A testimonianza della disinvoltura (ma anche dell’acume e dell’intelligenza) che Rossini impiegava nel disporre della sua propria musica.

Compagnia di canto giovane, con parecchi ex-accademici che hanno mostrato le loro promettenti qualità, già emerse alla prima e all’ascolto radiofonico. Ma i mattatori della serata sono stati i due buffi: Paolo Bordogna che ha confermato (come Pacubio) la sua gran classe e ha strappato applausi, non solo con la bizzarra e parodistica Missipipì; con lui un ottimo Macrobio di Davide Luciano, autore di una prova maiuscola, per spiegamento dei suoi potenti mezzi naturali, oltre che per caratterizzazione del personaggio.

Maxim Mironov e Aya Wakizono (tenore e contralto, coppia di potenziali amanti certo meglio assortita – musicalmente – di quella Asdrubale-Clarice che invece godrà del lieto-fine) mi son parsi degni di apprezzamento: lui, ormai alla terza presenza al ROF (dopo 2006 e 2015) non è più da scoprire ed anzi pare fare progressi col passar degli anni, così ha sciorinato una splendida aria nel second’atto. Lei è alla prima presenza nel cartellone principale (fece da accademica il Viaggio nel 2014, prima di passare ad un’altra accademia, quella scaligera) e ha mostrato voce ben impostata e accenti adeguati al ruolo. Ad entrambi si può peraltro imputare la mancanza di qualche decibel, che ha un filino penalizzato le loro prestazioni.
   
A Gianluca Margheri era affidato il ruolo (Asdrubale) di grande impegno e difficoltà: che il nostro ha cercato di superare non senza qualche affanno, in specie nei virtuosismi cui Rossini chiama il protagonista, tuttavia mi sentirei di dargli un voto nettamente positivo.

Detto che William Corrò è stato un onesto Fabrizio, restano le due pettegole arriviste della compagnia: come già alla prima radiofonica, Marina Monzó e Aurora Faggioli non mi hanno particolarmente impressionato: comunque un filino meglio la prima, discreta nella sua arietta e meno... vetrosa e urlacchiante della seconda.

Il Coro (maschile, ieri) del Ventidio Basso di Giovanni Farina, impegnato in misura corposa, ha ancora sfoggiato affiatamento, precisione di attacchi e belle sonorità.

Per l’OSN-RAI non si possono ripetere che elogi ed apprezzamenti: con una partitura che non a caso viene definita tedesca (per la strumentazione lussureggiante, scritta per un’orchestra – quella della Scala del 1812 - agguerrita come le compagini del Nordeuropa) i nostri radiofonici vanno evidentemente a nozze. Daniele Rustioni li ha guidati con perizia e rigore: Orchestra e Direttore torneranno martedi a chiudere (in bellezza, c’è da esserne certi) questo ROF-38 con lo Stabat Mater.
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Pier Luigi Pizzi ha ripreso, con parecchi aggiornamenti, il suo simpatico allestimento che tre lustri non hanno per nulla invecchiato, anzi! La storiella improbabile di Romanelli si può perfettamente ambientare in spazio e tempo qualsivoglia, rappresentando a suo modo un archetipo di certa società benpensante e di ceti parassitari presenti sotto ogni latitudine e in ogni epoca.

Quello di quest’anno si ricorderà come il ROF-delle-passerelle: dopo Padrissa e Martone, anche Pizzi ne ha fatto uso (peraltro in modica quantità) come appendice alla sua scenografia riproducente un villino con piscina, ispirato al regista proprio da una sua casa al mare. Regista che si è presentato baldanzosamente sul palco a raccogliere applausi e ovazioni, meritati per lo spettacolo e insieme per la sua interminabile carriera.

Alla fine trionfo per tutti, con passerella generale accompagnata da Richard Barker al fortepiano.

19 agosto, 2017

ROF-XXXVIII live. Torvaldo e Dorliska


Terza recita anche per Torvaldo&Dorliska, ieri sera al Rossini, in un ambiente che anche logisticamente ti trasporta indietro di secoli, proprio ai giorni in cui la musica che si suona e si canta venne ideata e composta dal grande Gioachino. Bomboniera gremita e pubblico cosmopolita ben disposto al gradimento e all’applauso.

Opera che meriterebbe di essere riproposta più spesso, anche da altri teatri, stante il livello dei contenuti musicali: è un Rossini ancora giovane (1815) ma già alla sua 16ma fatica; è al suo esordio sulla piazza di Roma, dove poco dopo otterrà (a valle dell’iniziale fiasco) il successo destinato a divenire imperituro del Barbiere. E forse proprio la fama del Figaro ha finito per oscurare, immeritatamente, quella della sorella maggiore, che invece presenta struttura (arie, duetti, terzetti e concertati) e ispirazione davvero degni del miglior Rossini.

