affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

25 gennaio, 2016

La Volpina di Carsen al Regio

 

Ieri al Regio torinese (non proprio esaurito...) penultima recita di Příhody lišky Bystroušky di Leóš Janáček, nell’allestimento di Robert Carsen, già apparso a Strasburgo nel 2013 e derivato da quello originale di Gent del 2001.

Sul podio Jan Latham-Koenig (un britannico con ascendenze francesi, danesi, polacche e mauriziane...) che è un esperto di Janáček e lo ha confermato, con una direzione pulita e attenta ai dettagli, forse (se posso permettermi) leggermente sovraccarica nelle dinamiche.

Fra gli interpreti metterei in prima fila il Guardiacaccia di Svatopluk Sem, di cui mi hanno impressionato il bel timbro di voce e la grande espressività (nelle ultime due scene davvero lodevole).

Voce potente quella della Volpe Lucie Silkenová, forse ancora da... mettere meglio sotto controllo (alludo a qualche acuto un filino urlato) ma anche lei bravissima nel rendere la multiforme (!) personalità dell’animale.

Maestro e Curato+Tasso (rispettivamente Jaroslav Březina e Ladislav Mlejnek) si sono ben distinti, in particolare il primo, efficace nell’interpretare la personalità complessata del cattedratico (purtroppo non quella... fisica, ma per lui sarebbe stato difficile perdere il 40% del suo peso, smile!)   

Il banditesco Harašta è stato ben interpretato da Jakub Kettner: il personaggio compare soltanto nella prima scena dell’ultimo atto, ma ha un ruolo di primo piano, imprimendo la svolta drammatica (voluta da Janáček in barba al racconto originale di Těsnohlídek) a questa fiaba per adulti. Stesso discorso per la brava Michaela Kapustová, che ha ben interpretato le dolci ma infuocate passioni amorose del maritino della protagonista.

Tutti gli altri comprimari (cristiani e... bestie!) hanno lodevolmente contribuito al successo pieno della recita: fra essi anche le voci bianche del Regio e del Conservatorio, oltre al Coro, diretti da Claudio Fenoglio.
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Che dire dell’allestimento? A parte che si conosceva a menadito (per esperienze dirette o per sentito dire) essendo in giro – pur con rimaneggiamenti - da ormai tre lustri, espongo qui qualche mia considerazione e valutazione.

Comincio dagli aspetti di ambientazione. La scena quasi fissa e sempre spoglia (collinette coperte da fogliame o da un lenzuolone a simulare la neve) non mi pare renda giustizia alla componente naturalistica dell’opera. È vero che ci pensa la musica di Janáček ad evocare la Natura, e certo non si pretende di vedere alberi di cartapesta con foglioline di cartavelina mosse da ventilatori, per carità. Ma tra questo e il nulla quasi assoluto credo ci stia qualche soluzione più soddisfacente, ecco. Appropriati invece i costumi, che non eccedono in kitsch (parlo sia dei personaggi umani che, soprattutto, degli animali). Efficaci le luci, che Carsen sa bene come impiegare (quelle laterali, in particolare).

A proposito di Natura, anzi propriamente di fauna, mi ha lasciato invece perplesso la scelta del regista di ridurre drasticamente le specie animali che popolano la foresta di Janáček. Tutto il (wagneriano) Waldweben che il compositore ha voluto rappresentare (insetti, animaletti, zanzare, rane) qui non trova cittadinanza ed il bosco si riduce ad una specie di riserva per volpi! La cosa ha ripercussioni curiose laddove animali che Carsen elimina devono però cantare! Così accade che i versi assegnati alla Zanzara vengano cantati dal Guardiacaccia (il che ha del paradossale) e che la Volpina assuma anche il ruolo della rana, andando a mordere il Guardiacaccia e poi chiedendo alla madre se quell’animale sia commestibile (!?) Così poi nell’ultimissima scena dell’opera è ancora una volpettina (la figlia della protagonista) che sostituisce la rana e avverte il Guardiacaccia che l’animale da lui conosciuto all’inizio era suo nonno (!?!) Di facile effetto la discesa... dal cielo di Civetta, Ghiandaia e Picchio alla fine del second’atto (nozze volpine).

Quanto al fluire del tempo, il testo di Janáček è molto parco di indicazioni, tuttavia vi si possono fissare alcuni punti fermi: l’apertura è in estate (quadro I) mentre la scena in fattoria (quadro II) è in autunno. Quindi sono passate alcune settimane da quando la Volpina è in cattività, come confermano anche le esternazioni di animali e cristianiInvece lo scenario ci mostra in entrambi i quadri lo stesso paesaggio autunnale e poi all’inizio del quadro II Carsen fa arrivare a casa il Guardiacaccia con la Volpina appena catturata. La cosa potrebbe essere considerata veniale, però resta il fatto che così viene a mancare il cambio di stagione, il che non mi pare una banalità. Lo stesso dicasi (atto II) nel passaggio fra il quadro V (le peripezie dei tre uomini nel bosco) e il quadro VI (l’incontro e il matrimonio delle volpi) dove, secondo il testo originale, si dovrebbe ancora avere un cambio di stagione (poichè si torna in estate, dall’autunno dove erano verosimilmente rimasti ambientati i quadri precedenti, che non presentano fra loro evidenti salti di tempo: fuga della Volpina, espropriazione del Tasso, scena in osteria e successiva scena nel bosco). Invece Carsen ci mostra sempre lo stesso paesaggio brullo, coperto di fogliame secco. All’inizio del terz’atto (quadro VII, quello della morte della Volpina) c’è un cambio di stagione che dovrebbe essere estate-autunno, mentre Carsen ci fa invece piombare in pieno inverno, con tanto di neve che copre ogni cosa. Neve che poi sparisce per lasciar spazio ad erba verde, come fosse primavera: ma il testo non lascia dubbi che si dovrebbe essere sempre in autunno (fra i quadri VII, VIII e IX non paiono esserci soluzioni di continuità temporale) e il mirabile monologo finale del Guardiacaccia accenna al prossimo ritorno del maggio, quando la Natura si risveglierà, e dovrebbe contrastare proprio con il malinconico presente autunnale. Insomma, scelte registiche che mi paiono francamente discutibili.

