affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

11 gennaio, 2010

Henze e Mahler a SantaCecilia

Poco fa Radio3 ha irradiato in diretta la seconda esecuzione (dopo la prima assoluta di domenica) di Opfergang di Hans-Werner Henze diretta da Antonio Pappano con la SantaCecilia.

Il Maestro legge un breve e poetico sunto dell'Opera, scritto proprio dal compositore, ci fa una rapida analisi del brano e poi si mette al pianoforte, che concerta con l'orchestra a supporto dei cantanti. Che dire? Difficile giudicare al primo ascolto (e probabilmente anche al secondo e terzo e quarto… come sempre accade quando ci si confronta con la tecnologia musicale dodecafonica); restano le sensazioni epidermiche di una musica che non sembra lasciare spazio alcuno a ottimismo e positività… che però emergono proprio quando la musica tace, nelle parole del cagnolino ormai passato a miglior vita: Die Liebe fängt an (comincia l'Amore).

A seguire Das Lied von der Erde di Mahler. Musicista che scopriamo oggi - grazie all'agenzia di stampa del simpatico Capezzone (detto anche la-voce-del-padrone) - aver vissuto fino alla veneranda età di 100 anni!

C'è un legame artistico-estetico fra le due opere: il concetto di morte, fisicamente imposta o serenamente prefigurata; poi anche uno biografico, impersonato da Franz Werfel, autore del testo di Opfergang e terzo marito (dopo Mahler e Gropius) di Alma Schindler.

Esecuzione davvero impeccabile dell'orchestra (non così mi è parso della ripresa audio, che spesso ha messo i legni troppo in primo piano); qualche sbavatura negli attacchi dei cantanti, comunque più che meritevoli e pulitissima l'interpretazione di Pappano, che mi è parso rispettare alla virgola la lettera e lo spirito di questa straordinaria partitura.

10 gennaio, 2010

Inizio d’anno con l’altro Strauss

Oltre al tradizionale concerto dedicato agli Strauss viennesi, le onde della radio e/o i torrenti di bit della banda larga ci hanno portato, tra la fine del 2009 e questo inizio 2010, due produzioni del Metropolitan dello Strauss bavarese: si è trattato di Elektra, ripresa il 26 dicembre anche da Radio3, e di Der Rosenkavalier - protagonista Renée Fleming - che sabato sera è stato diffuso da varie web-radio europee (la RAI ha invece optato per la Manon viennese). Due esecuzioni di buon livello nella resa orchestrale, ma discreto, direi non di più, nelle voci, almeno all'ascolto in cuffia.

Ma nei prossimi giorni di Strauss se ne produrrà assai qui da noi, dapprima a Bolzano e poi in Emilia, sull'asse Bologna-Modena (seguite da Piacenza-Ferrara): in scena andranno precisamente Salome ed Elektra. (In attesa della maggiolina Die Frau ohne Schatten).

Sono le due opere (54 e 58 del catalogo straussiano) che, proprio all'inizio del '900 (1905-09) portarono un'autentica rivoluzione nel mondo del teatro musicale, sotto tutti i punti di vista: soggetto, forma, canto, orchestrazione. Sono anche due soggetti che hanno – fu Strauss per primo a paventarlo – diversi punti in comune: genere tragico, ambientazione storico-mitologica e implicazioni psicanalitiche. Come accadrà praticamente per tutte le opere del nostro, hanno protagoniste femminili. E le due tragedie si chiudono con le loro sfrenate - quanto fatali - danze.

Altra caratteristica comune alle due opere è l'ipertrofia della compagine orchestrale, specialmente nella sezione fiati. In Salome (Salòme sarebbe l'autentica pronuncia, ricordava Hofmannstahl con un filino di spocchia, forse per non essere stato lui a scriverne il libretto) abbiamo, fra i legni: 3 flauti, ottavino, 2 oboi e corno inglese, heckelphon, 5 clarinetti (uno in MIb), clarinetto basso, 3 fagotti, controfagotto. Ottoni: 4 trombe, 6 corni, 4 tromboni, contrabbasso-tuba. Percussioni: tamburino, tamtam, timpani, timpano piccolo, tamburo piccolo, grancassa, triangolo, glockenspiel, piatti, castagnette, xilofono, legno. Poi la partitura prevede 2 arpe. Gli archi, di cui non è precisamente indicato il numero, sono talora divisi in varie parti (4 i violini primi, 5 i secondi, 5 le viole, 5 i violoncelli, 2 i contrabbassi). E come non bastasse: celesta, armonium e organo!

Certe fanfare di corni (che udiamo in specie ad accompagnare il pontificante Jochanaan) forse sarebbero più adatte a scenari di alpeggi bavaresi, che non alle dolci colline di Palestina… e infatti le ritroveremo più avanti nella Alpensinfonie e un pochino pure nel Rosenkavalier! Però… che musica, ragazzi! Come pure questa:













A Bologna – con ripresa Radio3 della prima di sabato 16 gennaio - la Salome sarà diretta da Nicola Luisotti, che si è da poco insediato a SanFrancisco, come successore di Runnicles.

Elektra prevede precisamente in organico 62 archi: 24 violini (divisi in 6), 18 viole (divise in 5), 12 violoncelli (divisi in 4) e 8 contrabbassi (divisi in 2). Due arpe. Legni: 3 flauti, ottavino, 2 oboi, corno inglese, heckelphon, 5 clarinetti (uno in MIb), 2 corni di bassetto, clarinetto basso, 3 fagotti, controfagotto. Ottoni: 4 corni, 4 tubette wagneriane (anche come 4 corni aggiuntivi), 4 trombe (una bassa), 3 tromboni, trombone contrabbasso, contrabbasso-tuba. Percussioni: timpani (con 2 esecutori), glockenspiel, grancassa, piatti, triangolo, tamburino, tamburo militare, tamburo piccolo, 2 castagnette, legnetti, tamtam. In più la celesta.

La parte della protagonista è di quelle da far tremare… l'ugola. Tanto per dire, nella citata recente produzione al MET, peraltro magistralmente diretta da Fabio Luisi, la Susan Bullock si è concessa un bello sconto, tramite due generosi quanto barbari tagli, nei duetti con Clitemnestra e Oreste (questa dei tagli sembrerebbe peraltro un'usanza costante in quel teatro, visto che anche il Cavaliere di sabato non ne è andato esente).













