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28 maggio, 2012

La Norma del Regio


Ieri terz’ultima delle 11 recite di Norma al Regio torinese, piacevolmente stracolmo. Trattasi di una ripresa dell’allestimento di Alberto Fassini di parecchi anni fa.

Che dire di un’opera sulla quale sono state scritte enciclopedie? Allora la prendo alla larga, esaminando qualche aspetto, come dire… etno-geografico-storico. Intanto, dove è ambientata l’opera? Qui dobbiamo subito rilevare una grande incongruenza del libretto, che consiste nell’ubicare nelle Gallie - quindi nel mondo celtico-druidico-francese - l’Irminsul, che è invece simbolo religioso e divinità tipicamente sassone-germanica.

Questa operazione però non è farina del sacco di Felice Romani, che già dieci anni prima di Norma aveva scritto per Pacini La sacerdotessa d’Irminsul, coerentemente ambientata ad est del Reno. Per il libretto di Norma, Romani si rifece alla tragedia – nuova di zecca al tempo - di Alexandre Soumet, da cui copiò anche questa (ma per fortuna soltanto questa!) incongruenza. Ma Soumet era stato a sua volta convinto a compiere questa forzatura da François-René de Chateaubriand, che nei suoi Les Martyrs aveva deliberatamente importato l’Irminsul nel mondo druidico, in base alla superficiale considerazione che anche i Galli adoravano divinità arboree.

Per la cronaca, la foresta dove si trovava l’Irminsul è posizionabile nella parte nord-orientale di quello che oggi è il Land tedesco Nordrhein-Westfalen, all’interno di un triangolo che ha come vertici Dortmund, Kassel e Hannover. Sulla sua localizzazione precisa ci sono almeno due teorie. Secondo la prima, basata su un fatto storico (la presa di Eresburg nel 772 da parte di CarloMagno, che vi fece distruggere i simboli delle religioni pagane) l’Irminsul si trovava nelle vicinanze dell’odierna Obermarsberg, e precisamente sul vicino Priesterberg (monte dei sacerdoti). La seconda supposizione (che fu avallata dalla propaganda nazista, e qui avanzare qualche sospetto è lecito…) ubica invece il luogo sacro una sessantina di Km a nord, nei pressi dell’odierna Detmold, dove sono ancor oggi visibili le Externsteinen, gigantesche formazioni di pietra che recano delle incisioni e bassorilievi in cui si riconoscerebbe anche l’Irminsul umiliato da CarloMagno.

Irminsul era probabilmente una grande quercia venerata come una divinità, analogamente al frassino Yggdrasil delle saghe nordiche di cui si occuperà – nel suo Ring - tale Richard Wagner. Il quale, guarda caso, fu un grandissimo ammiratore di Bellini e di Norma in particolare, arrivando al punto di scrivere una sua aria (alternativa a quella di Oroveso prima del finale) per una rappresentazione (poi sfumata) a Parigi nel 1839! E come non riconoscere in Tannhäuser e soprattutto in Lohengrin chiari spunti presi proprio da Norma… per non parlare del Liebestod, il cui modello fu quel crescendo sempre e incalzando che accompagna Io più non chiedo, io son felice che Norma canta avviandosi al rogo.

Un’altra curiosità, più o meno rilevante rispetto ai problemi di ambientazione dell’opera, riguarda il periodo storico in cui collocare la vicenda. Il libretto di Romani, per fortuna, non ci lascia molti dubbi – supponendo che il suo Pollione sia proprio il proconsole Gaio Asinio Pollione – nel collocare la vicenda ai tempi di Giulio Cesare, quindi ben prima di Cristo (Pollione fu nominato proconsole nel 39 a.C. e morì nel 4 d.C.)

Invece qui era stato Soumet a fare una gran confusione, fornendoci un’indicazione della massima rilevanza, nel definire Clotilde come una nutrice cristiana, e nel metterle in bocca, nei dialoghi con Norma e il di lei figlio Agenor, giudizi negativi sulle religioni pagane e l’invito ad abbracciare il cristianesimo. Il che comporterebbe di spostare in avanti le lancette dell’orologio come minimo di parecchie decine d’anni, se non di un paio di secoli addirittura, a Pollione ampiamente defunto!