Vengo ora a qualche ulteriore (importante) dettaglio. Carsen immagina che la trasformazione della Volpina in ragazza (quadro II) sia in realtà un sogno del Guardiacaccia, che appunto in sogno si accoppia con lei, prima che tutto torni normale. L’idea che fra Volpina e Guardiacaccia ci sia sotto qualcosa di particolare e di sospetto è giustificata da quanto avviene nel second’atto (quadro IV, in osteria) dove il Maestro e poi l’Oste fanno al Guardiacaccia (che se ne risente in modo esagerato) allusioni che parrebbero gratuite se riferite ad un animaletto, e invece pertinenti se riferite ad un essere umano. Quindi l’idea di Carsen non è proprio da buttare, anzi!     

Quando (atto II, quadro III) vediamo la Volpina fare abbondante pipì nella tana casa del Tasso (cosa che non si trova nel testo di Janáček) dobbiamo ricordare che questa scena è invece rappresentata con grande enfasi in uno dei disegni di Stanislav Lolek che ispirarono il racconto originale di Těsnohlídek, dove il fattaccio è descritto per filo e per segno.

Carsen pare essersi poi ispirato alle idee di Max Brod (il traduttore in tedesco dei testi di Janáček) per rappresentare quanto avviene nel quadro V (atto II) dove il Maestro e il Curato, ricordando le loro avventure e/o infatuazioni sentimentali, hanno al loro fianco la Volpina, che in pratica assume il ruolo della Terinka del racconto. Orbene, va ricordato che Janáček si oppose sempre fieramente a questa (come ad altre) interpretazioni di Brod (di cui peraltro aveva grande stima): nella fattispecie il Maestro, ubriaco, crede di vedere Terinka in un girasole, il cui fiore viene mosso dalla brezza, mentre la Volpina è soltanto nascosta nei pressi, occhieggiando poi alle esternazioni del Curato. Invece Carsen fa sparire anche i girasoli! Peccato...

Per ultimo vengo al quadro VII (inizio atto III) e alla fine della Volpina. Carsen ci mostra una specie di sfida all’OK Corral fra l’animale e il bracconiere (e fin qui tutto... OK) facendo però sparire dalla scena i volpacchiotti che invece dovrebbero fare razzìa di galline nella sua cesta. Così lo sbifido Harašta spara un primo colpo a caso (come da libretto) senza che nulla accada (si dovrebbero invece vedere i volpacchiotti scappare in una nuvola di piume...) e poi, a sangue freddo e prendendo bene la mira, esplode un gratuito secondo colpo (mortale) in pieno petto alla Volpina. Tutto ciò contraddice profondamente non solo la lettera ma anche lo spirito del testo originale, dove la morte della protagonista è un fatto del tutto accidentale, come mille ne accadono nella vita di tutti i giorni... e per questo Janáček non le riserva alcuna particolare enfasi (tipo esequie in pompa magna, o cose simili). Fin troppo realistico poi l’atto della scuoiatura dell’animale, di cui il bracconiere si porta via la pelliccia (ciò che Janáček invece ci chiarisce con discrezione nel quadro successivo, in osteria).

Ecco, elencate queste (per me) ombre nell’allestimento, resta ovviamente la grande maestria che Carsen sa impiegare per proporci uno spettacolo comunque di alto livello, che merita la fama da cui è circondato. E questo è solo l’inizio del ciclo-Carsen-Janáček che il Regio lodevolmente ha messo in programma per le stagioni a venire. 

23 gennaio, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°4


Giuseppe Grazioli si sta specializzando in un mestiere ormai desueto da circa 90 anni: quello di accompagnatore di film muti (! in questo segue peraltro le orme di tale Shostakovich!) Dopo aver diretto, meno di 2 anni orsono, la colonna sonora di un film sul Rosenkavalier, proiettato sullo schermo gigante dell’Auditorium, il nostro si cimenta ora nientemeno che con Aleksandr Nevskij, dirigendo le musiche di Sergei Prokofiev in sincrono con la proiezione del famoso film di Eisenstein.

Il film dura circa un’ora e trequarti e la colonna sonora di Prokofiev ha una durata più o meno pari alla metà (50-55 minuti). Come è immaginabile, un pochino della musica sta lì solo per esigenze piuttosto prosaiche del regista del film, talchè lo stesso Prokofiev, volendo farci un’opera degna di questo nome (una cantata, nella fattispecie) ne impiegò, con qualche ulteriore aggiustamento, circa il 60%. In sostanza, i 27 (o 21, a seconda delle classificazioni) numeri della colonna sonora (distribuiti su 9 grandi scene) furono dal buon Sergei liofilizzati nei 7 che compongono la Cantata op.78. Cantata sulla quale avevo scritto qualche nota anni fa, in occasione di un’esecuzione di Noseda con i suoi del Regio agli Arcimboldi.

La locandina-web de laVERDI (non il programma di sala...) trae parzialmente in inganno, in quanto indica l’esecuzione della cantata, con proiezione del film, il che parrebbe qualcosa di analogo a quanto si può vedere e ascoltare in un montaggio fatto in studio della cantata medesima, diretta da Abbado-sr a Vienna nel 1990 (con la voce solista della Valentini-Terrani) abbinata ad alcune immagini del film: si tratta di un lavoro giovanile di Abbado-jr.

Invece Grazioli ripete in Auditorium l’impresa eseguita per la prima volta da André Previn nel 1987 a LosAngeles, dopo che tale William Brohn aveva ricostruito la partitura (allora introvabile, c’era ancora il muro di Berlino...) della colonna sonora del film in modo piuttosto avventuroso e bizzarro: impiegando dove possibile materiale della cantata (quindi non della colonna sonora originale, assai meno ricca della cantata, in fatto di strumentazione) e integrandolo (per le parti presenti nel film ma non nella cantata) da musica che lui stesso mise sul pentagramma derivandola (a... orecchio!) dalla piuttosto scalcinata colonna sonora del film. Aggiungendovi poi una specie di ouverture per accompagnare i titoli di testa del film (pare fosse questa un’idea del regista, peraltro fieramente osteggiata dal compositore, talchè nell’originale i titoli appaiono nel silenzio più totale). Insomma, un pastiche apocrifo – nè carne nè pesce, nè cantata nè colonna sonora - che ha come unico fine (però con pro-e-contro) quello di dotare il film di una colonna sonora musicale... reale e dal suono pulito, al posto di quella gracchiante (e male eseguita) che è appiccicata alla pellicola di Eisenstein.

Il film viene proiettato con il sonoro originale russo per le parti parlate (con didascalie in italiano) mentre i passaggi musicali vengono eseguiti in diretta dall’orchestra, dal coro della Gambarini e – per la scena dei morti sul campo di battaglia - dalla solista Annely Peebo. Questa simbiosi fra colonna sonora originale (parlato + alcuni rumori di fondo) e musica dal vivo è resa possibile dalla disponibilità, nel film originale, di tre separate componenti della colonna sonora medesima: parlato, rumori e musica. Di tali componenti viene usata qui la prima e – in misura assai ridotta – la seconda; la terza non viene impiegata per nulla, dato che la suona l’orchestra e la cantano il coro e la solista.