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A Modena sul podio ci sarà Gustav Kuhn, una garanzia in questo repertorio, reduce oltretutto dalle due serate di Bolzano.

Entrambe le opere sono in un unico atto, ed anche la loro durata è assai simile: poco più di 90 minuti. Chissà se a qualcuno è mai venuto in mente di rappresentarle nella stessa serata? In fin dei conti, non supererebbero in durata lo stesso Rosenkavalier, tanto per dire. E forse oggi, a differenza di qualche decennio fa (quando la prima italiana di Elektra alla Fenice fu fatta seguire dal rossiniano Bruschino, in qualità di antidoto) noi avremmo meno problemi a digerire due cruente tragedie in rapida successione... (o no?)

In ogni modo, staremo a vedere e sentire.

08 gennaio, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 13

Inizio di 2010 nel segno del più profondo classicismo austro-tedesco.

Ivor Bolton, cinquantunenne grassottello del Lancashire, passato alla direzione dal clavicembalo, ha diretto laVerdi in due autentici capolavori del terz'ultimo passaggio di secolo. (A proposito, anche il penultimo è stato costellato da innumerevoli opere di grandi figure, entrate nella storia… L'ultimo?)

Il nostro dirige alternando movimenti molli e flessuosi ad altri invero marionettistici. Poi brandisce la bacchetta come una spada e, nell'andante beethoveniano, fa un affondo à la Montano, scaraventando a terra un pacco di fogli della parte del primo violoncello (musica già eseguita, per fortuna…) Insomma, un gran gigione, che sembra anche - lo dico con il massimo del rispetto e persino con simpatia (smile!) – un po' gay.

A parte queste curiose qualità esteriori, Bolton rispetta alla lettera le indicazioni dei da-capo sia in Beethoven che – soprattutto, perché sono davvero parecchi – in Mozart. Cosa che pochi maestri fanno, accampando discutibili ragioni estetiche (seguendo una moda in parte alimentata, nel secolo scorso, dai vincoli imposti alla durata delle esecuzioni dalle necessità di incisione su disco) ma che è tutt'altro che censurabile, in specie quando si ha a che fare con musica sopraffina, che non ci si stancherebbe mai di riascoltare.

Per la Jupiter del sommo Teofilo l'orchestra è proprio quella settecentesca, poco più che cameristica, così come prescritto dalla partitura: qui un solo flauto e niente clarinetti, archi assai ridotti di numero e disposti secondo layout antico (tutti i violini davanti). Anche la simpatica Viviana (oltre che bravissima timpanista) impiega delle bacchette sottili con testa dura. Pur senza arrivare agli eccessi delle HIP (Historically Informed Performance, con uso di strumenti d'epoca, o millantati tali, e rinuncia al vibrato) si è però potuta sentire una Jupiter come forse l'ascoltarono i viennesi nel 1788… E assai diversa, francamente, dalle solite esecuzioni moderne che impiegano organici ipertrofici, soprattutto nella sezione degli archi (nel bene e nel male, comunque). In definitiva, una scelta e una proposta intelligente e interessante.

Indi la Pastorale di Beethoven. Qui, essendo passati quasi vent'anni dalla Jupiter, l'orchestra è proprio moderna, sia come numero di esecutori che come disposizione degli archi (violoncelli sul proscenio). Per la verità (in omaggio al sottotitolo) alcuni strumenti sono impiegati da Beethoven con estrema parsimonia: ottavino e timpano esclusivamente nel passaggio del Temporale; trombe e tromboni nello stesso passaggio e nel Finale. Bolton tiene tempi in genere abbastanza rapidi, rispetto al metronomo beethoveniano, ma la cosa non disturba affatto, anzi. Esecuzione di tutto rilievo, con particolare encomio per i legni e per i due corni, davvero superlativi, soprattutto nei difficilissimi passaggi dei due movimenti conclusivi.

Successo pieno e grandi applausi. Il prossimo appuntamento vede ancora una sinfonia di Beethoven (alla settima, seconda, nona e sesta, già eseguite, nella stagione seguiranno poi tutte le altre) accerchiata da Liszt (e Schubert).

07 gennaio, 2010

È ancora Natale alla Verdi

LaVerdi Barocca ha celebrato il Natale anche alla Befana con il celebre Oratorio bachiano, che del resto copre esattamente l'arco delle festività dal 25 dicembre al 6 gennaio.

Per curiosità riporto i giorni della settimana e le due chiese principali di Lipsia in cui furono eseguite per la prima volta le sei cantate, raggruppate successivamente in Oratorio:

Natale 1734: sabato (mattino a S.Nicola, pomeriggio a S.Tommaso)

Santo Stefano 1734: domenica (mattino a S.Tommaso, pomeriggio a S.Nicola)

III di Natale 1734: lunedi (mattino a S.Nicola)

Capodanno 1735 (circoncisione): sabato (mattino a S.Tommaso, pomeriggio a S.Nicola)

Prima domenica di Gennaio 1735: 2 gennaio (mattino a S.Nicola)

Epifania 1735: giovedi (mattino a S.Tommaso, pomeriggio a S.Nicola)

(È la configurazione di giorni che si ripeterà fra un anno, fine 2010 – inizio 2011).

Ruben Jais, Direttore residente de laVerdi, nonché fondatore de laVerdi Barocca, ha guidato (con Gianluca Capuano all'organo) i complessi strumentali e corali e i quattro solisti lungo questo grande pellegrinaggio musicale in sei tappe in Terrasanta, che dura circa 2 ore e 40 minuti. C'è chi sostiene che – senza fare tagli – sia impossibile eseguirlo tutto in una sola serata; ma Jais ha bellamente smentito questa teoria, rispettando anche scrupolosamente tutti i da-capo e concedendosi solo due brevi intervalli dopo la seconda e la quarta giornata.

Martedi c'era stata l'anteprima Discovery per i soci della Fondazione, una specie di lezione di Jais, seguita da una prova ridotta e senza solisti, ma col coro, dove si erano potuti ammirare ed ascoltare da vicino alcuni pregevoli strumenti d'epoca, in dotazione al complesso (ragazzi e ragazze, tutti bravi e belli), come oboi e corni da caccia, oboi d'amore e flauti traversi, trombette barocche e un bel violone, che riprende il posto del contrabbasso. Completano l'ensemble violini, viole, violoncelli, fagotto e organo.