Probabilmente Romani si accorse dell’incongruenza ed evitò accuratamente di adeguarcisi, anche per non introdurre nell’opera un ulteriore, pesantuccio - e, nella fattispecie, fuorviante - aspetto quale il problema del conflitto fra religioni. Nulla di ciò quindi nel libretto, dove Clotilde non solo è semplicemente definita come confidente di Norma, ma nelle sue fugaci esternazioni mostra di essere fedele osservante del culto pagano. Non parliamo poi del finale di Soumet (Norma che ammazza i figlioletti e poi si suicida!) che Romani letteralmente (e mirabilmente) reinventò.  

Detto ciò, com’è l’allestimento di Fassini, ripreso oggi da Vittorio BorrelliLa vicenda ci viene presentata – toh! – precisamente come vien fuori dalla lettura del libretto. Peccato perché, proprio come Butterfly, anche Norma si presterebbe molto bene ad una proposizione in chiave di turismo sessuale (smile!) Vorrà dire che sarà per il prossimo regista-genio.

Sempre come da libretto, i movimenti di tutti i protagonisti e comparse sono ridotti quasi a zero e chi canta – salvo la povera Norma, sdraiata, ma per pochissime battute – lo fa stando sempre in posizione eretta e non da fachiro o contorsionista.
   
Le scene sono austere, proprio minimaliste, in un’ambientazione cupa, con alte pareti di pietra granitica, impersonate da quinte mobili che traslano parallelamente al proscenio, aprendo o chiudendo di volta in volta la vista su panorami più ampi, rappresentati da fondali che raffigurano cieli chiari con una grande luna piena (atto primo) o foreste impenetrabili (atto secondo). L’altare del clandestino Irminsul è sovrastato da due blocchi di granito che ricordano (in scala) la Garisenda e l'Asinelli, forse per far sentire Mariotti a casa sua (smile!)  

I costumi sono più o meno plausibilmente (vedi gli stivaletti di Pollione e Flavio...) dell’epoca romana (repubblicana o imperiale, chi può dirlo?)  

Insomma, una visione abbastanza classica e nobile, che a qualche snob saprà di museo, ma che al sottoscritto non è per nulla dispiaciuta.
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Sul fronte musicale, do senza esitazioni un ottimo a Michele Mariotti: per come ha guidato l’orchestra e soprattutto per come ha pilotato i cantanti, con un gesto sempre essenziale e composto. Ha tenuto tempi comodi, ma mai slentati, né ha ecceduto in enfasi o retorica. Meritatissimo l’autentico trionfo che il pubblico gli ha tributato.

Subito appresso, il Coro di Claudio Fenoglio, che in quest’opera ha una parte determinante, e l’ha sostenuta in modo eccellente.

Note meno entusiasmanti sul fronte interpreti. Aspettavo un grande Marco Berti, e invece è arrivato sul palco il secondo, Aquiles Machado (che Berti aveva sostituito la sera precedente…) Lui ce l’ha messa tutta, ma il suo è un Pollione un pochino… approssimativo; ha anche provato a sparare il DO con corona puntata nell’aria di esordio, con esiti non propriamente edificanti, e per il resto ha navigato sul limite della sufficienza.

Le due protagoniste femminili, Dimitra Theodossiou e Kate Aldrich non mi sono dispiaciute nei loro incontri-scontri-duetti, in atmosfere più intimiste, mentre nelle parti squisitamente solistiche non hanno brillato particolarmente, la prima urlando eccessivamente gli acuti e difettando spesso in intonazione, la seconda mostrando qualche limite nella zona bassa e una certa freddezza nell’espressione. Alla Dimitra il pubblico ha comunque riservato un clamoroso trionfo alla fine di entrambi gli atti: buon per lei!

Bene invece Giacomo Prestia, che ha impersonato un più che degno Oroveso, gran portamento e bella voce penetrante sull’intera gamma. Sì, la parte non sarà tipo Filippo o simili, ma non è proprio una cosuccia da nulla.