Devo dire che in complesso la resa è stata di ottimo livello, tanto che il pubblico (foltissimo, in pratica a quello della musica si è aggiunto quello del cinema, e non a caso, visto che l’Auditorium era in origine una sala cinematografica!) ha manifestato alla fine grandissimo entusiasmo ed apprezzamenti per tutti.

Certo, qualche purista potrebbe osservare che la colonna sonora di Brohn non è quella che aveva composto Prokofiev, poichè contiene troppa... cantata e quindi (probabilmente) troppo culto della personalità (leggi: Stalin!) La colonna sonora originale che si può ancor oggi ascoltare sarà tecnicamente schifosa, ma i suoi contenuti sono tutto tranne che gratuitamente enfatici, come invece sono quelli della cantata, che nacque a posteriori rispetto al film e proprio come pezzo celebrativo del regime (18° Congresso del PCUS) e del gran capo che pretendeva... pubblicità. Un esempio su tutti: sia nell’entrata di Nevskij in Pskov dopo la vittoria, che sui titoli di coda, viene riproposta la sua celeberrima canzone, ma in versione puramente strumentale; mentre Brohn fa nuovamente intervenire il coro (come nella cantata!) il che è di grande effetto... melodrammatico, ma tradisce forse lo spirito, oltre che la lettera, dell’originale di Prokofiev. 

Invece, a dir la verità oggi ci sarebbe una materia prima assai più solida da impiegare, al posto dell’intruglio di Brohn: nel 2003 il Direttore d’orchestra Frank Strobel, avendo avuto accesso a materiali di prima mano a Mosca, ha potuto predisporre una versione della colonna sonora più verosimilmente aderente all’originale di Prokofiev, versione che ha poi presentato alla Konzerthaus di Berlino e che è stata eseguita più volte in giro per il mondo (anche al Bolshoi, nel 2004) e di cui è disponibile un’incisione audio. Evabbè, vuol dire che sarà per la prossima volta!

17 gennaio, 2016

A Torino si prepara la caccia alla volpe

 

Martedi 19/1 (diretta audio su Radio3) il Regio torinese inaugura le recite di Příhody lišky Bystroušky, letteralmente Le avventure della volpe Orecchiofino, che è conosciuta ormai come La piccola volpe astuta, terz’ultima opera di Leóš Janáček (1923, preceduta di pochissimo dalla Kabanová e cui seguiranno Makropoulos e Casa di morti: quattro opere composte nell’ultimo decennio di vita del musicista moravo).

Opera che si presenta in superficie come una fiaba per bambini, o come una simpatica parodia della vita degli umani come vista dalla prospettiva degli animali; ma che in realtà nasconde significati e concetti assai seri, che spaziano dall’etica alla politica, al senso più profondo dell'esistenza. Sempre però evocati con grande equilibrio e con un certo pacato distacco.   

All’origine del soggetto pare esserci proprio una volpe in carne ed ossa, che nei primi anni dell’800 era diventata quasi una leggenda in Moravia, per la sua incredibile capacità di sfuggire a mille tentativi di cattura da parte di un guardiacaccia. Verso il 1890 uno studente aspirante pittore – che poi divenne infatti abbastanza famoso come paesaggista - tale Stanislav Lolek, fece per qualche tempo il guardiacaccia-aggiunto ed apprese dal suo superiore – che a sua volta da quegli animali aveva continui grattacapi - le storie della volpe leggendaria: così decise di rappresentare sia il suo superiore che le vicende di quella guerra volpe-guardiacaccia in una lunga serie di disegni. I quali rimasero poi ad ammuffire per 30 anni, finchè nel 1920 un responsabile editoriale del quotidiano Lidové noviny (Notiziario popolare) di Brno, incaricato di cercare spunti per racconti illustrati, ci incappò quasi per caso e così la storia della volpe, illustrata da 193 disegni di Lolek e romanzata con i testi di Rudolf Těsnohlídek, comparve in 51 puntate del giornale, con il titolo La volpe Orecchiofino, titolo in realtà dovuto ad un errore tipografico, causato da un correttore di bozze che travisò, ma tutto sommato senza stravolgerne la pertinenza, quello (La volpe Pièveloce) originariamente deciso da Těsnohlídek(Nel 1958 Fedele D’Amico intitolò curiosamente, ma con molta perspicacia, la sua traduzione del libretto di Janacek Le avventure della volpe Briscola.) Il tutto finì poi in un racconto in 23 capitoli pubblicato a Brno nel 1921.



Orbene, il giornale circolava, neanche a farlo apposta, proprio in casa Janáček, e per la verità fu la sua fedele domestica di lungo corso (Marie Stejskalová) a rimanere talmente affascinata da quella bizzarra storia a fumetti da consigliarla al compositore come soggetto per un’opera. E così Janáček stese di sua mano il libretto, consultandosi con Těsnohlídek, ma allo stesso tempo rivoltandone il testo come un calzino: il racconto chiude infatti con il vissero-felici–e-contenti della famigliola delle volpi, mentre l’opera ci mostra, nel seguito, la morte quasi accidentale della protagonista, e si chiude poi come era iniziata, con un pisolino del guardiacaccia che ora però ha modo di ragionare sul fluire del tempo, delle stagioni e delle generazioni. Steso il libretto, Janáček passò subito a musicarlo. E tanta fu la passione che ci mise, da convincerlo a disporre che il finale dell’opera venisse suonato – cosa che puntualmente avvenne - al suo funerale!
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Il soggetto si struttura in tre atti e nove quadri (2-4-3) ambientati di volta in volta nella foresta (l’habitat degli animali selvatici, frequentato anche dagli uomini, che accoglie 6 quadri) e in insediamenti umani (casa e osteria, in 3 quadri) dove al più possono vivere animali domestici, con l’unica eccezione rappresentata proprio dalla volpina, che per qualche tempo abita nella casa del guardiacaccia che l’ha catturata. Fra animali e cristiani emergono, esplicitamente o sotterraneamente, dei paralleli (atteggiamenti e comportamenti) dei quali il più smaccato è quello fra un tasso e il curato della parrocchia.