Ieri sera (platea dell'Auditorium al completo) gran trionfo per tutti: gli strumentisti, chiamati fra l'altro a superare difficoltà non da poco, alle prese con quegli sbifidi strumenti d'epoca; i coristi di Gianluca Capuano, sempre efficaci e precisi nei cori e corali ricchi di contrappunto; e i quattro solisti, cantanti più che dignitosi anche se dai nomi non proprio familiari a tutti, che hanno ben esposto arie e recitativi.

Insomma, un'esecuzione apprezzabile, forse proprio simile – chissà - a quelle che Bach stesso dirigeva nelle chiese di Lipsia. Chiusa con un bis dell'ultimo Corale in RE maggiore, con i solisti mescolatisi ai ragazzi del coro, a scandire "presso Dio ha il suo posto la stirpe umana". Un meritato successo per Jais e per questa sua creatura che è un altro fiore all'occhiello della Fondazione.

31 dicembre, 2009

Stagione dell’OrchestraVerdi - 12

Come antipasto – e poi dessert – al pranzo viennese, laVerdi offre da anni un grande concerto che vede impegnato l'intero organico della Fondazione.

Come accade in occasione di esecuzioni di massa, il palco dell'Auditorium di Largo Mahler mostra tutta la sua angustia, anche se il sardinesco assembramento di strumenti e voci forse restituisce agli ascoltatori – a loro volta in numeri da tutto esaurito - un suono più compatto e concentrato. Orchestra in disposizione moderna e solisti sul proscenio. Agli ordini di Wayne Marshall: oltre ai professori, la soprano Helena Juntunen, la contralto Maria Josè Montiel (già ascoltata ed apprezzata nel Requiem verdiano), il tenore Kor-Jan Dusseljee e il basso Stephen Gadd. Agli ordini di Erina Gambarini, il pregevole Coro de laVerdi.

Marshall: lui era alla prima esperienza con la Nona. Dal simpatico negretto albio-caraibico c'era da aspettarsi qualcosa di speciale, e infatti lui non ha deluso le attese. Facendo il rapinatore. Non nel senso di gangster, per carità, ma per l'uso, anzi direi proprio l'abuso che ha fatto del rubato. Credo che non una pagina della partitura ne sia andata immune. Fin dall'esposizione del tema dell'Allegro ma non troppo, da lui attaccato con saltelli quasi à la Oren e con piglio da centometrista.

Nello Scherzo, sempre tirato con tempi ultra-toscaniniani, il nostro ha rimediato qualche secondo in più eseguendo due dei tre da-capo (esposizione e seconda sezione del trio) che quasi nessuno si sogna di fare più.

Anche l'Adagio molto è stato attaccato con un bel 10% in più rispetto al metronomo beethoveniano (60 semiminime) come pure l'Andante (63), ma la peculiarità dell'esecuzione risiedeva nei continui strappi ed elastici dei tempi. Cosa che perdoneremo, essendo la circostanza un pochino, come dire… goliardica.

Nel Finale si è sentito il meglio, grazie al coro della Gambarini, in grandissima forma, ed anche ai solisti, che han fatto dignitosamente la loro parte. Un bravo incondizionato ai professori, in testa ai quali metterei l'ottavino, i corni e i violoncelli&contrabbassi, impeccabili questi nel loro recitativo.

Grandi applausi e ripetute chiamate, che convincono Marshall a provare il suo stentato italiano: per fare gli auguri e per annunciare un bis. Il sempre più allegro, prestissimo finale dell'inno schilleriano, ora cantato anche dai quattro solisti, che si aggiungono al coro (ma nessuno li ha sentiti, per la verità, tanto erano sovrastati da quello).

Altre ovazioni a concludere la kermesse.

Passata la Befana, nuovo appuntamento con un programma super-classico: Wolfgang&Ludwig.

27 dicembre, 2009

Neujahrskonzert n 71 (+ Tod in Venedig)

Passato il Natale, è tempo di pensare al Capodanno. Georges Prêtre torna - per la seconda volta, dopo il 2008 – a guidare i Wiener nel tradizionale concerto di capodanno.

Il programma (cui vanno aggiunti i due immancabili extra – Danubio e Radetzky) ospita, oltre alla famiglia Strauß (ben 4 rappresentanti) anche Otto Nicolai, con le sue Comari, Jacques Offenbach (altre comari… Die Rheinnixen) e Hans Christian Lumbye, un danese innamoratosi dei viennesi, tanto da essere chiamato lo-Strauss-del-nord. Curiosità: tranne i bis finali, si tratta di un programma che non ha alcun brano in comune con quello di due anni fa. Appuntamento Radio3 alle 11:15.

Per gli amanti delle lotterie, dal 2 al 23 gennaio sarà aperto – esclusivamente via internet , siamo nel terzo millennio! – l'inoltro delle domande di biglietti per il concerto 2011. I posti verranno estratti a sorte a fine gennaio. Buona fortuna!

In televisione (RAI1) sta diventando tradizione (smile!) fare gli autarchici e trasmettere in diretta dalla Fenice. Dove si programma un Concerto di Capodanno assai strampalato: prima del pout-pourri di belcanto italiano (inquinato peraltro da due pagine della Carmen, quasi a voler fare lo sberleffo alla Scala) viene eseguita, dal prestigioso Sir John Eliot Gardiner, la settima sinfonia di Dvorak. Va bene che siamo in tempi di vacche magre, ma un'opera sottotitolata Da anni infelici e da molti definita La Tragica (del boemo) non parrebbe proprio materiale adatto per festeggiamenti e auguri di buon anno. Chissà, forse Sir John ha voluto portare al concerto un tocco della sua Albione, scegliendo la sinfonia commissionata a Dvorak dalla London Philharmonic Society nel 1884 e che vide la luce l'anno successivo a Londra. Comunque il brindisi non mancherà: nel brano conclusivo saranno Antonacci & Meli a sollevare i calici!

22 dicembre, 2009

Concerto di Natale verdiano alla Scala

Dopo il Requiem, che ha ricevuto per la verità accoglienze controverse, Daniel Barenboim si ri-cimenta nel Verdi sacro per il Concerto natalizio della Scala. Teatro con parecchi vuoti, probabilmente conseguenza del maltempo.

Orchestra con disposizione moderna, salvo l'inversione di leggìi fra violoncelli e viole, forse per non soffocare queste ultime fra i bassi.

