Zelensky e l'alternativa lose-lose, fra perdere:

la dignità VS l’alleato che ti chiede di perderla 

08 ottobre, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 5

 
Salvatore Accardo, in veste anche di Kapellmeister, ha presentato due opere di Mozart, nel quinto concerto all'Auditorium.

Senza podio né bacchetta per l'intero concerto, ha dapprima eseguito la Serenata Haffner. Imbracciando anche il violino - à la Boskovsky – nel secondo, terzo e quarto brano degli otto che costituiscono questa lunga e mirabile opera di un Mozart ventenne, e quindi già avviato verso il periodo della piena maturità. Complesso ridotto agli archi o poco più: i fiati classici. Esclusi invece i clarinetti, come pure i timpani (che un refuso del programma di sala cita nell'organico).

La prima parte della serenata comincia con l'Allegro maestoso, in RE maggiore, dove fa subito capolino, in corni e oboi, un frammento che anticipa scopertamente il Se vuol ballare delle Nozze.

Il secondo tempo (Andante, in SOL maggiore) chiama per la prima volta in causa il Violino principale, e qui Accardo comincia ad esibire la sua alta maestrìa, culminante nella cadenza, quasi concertistica, posta a 5 battute dalla conclusione.

Il terzo brano è un Menuetto in SOL minore, il cui incipit ci fa già intravedere quello – celeberrimo - della Sinfonia n°40. Emozionante qui il Trio, col Violino che guida la melodia, e i fiati – corni in evidenza - che lo accompagnano con garbo e delicatezza. Un gioiellino!

Ecco poi lo straordinario Rondò (Allegro) in SOL maggiore, col suo tema principale di semicrome in staccato. Sulle corone puntate che separano il tema principale da quelli secondari Accardo non manca di infilare delle mini-cadenze. Al termine depone lo strumento, e da qui in poi si limiterà a dirigere. Il pubblico - chi sa se per ammirazione o perché giudica finita la Serenata (che invece è solo a metà) - applaude calorosamente e Accardo ringrazia.

La seconda parte inizia con un nuovo Menuetto, aggettivato galante, in RE maggiore, con Trio in RE minore (e FA maggiore). Poi segue il secondo Andante in LA maggiore. Quindi il terzo Menuetto, che è in RE maggiore, con ben due Trii (SOL e RE).

Da ultimo, il Finale (Adagio, Allegro assai) in RE maggiore, tonalità d'impianto (come usano dire gli accademici). Qui è il fagotto che ha modo di mettersi in luce, chiamato a esaltanti, quanto difficili svolazzi di semicrome.

Esecuzione davvero impeccabile da parte del Maestro, ma anche di tutti i componenti dell'Orchestra, specie i fiati, qui a suonare, in pratica, come solisti. E meritati consensi da parte del (non proprio oceanico) pubblico.

Chiude il concerto la Sinfonia Linz (n°36, K425). Dove Mozart sposa il modello Haydn-iano, che prevede una introduzione in Adagio, prima dell'Allegro spiritoso, rigorosamente in forma-sonata. L'orchestra è ancor più leggera che nella Serenata: oltre ai clarinetti, qui vengono espulsi anche i flauti, ai cui leggìi si trasferiscono i fagotti, lasciando i loro posti alle trombe, per compattare l'ottetto dei fiati. In compenso appaiono i timpani, ma quella della brava Viviana Mologni è una presenza assolutamente discreta.

Nel Presto finale compare il secondo tema, nella tonalità di SOL maggiore (dominante del DO di impianto) che risentiremo nel Larghetto dell’ultimo concerto mozartiano, ma che sarà citato alla lettera – consciamente? - da Beethoven in una delle sue Sonatine per pianoforte:

Brillante e fresca – e rispettosa di tutti i ritornelli - l'esecuzione di Accardo, che trascina il pubblico in un lungo e strameritato applauso.

Prossimamente si torna all'accoppiata Schumann-Mahler, con un appuntamento tragico.

06 ottobre, 2010

Lo stomaco del maeschtro

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Mangiare a Chicago fa venire la gastrite.
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Mangiare a Roma la fa passare, però costa due milioni!
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Un Elisir per chiudere in gloria il 2009-2010 della Scala

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Ultimo titolo della stagione 2009-10 alla Scala: l'Elisir. Al centro dell'attenzione il redivivo Ronaldo... ah no, scusate l'anagramma, Rolando. Che pare intenzionato a passare dall'altro lato della barricata - un po' come ha fatto da tempo il suo semi-connazionale Topone, e come si appresta a fare la Ceci - dedicandosi all'ippica (ops... alla regìa del teatro d'opera). Forse perché la voce se ne sta andando per sempre? Ecco il tragico dubbio che assilla i melomani di mezzo mondo!

