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01 febbraio, 2013

Orchestraverdi – concerto n.20


Riecco in Auditorium Aldo Ceccato, per riprendere dopo un po’ di tempo (e di acciacchi…) il ciclo dedicato all’intera produzione orchestrale di Antonin DvořàkLe quattro opere presentate in questa occasione (in un Auditorium tornato al suo affollamento… medio) si collocano in un decennio (1873-1883) più o meno baricentrico rispetto alla produzione del compositore boemo, le cui prime opere risalgono al 1856 e le ultime al 1893.

Nella prima parte del concerto ascoltiamo una Ouverture e due brani per violino e orchestra, interpretati dal Konzertmeister di casa, Luca SantanielloCeccato (per tutto il concerto) sposta i quattro corni alla sua destra, sotto i tromboni, facendo traslare a sinistra il pacchetto degli strumentini: scelta evidentemente meditata, e del resto una costante di Ceccato in questo repertorio.

L’Ouverture Husitskà è una composizione del 1883 di carattere commemorativo (l’epopea, risalente al Rinascimento, delle lotte civili e religiose degli adepti di Jan Hus) e come tale ha un tasso elevato di retorica ed enfasi, inversamente proporzionale a quello dell’ispirazione (non vorrei sembrare offensivo, paragonandola alla quasi coeva ciajkovskiana Ouverture 1812 - smile!) Dvořàk, ormai compositore maturo e famoso, la costruisce peraltro con perizia e mestiere, giustapponendo nelle tre sezioni i due temi: quello del Cristianesimo povero ma buono (di Venceslao, per intenderci) e quello degli Hussiti, riformatori-ribelli alla Chiesa romana del cristianesimo degenerato (cattivo e secolarizzato) che poi vengono a fondersi nel finale ottimistico.

Su questo tema patriottico, più profondo era stato l’approccio – pochi anni prima – di Smetana, che aveva costruito sul corale hussita l’intero quinto poema sinfonico (Tábor) e uno scorcio del sesto (Blaník) del ciclo Vlast:

L’interpretazione di Ceccato francamente mi è parsa di basso profilo, forse proprio per ridurre al minimo l’enfasi… però resta il fatto che quella è la partitura e non mi pare la si renda migliore attenuandone i contrasti. Un esempio per tutti, la cadenza finale, veramente moscia moscia.
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Luca Santaniello (stasera rimpiazzato sulla sedia di spalla da Dellingshausen) si pone ora al centro dell’attenzione con i due brani successivi. Il primo dei quali è la Romanza per violino e orchestra in Fa minore. Opera composta nel 1873 per accompagnamento di pianoforte e pochi anni dopo ripresa per l’accompagnamento orchestrale. Opera piena di freschezza ed anche di una certa leziosità. Curioso che vi si trovi una cadenza del solista che ricomparirà molti anni più tardi nel finale del Concerto di Sibelius:


Segue a ruota la Mazurek in Mi minore per violino e orchestra. Pezzo brillante, à la Sarasate, di uno Dvořàk ormai avviato alla notorietà (1879).

Impeccabile la prestazione di Santaniello, che ci regala un bis bachiano, facendosi accompagnare in pizzicato dai colleghi della sezione archi.
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Nel percorso a ritroso nel tempo lungo la strada delle sinfonie, siamo arrivati alla Quinta, secondo la moderna numerazione, stilata nel secolo scorso sulla base della cronologia delle composizioni di Dvořàk.

Simrock in realtà la pubblicò nel 1888 come Terza (dopo la 6 op. 60 e la 7 op.70) e con un numero d’opera (76) assai alto, per farla passare come fosse una primizia, mentre l’opera giaceva nei cassetti di Dvořàk da più di 13 anni ed era già stata anche eseguita a Praga quasi 10 anni prima! 

La poca chiarezza sulla numerazione delle sinfonie del boemo fu anche colpa dell’autore medesimo, che trattava così maldestramente le sue composizioni da perderle per strada (come accadde alla prima sinfonia, il cui manoscritto, inviato ad un concorso, non gli fu mai restituito) o da vederle confiscate dal rilegatore (la seconda) che Dvořàk non aveva i soldi per pagare (!) Così per anni e anni circolarono solo alcune delle nove sinfonie, nell’ordine la 6-7-5-8-9 che erano numerate da 1 a 5. Si sospetta che Dvořàk giocasse anche un po’ con la cabala, inventando trucchi pur di non arrivare al fatidico nove  
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La Quinta è catalogata fra le sinfonie pastorali, non solo perché in FA maggiore come quella di Beethoven, ma anche perché intrisa di spunti e melodie popolari e di richiami alla natura. Ma è anche una costruzione ardita e complessa, che pur nel rispetto dei canoni classici, presenta interessanti innovazioni.

Già l’iniziale Allegro ma non troppo è un classico tempo in forma-sonata, ma vi si possono scorgere diversi strappi alle regole, che denotano volontà innovatrice, ma insieme anche un certo velleitarismo. L’incipit del primo tema, di piglio effettivamente pastorale, esposto inizialmente dai clarinetti (con le seste e terze tipicamente boeme) sembrerebbe una reminiscenza da un inciso delle trombe nel Finale della Renana, di quello Schumann per il quale Dvořàk nutriva una grande ammirazione:











Il tema sfocia in una salita da tonica a mediante - contrappuntata da ondeggianti semicrome dei violini - che ricomparirà ciclicamente proprio verso la fine dell’intera Sinfonia (dove anche l’incipit del tema vi farà capolino!)

Poi, prima di presentarci il secondo tema, ecco che l’Autore si lascia, come dire, prendere la mano dalla smania di strafare: reiterando più volte negli archi l’incipit del tema, introduce un gran crescendo che sfocia in tre battute occupate da pesanti terzine di tutta l’orchestra dopo le quali si presenta, sempre nel FA maggiore di impianto, una seconda idea (grandioso) ancor più maschile della prima:
Ma non basta, perché a questa segue una transizione piuttosto corposa e articolata, che avvicina progressivamente – dopo il riapparire della seconda idea - l’entrata del secondo tema, assai contemplativo (e fin qui siamo nel pieno rispetto dei sacri canoni) che però è in RE maggiore, invece che sulla dominante (DO):
È un motivo che sembra quasi anticipare il Franck del finale della Sinfonia in RE minore (composta proprio mentre Simrock pubblicava questa di Dvořàk). Viene ripetuto, com’è consuetudine, un’ottava sopra, ma poi i corni lo ripetono ancora, stavolta in FA (? cosa canonicamente da ricapitolazione!)