Come antipasto, il Quartetto trascritto per orchestra d'archi. Barenboim dirige a memoria e senza bacchetta. Come sempre in questi casi, l'esecuzione da parte di un grande complesso aggiunge turgidezza e maestà alla composizione, ma fatalmente la priva della sua caratteristica peculiare: l'aspetto solistico (caso emblematico ne è il cantabile in LA maggiore del Prestissimo, affidato ai violoncelli). Perciò accontentiamoci, prendendo atto dell'estrema cura che gli archi filarmonici e il Maestro hanno profuso per portare questo capolavoro alle nostre orecchie nel modo migliore.

Senza intervallo, entrano tutto il resto dell'Orchestra e il Coro per i Quattro Pezzi Sacri. Qui Barenboim si fa portare leggìo e partitura, ed entra brandendo la sua bacchetta… che però lascerà depositata sul leggìo.

L'Ave Maria si appoggia alla famosa scala enigmatica (sconquassata, come Verdi la chiamava) del bolognese Adolfo Crescentini: DO - REb - MI – FA# - SOL# - LA# - SI – DO (con intervalli di 1-3-2-2-2-1-1 semitoni). Che incombe dapprima sui bassi, poi sulle contralto, indi sui tenori e infine sulle soprano, prima dell'Amen conclusivo. Quale che sia l'enigma che ci sta dietro, Verdi mostra di saperne cavare un gioiello di armonia e melodie. E il coro di Bruno Casoni ce lo presenta con grande precisione e soprattutto con appropriatezza di espressioni.

Lo Stabat Mater di Barenboim rende tutta la profondità del doloroso testo di Jacopone. Una particolare menzione meritano l'arpa e gli strumentini per lo stupendo accompagnamento del Paradisi gloria, con sestine puntate, mirabilmente sottolineate da quelle degli archi alti. Dopo l'Amen, davvero cupo, come Verdi prescrive, il suono di clarinetti, fagotti e corni, imitati da viole e violoncelli, con l'aggiunta dei contrabbassi nelle ultime due misure, a riproporre l'iniziale Stabat mater dolorosa.

La dantesca Laude della Vergine impegna ancora il solo coro, anzi le sole signore, veramente brave nell'esprimere i diversi dolce, dolcissimo, cantabile dolcissimo e calmo, morendo, che Verdi dispensa a piene mani nelle 86 battute del brano.

Infine il Te Deum, con il cantus firmus iniziale e i due cori che sembrano farsi eco in lontananza, prima dell'esplosione del SOL sul pedale di MIb maggiore che infiamma l'atmosfera. Per la chiusa compare, in un angolino del coro, e facendo una piccola digressione dal para-religioso personaggio dante-bizetiano di Micaëla, Adriana Damato. Qui deve cantare poche battute, ma per lei assai appropriate, in vista dell'ultima recita di Carmen: In te, Domine, in te speravi. Il suo SI acuto in diminuendo parrebbe di buon auspicio…

Milano, come spesso le accade, non ha mezze misure. Così siamo circondati da montagne di neve, ora infradiciate dalla pioggia, che danno al centro cittadino più l'aspetto di una discarica, che di un presepe. Ma comunque sia, Buon Natale!

21 dicembre, 2009

Problemi per il giubileo wagneriano 2013


Come molti sanno, nel 2013 cadrà il 200° anniversario della nascita di Wagner (e anche di Verdi, en passant…) Per Wagner sarà anche il 130° dalla morte. Insomma, un cumulo di ricorrenze che metteranno Bayreuth al centro dell'attenzione (non solo artistica, ma mediatica) del mondo musicale dell'intero pianeta.

Una delle principali iniziative in vista del giubileo era stata proposta ed avviata dalla stessa Università di Bayreuth, Istituto di Ricerca sul Teatro Musicale, nella persona del titolare della cattedra di Scienza della Musica, il prof. Anno Mungen.

L'idea era quella di sfruttare le enormi potenzialità di Internet per presentare ed approfondire una serie di temi legati a Richard Wagner. Il progetto aveva un nome ben preciso: W.WW2013Wagner WorldWide 2013. Nel 2011 avrebbe dovuto andare in onda e operare il Portale del progetto.


Le idee del Prof. Mungen erano lodevoli: niente busti di Wagner di marzapane, niente magliette o bottiglie di birra con l'effige del Maestro. Ma la proposizione di una serie di temi di interesse generale, legati in qualche modo a Wagner, così articolata:


La Natura e l'Ambiente
Il Sesso e le Donne
I Media e i Film
La Storia e il Nazionalismo
La Globalizzazione e i Mercati


Il tutto presentato attraverso manifestazioni fieristiche (a Bayreuth, Monaco, Lipsia ed altri luoghi wagneriani) ma soprattutto sul web; dove si pensava di affidare la trattazione di ciascun tema a gruppi di lavoro dislocati nei cinque continenti.

Insomma, un progetto grandioso, proprio come lo erano le idee del megalomane Maestro! E quindi bisognoso di risorse, in primo luogo finanziarie, adeguatamente proporzionate.


Ecco, oggi il Prof. Mungen rinuncia (pur tenendosi stretti i diritti dell'invenzione). I finanziamenti disponibili o promessi non coprono nemmeno i costi della prima tranche del progetto (costo totale: 450K€ in tre anni). Sotto accusa la città (i responsabili della cultura del Comune) e i vari circoli che avrebbero dovuto appoggiare e finanziare il progetto. Quindi, meglio chiudere baracca e burattini.


La prospettiva pare piuttosto cupa: scarsità di fondi e mancanza di altri progetti rischiano di ridurre il Doppeljubiläum ad una sagra di paese, con bancarelle che vendono Wagner di marzapane e magliette e bottiglie di birra con l'effige del povero Richard…

19 dicembre, 2009

Hanno ammazzato comare Cammelina! Cu fu?