Poche le indicazioni temporali fornite da Janáček: il primo quadro è ambientato in piena estate, il secondo in autunno, il sesto nuovamente in estate, il settimo in autunno: si dovrebbe quindi dedurre che l’intera vicenda si protragga per almeno un anno e più, ma di certo le famose unità aristoteliche poco hanno a che fare con un soggetto come questo. Caso mai è interessante notare la differenza fra i ritmi e i cicli di vita di animali e uomini: nel lasso di tempo coperto dall’opera, la volpe passa dall’infanzia alla maternità (e addirittura si sviluppano ben due generazioni di rane) mentre per gli umani c’è solo un lento, sia pure inesorabile, invecchiamento.

Preludio – A sipario aperto, ci introduce al bosco in un pomeriggio estivo che promette temporale. Facciamo così la conoscenza degli abitanti della foresta (tasso con pipa, libellula, moscerini: sembra la versione morava del wagneriano Waldweben...)

Atto I – Quadro ISi apre con l’arrivo del guardiacaccia, che si ferma a riposare un poco, benedicendo il suo fucile, strumento di lavoro e di potere. Concerti e polifonie, con annessi balletti, di grillo, cavalletta e zanzare. Una di queste (che deve evidentemente aver punto il guardiacaccia) si ubriaca di sangue e la rana cerca inutilmente di catturarla, mentre la volpina protagonista domanda alla madre (che non si vede, nè si sente) di che animale si tratti e se sia commestibile. Spaventata, la rana spicca un salto e atterra sul naso del guardiacaccia assopito. Costui la scaccia via, schifato, e si accorge della volpina: con un balzo ferino la afferra per la collottola e decide di portarsela a casa, neanche fosse un cagnolino.


Alla povera libellula, che torna per ritrovare la sua amica volpina, non resta che danzare sul triste postludio strumentale. 

Atto I – Quadro II – Un interludio orchestrale serve a... far passare il tempo: dall’estate siamo ora arrivati in autunno ed eccoci nell’aia della casa del guardiacaccia, dove troviamo la volpina alle prese con il cane (Lapák). La padrona di casa non pare entusiasta della presenza della volpina. La quale si lamenta per la sua cattività, suscitando la reazione del cane, che pure si dichiara infelice per mancanza di... amore: in primavera canta alla luna le sue canzoni appassionate, e il padrone per tutta risposta lo prende a bastonate. La volpina ammette di essere pure lei inesperta di rapporti sessuali, ma racconta di aver udito altri animali parlarne in termini osceni: in particolare narra di storni donnaioli impenitenti, o che se la fanno con i cuculi o compromettono le gazze; una loro figlia ha persino una relazione con un corvo! Il cane, arrapato da questi racconti piccanti, si avventa su di lei e ne viene scacciato con gravi perdite.

Adesso sono i ragazzi del guardiacaccia che si divertono a stuzzicare la volpina, che reagisce mordendone uno alla gamba, poi cerca la fuga, ma viene riacchiappata e così per punizione viene legata con un guinzaglio. Durante la notte - uno sbudellante interludio strumentale - la volpina appare incredibilmente sotto le spoglie di una fanciulla piangente; all’alba ritorna volpe. Solitamente si usa interpretare questo strano fenomeno come il sogno – irrealizzabile - della volpe di acquisire prerogative umane. Nel second’atto (quadro all’osteria) ci saranno però delle allusioni, come dire, piuttosto inquietanti...  

Per adesso è interessante notare la differenza di condizioni sociali che caratterizza i rapporti fra gli animali domestici (soggetti a vincoli atavicamente imposti loro dall’uomo) e selvatici (che vivono esclusivamente in base a leggi naturali): ne è specchio il conflitto insanabile che scoppia fra i domestici cane, gallo e galline e la selvatica volpina, che sconvolge le loro millenarie abitudini con discorsi tanto rivoluzionari (quanto utopistici) come ...abolite l’ordine antico! Create un nuovo mondo dove avrete la vostra parte di gioia e felicità! Dopodichè, delusa dal mancato successo delle sue sobillazioni, per sfuggire alla cattività usa lo stratagemma di fingersi morta e poi impone materialmente la legge della giungla, facendo strage dell’intero pollaio!


La scena e l’atto si chiudono su una rapidissima ed esilarante coda strumentale. 

Atto II – Quadro III - Legge della giungla che ovviamente impera nella foresta, dove ci riporta l'introduzione orchestrale (inizialmente pesante, ma che progressivamente si illumina) e dove la volpina tornata in libertà si procura una comoda abitazione sloggiando – supportata dal tifo degli altri animali - dalla sua comoda tana un ricco tasso, fumatore di pipa come ogni borghese arrivato. Dai disegni di Lolek e dal testo di Těsnohlídek si evince chiaramente quale sia l’infallibile e prepotente metodo impiegato dalla volpina per cacciare il tasso dalla sua casa: inondarla letteralmente di pipì! 



Janáček invece è meno truce e si limita a far alzare alla volpe la coda in faccia al tasso, che se ne va via offeso e imprecante con la pipa sotto il braccio... La scena evoca chiaramente problematiche sociali di assoluta attualità: il borghese che fa affari magari poco commendevoli con i quali procurarsi agiatezze e vizi, e i proletari che reagiscono con occupazioni di case senza rispetto alcuno per il decoro.

Atto II – Quadro IVIn compenso scopriamo subito dopo che c’è anche un esemplare umano di tasso: lo spigliato interludio strumentale ci porta all’osteria, dove troviamo il curato della parrocchia, che pure fuma la pipa, e che pure viene sloggiato dalla canonica, perchè trasferito altrove. Ciò diventerà chiaro solo nel terz’atto, per ora sentiamo il curato rispondere evidentemente ad una domanda dell’oste (Pásek) affermando che ...a Stráni le cose andranno meglio; e poco dopo l’oste gli comunicherà che i nuovi inquilini vi cercano...

Intanto facciamo la conoscenza anche del maestro di scuola, un tipo attempato, tutto pelle-e-ossa, che il guardiacaccia, fra una mano di carte e l’altra, cerca di stuzzicare con una canzoncina che allude a vecchi amori per una tale Verunka... che però ormai sarà pure sfiorita, come accade al larice, verde in primavera e spoglio in autunno.