Sabato scorso, alla prima, pare che le cose fossero andate così-così, anzi benino, insomma meno peggio del temuto. Ieri sera è stato un autentico trionfo, per lui in particolare, ma con lui per tutti i protagonisti (incluso il simpatico cagnolino che per due volte ha attraversato il palco). Personalmente mi associo ai complimenti – anche se sono sempre abbastanza largo di maniche con gli interpreti, posto che non siano appunto dei… cani – dato che le mie orecchie (che sono quelle dell'uomo della strada, e non certo quelle di un esperto delle tecniche di vocalizzazione tramandate da tale Garcia) hanno ricevuto dal mexicano impulsi sonori sempre gradevoli e piacevoli, e assai coerenti con l'oggetto del canto medesimo. E non solo nella fatidica lagrima, accolta da ovazioni da stadio, ma già da subito, col pubblico ancora freddo e contratto, con la cavatina Quanto è bella, quanto è cara! Che ha evidenti somiglianze con un'altra, che pure si cala in uno scenario tutt'affatto diverso:


(Sì, perché ogni compositore si porta dentro dei cromosomi che poi affiorano qua e là, anche in contesti fra loro lontanissimi.)
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Anche la simpatica Nina (scusate, ma a me chiamare Nino una bella gnocca mi fa venir l'orticaria…) si è portata più che discretamente: o è migliorata nel frattempo, oppure in loggione i buatori di sabato erano momentaneamente distratti. Forse negli acuti ha una voce un po' chioccia, ma nella fattispecie adatta al contesto di una fattoria (smile!)
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Ambrogio Maestri è stato un Dulcamara divertente – gigione quanto basta, ma anche quanto si deve – e il suo vocione ha piacevolmente riempito l'enorme massa d'aria del Piermarini.
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Belcore, al secolo Gabriele Viviani, forse un po' sotto la media, ma non gli tolgo per questo la sufficienza. Così come alla Giannetta di Barbara Giannesi.
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Sempre all'altezza il coro di Casoni (colpevolmente omesso – vergogna! - dalla locandina web) e buone notizie anche dalla buca, che con questo Donizetti forse si ritrova meglio che con Bruckner. Immagino anche per merito del navigato Renzetti.
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Alla fine interminabili applausi e ripetute chiamate. L'ultimo tocco strappalacrime lo dà proprio Villazon con un furtivo… bacio al sipario, al momento del definitivo rientro.
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Quanto alla regìa, Laurent Pelly ci propina uno spettacolo assolutamente gradevole, fatto con intelligenza, gusto e humor. È chiaro che qui siamo all'Elisir, mica al Tannhäuser! E quindi poco o nulla a noi importerà se l'ambientazione è nella bassa padana e non – selon Scribe – nella bassa navarra, in un paesino che ha – toh! – lo stesso nome del protagonista Rolando (che all'anagrafe fa Emilio Rolando Villazón Mauleón) E se il tutto accade nell'ultimo dopoguerra italiano e non nel '7-800 francese. Ciò che ci importa è che dell'opera emergano i tratti caratteristici, che vanno dalla bonaria faccia tosta del sedicente dottore, all'ingenuità del ragazzotto di campagna; dalla spocchia del solito sergente che si crede chissàcchì solo perché ha un berretto in testa, all'ambiguità della figura della possidente, che mai si capirà se sia solo una ragazza con la puzza al naso, o una verginella piena di complessi, o magari una sgualdrinella in piena regola…
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Ecco, con un raggio di luce ed un sorriso la stagione scaligera esaurisce i 12 titoli, dopo non pochi stenti e più di un buco nell'acqua (a proposito: prima di SantAmbrogio ci sarà ancora una recrudescenza di Carmen… come non bastassero le influenze autunnali). Non ci resta che sperare che le cose migliorino prossimamente (anche perché scendere sotto questa media sarebbe impresa obiettivamente ardua). Buon 2010-11!
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01 ottobre, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 4


Ancora Mahler, stavolta con l'amato (fin troppo?) Schumann, per il quarto concerto de laVerdi, sempre con Xian Zhang sul podio.