Non sono state smentite: abbiamo sentito la Carmen di Bizet. Una discreta (selon moi) Carmen di Bizet.
Abbiamo visto? Dipende: per taluni, una trojata underground anni '70; per pochi (mi spiace vi sia incluso anche il mio idolo Daniel, parte in causa, oltretutto) la Carmen del millennio. Per i più: una moscia e bambinesca mistura di deja-vu, senza capo né coda. Io mi colloco di sicuro in quest'ultimo mucchio, poi fornirò qualche dettaglio.
La Dante ieri sera non si è presentata al proscenio. Paura di una nuova salva di buuh? Nel caso, paura ingiustificata: visti gli osanna che il pubblico, loggione in testa, ha riservato anche agli interpreti degni di censura senza appello, forse anche lei avrebbe portato a casa un successo.
Ma qui bisogna prenderla più alla larga…
***
Monsieur Lissner, gran ciambellano del Teatro, ha una sua idea del presente e del futuro del baraccone: la Scala è un oggetto particolare, diverso da ogni altro al mondo. Chiaro per tutti? Anche a Roma, Napoli, Firenze, e Torino? (mi scuso se non nomino gli altri.)
Bene, quindi, per il futuro: assetto ultra-privilegiato, anzi proprio esclusivo, che significa nessun vincolo agli aiuti di Stato, quindi quattrini a volontà (togliendoli a tutti gli altri, quando scarseggiano, come ora). Per fare cosa? E questo riguarda anche il presente.
Per fare qualcosa che vada al di là del puro allestimento di opere. No – pontifica Lissner - la Scala non può e non deve limitarsi a mettere onestamente e professionalmente in scena i capolavori della lirica e dei drammi musicali. No, deve fare molto di più, deve stupire, compreso il dare scandalo, se serve. (Perché solo così si giustifica lo status esclusivo che si pretende di vedersi riconosciuto. Sbaglio, o questo trucco è vecchio quanto il mondo?)
Ora, qual è lo strumento principe per raggiungere un obiettivo quale l'unicità, o l'eccezionalità? Chiunque abbia cognizione di causa della natura del teatro musicale, mescolata ad un minimo di comprendonio, risponderebbe: attirare alla Scala er-meio-der-mejo-der-meyo di strumentisti, cantanti e direttori. Invece a cosa assistiamo noi? Ad una politica che non fa nulla più di un onesto sforzo (sì, nulla più: è ciò che fanno tutti gli altri sovrintendenti, a parità di fondi disponibili) per assicurare al Teatro le risorse fondamentali di cui sopra. Ma allora,come si può pretendere l'eccezionalità? Ecco, cercando di stupire – ah, la diversità! - con allestimenti di rottura; e chi se ne frega se, invece di valorizzarli, involgariscono i capolavori che vengono messi in cartellone? (Tanto il pubblico è bue, e va sorpreso, mica servito o educato!)
Ecco, la Carmen-09 è l'esempio paradigmatico di questa brillante politica. Un'orchestra e un coro più che dignitosi? Certo, ma se fossi un fiorentino, o un napoletano, o un seguace di SantaCecilia mi offenderei a morte, al sentirli definire come di livello superiore. Il Direttore? Uno dei migliori, fuor di dubbio, ma quelli che dirigono al Maggio, al Regio, all'Opera, al Massimo (e resto in Italia!) cosa sono, baluba? I cantanti? Pochi discreti (uno ottimo, per carità) altri promettenti, ma dov'è, caro Lissner, l'eccezionalità?
Intendiamoci, sul piano musicale non sono certo io a fare lo schizzinoso (rilevo solo che chi se ne intende davvero non è propriamente entusiasta): questa Carmen mi è abbastanza piaciuta alla radio il 7 e mi è sufficientemente piaciuta ieri sera al Piermarini. Ma il pretendere che debba fare storia (eh no, caro Daniel!) è un'assurdità, un puro slogan propagandistico, messo in giro da chi ha interesse ad ottenere privilegi che non mostra di meritarsi.
Tanto per chiudere il discorso sul fronte musicale, dirò che Kaufmann è stato superlativo, ma è stato anche l'unico a superare il livello di discreto. Ahinoi l'ascolto dal vivo ha dato responsi peggiori di quello radiofonico per quasi tutti gli altri, a partire da Schrott per finire alla Damato. L'Anitona per radio mi aveva impressionato; non così dal vivo; ha una voce potente, che passa sopra qualunque fracasso orchestrale, ma ciò non basta a farne (ancora) una grande cantante. Avevo sperato che fosse stato l'appiattimento dei suoi della ripresa radio, invece ho dovuto constatare che la ragazza ha un'emissione monotòna, uniforme, ergo senza espressività (non parliamo poi della recitazione, ma qui la regìa non può andare immune da colpe).
Ecco appunto, la regìa. È quell'ingrediente con cui si può surrettiziamente stupire (quando non si riesce a farlo sul piano musicale) come vorrebbe fare Lissner per accaparrarsi tutto il malloppo dei pubblici sussidi. E ci sono due modi per farlo: uno lo chiamerò à la Herheim (vedi il Parsifal in cartellone a Bayreuth) o anche à la Carsen (ad esempio la sua Alcina) dove il regista stravolge totalmente l'originale, ma almeno costruisce attorno alla sua brillante idea una nuova opera d'arte. L'altro è quello à la Bieito (prendere una regìa delle sue a scelta, tanto son tutte uguali) dove si dà gratuitamente scandalo con qualche spruzzata di sesso e volgarità o con invenzioni demenziali. Ecco, la Dante ha mostrato di non saper seguire né l'una, né l'altra strada (né, è pacifico, quella maestra, che consisterebbe nello studiare libretto e partitura e agire di conseguenza).
Nelle Note di Regìa sul programma di sala, la Dante espone il suo Konzept. Una sola frase (Il mondo fanatico e conservatore in cui vivono i protagonisti dell'opera è in totale contrapposizione con quello di Carmen) la dice lunga sull'approccio tenuto dalla regista nei confronti del capolavoro di Bizet. (A proposito del programma di sala, vi compare il classico refuso: bara invece di vara. La nostra non ha neanche rivisto la bozza, evidentemente. Un'altra topica – in un pezzo pregevole - ce la offre anche Rostagno, quando afferma che, in Mérimée, Carmen non appare mai direttamente, ma solo nella descrizione di José: che il nostro abbia letto solo il Capitolo III del racconto?)
E come mette in essere la sua idea, la nostra regista? Portando in scena e in primo piano la religione (come espressione di quel mondo fanatico e conservatore di cui sopra): qualcosa che Bizet e i suoi librettisti avevano accuratamente e deliberatamente ignorato. Questa Carmen è letteralmente infestata da simboli religiosi, materiali (carri funebri, croci, cotte, candelabri e turiboloni) e antropologici (suore, preti, chierici e prefiche nere, bianche, anziane e giovinette). Ora, bisogna sapere che nella Carmen di Bizet la religione non ha alcun posto. Pochi, remotissimi riferimenti: nel dialogo – che del resto viene quasi sempre tagliato, ed è stato tagliato anche in questa edizione – fra José e Zuniga, laddove Josè dichiara di essere cristiano e che la famiglia avrebbe voluto farne un ecclesiastico; nel racconto di Micaëla, che ricorda l'uscita dalla cappella con la madre di José. E nel monologo della stessa ragazza, al momento di affrontare – da sola – il poco rassicurante ambiente dei contrabbandieri.
Non solo. Nel racconto di Mérimée, che la regista deve avere letto e introitato assai più della partitura bizetiana, troviamo soltanto pochi passi che chiamano in causa la religione e la chiesa: le visite dell'autore al Convento dei Domenicani di Cordoba e le due di Josè in anonime chiesette, l'ultima delle quali poco prima del tragico epilogo. Nel racconto, prima di portarla nel bosco dove la ucciderà, Josè si reca in una piccola pieve di campagna e fa dire una messa votiva – a futura memoria – per Carmen. È una scena di grande umanità, non c'è presenza della Chiesa, delle sue liturgìe, dei suoi candelabri e dei suoi turiboli… solo quella della religiosa compassione del solitario prete che accoglie la richiesta di José, senza fargli domande se non proporgli di aprire la sua anima e ascoltare i consigli di un cristiano. E il racconto di José si conclude proprio con un ringraziamento ed un apprezzamento per la pietà e la misericordia di quell'anonimo curato di campagna. Il volto umano, caritatevole, della religione.
In questa Carmen invece la religione, anzi il suo potere temporale, rappresentato dalla burocrazia (più che dalla gerarchia) ecclesiastica, e dalle sue espressioni più vuote (carri e prefiche) la fa da padrone. Due esempi? L'accostamento di potere religioso e potere economico, il cui torbido legame è impersonato dalla divisa conventuale delle sigaraie; e quello fra religione e civiltà, rappresentato dalla presenza dei simboli più frusti della prima in una delle espressioni peculiari – per quanto discutibili - della seconda: il mondo della corrida.