Mentre il curato sfoggia il suo latino per esortare i maschi a non cedere il proprio corpo alle femmine, il maestro contrattacca accennando alle disavventure del guardiacaccia con la volpina. E lo stesso farà anche l’oste, a fine quadro, entrambi suscitando reazioni furibonde del guardiacaccia. Ora ci si potrebbe chiedere il motivo di tanta attenzione da parte dei conoscenti del guardiacaccia - e di tanta suscettibilità da parte di quest’ultimo - in relazione ad un episodio in sè risibile (la cattura di un animale selvatico allo scopo di addomesticarlo e la fuga dell’animale) in uno scenario dove l’oggetto della conversazione sono invece delle contrastate vicende amorose fra esseri umani! E adesso possiamo tornare al secondo quadro del prim’atto, e a quella apparentemente gratuita trasformazione notturna della volpina in una ragazza infelice. Insomma, vuoi vedere che la figura della volpina nasconde qualche segreto inconfessabile del guardiacaccia? Qualcosa a che vedere con il dualismo gazzella-imperatrice della straussiana Fr-o-Sch?

Il maestro, al canto del gallo, se ne va per tornare a casa. Lo stesso fa il curato, avvertito dall’oste dell’arrivo dei nuovi parrocchiani. Rimane solo il guardiacaccia, ormai ubriaco, che sproloquia volgarità sui vangeli e infine, punzecchiato anche dall’oste sull’affaire-volpina, ha una reazione scomposta e se ne va sbattendo la porta.

Atto II – Quadro V – Un nuovo interludio strumentale ci porta nella foresta, attraversata in sequenza dai tre personaggi reduci dall’osteria e diretti alle proprie abitazioni. Dapprima ecco il maestro, che procede barcollando appoggiandosi al bastone. Passa accanto ad un campo di girasoli, spiato dalla volpina, nascosta dietro uno di questi. In preda ai fumi dell’alcol crede di vedere nel girasole il volto della sua innamorata, Terynka. Dopo due bizzarre esclamazioni (staccato!... flageolett!) che richiamano termini di agogica musicale, il maestro fa la sua dichiarazione d’amore al girasole e infine si slancia su di esso, perdendo l’equilibrio e rovinando sulla siepe.


È poi la volta del curato, che si siede cercando invano di accendere un fiammifero, e comincia a ricordare un suo amore giovanile, che lo tradì con un garzone di macellaio, lasciando su di lui i sospetti di averla compromessa... e gli occhi della volpina brillano per un paio di volte da dietro la siepe (!) Si sente infine arrivare il guardiacaccia - sempre a caccia della volpina - che esplode anche un paio di colpi della sua doppietta. Maestro e curato si rialzano a fatica e si avviano verso casa, accompagnati da un motivo che ricorda... la volpina (!?) Il guardiacaccia compare imbracciando il fucile ancora fumante.  

Atto II – Quadro VI – Restiamo nella foresta, ma è tornata l’estate, ed è quindi verosimilmente trascorso (almeno) un anno dall’inizio della fiaba. È una bella notte di luna, perfettamente attrezzata per una scena d’amore tra... volpi! Mentre si odono cori senza parole di animali che creano un’atmosfera romantica, nei pressi della casa del tasso della volpina si presenta un bellissimo esemplare maschio, dall’aspetto elegante e dai comportamenti nobili. La volpina se ne innamora perdutamente a prima vista, e gli racconta la sua storia, infarcendola subdolamente (non per nulla è femmina e pure... volpe!) di bugie e di vittimismo: la casa l’ha ereditata (!) da uno zio tasso, e poi lei ha vissuto – e ne fa un lungo racconto furbescamente romanzato - presso la famiglia del guardiacaccia, che la vessava continuamente, minacciandola di farci una pelliccia, finchè lei non riuscì a riguadagnare la sua libertà... Dopo qualche ammiccamento e un finto arrivederci, che serve alla volpina per convincersi della sua bellezza e del suo fascino, al punto da auto-cantarsi una specie di romanza, il maschio torna con del cibo e i due, dopo una bella mangiata e una tipica scaramuccia da innamorati, quasi all’alba si dichiarano il loro amore ed entrano nella tana di lei per... passare dalle parole ai fatti!

La libellula arriva e danza per la sua amata volpina (pare una Brangäne che veglia Isolde e Tristan...) mentre la civetta, che ha spiato tutto insieme alla ghiandaia, avverte l’intera foresta del misfatto! La volpina è la prima ad uscire dalla tana, seguita dal maschio, al quale comunica la dolce notizia: avranno dei cuccioli! Ma fuori dal matrimonio? No di certo, sentenzia lui, e guarda caso lì sopra c’è il parroco (un picchio) che li sposa seduta stante! Il quadro si chiude con una strepitosa festa nuziale di tutta la foresta.




Atto III – Quadro VII – É tornato l’autunno, siamo sempre nella foresta, a mezzogiorno, dove ora transita un nuovo personaggio (Harašta) che si rivelerà determinante per il successivo svolgersi dei fatti: trattasi di un venditore ambulante di polli (che a tempo perso fa pure il bracconiere...) L’introduzione orchestrale ha preparato il terreno (piuttosto lugubre) all’esternazione del vagabondo, che reca una cesta vuota e canta una sbracata filastrocca amorosa. Scopre sul sentiero una lepre uccisa (dalle volpi, evidentemente) ma mentre sta per raccoglierla... arriva il guardiacaccia, al quale comunica di essere prossimo al matrimonio. Con chi? Ma con la bella Terynka (l’amore del maestro!) Il guardiacaccia lo ammonisce a non fare il bracconiere, così il venditore gli indica la lepre morta, vantandosi di non averla raccolta. Il guardiacaccia, imprecando contro gli animali, monta sull’istante una trappola per volpi, poi i due se ne vanno in direzioni opposte.

Sopraggiungono la volpina, il marito e i volpacchiotti loro, cantando allegramente (una canzoncina popolare morava!) Scoprono che qualcuno è passato accanto alla lepre, ma non l’ha raccolta, così si insospettiscono e si accorgono della trappola installata dal guardiacaccia (la catena puzza della sua pipa!) e si fanno beffe di lui. Il maschio trova il tempo per fare altre avances (quando avremo altri cuccioli?) alla volpina, che lo invita ad aspettare... maggio! L’ultima parte del dolce approccio fra le due volpi è sovrapposta al canto di Harašta, che sta tornando dopo essersi approvvigionato di polli di cui ha riempito la cesta, e pensa alla sua bella. La volpina gli si para davanti deliberatamente, quasi a provocarne la reazione. Lui già pensa a impallinarla per farci un manicotto di pelliccia per Terynka, ma la volpina, provocandolo ancora e sfidandolo ad ucciderla, lo disorienta con mosse repentine tanto che lui cade a faccia in giù, sbattendo il naso. Mentre ancora si sta lamentando e impreca verso la volpina, i volpacchiotti hanno già azzannato tutti i polli nella sua cesta!