Mahler è stato per Schumann ciò che Rimsky-Korsakov fu per Musorgski: il riorchestratore delle sue opere. L'intento – in entrambi – è nobile: come scrisse il boemo far emergere tutto ciò che si trova in germe dentro l'opera e ciò che ha intravisto l'immaginazione del compositore…

Naturalmente c'è sempre chi si pone alcune più che legittime domande: ma non aveva diritto Schumann (come Musorgski più avanti) di scrivere musica come la sentiva e come gli pareva? E non sono quindi gli interventi dei Mahler e dei Rimsky da considerarsi arbitrari e - in definitiva – censurabili? E ciò che si fa passare per orchestrazione carente, non è per caso un punto di forza dell'opera originale? E operazioni fatte (in perfetta buona fede?) da un Mahler o da un Rimsky, non rischiano di creare fastidiosi precedenti, aprendo le porte ad ogni tipo di cervellotico intervento in campo altrui?

In effetti, se si accettano in linea di principio ritocchi à la Mahler o à la Rimsky, allora persino un tale Beethoven potrebbe definirsi perfezionabile, e un tale Wagner potrebbe essere doverosamente sottoposto a qualche sverniciatura e maquillage! Ma soprattutto il flagello dei rimaneggiamenti potrebbe abbattersi proprio su Mahler, che quasi mai lasciò in pace una sua sinfonia, dopo averla licenziata.

Questione di principio? Di lana caprina? O più semplicemente di abitudini e/o di mode? Forse – come sempre del resto – dipende. Intanto: dalla quantità, qualità e profondità degli interventi. Quelli di Rimsky su Musorgski furono tanti e profondi, al punto da (quasi) stravolgere gli originali: anche l'orecchio più disattento si accorge della differenza fra il Boris, la Kovancina e il Monte Calvo originali e le rispettive versioni di Rimsky. Quelli di Mahler su Schumann furono assai meno drastici, più che altro indirizzati a ritoccare l'agogica o a far risaltare le linee principali della melodia: e l'orecchio dell'ascoltatore medio e non-addetto-ai-lavori può facilmente scambiarli per scelte interpretative del Direttore di turno. In ogni caso, sta sempre a noi giudicare il risultato estetico dell'operazione.

Ecco quindi la Quarta del grande Robert come ritoccata dal grande Gustav. Come nella sua prima, scritta quasi contemporaneamente (la quarta diventerà tale 10 anni dopo, e dopo… revisione!) Schumann finge di attenersi alle sacre regole dei padri fondatori della sinfonia (introduzione lenta al Vivace del primo movimento) ma poi si sbizzarrisce in innumerevoli innovazioni (non per nulla Mahler ne avrà grande considerazione): temi che ritornano ciclicamente – quello dell'introduzione riappare nella successiva Romanza e l'assolo del primo violino in questa torna nello Scherzo; l'ultimo movimento riprende il tema principale del primo, etc. – e frequenti colpi di teatro, a interrompere il regolare flusso dei temi, oltre a libertà ardite, come la conclusione imprevedibilmente zoppa dello Scherzo.
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Xian Zhang la esegue con piglio quasi espressionista, proprio mahleriano si direbbe: niente ritornelli e tempi piuttosto rapidi e nervosi. Bravi gli ottoni, impegnati alla grande, così come il Konzertmeister Luca Santaniello, negli assoli della Romanza, accanto ai quali compare un motivo che Mahler ricorderà al momento di chiudere l'ultimo dei Kindertotenlieder:

E in fatto di richiami, se non proprio di citazioni, nell'ultimo movimento troviamo il secondo tema, inizialmente esposto in LA maggiore (dominante del RE di impianto) del cui caratteristico procedere si ricorderà Bruckner nel finale della sua sesta, anch'essa in LA:
Come si vede, i rimandi e i legami – più o meno forti o labili – fra Schumann e i sinfonisti tardo-romantici sono sparsi un po' ovunque.

In complesso un'esecuzione assai pregevole ed apprezzata, quella dei verdiani, gratificata da consistenti applausi, di un pubblico (peccato) non proprio da tutto-esaurito.