Quanto al resto, troviamo in questa regìa – e nelle scene - delle invenzioni di gusto assai discutibile. Qualche esempio: una donna gravida che partorisce per strada – sotto gli occhi di Moralès e compagni che sghignazzano indifferenti e fanno commenti sui passanti; i battitori ambulanti di tappeti; i vecchi sudati che – a bocca aperta - si fanno aria con i ventagli; i pastrani made-in-DDR di cui sono vestiti i soldati del reggimento di Alcalà; la messa recitata in occasione del duetto José-Micaëla; le due enormi e lunghissime funi che, appese in alto, trattengono Carmen (e Josè) al momento del suo arresto; gli ascensori che conducono alla taverna di Pastia (lasciamoli ai simpatici della Fura, please); i contrabbandieri del terzo atto, avvolti di stracci e cartapesta in modo da sembrare alberi; l'enorme letto in cui viene sepolta Micaëla; i macabri ex-voto che vediamo fuori dalla plaza-de-toros. E mi fermo qui, per non annoiare anche chi non ha avuto la possibilità di farlo, non essendo presente in teatro.
I riferimenti a Mérimée sono parecchi e sempre e regolarmente finiscono col degradare il livello estetico (non parliamo di quello artistico…) della messa in scena. Ad esempio, il bagno delle suorine-sigaraie proprio sotto gli occhi dei maschi concupiscenti, nel primo atto, non è mica una geniale idea della regista, ma viene dal racconto. Perchè è lì, proprio nella prima pagina del capitolo II, che la Dante ha trovato – non a Siviglia, ma a Cordoba – la sua brillante ispirazione. Peccato che il raffinato Mérimée paragoni le fanciulle che si spogliano e si bagnano nel Guadalquivir – nella serotina penombra dopo l'Angelus e osservate da lontano, in modo solo immaginifico, da una moltitudine di uomini – a Diana con le Ninfe! La scena della fuga di Carmen, finale Atto I, non è quella di Bizet, ma di Mérimée, laddove José, rialzandosi dopo la spinta della gitana, blocca di fatto i commilitoni accorsi per catturarla: cosicchè ciò che vediamo ha semplicemente del comico, o dell'incomprensibile.
Ci sono poi forzature indebite, rispetto all'originale, che nascondono forse, o senza forse, messaggi di ribellione politica. Ad esempio il cambio della guardia. Una scena in cui Bizet (e i suoi librettisti) hanno mirabilmente inventato la presenza dei bimbi che marciano e cantano imitando i militari, per colorire in maniera brillante, originale, leggera, simpatica e musicalmente deliziosa un momento dell'Opera che altrimenti sarebbe da Operetta. Cosa vediamo invece? Arrivare dei bimbi vestiti da militari e, con loro, altri vopos mediterranei, che si portano in spalla altri bimbi, che sarebbero poi loro stessi prima di asservirsi per due piastre al lurido potere! Manco a dirlo, la straordinaria freschezza dell'originale bizetiano va a farsi benedire, insieme con il piacere che dovrebbe creare nello spettatore: un grazie di cuore alla regista.
Poi la scena della lite nella manifattura. Attenzione: nell'originale, la zuffa semi-cruenta coinvolge esclusivamente Carmen e Manuela; le altre sigaraie, divise in due fazioni (pro-Carmencita e pro-Manuelita) si limitano ad urlarsi addosso, e ad imprecare contro i militari. Nessun cenno, neanche minimo, a zuffe e accapigliamenti fra loro (neanche in Mérimée, attenzione!) Il libretto effettivamente recita, a proposito delle sigaraie: Elles sont malmenées par les soldats, quindi un poco di violenza qui ci deve essere, sono i soldati che cercano di allontanare le sigaraie che premono su di loro. La Dante, inventandosi un realismo degno di miglior causa, ci propina invece una indisponente gazzarra fra le ragazze, con tiramenti di capelli, scazzottature, calcioni e colpi di karatè e poi ci mostra una carica di polizia assai violenta e disumana da esser degna di quelle del famigerato – suo conterraneo - Mario Scelba, anni '50 (mancano solo le camionette usate come testuggini). Un accanimento davvero morboso, del tutto sopra le righe (anzi, i righi di Bizet) gratuito e quanto mai fuori luogo.
Nel finale dell'Atto II tutti cantano la liberté. Ma sappiamo, da ciò che abbiamo sentito prima, che trattasi della libertà esistenziale e comportamentale di Carmen, oltretutto usata qui strumentalmente e subdolamente dalla gitana per convincere Josè ad arruolarsi fra i briganti del Dancaïre. Invece in scena vediamo una specie di parata, di dimostrazione di un gruppo anarchico che inneggia alla libertà contro un fantomatico potere, coltellacci librati in aria.