E qui abbiamo un’altra strana novità: come detto, la tonalità si è spostata verso il FA, e sulle terzine per terze dei flauti e poi dei clarinetti ci fa presagire il termine dell’esposizione e la sua ripetizione col da-capo. Invece Dvořàk ci infila piuttosto gratuitamente un’altra lunga transizione che presenta in particolare il secondo tema, dapprima ancora in FA e poi tornando in RE, due presenze intervallate da pesanti accordi di tutta l’orchestra, quasi che si fosse già nello sviluppo; mentre per arrivarvi manca ancora la coda dell’esposizione e tutto il ritornello della stessa (!)

Lo sviluppo si basa principalmente su elaborazioni del tema principale, esposto in SOL maggiore (anche questa una scelta piuttosto bizzarra) e con successive virate a MI e a DO. Il secondo tema rientra in MIb e viene improvvisamente (e ancora una volta, abbastanza inverosimilmente) soppiantato dall’entrata in grandioso della seconda idea, sempre in MIb. Una modulazione ci riporta al FA, dove i corni preparano, esponendo il tema principale su un tappeto di terzine degli strumentini, il ritorno dei clarinetti che danno inizio alla ricapitolazione.

La quale è invece assai lineare, presentando il tema principale (anche qui seguito, in grandioso, dalla seconda idea) e poi il secondo tema che si allinea rispettosamente al FA maggiore di impianto. Una sua cadenza appoggiata sulla tonica porta direttamente alla Coda, interamente occupata dal primo tema, che passa da flauti a clarinetti e poi, morendo, risale da clarinetti a flauti e infine si assesta sui corni, che chiudono il movimento in un’atmosfera di quiete davvero pastorale

L’Andante con moto che segue è un movimento monotematico, in LA minore (3/8), che viene normalmente catalogato come una Dumka, genere di origine popolare ukraina, dal sapore tipicamente elegiaco e meditabondo; l’agogica infatti lo vuole espressivo e dolente:
Il movimento si suddivide in tre sezioni: le due estreme occupate dal tema principale; quella centrale da sue varianti e modulazioni.

Le prime 4 note sono le stesse che troviamo nell’apertura del Concerto in SIb minore di Ciajkovski, così come nel secondo tema della sua Polacca, composti quasi contemporaneamente alla Sinfonia di Dvořàk. Ne avevamo visto l’origine (più plausibile in Ciajkovski, forse meno in Dvořàk) dalla Reformation di Mendelssohn.

Nella prima sezione il tema è esposto per tre volte: inizialmente dai violoncelli, in forma ristretta; poi dai violini, che ne prolungano la durata; infine, in forma variata, dal flauto, che poi si alterna con gli archi per svilupparlo ancor più, sfiorando diverse tonalità, prima di chiudere sul LA minore.

La sezione centrale (Un pochettino più mosso) è in chiave di LA maggiore. Il motivo pare derivato per sottrazione dal tema principale (mancandovi la terza nota, la sopratonica): scende quindi da dominante a mediante a tonica, in tempo più dilatato. Poi si riavvicina alla struttura originaria, con le crome ascendenti che accelerando ci portano al DO maggiore. Qui il tempo torna tranquillo e il motivo della sezione centrale si sposta dal DO al FA maggiore, dove un poco a poco crescendo e stringendo avvia una pesante perorazione chiusa da tre battute di crome puntate in fortissimo che cadenzano sul MI, dominante del LA di impianto. Una lunga transizione caratterizzata dall’insistito pedale di MI degli archi bassi - su cui svolazzano le biscrome degli archi e sul quale compaiono come spettri gli incisi giambici degli strumentini – ci porta verso la sezione conclusiva del movimento.

Torna quindi il tema in LA minore, in flauti e oboi; poi nei violoncelli, ancora nei flauti e violini. Adesso l’atmosfera si surriscalda, violini secondi e viole, poi i fiati martellano biscrome insistenti sul povero tema, fino a sfociare in un’autentica tregenda, scandita da quattro battute di pesantissimi rintocchi (LA e MI) del timpano, al placarsi dei quali il tema ricompare nei flauti, dando inizio ad una cadenza – in cui riappare anche un simulacro del motivo centrale -  dove i suoni si disgregano, fino alla conclusiva esposizione del tema (flauti, oboi e violini) chiusa da un deciso accordo di LA minore, seguito da due crome puntate e dalla corona finale, nei fiati.   

È questo movimento una parentesi elegiaca e nobile, ma l’assenza di veri contrasti la rende anche piuttosto… stancante (non dico proprio noiosa).

Senza alcuna soluzione di continuità si passa ad nuovo Andante con moto, quasi l’istesso Tempo: si tratta di 16 battute introduttive, dove i fiati riprendono il LA, ma lo armonizzano come sensibile di SIb, sul quale i violoncelli, imitando la melodia del movimento precedente, preparano un’atmosfera sulla dominante, dalla quale tutti gli archi (contrabbassi esclusi) si distaccano percorrendo una salita cromatica, dal FA al LA e quindi al SIb, dove inizia il classico Scherzo con Trio.

Il quale è appunto in Allegro scherzando, sempre 3/8, in SIb maggiore. Il tema dello Scherzo è di una chiarezza e semplicità mirabili e fa quasi pensare a certo… Bruckner:
Vi si possono distinguere tre sezioni: la prima battuta, che stabilisce per così dire la mascolinità del tema; la seconda e terza battuta, caratterizzate da crome su intervalli di quarta e quinta; la quarta battuta, fatta prevalentemente di semicrome. Queste sezioni verranno impiegate anche separatamente nel seguito.