Esasperato, Harašta spara a casaccio un colpo di fucile: una nuvola di piume avvolge i volpacchiotti in fuga, mentre al suolo giace moribonda la volpina. L’orchestra le dedica una scarna e modesta orazione funebre.

Atto III – Quadro  VIII – Un lungo interludio strumentale, caratterizzato da un tempo moderato, ma con un paio di irruzioni in allegro, ci riaccompagna nell’osteria di Pásek, dove regna un’insolita quiete. L’oste è assente ed è la moglie a servire gli avventori. Che sono ancora il guardiacaccia e il maestro: manca il curato, di cui ora abbiamo contezza del trasferimento (si è fatto vivo per lettera dalla nuova parrocchia di Stráni, dove dice di sentirsi solo...) Il guardiacaccia rivela di aver trovato la tana della volpe deserta, quindi è evidente che sia stata uccisa: così ci sarà una lingua essiccata (miracolosa) per il maestro e ci saranno pellicce per farci manicotti per le signore! E infatti la moglie dell’oste rivela che Terynka, di cui il maestro ha annunciato le nozze, ha ricevuto un manicotto nuovo. Dopo aver confortato il povero maestro, invitandolo a prenderla con filosofia, il guardiacaccia se ne va per rincasare e trovare il suo cane, che ormai è invecchiato e malandato al punto da non poter più uscire con lui.

Atto III – Quadro IX – Un ultimo, lungo interludio orchestrale, dal sapore romantico e pastorale, ci riporta nello stesso luogo in cui la fiaba si era aperta. Ha appena smesso di piovere e il guardiacaccia sale la collina ricordando con nostalgia mista a serenità analoghe passeggiate fatte in compagnia dell’amata, ai tempi della gioventù, appena sposati. Si siede, appoggiando l’inseparabile fucile ad un ginocchio, e comincia ad ammirare estasiato la natura circostante: al ritorno della primavera tutte le creature godranno della divina beatitudine della vita (pare l’incantesimo del venerdì santo...!) Si addormenta, mentre compaiono gli abitanti della foresta, proprio come nel primo quadro. Sogna la volpina, e al suo risveglio gli pare di vedere una sua cucciolotta, tal quale la mamma, venirgli incontro. È tentato di acchiapparla, per allevarla come fece con sua madre, ma stavolta con i migliori propositi di evitarle qualunque disagio e... pubblicità sui giornali. Allunga il braccio, chiude il pugno e si ritrova in mano... una gelida ranocchia. Che subito lo avverte: guarda che ti sbagli, io non sono quello che ti immagini: il nonno mi ha raccontato tutto di te!   

Senza che lui se ne accorga nè ci faccia caso, il fucile gli scivola a terra... In tempo maestoso è il motivo della morte della volpina, mirabilmente trasfigurato in modo maggiore (REb) a chiudere la fiaba.

16 gennaio, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°3


Il terzo concerto 2016 vede l’eclettico David Greilsammer (da Gerusalemme) in doppia veste (bacchetta e tastiera) di interprete di un concerto (quasi) tutto beethoveniano. Il quasi è spuntato... quasi per caso, sotto forma della Sinfonia op.21 di Anton Webern, che ha rimpiazzato l’originariamente programmata Ouverture Egmont.

Su quest’opera di Webern (10 minuti scarsi di musica) ormai si è scritto più che sul Tristan, anche se sono testi che trattano più di matematica che di ciò che si intende normalmente per musica (tipo questa analisi del cattedratico Paolo Rotili). Certo, sappiamo benissimo che fra musica e numeri ci sono legami strettissimi: ma sarebbe da dimostrare che partendo da serie di numeri costruite a tavolino (con metodi casuali piuttosto che complessamente strutturati) si ricavi musica che abbia senso compiuto.

E al non-cattedratico, che normalmente si dispone a farsi piacere i suoni che gli vengono propinati, poco importa di serie, rivolti, retrogradazioni e procedimenti fiamminghi assortiti: si accontenterebbe di apprezzare ciò che ascolta, trovandoci qualcosa di interessante, o di accattivante, o di stimolante, o – perchè no! – di afrodisiaco. Il tema principale del terzo movimento della prima sinfonia di Brahms, esposto dai clarinetti, non manca di affascinare, anche se la sua seconda metà è ottenuta truffaldinamente dal compositore ricorrendo ad un arido procedimento fiammingo: l’inversione. Ma nessuno se ne accorge e, tanto meno, se ne lamenta. Salvo che il clarinettista non stecchi una nota... Ora domando: se il clarinettista - a battuta 6 della Sinfonia di Webern – suona un MI bemolle al posto del MI bequadro, dico: chi c. se ne accorge?

E ovviamente è un problema dell’ascoltatore, mica certo del compositore, che ci ha messo tutto il corpo e l’anima per scrivere lì quel MI bequadro invece del MI bemolle! Ma se gli ascoltatori son tutti porci, a che pro servirgli le perle? Certo, Schönberg diceva che era solo questione di tempo, e che i suoi nipotini avrebbero canticchiato canzonette seriali: fatto sta che, ancora dopo un secolo, e nonostante tutti i tentativi di indottrinamento forzato, noi e pure i nostri figli e nipoti non siamo in grado di distinguere se quel MI bemolle del clarinetto sia o no fuori posto.

E a proposito di battute verso l’impiego dei procedimenti fiamminghi nella musica seriale, eccone una che mi ha davvero divertito: il canone cancrizzante dello spettatore che – nel bel mezzo della sinfonia di Webern – abbandona la sala alla chetichella, camminando all’indietro come un gambero!    

Ora, a parte le battute, sono in molti (io mi tengo prudentemente neutrale) ad apprezzare la Sinfonia, che ha l’aspetto di un caleidoscopio sonoro, dove fantastici e continuamente cangianti effetti sono ottenuti proponendo diverse visioni e prospettive di uno stesso oggetto (la serie fondamentale, appunto: FA-LAb-SOL-FA#-SIb-LA-MIb-MI-DO-DO#-RE-SI) di volta in volta manipolato, spacchettato, rigirato e (i timbri!) diversamente illuminato. Certo, una Sinfonia degna di tal nome pretenderebbe di possedere una narrativa vera e propria, che qui manca totalmente (Webern rimase incerto per parecchio tempo persino sulla sequenza dei due tempi, oltre ad aver rinunciato ad un terzo!) E a salvare la forma non bastano certo i due da-capo che il compositore ha infilato nel primo movimento. 