I personaggi si muovono o poco o male. Intanto c'è troppo spesso troppa gente in scena, che vaga qua e là solo per movimentare l'atmosfera, con effetto distraente. Carmen è spesso e volentieri piantata come una cariatide (con le mani sui fianchi, vedi Habanera) oppure assume atteggiamenti volgari, fuori luogo e soprattutto infedeli rispetto all'originale: ad esempio nel terzo atto, quando fa le moine a Josè, prima di mandarlo a quel paese, oppure - caso eclatante - nell'ultima scena, dove lei dovrebbe sempre sdegnosamente tenere a distanza Josè, mentre invece sembra addirittura adularlo, per poi stenderlo al suolo con mosse di karatè. Lo stesso mezzo stupro a cui assistiamo è di quelli – il gentil sesso non me ne abbia – che in tribunale vedrebbero lo stupratore assolto perché la stuprata era consenziente!
Micaëla, oltre a tirarsi dietro il codazzo liturgico, fa sempre la parte della donnicciola insignificante, che ha un solo obiettivo: accasarsi. Nulla di più lontano dall'originale bizetiano. Non vorrei fare sotterranee insinuazioni, ma a me pare che sia, nell'Atto I, la Dante a 17 anni e, nell'Atto III, la Dante di oggi, con tanto di mèches bianche…
Le scene? Lo scenografo Peduzzi non è da meno, presentandoci sempre e puntualmente e immancabilmente e pervicacemente l'esatto contrario di ciò che il libretto prescrive (vecchio vizio questo, che si porta dietro dal lontano 1976, Ring del centenario a Bayreuth, e di cui non è andato immune col recente Tristan scaligero). Per la scena che apre l'Opera è stato – dal nostro – riciclato un pezzo dell'orrendo e tetro muraglione dell'altrettanto orrendo Tristan, tuttora custodito all'Ansaldo (così il sovrintendente ha potuto risparmiare qualcosa). Già questo dovrebbe far nascere dei sospetti. Dopodichè, se chiediamo a 100 persone come si immaginano la scena, avendo letto il libretto ed ascoltato la musica (un leggero allegretto in SIb, sul quale i militari se la spassano a guardare l'andirivieni dei passanti) 99 diranno che Peduzzi deve aver capito male, convinto di dover inscenare Il Castello di Barbablu. Oppure ancora che la scena debba essere stata estratta a sorte, pigliando un bigliettino dal cappello, fra altre 150-200 possibili, ma nessuna che avesse minimamente a che fare con l'oggetto del lucroso contratto con Lissner. Poteva uscirne indifferentemente una palestra di body-building, una stradina di Nieuwmarkt (ai tempi…) o il mercatino di Touggourt, una favela di SaoPaulo, o anche una delle banlieue tanto care a Sarkozy. I muri che troviamo nella Carmen di Bizet sono quelli della Siviglia del 1820 che – per l'epoca – dovevano essere di sicuro della massima modernità. Quelli di Peduzzi sono invece ciò che resta e si vede (o si vedrebbe oggi) di quei muri, dopo 200 anni! E ciò dicasi per tutte le scene dell'Opera. Una pura e semplice idiozìa. L'idea dei contrabbandieri-albero sarà di Dante o di Peduzzi? Di Duzzi o di Pedante? Fatto sta che è una ridicola parodia della foresta di Birnam (che qualcuno pensasse di dover inscenare Macbeth? chissà…)
***
Conclusioni e morali?
Il recente scandalo di Zeffirelli, che contemporaneamente insulta la Dante ma fa ancor peggio di lei, decretando l'ostracismo contro cantanti pur graditi al Kapellmeister e ad una folla di ammiratori, è solo l'ultima dimostrazione dell'effetto deleterio indotto dal potere che da anni i sovrintendenti (e Lissner è solo un follower, in ciò) hanno assegnato a chi – invece di serviresi serve dei capolavori del teatro musicale per arricchirsi e/o ottenere notorietà, realizzando a buon mercato le proprie opere d'arte, o le proprie stronzate: i registi.
È ciò che abbiamo vissuto con questa Carmen: ci è stata propinata un'accozzaglia di banalità infantili, luoghi comuni, stupide allusioni, imbecillità travestite da intellettualismo. Un ciarpame che purtroppo il nostro infernale sistema farà immeritatamente sopravvivere in DVD, che apporteranno ulteriore miseria alla nostra già declinante cultura.
C'è solo da augurarsi che i giovani, i nostri figli - magari solo per ignoranza, beata, santa e benedetta, in questo caso! - scarichino in una cloaca tutta questa fuffa. E che i boiardi che siedono sulle sovrintendenze delle Fondazioni abbiano un sussulto di dignità.