Il tema viene esposto una prima volta dagli strumentini, poi subito ripreso dagli archi; segue una risposta sulla sottodominante, nei fiati, pure ripresa dagli archi. Una transizione che manipola la seconda e terza sezione del tema ci riporta con ondeggianti semicrome dei violini al SIb, dove il tema principale viene sottoposto ad una sorta di sviluppo: dapprima riesposto da flauti e clarinetti, stavolta contrappuntato a canone stretto dai primi violini e quasi troncato sul nascere; poi, dopo una battuta vuota, viene appunto vivisezionato nelle sue tre parti e i frammenti sono sparsi tra strumentini (crome) e archi (semicrome). Questo sviluppo – prevalentemente in MI minore - culmina con un crescendo costellato da pesanti crome delle tombe sul secondo tempo della battuta, chiuso da un poderoso accordo di FA che introduce una nuova transizione, tutta in semicrome che percorrono onde discendenti e infine effettuano una risalita imperiosa al SIb, dove il tema viene esposto con la massima enfasi dall’intera orchestra.

Come all’inizio, c’è la ripetizione (piano) del soggetto e poi la risposta sulla sottodominante (forte – piano) dopodiché si avvia una cadenza che porta, su semicrome di clarinetti e poi di oboi e violini, all’ultima comparsa del tema nelle viole, contrappuntato da clarinetti e flauti, prima dei due secchi accordi di sensibile-tonica che chiudono lo Scherzo.

Qui undici misure di transizione, in cui primi violini e viole variano il tema dello scherzo, ci conducono in terreno di REb maggiore, dove si svolge il Trio. Scopertissimo nel ritmo il richiamo al Trio della Grande (Schubert era proprio venerato da Dvořàk):


Questo Trio si struttura con due sezioni (ripetute) e una coda: la prima sezione è piuttosto concisa (nell’incipit par quasi di vedere… Elsa!) mentre la seconda si sviluppa in maggiore ampiezza, compreso un enfatico passaggio centrale. Il ritmo schubertiano si alterna o mischia con l’esposizione – per terze soprattutto negli strumentini – di melodie di chiara derivazione popolare boema. La coda è assai corposa (48 battute) e include anche un nuovo motivo esposto dai flauti prima e dai violini poi, prima del ritorno verso il SIb per la ripresa dello Scherzo.  

Per me, questo movimento è un autentico gioiellino, il vero pezzo forte dell’opera, che si meriterebbe davvero di stare in tutt’altra compagnia!

Si chiude con il Finale, Allegro molto, 4/4, una specie piuttosto eterodossa di forma-sonata. La tonalità riprenderà il FA maggiore d’impianto dell’intera sinfonia, ma solo più avanti. Per ora abbiamo quella che si potrebbe chiamare una (lunga) Introduzione, dove viene presentato, come in anteprima, il tema principale, che si assesta – anche questa è un’idea che sta fra l’innovativo e il bizzarro – sul LA minore (cosa che peraltro ricorda l’ambientazione del secondo tempo). Ma vedremo che il tema principale toccherà anche altre tonalità, oltre a quella… giusta. Inizialmente è esposto dagli archi bassi:


Un tema assai ben scolpito, che vagamente - nell’atto di raggiungere la tonica passando per la mediante superiore e la sottostante sensibile – ci ricorda Bruch e il suo Concerto per violino, composto quasi 10 anni prima.

Dopo la presentazione in LA minore, lo riprendono gli strumentini in… SOL minore (!) poi gli archi lo scimmiottano sul FA (!) finchè sono violini e oboi a riesporlo, in fortissimo, sul LA, seguiti subito da viole e violoncelli. Ma poi si sbanda ancora di tonalità, passando per RE minore e quindi tornando al SOL minore, sul quale si avvia una transizione caratterizzata dal SOL acuto e poi sovracuto tenuto dai flauti, dopodiché una progressione negli archi ci porta, indovinate… al FA! 

Possiamo qui individuare l’inizio della canonica esposizione dei due temi. Il primo finalmente in FA maggiore, sembra uscire dai… binari, espandendosi a dismisura, sui colpi sincopati dei corni. Si rimane comunque per un po’ sul FA maggiore, dove il tema si sviluppa con una figurazione di cui si ricorderà nientemeno che Strauss nell’avvio del suo Rosenkavalier:


Per il secondo tema cambia ovviamente la tonalità: SOL bemolle. È una melodia che contrasta con quella nervosa del primo tema, e si muove per gradi contigui discendenti.

Ora abbiamo una transizione, dove uno scoppio dei corni sul FA ci riporta verso l’atmosfera irrequieta del primo tema, che dà inizio ad una specie di sviluppo, in tonalità di DO minore. Segue una parentesi idilliaca in LAb, prima di ritornare al protervo tema principale, ora in RE minore, nei violini, seguito da una nervosa sequenza di accordi che sfociano in un MI dei corni, dominante del LA sul quale l’oboe ripropone il tema principale in LA minore, ripreso dal clarinetto basso che chiude lo sviluppo.

I primi violini iniziano la ricapitolazione ancora in LA minore, proprio come nell’introduzione, seguiti dagli strumentini in MI minore, fino all’arrivo del tema principale in FA maggiore, che si sviluppa come nell’esposizione e poi fa spazio al secondo tema. Il quale non può non accettare, a questo punto, di accodarsi alla tonalità principale (FA) e lo fa trascinando poi una lunga cadenza che scende dalla mediante LA alla dominante DO (chiara reminiscenza del mendelssohn-iano Sogno) ripetuta da diversi strumenti, a canone largo, e che conduce alla coda.   

Qui ricompare negli strumentini il motivo ascendente (da tonica a sopratonica e mediante) che viene dalla coda del primo tema della Sinfonia. Esso porta una breve pausa di calma, presto rotta da un crescendo orchestrale che ha il culmine in due accordi che ricordano il climax della Leonore-3 e introduce la travolgente chiusa, dove frammenti del tema principale la fanno da padroni. 

Su un accordo pieno di FA maggiore, a partire da 13 battute prima della conclusione, e anticipando il consueto fracasso degli schianti finali, i tromboni ci fanno riascoltare, per due volte, anche l’incipit del primo tema dell’Allegro ma non troppo, che mette quindi il suo sigillo sull’intera Sinfonia.
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In conclusione, una sinfonia che presenta una narrativa piuttosto articolata, magari anche un tantino contorta e discutibile, ma tutto sommato abbastanza… digeribile, se è vero che anche un tipo non proprio di bocca buona – perlomeno a giudicare dall’accoglienza riservata alla Totenfeier di Mahler! - come Hans von Bülow, dedicatario dell’opera, se ne dichiarò entusiasta. 