Come al solito le reazioni del pubblico sono assai variegate, andando dall’entusiasmo dei pochi... entusiasti agli scuotimenti di capo dei più. Quanto all’esecuzione, faccio l’atto di fede (conoscendo la bravura dei ragazzi) che tutte le note siano state eseguite precisamente come il buon Webern le mise sul pentagramma!
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Come accadeva con i classici palinsesti dei concerti scaligeri abbadiani anni-’70, fatto il fioretto di ascoltare la musica contemporanea (?!) si passa a cose serie, per le quali esclusivamente lo spettatore medio (diciamola pure tutta!) ha deciso di entrare in Auditorium.

Ecco quindi la piccola di Beethoven: della lettura di Greilsammer mi ha convinto l’agogica, in particolare il tempo con cui ha staccato l’iniziale Allegro vivace e con brio: certo, il metronomo che Beethoven appiccicò a posteriori (quando compose la sinfonia, Mälzel ancora lo doveva brevettare) pare del tutto folle (l’equivalente di 207 semiminime!) e nessuno ci prova mai ad applicarlo, però il simpatico David almeno ha provato ad avvicinarlo. Invece sulle dinamiche avrei qualche riserva: tutto suonato piuttosto sul forte, con scarsa varietà di sfumature. Ma si è trattato comunque di un’esecuzione vibrante ed effervescente, come è appropriato per questa composizione spesso un poco sottovalutata.
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Chiude la serata il più problematico dei concerti per pianoforte: il terzo, in DO minore. Greilsammer, come fa spesso e volentieri, non si vergogna a tenere lo spartito sul leggio (e si porta dietro anche la gira-pagine...) ma ci propina un’interpretazione di gran qualità: tocco sempre leggero e vellutato, nessuna enfasi fuori luogo. Il tutto con una tecnica sopraffina. Memorabile la cadenza dell’Allegro con brio, e da incorniciare tutto il centrale Largo.

Per ripagare il (foltissimo) pubblico di applausi e ovazioni il nostro decide (giustamente, dato il doppio ruolo sostenuto nell’occasione) di offrire un bis insieme all’orchestra. Così ci godiamo il celeberrimo Andante dal K467. Meno male che ci ha risparmiato un pezzo di Cage, altrimenti... povero pianoforte!

08 gennaio, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°2


Tocca a Jader Bignamini di salire su podio dell’Auditorium (ieri non proprio affollatissimo, devo dire) per il secondo appuntamento del 2016, tutto russo e tutto in... balletto. In programma (un programma dove evidentemente si privilegia la qualità rispetto alla quantità – meno di un’ora di musica!) due suite di lavori di Stravinski e Prokofiev che sono arcinote al pubblico quanto conosciute a memoria ed eseguite spesso e volentieri da laVERDI: lo stesso Bignamini le ha già dirette in recenti stagioni.

Porgo un doveroso omaggio alla memoria del grande Pierre Boulez segnalando una sua splendida esecuzione dell’intero balletto dell’Uccello con la CSO. E penso che non sarebbe male se laVERDI, che ha eseguito ultimamente la Suite N°2 diverse volte (2010-Marshall, 2011-Xian, 2012-Bignamini, 2013-Xian e 2014-Bignamini) proponesse – come aveva promesso, ma non mantenuto anni fa (2010) – l’integrale della musica: sono circa 45 minuti contro 25, e in un concerto breve come questo ci potevano anche stare (e lo meriterebbero, soprattutto...)

Questa Suite del 1919 è una delle tre predisposte da Stravinski fra il 1911 e il 1947. Avevo riassunto in una tabella le differenze fra il balletto e le tre suites in occasione di un concerto de laVERDI alla Scala nel 2013, che ricordava nel programma la primissima esibizione dell’Orchestra.

Bignamini, ormai alla sua terza esperienza, tira fuori un Uccello (tera-smile!) portentoso, di cui mi limito a citare il finale, dove il suono del corno sul tremolo degli archi evoca precisamente il lentissimo tornare alla vita, un misto di straniamento e di vista offuscata, dei Cavalieri pietrificati dallo sbifido Kastchei. E poi le ultime tre battute - precedute da una (solo) impercettibile cesura – che suggellano il lieto fine in un abbacinante SI maggiore dell’intera orchestra.
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Romeo & Giulietta è per me una delle cose più grandi della musica del ‘900 (l’ho già scritto e lo riconfermo). Dal balletto Prokofiev ricavò tre Suites e una serie di pezzi pianistici. Una sommaria sintesi dei contenuti di balletto e Suites si può trovare in questo mio commento all’esecuzione diretta dallo stesso Bignamini nel 2012. Avevamo riascoltato qui la seconda Suite poco meno di una anno fa diretta da Tausk.

Bignamini, per questa prima interpretazione tutta sua (nella precedente occasione era dovuto subentrare in fretta e furia a sostituire la neo-mamma Xian) ha predisposto - come fanno praticamente tutti i Direttori, che ci si divertono come con il lego – una serie di 9 numeri, presi dalla prima (5) e seconda (4) suite, ordinandoli secondo una sequenza mutuata dalla N°2 all’inizio e dalla N°1 alla fine: ma, come ho già avuto occasione di scrivere, è musica così grande che la si può rimescolare a proprio piacimento, certi che il risultato sarà strepitoso.

E strepitoso è stato anche l’esito di ieri, grazie alla lettura di Bignamini, che ha saputo cavar fuori le sonorità più convincenti, sia nei brani a carattere intimistico (Giulietta, Lorenzo, il balcone) che in quelli dove l’orchestra si deve scatenare (Capuleti, Tebaldo). Ma darei la lode (oltre al 30) al funerale di Giulietta, dove Maestro e strumentisti hanno fatto un autentico capolavoro.   

Strameritati quindi gli applausi e le ovazioni con cui il pubblico ha accolto questa ennesima prestazione ad alto livello dei suoi beniamini (e... Bignamini!)

03 gennaio, 2016

Edward W. Guo: chi è costui?


Toh, un altro cinese immigrato in Canada che – praticamente da solo e dal nulla, e quando era poco più che un ragazzo (è del 1987) diplomato al conservatorio e studente di Legge ad Harvard - ha messo in piedi un colosso che oggi è, nel mondo della musica, ciò che Project Gutenberg è in quello della letteratura.

Si tratta di IMSLP (la P sta per Petrucci, il primo editore di musica, nel 1501 a Venezia) una biblioteca (e non solo) che oggi rende disponibili gratuitamente in web centinaia di migliaia di partiture (spartiti, parti d’orchestra), incisioni e video di più di 13.000 autori. Dal 2006 (anno in cui Guo aprì il sito) il database di IMSLP è stato continuamente alimentato da contributi di centinaia di volontari, che hanno indefessamente scansionato volumi di composizioni musicali per uploadarli caricarli sul sito e renderli così disponibili gratuitamente a chiunque nell’intero pianeta.