Ecco poi la Quarta di Mahler, che era stata introdotta, prima del concerto, nel super-affollato foyer sotterraneo dell'Auditorium, da una fulminante ed acclamata presentazione del prof. Federico Lazzaro. Opera solo apparentemente leggera e innocente, ma in realtà zeppa di segnali e riferimenti lugubri, macabri e irriverenti. A cominciare dai sonagli dell'inizio e dalla trombetta che anticipa la marcia funebre della quinta, per continuare con il violino dis-accordato dello Scherzo (che Santaniello si tiene a portata di mano sul seggiolone del pianoforte) che è – secondo le credenze antiche –suonato nientemeno che dalla morte!
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E poi, a proposito di scenari da tocchiamoci le p…, nel terzo movimento (Ruhevoll) compare una citazione, che è allo stesso tempo un'anticipazione: un inciso dall'Aida, ultima scena (tombale, vero?) che diventerà poi il tema del secondo dei necrofili Kindertotenlieder (nb: Xian Zhang qui è stata stre-pi-to-sa!):
Da cui si conferma l'attitudine di Herr Kapellmeister Mahler (sarcasticamente biasimata dai suoi detrattori) a ricordare nelle sue opere molto di ciò che dirigeva di opere altrui; ma da cui allo stesso tempo si desume l'intima coerenza di tutta la musica del boemo, la cui intera produzione si potrebbe – in senso lato – considerare come un'unica, ininterrotta, grande opera.
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E a proposito di innovazioni, la sinfonia si chiude con un Lied, per interpretare il quale è arrivata sul palco (fra secondo e terzo movimento) la brava Inger Dam-Jensen. Una cosa da tarallucci e vino …in paradiso. Con Erode e sanLuca in veste di macellai, e non meno di undicimila vergini che si mettono a danzare con l'orchestrina della santaCecilia!

Finisce però nel più celestiale dei MI maggiore, con la Dam-Jensen (peraltro di vocina assai piccola) a spiegarci che le voci angeliche ridestano i sentimenti:

Poi tutto sfuma, in ppp, sul MI gravissimo dell'arpa, non a caso dislocata subito dietro i contrabbassi, che la rilevano per chiudere sul MI grave, morendo, su una corona puntata che Zhang prolunga religiosamente per parecchi secondi. Ma, in fondo, a noi resta sempre il dubbio (giusto, cari Arnim&Brentano?): era, o no, solo un paradiso di cartapesta?

In ogni modo, a questo paradiso il pubblico dell'Auditorium riserva un'accoglienza più da stadio che da chiesa!
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La prossima settimana un gradevole intermezzo mozartiano, ospite il venerabile Salvatore Accardo.
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27 settembre, 2010