Come l’ho sentita ieri? Mah, il buon Ceccato neanche qui mi ha propriamente entusiasmato: passi per l’omissione del ritornello dell’esposizione (forse ha voluto togliere le castagne dal fuoco all’Autore, smile!) ma imperdonabile giudico il taglio del da-capo del Trio, che ha pesantemente compromesso l’equilibrio del terzo movimento. Per il resto un’esecuzione lodevole dal punto di vista tecnico (perdonabile un’incertezza delle trombette sugli accordi finali) da parte dei ragazzi, ma il complesso non è stato a mio modesto avviso del tutto convincente.

Finalmente rivedremo il Direttore principale John Axelrod in un programma di… quarte.

25 gennaio, 2013

Orchestraverdi – concerto n.19


Ennesimo cambiamento di podio in questa strana stagione de laVerdi: il tulipano Otto Tausk (sul cui sito personale ancora figura l’appuntamento, anche se in compagnia di Shai Wosner, da qualche tempo rimpiazzato in locandina da Prosseda) viene sostituito dal casalingo Jader Bignaminia comporre quindi una coppia autarchica (ma non per questo meno apprezzabile).

Il programma è di quelli piuttosto corposi, anche se piuttosto, diciamo così… sbilanciati, con un concerto lungo più di una sinfonia (come tale era stato originariamente concepito) e una sinfonia corta come un… concerto

In un Auditorium ancora affollatissimo (buon segno…) il non ancora quarantenne Roberto Prosseda, che è un'autorità in Mendelssohn, qui ci presenta invece l’imponente Primo Concerto di Brahms

Il suo (e di Bignamini, che tiene l’orchestra su un basso profilo) è un Brahms tutto in punta di piedi (quasi… Mendelssohn, smile!) leggero e forse fin troppo contenuto, ma assolutamente pregevole. Così il successo non manca e allora Prosseda ci regala un bis col suo – indovina? - Mendelssohn.

Il quale arriva dopo l’intervallo con la Reformations-Symphonie, numerata come quinta (e ultima) della sua produzione, ma in realtà composta come seconda, in occasione della ricorrenza (1830) dei 300 anni dalla presentazione della Confessio Augustana (il documento recante la vision luterana riguardo i principii della Fede, presentato a Carlo V da sette nobili reggitori di Länder e da due Senati cittadini). 

La Sinfonia, composta da un Mendelssohn nemmeno ventenne e piuttosto retorico e pretenzioso, non trovò posto nelle cerimonie celebrative del 25 giugno, anche perché pare che l’origine ebrea dell’autore vi avesse gettato, agli occhi di molti, una luce ambigua…

Ma lo stesso Mendelssohn fu il primo a quasi ripudiarla, dopo alcune rare esecuzioni, come un maldestro e per nulla riuscito tentativo giovanile; anche l’amata sorellina pare ne fosse assai poco entusiasta; così l’opera fu per lungo tempo praticamente dimenticata. E in effetti ancor oggi non è che sia poi troppo di casa nelle sale da concerto, dove di norma si eseguono la Scozzese e l’Italiana e, caso mai, la più impegnativa Lobgesang.

A me pare che i principali difetti di quest’opera siano innanzitutto i suoi smaccati riferimenti extra-musicali, che la avvicinano ad uno spurio poema sinfonico a sfondo confessionale, e dall’altra la miriade di spunti, citazioni e scopiazzamenti di cui è infarcita. Insomma: qualcosa che si avvicina pericolosamente al classico vorrei, non posso… Si salvano i due movimenti centrali, che se non altro mostrano una certa vivezza di invenzione e sono scevri dalle pesanti incrostazioni che caratterizzano i due estremi.   
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La sinfonia è nei tradizionali 4 movimenti e rispetta (con alti e bassi) i canoni classici, sia nella disposizione dei tempi (lo Scherzo avanti all’Andante era ormai, dopo la nona, quasi una regola) che nella struttura degli stessi. La concatenazione tonale dei movimenti è abbastanza scolastica: passaggi di terza per i primi tre (RE maggiore-minore – SIb maggiore – SOL minore) e trasporto minore-maggiore per la prima parte del quarto, seguita poi da un ritorno al RE maggiore di impianto generale. L’opera presenta inoltre diversi caratteri di ciclicità (anche questa un’invenzione dell’ultimo Beethoven).

Il primo movimento si apre con una Introduzione (à la Haydn) in Andante di 41 misure, in RE maggiore-minore, con una modulazione anche a DO maggiore. Sono le viole, per prime, seguite dai violoncelli, ad intonare Il gregoriano Magnificat tertii toni, con cui molti anni addietro Mozart aveva caratterizzato il finale in DO della sua Jupiter e che molti anni più tardi anche Richard Strauss citerà, sullo stesso RE, nel suo Zarathustra (all’espisodio von der großen Sehnsucht):
Enfatiche fanfare, che anticipano il primo tema, insistono prevalentemente sui gradi di dominante, tonica e sopratonica di RE, finchè a battuta 33 e per 4 battute (e ripetendolo a battuta 38, dopo l’ultima fanfara) i violini, muovendosi per quinte parallele (primi e secondi) intonano il Dresden Amen. Una serie di accordi di ambigua interpretazione: se li riferiamo alla tonica RE (qui tonalità d’impianto) sono ottenuti con salita da dominante a sopratonica nella prima voce e da tonica a dominante (ma con quarta aumentata) nella seconda; se li riferiamo alla tonica LA, contemplano una salita da tonica a dominante (prima voce) e da sottodominante a tonica (seconda):

  
Mezzo secolo dopo, Wagner (anteponendogli l’incipit dell’Agape) lo renderà ancor più famoso nel Parsifal come motivo del Gral (ma anche Bruckner e Mahler lo infileranno in loro sinfonie).