L’avventura ebbe le sue belle rogne, quando (2007) la più grande impresa di pubblicazioni musicali chiese ed ottenne da Guo di staccare la spina, per supposte violazioni di copyright. Ma a parte il copyright, si tratta in realtà della violazione del business di quelle società, che sopravvivono (e/o prosperano) con gli introiti della vendita delle loro pubblicazioni, vendita evidentemente compromessa da iniziative come questa. Il problema non è nuovo e già parecchi anni fa ci furono cause in tribunale contro la cosiddetta pirateria di Internet; ancora oggi, ad esempio, Youtube deve continuamente intervenire su reclami di case discografiche, reti televisive, teatri e operatori dello spettacolo, per oscurare filmati la cui disponibilità online rischierebbe di mandare in fumo ingenti investimenti. Il problema è tuttora oggetto di dibattiti e ha fatto nascere, al solito, scuole di pensiero.

Ma torniamo al nostro cinesino. Riaperto il sito nel 2008 con il supporto e l’appoggio di svariate personalità della cultura e con modesti impegni a vigilare sulle pubblicazioni messe in rete (oggi si può dire che si fa prima a censire, parlando dei classici, ciò che non è disponibile!) l’avventura di Guo ha ovviamente cominciato a soffrire della cosiddetta crisi di crescitaalla quale ha contribuito l’incorporazione dei dati di WIMA (Werner Icking Music Archive) e l’integrazione degli archivi con quelli di altre consorelle (per quanto non affiliate) quali la Petrucci Europe. Un giocattolo tipo-lego che è diventato… l’Empire State Building! Come e con quali/quante risorse lo può continuare a gestire una singola persona? Come si può osservare su ogni pagina del sito, nella colonna a sinistra è presente il classico pulsante Donate, che fa accedere al sistema PayPal dove chiunque può fare libere offerte attraverso carta di credito. E questo era originariamente il solo strumento di finanziamento impiegato da Guo per ripagarsi della fatica e dei costi di mantenere il suo sito in perfetta efficienza. Successivamente Guo ha stretto un accordo con Amazon: che devolve a IMSLP una percentuale dei ricavi di vendite effettuate tramite un’apposita sezione del sito. Analoga partnership esiste con Sheet Music Plus e altre realtà.

Ma quali erano e sono i costi di gestione e gli introiti da donazioni e altro non è mai stato dato di sapere. Nel 2011 Guo ha costituito una società (la Project Petrucci LLC) con l’unico obiettivo di occuparsi della gestione del sito (sollevando lui personalmente da responsabilità civili… mica per niente ha studiato Legge!) Il quale sito ha l’estensione .ORG, che ne caratterizza le finalità non di lucro. Tuttavia la Project Petrucci (LLC sta per Limited Liability Company, per noi sarebbe una srl) è formalmente una società e non una charity o una fondazione culturale (come ad esempio Wikimedia Foundation, che gestisce i diversi siti Wiki) società che però non è tenuta a stringenti adempimenti, primo fra i quali la pubblicazione di bilanci o rendiconti economici (viceversa una Fondazione deve rispettare mille regole assai complesse e stringenti, proprio per dimostrare di essere una non-profit organization). La società di Guo è supportata e legalmente rappresentata dalla Agents and Corporations, Inc. con sede a Wilmington, nel Delaware (il Delaware è lo Stato che ha più di altri legiferato proprio in relazione alle società tipo LLC). In sostanza, IMSLP è in mano ad una piccola società commerciale, di cui è unico proprietario Guo. Il che non interessava a nessuno fino a quando il sito veniva gestito come un ambiente aperto a collaborazioni e i suoi contenuti erano messi gratuitamente a disposizione di chiunque.

Ma, proprio fra Natale 2015 e Capodanno 2016, Guo, apparentemente senza nemmeno interpellare, via forum, la comunità di IMSLP, ha deciso di introdurre una forma di abbonamento al sito (22,80$ all’anno, equivalenti a 1,90$ al mese). Va premesso che l’abbonamento è opzionale e che i contenuti del sito restano gratuitamente a disposizione di chiunque; ma i non-abbonati avranno alcuni, più o meno limitati, svantaggi: non potranno accedere ai contenuti più recenti e potranno sperimentare tempi di attesa prima che loro richieste di download vengano onorate, o sorbirsi qualche messaggio pubblicitario.

L’annuncio è stato dato domenica 27/12/2015 sul forum di IMSLP da Guo, che ha giustificato la decisione con la necessità di garantire un futuro di sicurezza economica alla sua iniziativa, dato che il meccanismo delle donazioni e delle partnership non avrebbe garantito e non garantirebbe introiti sufficienti e soprattutto stabili. L’annuncio ha però subito scatenato vivacissime reazioni, per lo più negative e soprattutto da parte dei maggiori contributori di contenuti, i quali (benchè garantiti di un abbonamento decennale) si sentono quasi vittime di un raggiro: aver lavorato per anni a-gratis per un fine nobilissimo, e scoprire ora che il loro lavoro potrebbe essere utilizzato da qualcuno per… fare business!

Per la verità sono anche comparsi interventi meno aspri, o addirittura di appoggio all’improvvisa decisione di Guo: nei quali si minimizzano le conseguenze delle restrizioni per i non-abbonati e si conferma l’apprezzamento per l’attività del sito.

Da parte di tutti però si sottolinea la necessità che la Petrucci Library LLC d’ora in avanti pubblichi dati (almeno sommari) sul suo conto economico, sull’ammontare delle donazioni e degli abbonamenti e sulla destinazione degli introiti.
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Chiudo con la mia personale esperienza (per quel che può contare, ma 7 anni in questo caso sono… un’eternità). Ecco, fin dal 2009 ho (annualmente, ed anche pochi giorni prima della decisione di Guo!) fatto una donazione a IMSLP, in base a considerazioni non solo di tipo etico, ma anche squisitamente economico: immaginando di accedere a 100 nuove partiture all’anno (questo è più o meno il mio tasso di utilizzo del sito) è facile ipotizzare quale è il risparmio rispetto ad acquistare sul mercato quelle partiture: si tratterebbe di cifre ampiamente superiori ai 1000€/anno. Bene, una porzione non infima di tale cifra è quella che è stata oggetto delle mie donazioni. Ecco, se oggi io decidessi di sostituire la donazione con l’abbonamento, mr. Guo avrebbe moltissimo da rimetterci.