Il Boris (ma quale?) inaugura la stagione del Regio-TO


Martedi 5 ottobre Gianandrea Noseda dirigerà – per l'apertura della stagione del Regio di Torino - Boris Godunov di Modest Musorgski (ore 20, diretta su Radio3).
Che il Boris – inizialmente per mano dello stesso Musorgski e successivamente di Rimsky e altri, Shostakovich incluso – sia stato visto, rivisto, mutato, trasmutato, avvolto e stravolto infinite volte, è un dato di fatto, e forse nemmeno esiste un elenco esaustivo di tutte le versioni impiegate, da 130 e più anni in qua, per le rappresentazioni dell'Opera.
Però al melomane medio, quello che legge qualche libro, va qualche volta a teatro e compra qualche CD o DVD, risultano fondamentalmente: le due versioni originali dell'Autore (1869, in 7 quadri, e 1872, in 9 quadri accorpati in un prologo e 4 atti); la splendida (checché se ne dica) seconda versione di Rimsky (1908, che rimaneggia l'originale del 1872, e ne inverte i due quadri finali) e i pastiche di Pavel Lamm e poi di David Lloyd-Jones, che praticarono la fusione fredda delle due versioni, aggiungendo alla seconda il quadro espunto dall'Autore, all'inizio del quarto atto, per un totale quindi di 10 quadri.
Ma adesso arriva il creativo Andrei Konchalovsky che si inventa – in combutta con Noseda - un nuovo, ennesimo Boris, sommariamente descritto sul sito del Regio: è la prima versione, del 1869, ma rivoltata come un calzino (ordine invertito fra i quadri 2 e 3) e con aggiunta di ingredienti di quella del 1872 (il quadro di Kromy, infilato fra gli ultimi due). In tutto: 8 quadri più un …epilogo. Effettivamente può darsi che sia quindi una vera e propria prima mondiale!
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Riporto dal sito del teatro (sottolineatura mia): Gianandrea Noseda e Andrei Konchalovsky propongono una versione originale frutto di interventi drammaturgici sull'Ur-Boris con una nuova successione di scene che rispettano la cronologia degli accadimenti storici. Ecco, l'ultima frase è proprio da incorniciare, perché fa sorgere una domandina da nulla: da quando in qua il compito di un regista e di un direttore non è più quello di portare in scena un'opera come l'ha concepita il suo Autore, ma di fare della divulgazione storico-scientifica? Che il Boris (anzi, il doppio Boris) di Musorgski ci racconti vicende storiche è scontato, ma a noi che cosa importa? Vedere ed ascoltare l'Opera originale, o andare ad una lezione di storia, dove l'Opera viene stravolta? Chè, se fosse quest'ultimo il nostro obiettivo, allora dovremmo accettare, anzi reclamare, ristrutturazioni delle scene del Don Carlos, dei Vespri, dei Puritani, della Bolena e financo dell'Andrea Chénier!
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Nel caso specifico, la cronologia degli accadimenti storici – che ha determinato la struttura drammatico-musicale dei due Boris (pur tra loro così diversi) - è quella che Musorgski ha mutuato dal Boris di Pushkin, il quale a sua volta la mutuò dalla Storia dello stato russo di Nikolaj Michajlovich Karamzin. E i Boris di Musorgski dovrebbero restare quindi come furono composti, indipendentemente da qualunque ri-scoperta storica sia stata fatta in tempi successivi. Quindi sappiamo senza ombra di dubbio che l'incoronazione di Boris (quadro 2) avviene pochi mesi dopo le manifestazioni a Novodevici (febbraio 1598, secondo Pushkin, quadro 1) mentre la vicenda di Pimen e Grigori (quadro 3) è collocata da Pushkin cinque anni dopo (1603)! Orbene, come si possa ristabilire una cronologia di accadimenti storici invertendo l'ordine dei quadri 2 e 3, cioè facendo precedere il 1598 dal 1603, è cosa davvero stupefacente! Così come lo è l'inserimento del quadro di Kromy fra i due quadri finali e quindi - proprio à la Rimsky – non dopo, ma prima della morte di Boris; salvo poi spostare l'imprecazione dell'Idiota alla fine, come epilogo del dramma. Tutti questi interventi equivalgono ad un vero e proprio inquinamento (e quindi snaturamento) della versione del 1869 – quella che si dichiara di voler mettere in scena - con quella del 1872, che sappiamo essere radicalmente diversa come spirito, focus e struttura drammaturgica (hai detto niente!) Insomma, si scimmiotta Rimsky proprio mentre si dichiara di volersi rifare all'originale di Musorgski.
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Dopodichè, per carità, possiamo ben sperare che lo spettacolo regga ed abbia successo; anche se resta l'impressione di essere di fronte alla solita manìa di protagonismo di un famoso regista cinematografico – cui regge bordone, duole dirlo, Noseda – che deve per forza stupire (e giustificare la parcella) con idee intelligenti ed innovative. Mentre invece Konchalovsky-Noseda non inventano nulla che chiunque di noi non possa realizzare – o aver già realizzato – a casa propria. Un Boris che inizia con l'arioso Ho il potere supremo, e poi va in flash-back a Novodevici? Un altro che principia dall'incontro di Marina e Grigori, poi salta a Kromy, quindi in Lituania e da lì al Cremlino? No-problem: c'è iTunes che ci consente di sequenziare gli MP3 a nostro sentimento. Anzi, una interessante feature del gadget di Steve Jobs risiede nella possibilità di riproduzione random dei diversi brani: così si possono realizzare migliaia, che dico, milioni di nuovi Boris! Pane e companatico assicurati per almeno tre generazioni di registi e direttori. E del resto – taluno ragiona - se il compositore per primo ha fatto una volta strame della sua creatura, perché vietare ad altri di seguirne le orme?
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24 settembre, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 3