A questo punto inizia l’Allegro con fuoco, rigorosamente in forma-sonata. E nell’Esposizione troviamo subito una chiara… reminiscenza? o proprio un plagio in piena regola? La vittima dello scippo è l’imparruccato Josephus Haydn, di cui il nostro giovin di belle speranze si appropria del motivo dell’introduzione di una delle ultime (se non proprio l’ultima) sinfonia, la 104. Per di più, nella stessa tonalità di RE minore:

Che anni dopo anche Schumann imiti Mendelssohn in questo… omaggio a Haydn (attacco della seconda sinfonia, in DO) sta solo a dimostrare come gli eredi del vecchio maestro fossero altrettanto… disinvolti che creativi!  

Il primo tema sviluppa furiosamente questo motto haydn-iano con una modulazione alla relativa FA maggiore, poi torna a casa per sfociare, dopo un fugace passaggio da FA e DO (sempre sul motto iniziale) in tonalità di LA, dove entra il secondo soggetto, che si caratterizza subito con tre poderosi accordi di LA minore e che vira momentaneamente – su una risposta delicata negli archi - anche a LA maggiore, per poi riprendere il minore, in un’atmosfera ossianica che ricorda i turbini di vento delle Ebridi o della Scozzese (rispettivamente composta e abbozzata quasi contemporaneamente alla Reformation) prima di chiudere l’Esposizione, che non prevede alcun ritornello, ma introduce direttamente lo Sviluppo.

Sviluppo ancora incentrato sul motto iniziale - presentato con accordi sempre più cupi e contrappuntato da veloci quartine di crome negli archi - e da una fugace apparizione del secondo tema che sfocia in un’autentica serie di ondate sonore in flauti e archi (anche qui paiono le folate della Terza) prima di chiudere con il ritorno ad accordi di dominante di RE. E sui quattro LA in unisono di tutta l’orchestra ecco prepararsi il teatrale ritorno (singolo, stavolta) del Dresden Amen, che a sua volta introduce la Ricapitolazione.

La quale è abbastanza breve, aprendosi con il primo tema, esposto però quasi in forma… depotenziata, insomma alleggerito (vedi le note puntate o pizzicate degli archi) e privato dello sviluppo che aveva avuto nell’Esposizione. Ecco poi subito il secondo tema, canonicamente trasposto in RE, che ci guida (comprese le sue triplette di accordi) fino al ritorno del motto iniziale nei fiati, cui gli archi fanno da scorta fino alla maestosa, enfatica e pesante reiterazione del motto che chiude su un RE in unisono di tutti gli strumenti, appena arricchito dal LA dei soli violini secondi. Poco prima i fiati avevano smaccatamente esposto una salita sulla triade di RE minore, dalla tonica alla dominante un’ottava sopra, che in un certo senso anticipa quella (ancor più estesa) in RE maggiore del Finale.

L’Allegro vivace (3/4 in SIb) è di fatto uno Scherzo con Trio. La prima sezione del motivo principale ricorda nell’incipit trocaico la seconda parte (battute 2 e 3) del motto di Haydn del primo movimento, e già con ciò insinua un vago elemento di ciclicità nell’opera:

Il tema principale si compone di due sezioni: alla prima, nei soli fiati e ripetuta, caratterizzata da una melodia per terze che scende e poi – modulando alla dominante FA - specularmente risale, ne segue una seconda (pure ripetuta) assai più ampia. Essa è costituita da un controsoggetto ancora nei fiati, cui subentrano gli archi con una progressione ascendente che porta alla riesposizione della prima sezione e poi ancora della prima metà di essa, la cui discesa si prolunga negli archi e quindi a canone anche nei fiati; quattro battute di cadenza in clarinetti e fagotti, con salita dalla dominante e ripiegamento sulla tonica chiudono lo Scherzo.

Il RE, mediante del SIb di impianto, diviene ora dominante del SOL maggiore su cui si dispiega il Trio, pure suddiviso in due sezioni: la prima (ripetuta) presenta una lunga e cullante melodia, ancora per terze, esposta dagli oboi con i flauti a trillare in una specie di idillio:


La melodia chiude sulla dominante RE. Dopo la ripetizione ecco una specie di sviluppo del Trio, con modulazione ancora a LA maggiore, da qui a minore e ancora a DO maggiore, da cui si torna al SOL per la conclusione del Trio, affidata ad una cadenza tonica-dominante negli archi. Essa porta, nei fiati, ad un brusco e abbastanza cacofonico ritorno al SIb dello Scherzo, le cui sezioni ora non vengono ripetute (come da sacre regole). Si arriva così alle quattro battute di cadenza di clarinetti e fagotti che però ora (a differenza dell’esposizione) vengono riprese dagli archi e poi anche dai fiati, che ampliano a dismisura tale cadenza, portando gradatamente ad una rarefazione del suono (crome intervallate da pause) fino al suo definitivo spegnersi in pianissimo, col pizzicato degli archi e il tappeto dei clarinetti che scendono, sempre per terze, da mediante-dominante a tonica-mediante.

Il brevissimo Andante che segue (54 sole battute in 2/4, SOL minore) è una vera e propria canzone, esposta praticamente dai soli primi violini, accompagnati dagli altri archi e da tre soli interventi dei fiati, rispettivamente di tre, cinque e sei battute. Come si vede, alla quinta battuta del tema rifà anche qui la sua comparsa il motto udito fin dal primo movimento.


Il tema si sviluppa toccando la relativa SIb maggiore, con il primo intervento di flauti e fagotti. Ancora gli archi con una divagazione che vira al MIb, per poi tornare al SOL minore. Qui i violini primi riespongono il tema e vengono contrappuntati a canone largo da flauti e fagotti (che entrano per la seconda volta).