18 dicembre, 2009

Stagione dell’OrchestraVerdi - 11

Il programma dell'undicesimo concerto – diretto da Evgeny Bushkov, che ha sostituito Vladimir Fedoseyev, originariamente in locandina, è ancora tutto dedicato alla Russia: in buona parte a quella meno conosciuta (ma stavolta pochissimi i vuoti nell'Auditorium); per il resto, quasi a far da contrappeso, a quella universalmente nota e spesso fischiettata.

Con Orchestra in disposizione moderna, si comincia con Glazunov e il suo Poema Lirico, un Andantino per grande orchestra, composto a San Pietroburgo fra il 1882 e il 1887 e dedicato ad un altro oscuro musicista russo, di una dozzina d'anni più anziano di Glazunov, Nikolai Vladimirovich Shcherbachev. Costui fu labilmente legato al Gruppo dei cinque (nella cui atmosfera postuma - fra attrazioni russofile e repulsioni occidentalizzanti - si trovava anche Glazunov) e coinvolto, nientemeno che con Liszt, in una specie di giochetto inventato da Borodin e consistente nel comporre variazioni al piano sull'albionico tema detto Chopsticks.

Il brano è in tempo ternario (9/8) e in tonalità base di REb maggiore, con brevi divagazioni a MI e RE. L'arpa via ha una parte significativa, a sottolineare appunto il lirismo della melodia. I temi sono principalmente due, quello secondario esposto nell'introduzione in MI, il principale in REb, con andamento discendente, dalla dominante alla sopratonica dell'ottava inferiore. Dopo una sezione centrale (in RE e MI, dove abbiamo un crescendo che ricorda vagamente il preludio del Tristan) il secondo tema ricompare, contrappuntato da flauti e clarinetti con veloci semicrome, prima che il tema principale riprenda il soppravvento, per poi quasi dissolversi nella chiusa in ppp (una semiminima dell'arpa e degli archi in pizzicato mette il sigillo definitivo).

Oltre che di quella del suo mentore Ciajkovski, nel brano si sente un'eco, neanche poi tanto lontana, di Wagner. Ma vi si intravedono segni premonitori di Strauss e anche di Mahler (del resto Franz Liszt, il papà del tardo romanticismo, era considerato il campione della nuova musica dai cinque e dai loro seguaci).

Misurata e composta la direzione di Bushkov, e brava l'orchestra, con gli archi chiamati spesso, col timpano, a lunghi tremoli di sostegno alle melodie dei fiati.

Ancora di Glazunov è in programma il concerto per sassofono contralto e orchestra d'archi. Lo esegue Asya Fateyeva, una ragazza di 19 anni (che quindi non può non essere su Facebook).

Sono passati quasi 50 anni dal Poema, e lo si sente, sia nei contenuti che nella forma. Libera quest'ultima, popolari e moderni i primi, al pari dello strumento solista.

In 4/4 Allegro moderato gli archi introducono il tema principale, in Mib maggiore, poi presentato e sviluppato dal solista; si ha quindi una specie di variazione, nella dominante SIb, con evoluzioni del solista (Allegretto scherzando) che passa in SOL minore, su cui si chiude questa sezione, con un accordo in pizzicato degli archi. Si riprende in Mib, ma per poco, poiché una transizione ci porta nella tonalità più zeppa di bemolli che si possa immaginare (DOb) e in tempo ternario (3/4). È un Andante, dove il solista presenta un nuovo tema ondeggiante, che ci riporta a MIb. Con terzine che salgono e scendono sempre più rapidamente si arriva ad un Andante sostenuto, 5 sole battute in SI maggiore, che introducono un Più mosso, allegretto, con tonalità cangianti continuamente e un altro tema, che viene variato (tempo Passionato, in MI) con ulteriore accelerazione di semicrome (Allegro in MIb) fino al rallentando che reintroduce i 4/4 del tema iniziale, preludio per la cadenza solistica, piena di veloci semicrome.

Adesso una transizione, caratterizzata nel sax da crome con ampi intervalli (ottave ascendenti e discendenti) porta, in 12/8 ad una specie di saltarello (Allegro). Il solista ripropone il tema principale, dapprima molto dilatato, poi variato con terzine sostenute dagli archi. Dopo un breve intermezzo in cui tace, il solista ancora torna sul tema principale, con gli archi che incalzano sempre più, fino ad un Più animato, dove udiamo ripetuti trilli del sax; poi tornano le figure con intervalli di ottava, e si arriva al rallentando che introduce la coda. Accelerazioni e grandi voli di semicrome, una breve pausa per prendere la rincorsa e poi salita alla tonica sopra il rigo, di qui ancora su alla mediante e alla dominante acutissima, ancora svolazzi di semicrome e la definitiva conclusione, con discesa a rotta di collo (16 biscrome) dalla mediante acuta alla tonica, due ottave sotto. Ancora croma e semicroma, per risalire le due ottave, prima che gli archi suggellino il tutto, à la Ciajkovski.

La bella e sorridente Asya ha davvero entusiasmato, con un legato davvero eccellente, e lei stessa appare divertirsi un mondo, il che è di sicuro il modo migliore per far musica. Applausi strameritati del pubblico che si guadagna, a mo' di bis, la ripetizione del saltarello finale.

È l'ultimo concerto prima di Natale, e quindi un riferimento alla festività non poteva mancare (anche il meteo aveva fatto la sua parte ieri mattina, facendoci trovare la città imbiancata da una spolveratina di neve). Ed ecco quindi il ciajkovskiano Schiaccianoci, gli otto numeri della Suite Op.71a, un estratto (più l'ouverture) dai 15 numeri del balletto in due atti.

La suite è costruita in modo estremamente curato, sia nell'ambientazione, sempre leggera e cameristica, che nell'impianto tonale (che spiega la posizione avanzata della Fata e del Trepak, rispetto al balletto); vi compaiono, in una specie di circolo, solo quattro tonalità (maggiori o minori) e sempre distanziate da terze, con la seguente progressione:

1. SIb maggiore: Overture miniatura

2. SOL maggiore: Marcia

3. MI minore: Danza della Fata Confetto

4. SOL maggiore: Danza russa (Trepak)

5. SOL minore: Danza araba (il Caffè)

6. SIb maggiore: Danza cinese (il Thè)

7. RE maggiore: Danza dei mirliton (gli zufoli)

8. RE maggiore: Walzer dei fiori

Bushkov però ci fa una sorpresa, un regalino di Natale, arricchendo la Suite di un numero: dopo i mirliton attacca la sezione iniziale del Pas de deux (SOL maggiore) dove sottopone l'arpista ad un doppio lavoro (la partitura prescrive due esecutori) e dà modo alle percussioni (piatti, oltre che i timpani) di fare il dovuto fracasso. Pubblico plaudente dopo gli accordi finali. Ma il Maestro si gira come a dire: vi è piaciuto lo scherzetto? E subito attacca il conclusivo, strafamoso Walzer. Le ovazioni si sprecano, e così ci viene elargito un secondo Trepak, che chiude in bellezza l'esibizione. Atmosfera calorosa dentro, mentre fuori (qualche altro fiocco di neve avrebbe dato il tocco giusto alla serata) freddo becco, e basta.

Buon Natale quindi a laVerdi. Ci si ritrova per il passaggio dal 2009 al 2010, che sarà onorato con un grandissimo impegno di tutta la compagine: la nona di Beethoven.