Capienza dell'Auditorium (sia sul palco che in sala) messa a dura prova dalla Terza di Mahler, che ha dimensioni sterminate sia come numero di esecutori – dove è superata solo dalla ottava - che come durata. Affollatissimo – gente in piedi - anche il foyer, per la conferenza introduttiva, tenuta subito prima del concerto dal professor Giacomo Albert. Preziosissimo il contributo – riprodotto sul programma di sala – dell'indimenticabile Sergio Sablich.
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Ascoltare dal vivo queste sinfonie – mettiamoci anche la seconda, non dico l'ottava – non capita tutti i giorni. E in fondo è un bene, poiché son pietanze che, ingerite troppo di frequente, finirebbero per stomacarti, e farti correre in farmacia a prendere un alka-selzer, o chiedere alla moglie una settimana di brodino caldo fatto col dado-liebig.
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Ma, diciamo, una volta l'anno – come il cappone a SanSilvestro, o il Neujahrskonzert da Vienna – ci può stare… Nel mio caso personale ho esagerato, avendo già trangugiato questa adorabile mappazza a Bologna in primavera! E ad ottobre qui all'Auditorium ci sarà la Auferstehung (mi vien da ringraziare il cielo che Abbado e Pappano ci siano stati risparmiati a giugno…)
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Dunque, la terza del boemo, che ci spiega nientemeno cosa gli raccontano le diverse manifestazioni del creato. È un interminabile (100 minuti, ieri sera!) sentiero che parte dalle montagne del Salzkammergut per arrivare fino a …Dio! Transitando magari – in un giorno di festa - per il Prater di Vienna, con le sue bande peripatetiche; camminando (a piedi nudi sull'erba…) attraverso prati e boschi (di Boemia?); ascoltando particolari storielle del bosco (viennese?) con tanto di passaggio di consegne dal defunto cuculo all'usignolo, cerimonia disturbata dalla languida melopea della trombetta di uno svogliato postiglione; meditando poi su notturni complessi freudiani (pardon, nietzschiani); ascoltando angeli che cantano con accompagnamento infantile, onomatopeicamente bombarolo; fino ad arrivare al creatore, nella fattispecie tale Beethoven! (poi supportato qua e là da un creatore-bis, a nome Giuseppe Verdi.)
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Tardo-romanticismo, come si legge su qualche affrettata recensione, con definizione ambigua e vago compatimento. Oppure megalomania da quattro soldi. O anche retorica sesquipedale. Sarà, ma – presa in dosi ragionevoli – continua a raccontare qualcosa anche a noi, scafati post-moderni.
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Enorme trionfo per tutti: la finlandesina Monica Groop, i cori delle signore di Erina Gambarini e dei ragazzini/e di Maria Teresa Tramontin, candidi/e come angioletti, il postiglione Alessandro Caruana (che si è fatto sentire da dietro le quinte - immagino prendesse gli attacchi dalla Zhang ripresa da una telecamera) e naturalmente la cinesina dei navigli, che si proponeva di mescolare Walter e Bernstein, ma in fondo deve aver diretto come …Mahler!
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Il prossimo concerto vede ancora protagonista l'inattuale boemo, insieme a quello che ne fu di certo l'ispiratore: Robert Schumann. E sarà ancora Xian Zhang a dirigerne le quarte.
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23 settembre, 2010

L’Occasione rossiniana alla Scala


Il penultimo appuntamento della stagione della Scala è dedicato a Rossini – che così raggiunge Wagner e Verdi, come autore più eseguito nel 2009-2010 - e agli artisti dell'Accademia scaligera, interpreti di L'occasione fa il ladro con la messinscena – gallina vecchia fa buon brodo – del grande e mai abbastanza compianto Ponnelle. Teatro assai affollato (solo qualche buco in platea) per questa farsa – burletta per musica, per la precisione – di un Rossini ventenne, che sprizza genialità da tutti i pori.

Una bella vetrina per i giovani dell'Accademia, che sono il prodotto del vivaio scaligero; importante la presenza femminile in Orchestra - quasi la metà dei 50 esecutori! - e tutte interessanti le voci sul palcoscenico. Trionfo in particolare per la negretta Pretty Yende (Berenice, qui con Bocelli nel suo SudAfrica) e grandi applausi anche per Leonardo Cortellazzi (Alberto); ma anche gli altri (Massimo Cavalletti in Parmenione, Evis Mula in Ernestina, Jaeheui Kwon in Eusebio e Filippo Fontana in Martino) non hanno affatto demeritato.
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Daniele Rustioni (che ha preso lezioni da Davis, Masur e Noseda) ha diretto i giovani con bel piglio, facendo emergere i tesori di questa partitura, un gioiellino in cui si intravedono già squarci di ciò che Rossini comporrà di lì a poco, nel campo del buffo, ma anche tracce di romanticismo.
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22 settembre, 2010

Muti alla conquista di Chicago

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Le finestre di un grattacielo sovrastante il Millennium Park, dove Riccardo Muti ha diretto il concerto di benvenuto, davanti ad una folla da stadio, si illuminano adeguatamente per accogliere il nuovo Direttore musicale della gloriosa CSO (Abbado avrebbero dovuto scriverlo in verticale; per Thielemann invece… non ci sarebbe spazio):