Si noti al proposito la straordinaria rassomiglianza con un analogo passo - secondo tema, in SI minore, del movimento iniziale - della Terza Sinfonia di Ciajkovski:
Pura combinazione? Sappiamo che Ciajkovski scrisse la cosiddetta Polacca nel 1875, quindi 7 anni dopo la pubblicazione postuma della Sinfonia di Mendelssohn: che lui l’abbia potuta conoscere e ascoltare prima del 1875 non è dato sapere (la ascoltò a Parigi nel 1879, come risulta da una sua lettera al fratello); ma ciò che è certo è che il compositore russo (al contrario di tale Wagner, smile!) aveva di Mendelssohn la più alta considerazione, testimoniata dai numerosi articoli di stampa da lui vergati proprio in quegli anni. Le 4 note del tema sono le stesse usate dal compositore russo anche per aprire il suo primo Concerto per pianoforte, di pochissimo anteriore alla sinfonia.  Quindi…

Una cadenza finale che ricorda il secondo tema del movimento iniziale sfocia in SOL maggiore e prepara la tonalità con cui attacca il Finale. Il quale rappresenta probabilmente il lato peggiore di questa sinfonia. Intanto dal punto di vista della struttura, una cosa che definire bizzarra è un eufemismo: più che un tempo di sinfonia sembra una fantasia di motivi, uno più enfatico dell’altro, buttati lì quasi alla rinfusa. Vagamente possiamo distinguervi: un’Introduzione (il corale luterano) presentata in tempo lento e subito ripetuta in tempo veloce; poi l’esposizione di un’accozzaglia di motivi, proprio ammucchiati l’uno all’altro; quindi un ritorno del corale introduttivo; una specie di ripresa dei motivi precedenti, ma escluso il principale (!); infine la pesantissima perorazione del corale.

È il primo flauto ad esporre, in tempo Andante con moto (4/4), il motivo del corale luterano Ein feste Burg ist unser Gott (Una robusta fortezza è il nostro Dio):

Dopo che tutta l’orchestra (violini, contrabbassi e timpani esclusi) ne ha ripreso e sviluppato il tema, arriviamo all’Allegro vivace (6/8) dove quello stesso tema – su un tappeto giambico degli archi - si scatena nei fiati in una corsa degna di Quando passano per via gli animosi bersaglieri… dico, pare di vedere il povero Martin Luther correre con la lingua fuori (smile!)

Ma in fondo siamo ancora all’introduzione del movimento, che entra finalmente nel vivo dopo che gli strumentini hanno modulato il SOL come sottodominante di RE e lo hanno ribattuto con ostinate terzine, portandoci al RE maggiore dell’Allegro maestoso (4/4) di tutta l’orchestra. Qui l’esposizione ci presenta non meno di cinque (!) motivi, indicati nella figura con le lettere a), b), c), d) ed e):

Il primo di essi - mutuato da quello in RE minore prima della chiusa del primo movimento, e suonato a voce spiegata (quasi… sguaiata) da tutta l’orchestra - che sale dalla tonica alla mediante due ottave sopra, per poi scendere alla tonica e risalire alla sesta (un procedimento mutuato dal beethoveniano Imperatore) non verrà più ripreso nel seguito, quindi resta lì come un… cactus nel deserto (smile!) Segue il motivo b), sempre in RE maggiore e sempre a piena orchestra e subito lo incalza il c) ancora in fortissimo. Poi subentra il d), nella relativa SI minore, di chiara ispirazione bachiana, un motivo che Mendelssohn tratta ovviamente in contrappunto, poi lo espande con le note ribattute nei fiati e le crome spesso in tremolo negli archi. Si arriva così, modulando a LA maggiore, al motivo e) che nasce piuttosto sommesso nei fiati e si sviluppa poi nella sua seconda sezione, per portare dopo la sua fragorosa ripetizione ad accordi in fortissimo che conducono, su semiminime puntate e pesanti (anche qui Ciajkovski pescherà qualcosa…) ad un climax culminante in un accordo generale sulla dominante MI.

Ora subentra una specie di pausa di riflessione: prima il fagotto e i violoncelli, e poi il clarinetto ci ripropongono spezzoni del tema del corale luterano, subito raccolto dall’orchestra, tornata al RE maggiore (che non verrà più abbandonato) che ne espone una parte variata, sfociante nella ripresa del motivo b). Al quale ora segue direttamente il d) con il suo seguito di contrappunto, quasi esclusivamente negli archi.

Il tema del corale, ora dilatato a doppia ampiezza (anche se è cresciuto il tempo) torna enfaticamente nei fiati, prevalentemente tromboni, contrappuntato dal motivo d) negli archi; lo segue il motivo e) adesso esposto in fortissimo dall’intera orchestra, nelle sue due sezioni, la seconda delle quali viene ulteriormente ampliata e conduce ad un’atmosfera di preparazione alla chiusa, in cui qualcuno sente anche una spruzzatina di Weber (il passo dell’Ouverture del Freischütz che richiama l’esternazione di Max (Ha! Furchtbar gähnt der düstre Abgrund!) alla gola del lupo:


La coda è aperta da un nuovo motivo, esposto da archi e strumentini, con gli altri fiati a suonare quelli che vengono intesi come rintocchi di campane (tonica-dominante):


Il motivo viene reiterato e poi lascia spazio ad un nuovo imperversare dello scampanìo negli ottoni, irrobustito dai rintocchi LA-RE del timpano, finchè il corale non arriva con ampiezza (ed enfasi e affettazione, di conseguenza) ulteriormente raddoppiata, a chiudere in modo francamente assai più cattolico che luterano questa controversa sinfonia.
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Devo dire che Bignamini, oltre ad aver messo a memoria tutta la (pur non sterminata) partitura, ha fatto del suo meglio per rendercela quanto più digeribile: nel movimento iniziale ha ben messo in risalto i chiaroscuri (i violini, guidati da Dellingshausen, hanno mirabilmente esalato l’Amen); nei due centrali ci ha messo la giusta liricità e in quello conclusivo ha tolto il vivace dall’Allegro della seconda apparizione del corale (così il buon Martin non ha rischiato di schiattare, smile!)

Quindi grande successo per Direttore e Orchestra e arrivederci fra sette giorni quando – si spera, con tutti questi contrattempi – tornerà Aldo Ceccato per riprendere il suo cammino in compagnia di Dvorak.