Il quale anche qui non si smentisce, quanto ad auto-imprestiti; ne segnalo almeno un paio: il primo è in uscita, il tema in LA maggiore (poi in RE) della Sinfonia che nei due anni successivi a quel 1815 migrerà dapprima nella Gazzetta e da lì nella Cenerentola. L’altro, in entrata (in FA maggiore, ad accompagnare Giorgio e il coro in apertura dell’atto II) viene immediatamente dal Sigismondo (1814) ma remotamente (1812) dall’introduzione della Scala di seta...

Sono le tre voci gravi del cast a innervare l’opera, fin dalle prime due scene, in cui spicca quell’impareggiabile terzetto con coro (si cercherà, si troverà) che anticipa proprio la cavatina di Figaro (Figaro qua, Figaro là) ma qui raggiunge vette esilaranti proprio per il continuo passare da una voce all’altra. E i tre interpreti sono anche stati i maggiori trionfatori della serata. Nicola Alaimo, la cui presenza scenica ha fatto da degno supporto ad una prestazione canora impeccabile; poi Carlo Lepore, presentatosi con il braccio sinistro al collo (una costante di questo ROF, dopo quello di Abbado...) che ha sfoderato tutta la sua proverbiale verve di autentico buffo rossiniano. Ma bene si è portato anche Filippo Fontana, che si è inoltre esibito come scalatore di alberi nella sua strampalata aria (sopra quell’albero vedo un bel pero) a metà del primo atto.

Dmitri Korchak ha confermato in pieno le sue doti che in pochi anni lo hanno portato ad emergere non solo nel repertorio rossiniano (ma presto vestirà i panni e soprattutto... la voce di Arnold): svettante negli acuti, sempre squillanti e capaci di penetrare anche i fracassi degli insiemi, ma assai efficace anche nei momenti più lirici e intimistici, dove sa sfoderare apprezzabili mezze voci.

Salome Jicia è certamente cresciuta, dopo la debuttante Elena dello scorso anno. Ma ancora mi pare debba lavorare sodo per raggiungere livelli di eccellenza: gli acuti sono spesso forzati e urlacchiati con timbro sgradevole (complice anche la regìa che la costringe a volte a cantare supina... posizione non ideale davvero); comunque una più che passabile Dorliska.

Raffaella Lupinacci ha pure lei mostrato qualche vetrosità nella tessitura acuta, comunque all’interno di una prestazione mediamente onorevole.

Altrettanto va detto del Coro della Fortuna di Mirca Rosciani, che ha anche dovuto affrontare difficoltà, come dire, logistiche, impostegli dall’eccentricità delle soluzioni registiche.

Francesco Lanzillotta si conferma più che una promessa: la sua è una direzione e concertazione precisa, attenta e rispettosa delle voci; e l’Orchestra Sinfonica G.Rossini ha dimostrato come anche piccole compagini di provincia sino perfettamente all’altezza di eseguire adeguatamente opere come questa. Gianni Fabbrini e Anselmo Pelliccioni hanno egregiamente sostenuto il ruolo del continuo (fortepiano e cello) nei recitativi, il primo ha pure vestito estemporaneamente i panni di comparsa...

Alla fine applausi, ripetute chiamate singole e collettive e ovazioni per tutti. Meritate, direi proprio.
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La regìa di Mario Martone era già sicuramente vecchia, come concezione, 11 anni fa, ed oggi è proprio irrimediabilmente passata. L’idea di ignorare il palcoscenico per portare l’opera in platea potrà piacere agli amanti dell’avanspettacolo, ma va decisamente a detrimento innanzitutto della precisione dell’esecuzione (un coro sparso per l’intera platea difficilmente sarà perfetto negli attacchi, col Direttore che gli volta le spalle...) e poi anche dell’ottimale fruizione da parte del pubblico un filino più... esigente.

Così, avendo sprecato l’intera scena per collocarvi il bosco (cui nel libretto semplicemente si accenna) ecco che al regista sarebbe rimasto solo il proscenio per ambientarvi l’intera vicenda: pretesto quindi per dislocare in sala passerelle, scale retrattili che scendono dai palchi del primo ordine, una gabbia che sale e scende proprio alle spalle del Direttore a far da cella per il povero Korchak, altre scale che portano nella buca dell’orchestra... insomma, un armamentario francamente bizzarro e soprattutto penalizzante per la concentrazione di interpreti e di pubblico. Ciliegina sulla torta, i volantini rossi con la scritta Viva Rossini fatti piovere dal loggione all’inizio del second’atto, in corrispondenza con il patriottico ingresso dei popolani di Ordow.   

Insomma, un allestimento fra il goliardico e il varieté, che peraltro in molti avranno anche apprezzato.