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Alla fine del concerto, fuochi d'artificio! (siamo in America o no? e Muti non sarà mica da meno di Dudamel…)
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C'è chi guarda all'arrivo del nostro con grande fiducia e ammirazione.
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Per par-condicio: c'è anche chi si dice certo che Muti rovinerà la CSO come fece, anni orsono, con la Philadelphia (e in Italia c'è di sicuro qualcuno che aggiungerebbe: …e poi con la Scala).
In any case… auguri maeschtro!
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21 settembre, 2010

Noseda per la sua città


Il prossimo 20 ottobre, ore 21, il Teatro degli Arcimboldi a Milano (in realtà ad un tiro di schioppo da Sesto San Giovanni) ospiterà Orchestra e Coro del Regio di Torino, guidati dal Direttore musicale Gianandrea Noseda (che all'epoca saranno freschi reduci dalle fatiche del Boris torinese). Si tratta di un concerto volto a raccogliere fondi per il recupero di alcuni giardini storici di Sesto.

Il sestese Noseda, anche se ormai cosmopolita (è anche Direttore principale della BBC Philharmonic, oltre che animatore del Festival di Stresa, dove ha fissato la sua residenza, e fresco di nomina a Direttore ospite a Pittsburgh) vuole così dimostrare l'attaccamento alla sua città di origine.

Un programma tutto russo (forse un omaggio all'ex-Stalingrado d'Italia?) che comprende l'Alexandr Nevskij di Prokofiev e la Seconda Sinfonia di Rachmaninov.
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20 settembre, 2010

A Rimini con Nagano e i bavaresi

A Rimini siamo a fine stagione (ormai l'equinozio incombe) e, tra uno squarcio di sole ancora cocente e uno scroscio di pioggia e vento, le spiagge cominciano lentamente a tornare al loro aspetto naturale (inquinamento incluso) dopo essere state tenute accuratamente pulite, per tutta l'estate, ogni santo giorno, dalle 6 alle 8 del mattino, dai rastrelli dei bagnini e dalle ruspe della Hera.

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A parte qualche sfigato bulgaro, gli ultimi turisti in riviera sono tedeschi, nella fattispecie gli orchestrali della Sinfonica Bavarese, che Kent Nagano ha guidato nell'ultimo Concerto della Sagra Musicale Malatestiana n° 61. Il capelluto californiano ha diretto due immortali capolavori: di Strauss e Bruckner.

Sarà solo un caso, ma il fatto che – a pochi mesi e giorni di distanza, rispettivamente, dai 65 anni della resa tedesca e delle bombe atomiche americane sul Giappone – una formazione teutonica guidata da un direttore americano dalla chiara ascendenza nipponica, esegua le straussiane Metamorphosen suscita – in chi proprio allora approdava su questa valle di lacrime - qualche brivido.

La guerra sta per finire (Churchill, Roosevelt e Stalin si sono appena incontrati a Yalta per accordarsi sulla prossima spartizione del mondo) e il quasi ottantunenne Strauss vive ritirato nella sua sontuosa villa di Garmisch (frutto dei proventi di Salome) a meditare sull'ormai imminente disfatta della Germania, e con essa anche del suo ideale guglielmino, la cui realizzazione aveva opportunisticamente delegato a tale Hitler. Il 13 marzo del 1945 – precisamente all'indomani del bombardamento dell'Opera di Vienna - verga le prime note di Metamorphosen, che sta rimuginando da qualche tempo, nach Goethe. Le ultime le scrive in partitura esattamente un mese dopo, il 12 aprile (proprio mentre gli occupanti sovietici arrivano a Berlino e Roosevelt trasloca presso il creatore); ci infila, nei righi dei violoncelli 3-4-5 e dei tre contrabbassi, una citazione letterale della marcia funebre dell'Eroica, aggiungendovi sotto il motto: In memoriam!















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Non l'avesse mai fatto: un azzeccagarbugli olandese - stando a Bruno Walter, che ne raccolse l'indignazione – troverà un'analogia con Napoleone, primo dedicatario della terza, e dichiarerà quindi trattarsi di un anticipato epitaffio a Hitler (al tempo ormai asserragliato nel suo bunker, dove si preparava a festeggiare con qualche grattacapo il 56° compleanno) e quindi da bandirsi come apologia del nazismo (?!)