21 gennaio, 2013

L’onesto Falstaff di Harding-Carsen alla Scala


Gradito ritorno di Falstaff alla Scala: una volta tanto (peccato che capiti, appunto, piuttosto di rado) uno spettacolo complessivamente di buon livello, accolto anche ieri (alla seconda) con favore dal pubblico (di un Piermarini peraltro non esaurito).   
Per non smentire una tradizione ormai consolidata, dopo quello ampiamente anticipato di Barbara Frittoli (che diserterà tutte le recite) ecco il forfait – annunciato in sala alle 19:55 – di Fabio Capitanucci, rimpiazzato da Massimo Cavalletti, originariamente scritturato per le sole recite del 2-6-8 febbraio. (Brutta cosa programmare le stagioni in pieno inverno, smile!)
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Falstaff è l’opera-testamento di Verdi, o forse sarebbe meglio definirla l’estremo sberleffo (la burla!) di un genio appagato, ma anche disincantato e capace di sorridere di se stesso e dell’intero mondo del teatro musicale, al quale aveva già dato tutto e dal quale aveva anche ricevuto moltissimo. La partitura è disseminata di reminiscenze, citazioni (soprattutto, ma non solo, auto-) e richiami seri o parodistici a forme e contenuti di tanta musica che aveva percorso l’intero ottocento. Ci troviamo riferimenti alla forma-sonata, alla fuga, al canto gregoriano, a quartetti di Haydn, alla quinta di Beethoven, a Mozart e Weber; e poi a Traviata, Trovatore, Aida, al Requiem, ma anche a Carmen, ai Cantori e a Parsifal… In sostanza, una specie di summa di tanta (se non tutta la) musica che era stata composta o rivalutata in quel secolo, che rimarrà nella storia come il più fecondo di innovazioni e di progresso della nostra civiltà musicale.

Ma tutto fatto in modo intelligente e… pertinente. Come nel caso della citazione dal Parsifal di quel Wagner che Verdi non aveva certo in simpatia, ma del quale aveva l’onestà intellettuale di riconoscere i meriti, e delle cui opere aveva una curiosità quasi morbosa, a dispetto delle critiche anche radicali cui le sottoponeva. Dunque, nel monologo di Falstaff all’inizio dell’Atto III, il protagonista, prefigurando la propria fine, pronuncia la famosa frase (certo una rodomontata, detta da un dongiovanni ormai pensionato e gabbato, invece che ambìto, dalle comari del luogo): Allor scomparirà la vera virilità dal mondo. Ebbene, Verdi come te la chiosa? Così:


Si tratta di una citazione quasi letterale dal second’atto del Parsifal: musica che colà dipinge la personalità di tale Klingsor, un (auto)castrato!

Daniel Harding ha fatto bene il suo compito, esagerando a mio avviso in qualche fracasso di troppo, che ha talvolta coperto le voci. Rispetto alla prima (ascoltata in radio) ho avuto l’impressione che sia migliorato nell’insieme, rimediando ad alcune eccessive (per me) lentezze. Con lui l’orchestra ha mostrato ancora una volta di avere un buon feeling, a partire dal pacchetto degli strumentini che abbiamo lodevolmente visto in buca già alle 19:30 per… scaldare i motori.

Ambrogio Maestri ha proprio il phisique-du-role del protagonista, non c’è che dire. Peccato che la voce non sempre riesca a passare come si deve, quando la partitura non prevede esibizioni stentoree, ma canto a mezza voce o sussurrato. Comunque una prestazione più che encomiabile.    

A Massimo Cavalletti (Ford) va riconosciuta l’attenuante della chiamata all’ultimo momento: alla quale lui ha risposto dignitosamente, peraltro forse più sul piano scenico che non su quello vocale, in specie nelle impervie altezze in cui Verdi impegna il secondo baritono. 

Carlo Bosi è un discreto Dottor Cajus, cui dà la sua voce squillante e penetrante, oltre che le sue qualità di attore.

A Francesco Demuro (Fenton) mi sento di dare la sufficienza, non molto di più: la voce è bella di timbro e certamente adatta al ruolo, ma poco udibile in basso e un tantino sforzata negli acuti.    

Riccardo Botta (Bardolfo) e Alessandro Guerzoni (Pistola) se la cavano più che bene, dando il loro valido contributo ai diversi concertati in cui sono coinvolti.

Vengo ora al gineceo:

Daniela Barcellona ha fra le quattro femmine la parte forse più impegnativa (Quickly) soprattutto nell’estensione verso il basso. A me è personalmente piaciuta in questo suo avvicinamento a Verdi (che dovrebbe culminare più avanti, a Torino, in Eboli!)  
        
Carmen Giannattasio, assurta fin dalla vigilia al rango di primo cast (vista la defezione cronica di Frittoli) è un’Alice che mostra qualche pecca negli acuti tendenti all’urlato, comunque compensata da timbro e sonorità gradevoli.  

Laura Polverelli (Meg) si sente pochino, coperta spesso dalle altre voci e qualche volta da… Harding (smile!) Non mi sentirei però di darle l’insufficienza.

Piacevole la Nannetta di Irina Lungu, e brava – al contrario dell’innamorato - proprio nella parte alta della tessitura impostale da Verdi.

Il coro di Casoni ha il suo impegno gravoso soprattutto nel finale, con quella strepitosa e difficile fuga che è chiamato a riempire di suono, supportando i solisti. Direi che ha assolto puntualmente il suo compito.

Per tutti, alla fine, applausi convinti, anche se non propriamente da stadio, ma mi pare giusto così.  
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Che dire dell’allestimento?

La premessa fondamentale da farsi è che la sua stessa natura - di commedia brillante con qualche retrogusto amarognolo – garantisce all’opera di Boito-Verdi la totale inossidabilità da ogni possibile sofisticazione. Per dire, mentre rivestire un Rolex con plastica colorata e imbrattargli il quadrante di schizzi di vernice farebbe (e fa) rivoltare, fare la stessa operazione con uno Swatch potrebbe addirittura aumentarne l’appeal!

Ecco perché la regìa di Robert Carsen questa volta non dà luogo a scandali, né a contestazioni particolari (e pure al Covent Garden lo scorso anno fu accolta senza… traumi). Certo non tutte le trovate del genio canadese sono impeccabili: quando si è costretti, per giustificare la propria parcella, a inventare sempre qualcosa di nuovo e di diverso (diverso anche e soprattutto dall’originale…) si rischia immancabilmente di andare oltre le righe.

Il regista presenta alcune sue considerazioni sull’opera nel programma di sala. Insieme a cognizioni che anticipano la scoperta dell’acqua calda (smile!) cerca anche di spiegare i razionali (!) che stanno alla base del suo allestimento. Fra tutti, una chicca, roba proprio da edizione critica. Scrive Carsen, testualmente: Il libretto di Falstaff, se si legge con attenzione, ha numerosi riferimenti alla passione tipicamente inglese della caccia. Vi si accenna anche a donne che vanno a caccia, a differenza di quanto avviene in altri paesi. Nel nostro spettacolo abbiamo posto l’accento anche su questo aspetto. Evidentemente il regista dev’essere in possesso di un libretto in versione originale, mentre noi – teatro e cantanti inclusi – ne abbiamo uno chiaramente adulterato e apocrifo, dove non c’è la minima traccia di caccia, cavalli, volpi, hounds e affini (salvo la caccia a Falstaff in casa Ford, smile!) Caccia che invece il regista usa a sostegno della sua ideona di mettere in scena un cavallo vero al quale Falstaff propina (direi senza molto successo) il suo amaro filosofeggiare.

Poi, l’ambientazione. Carsen la sposta in avanti di cinque secoli e mezzo rispetto alla vicenda narrata da Shakespeare (e ripresa da Boito) e di tre secoli e mezzo dall’epoca in cui il genio di Stratford  la mise su carta. Rispetto a quest’ultimo scenario, si passa solo da Elisabetta I (che pare avesse commissionato l’opera, anche a costo di far… resuscitare Falstaff) a Elisabetta II! Per la verità in periodi abbastanza diversi – non dico diametralmente opposti – della storia albionica: con la prima Elisabetta (più ancora con Enrico IV) l’Impero era proprio agli albori; con la seconda l’Impero era gli sgoccioli e soprattutto aveva appena visto la gloriosa e altera Pound sterling venir soppiantata da quel volgare Dollar dei cugini d’oltreoceano, eredi della feccia dei derelitti degli slum di Londra, deportati secoli prima nel Nuovo mondo a far da schiavi ai capitalisti di Sua Maestà… (Forse Carsen si è accorto di ciò, e quindi per rimediare ha travestito Ford da miliardario texano.) Peraltro, volendo a tutti i costi traslocare Falstaff in uno scenario a noi familiare, il posto più adatto – oggi - sarebbe Shanghai

Ma dato che in tutte le epoche e sotto tutti i cieli c’è sempre qualche nobilastro decaduto (Falstaff) e qualche intraprendente ed emergente sfruttatore di forza-lavoro (Ford: un nome, un programma, a proposito di dollari, smile!) ecco che anche l’ambientazione di Carsen, pur concettualmente strampalata, non fa poi eccessivi danni.

A cominciare dalla Garter Inn trasformata in un misto di hotel e club, dove nella seconda parte dell’Atto I si ritrovano le comari a colazione (servita da Fenton, che immagino ringrazierà eternamente il regista per averlo promosso da gentleman a headwaiter!) e dove (inizio dell’atto secondo) il nobile, pur decaduto, Falstaff, riceve nella sala da fumo (quindi per soli uomini) una donna, per di più una serva, la badante, diremmo oggi, del Docteur Cajus (in Shakespeare perlomeno) che risponde al nome di Quickly…

E che dire della dimora di Ford che – a giudicare dalla cucina - pare quella di un rappresentante della lower-class, altro che borghesia emergente… e dove il presunto e illuso amante arriva con i minuti contati per la sua sveltina e che ti fa? dimentica il sesso per mettersi a tavola a divorare un tacchino!

E infine: la presenza, in apertura di terz’atto, della comparsa equina (a proposito, la famosa traccia scoperta da Carsen sarà mica l’auto-definizione di Falstaff audace e destro cavaliere?) col ricordato riferimento alla caccia (incluso l’abbigliamento di Quickly) è cosa simpatica e cervellotica allo stesso tempo. Per dire, allora anche una torma di hooligans ubriachi – parte integrante dell’attuale panorama albionico - avrebbe potuto trovare legittima cittadinanza in questo allestimento.   

Sul fronte della recitazione, diamo a Carsen ciò che gli spetta, e facciamo anche i complimenti a tutto il cast, coro e… cavallo inclusi.

Alla fine mi sentirei di dire che la regìa esageri un filino, portando la gustosa commedia di Boito-Verdi ai confini dell’avanspettacolo. Ma in complesso: ci ha fatto comunque divertire, proprio come voleva Verdi. E ciò, per stavolta, basta e avanza per farcela digerire (smile!) 

18 gennaio, 2013

Orchestraverdi – concerto n.18


Il monumentale Ein Deutsches Requiem occupa interamente (e a buon diritto!) il cartellone del concerto di questa settimana. 

Dalla sua Stoccarda, dove lo ha diretto poche settimane fa, arriva a proporcelo uno dei più amati Direttori ospiti de laVerdi: Helmuth Rilling, che a dispetto dei suoi quasi 80 anni sprizza vitalità da tutti i pori!

In un Auditorium finalmente affollato (come non si vedeva da qualche settimana, eccezion fatta per la Nona di fine anno) ancora una volta, a distanza di quasi due anni dall’ultima esecuzione con Zhang Xian, sono risuonate le note di questo straordinario inno di speranza e consolazione. Del quale non saprei davvero cosa scrivere di nuovo o di originale, tale è la sua fama (qui poche note proposte in occasione di una visita milanese di Pappano&C).  

Rilling ce lo ha porto con un approccio intimistico, tenendo un volume di suono sempre contenuto, persino nelle poderose fughe che costellano la partitura, rinunciando a qualunque enfasi e ai facili effetti che talvolta caratterizzano interpretazioni eccessivamente cariche di teatralità tardo-romantica: insomma, il Requiem di Brahms, e non quello – con tutto il rispetto, per carità (e lo aspettiamo qui a marzo) - di… Verdi!

Impeccabile il coro di Erina Gambarini e sempre lodevole la compattezza dell’orchestra, in specie il pacchetto degli archi bassi, chiamati ad un impegno eccezionale. Quanto alle due voci, bellissima, anche se piccola, quella di Letizia Scherrer, voce che secondo me magnificamente si adatta al testo e alla musica dell’Ihr habt nun Traurigkeit; meno efficace, sempre a mio modestissimo avviso, quella del giovane baritono Johannes Mooser, voce di potenza inversamente proporzionale all’imponenza della sua stazza, e di timbro eccessivamente leggero.

Ma alla fine ciò che conta è la grandissima emozione che sempre ti prende e che ti resta dentro all’ascolto di questo capolavoro.

Prossimamente ancora Brahms e Mendelssohn.