Pochi giorni dopo, precisamente nelle stesse ore del 30 aprile in cui il Führer si decide a farla finita, a Garmisch arrivano gli occupanti americani per requisirgli la villa: salvata questa per puro miracolo (vuole il caso che l'ufficiale esecutore sia un ammiratore delle sue opere!) Strauss non può però sfuggire agli oneri (umiliazioni incluse) della de-nazificazione e così – quattro mesi dopo aver compiuto le 81 primavere – parte per il suo esilio in Svizzera (si direbbe… sulle orme di Wagner) dove chiuderà la sua interminabile stagione continuando a scrivere musica, e grande, come il Concerto per oboe e gli ultimi Lieder, prima di tornare – nel 1949, ma ormai solo per morirvi - nella sua casetta di Garmisch.

In Svizzera, Strauss dovette inizialmente mendicare un po' di compassione, e ne trovò parecchia in tale Paul Sacher (niente a che vedere con le torte viennesi) un musicista diventato anche, per tramite di un matrimonio farmaceutico, uno degli uomini più ricchi del globo, e musicalmente assai attivo sulla direttrice Basilea-Zurigo. E proprio Sacher - lui accanito sostenitore della musica moderna e senza alcuna affinità elettiva con quella di Strauss - venne generosamente incontro al vecchio marpione, allora caduto in disgrazia (ma se l'era ampiamente voluta, cercata e meritata, o no?) patrocinandone prima la composizione e dirigendone poi, a fine gennaio 1946, la prima esecuzione di Metamorphosen, da parte del Collegium Musicum Zürich, da lui fondato pochi anni addietro. Insomma, un poco più in piccolo, interpretò il ruolo che Otto Wesendonck aveva ricoperto quasi un secolo prima nel caso-Wagner. Ecco perché nell'edizione a stampa il lavoro è doverosamente dedicato a Sacher e al CMZ.

Un lavoro in cui Strauss sembra aver voluto dolorosamente incapsulare tutto un passato: massimamente – proprio nel momento della catastrofe del Terzo Reich - il glorioso ottocento tedesco, da Beethoven a Bruckner, da Wagner a Mahler, senza dimenticare Bach (né sè medesimo, naturalmente). Epperò nel tema iniziale - e colonna portante dell'intera opera - che scende da dominante a sensibile di DO minore, non si può non riconoscere piuttosto il celebre Adagio di Albinoni! Invece, a dispetto dell'assenza di armatura di chiave e della presenza di innumerevoli modulazioni, nessun ammiccamento alla nuova musica, che gli rimase totalmente estranea, sino alla fine.

Nagano e i 23 splendidi solisti dell'Orchestra bavarese ne cavano un'interpretazione ultra-intimista, quasi tutta fra il piano e il pianissimo, proprio come di voci che – cantando mirabili quanto sfuggenti melodie - prendono commiato dal mondo sensibile. Davvero un'esecuzione coi fiocchi, tanto di cappello e… tanti applausi.

Dopo l'ultimo Strauss, il Bruckner della Settima, con l'immensa Orchestra disposta secondo la tradizione tedesca. Anche qui c'è di mezzo un funerale, ma non è (ancora) quello dell'intero pianeta, solo quello del grande incantatore (al secolo: Richard Wagner) che lascia tracce soprattutto nell'Adagio, da Bruckner allungato di 35 misure precisamente sotto l'emozione provocatagli dall'annuncio della Tod in Venedig.

Ed è proprio l'Adagio il protagonista della serata: una cosa indescrivibile, fin dall'ingresso delle 4 tubette wagneriane, che introducono il MI maggiore su cui gli archi espongono il solenne tema principale, roba da togliere il respiro. Sempre emozionante poi il sopraggiungere improvviso del tema in 3/4, FA# maggiore:





Impressionante il crescendo, che porta al famoso quanto apocrifo schianto dei piatti, prima della stupefacente cadenza conclusiva di tubette e corni (che è proprio un altro, grande In memoriam!)

Ma tutta la sinfonia, da cima a fondo, è un'autentica emozione. Bruckner la chiude con una cadenza quasi sospesa, che anche stavolta lascia un po' interdetti gli ascoltatori, che magari si aspettano i soliti pesanti accordi, sottolineati da un colpo secco dei timpani, e che ci mettono qualche secondo a carburare i dovuti – e poi robusti e convinti - applausi. Che si protraggono ancora per parecchi minuti, con ripetute chiamate per Nagano, che fa alzare separatamente le sezioni dei fiati, vere protagoniste in questa sinfonia. Bello il gesto dei due violini di spalla che, prima di abbandonare il palco, si abbracciano calorosamente, proprio a mostrarci come il suonare – e bene! - sia per loro un piacere, prima e oltre che una professione.