Gianluca Floris e Rachel Hauge hanno ben compitato le loro parti di comprimari.
  
Uno spettacolo tutto sommato più che dignitoso, anche se non entrerà in guinness o in annali delle meraviglie.

25 maggio, 2012

Orchestraverdi – concerto n°34


È John Axelrod ad occupare il podio nel concerto di questa settimana in Auditorium. Con un palinsesto che, contrariamente a certe più o meno radicate consuetudini, presenta due composizioni (relativamente) moderne che prendono in sandwich una dell’ottocento più romantico che si possa immaginare.

I due lavori che aprono e chiudono il programma hanno il titolo di Concerto per orchestra (il primo con la specifica di orchestra d’archi) e sono stati composti a breve distanza uno dall’altro (1948 e 1943). Gli autori sono due musicisti del vicino est (Polonia-Lituania e Ungheria) che hanno avuto profondi, anche se differenti, legami con la civiltà musicale mitteleuropea.

Si inizia con Grazyna Bacewicz, il cui Concerto per orchestra d’archi è la più famosa composizione del suo periodo classico (successivamente si sposterà su posizioni più moderniste, dodecafonia inclusa). È in tre movimenti ed è saldamente ancorato alla tonalità (per quanto sui righi non compaiano mai accidenti in chiave).

C’è chi tira in ballo Bach, chi Händel, per dare dei riferimenti formali-estetici di questa composizione. Che però già alla battuta 7 ti spara un bell’accordo di tritono (SOL#-RE) che avrebbe fatto fare il segno della croce ai due imparruccati barocchi (smile!)   
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Il primo movimento (Allegro) è in tonalità base di RE (con parecchie divagazioni…) e presenta in sostanza due temi: il primo, esposto in origine dagli archi bassi e sostenuto da un pedale ostinato di crome dei violini, è costituito da scalette discendenti di semiminime (che portano all’accordo col tritono) che poi verranno riprese dai violini e dalle viole:
Una variante del tema è proposta dai soli violino primo e violoncello, poi abbiamo il secondo tema, energico, in tempo di 2/4 con frequenti intrusioni di 3/4, 4/4 e 5/4, presentato da viole e archi bassi, con incisi di accordi dei violini, prima sincroni e poi sincopati:
Temi che vengono poi ripresi in una specie di sviluppo e ricapitolazione, quasi da forma-sonata, ed è il secondo a concludere su un RE pizzicato di tutti.   

L’Andante (3/4) riprende il ritmo oscillante del pedale di accompagnamento del primo tema dell’Allegro, sul quale il violoncello solo, all’inizio, poi due viole sole, cantano una delicata melodia:
Il tema è sviluppato assai gradevolmente – sembra quasi anticipare certe atmosfere di Ligeti, e nel contempo richiama vagamente l’impressionismo di Debussy - fino ad arrivare ad un climax (accelerando) da cui rifluisce lentamente, per poi chiudere (ancora verso il RE) su note in armonici.

Il terzo movimento è un Vivo (6/8) aperto, sempre sul RE, da martellanti semicrome che introducono il tema di questa specie di Scherzo:

Che è inframmezzato da due specie di Trii (in cui il tempo diminuisce e l’atmosfera si fa languida e rarefatta) prima che il tema principale si rifaccia largo per chiudere - con un anapesto - ancora sul RE in unisono di tutti gli strumenti.
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Questa composizione conferma come si potesse scrivere – ancora a metà del ‘900 - dell’ottima musica impiegando la vecchia cassetta degli attrezzi, senza necessariamente rincorrere avanguardie e sperimentalismi che hanno dato risultati (per me) francamente deludenti.

E gli archi de laVerdi ce l’hanno propinata con gran perizia ed efficacia, sotto l’esperta bacchetta di Axelrod, meritandosi convinti applausi dal non oceanico pubblico.

Ora si fa avanti il 32enne funambolo yankee-tedesco David Garrett, bardato come fosse appena sceso da una Harley-Davidson (gli mancava solo il foulard…) per proporci il Primo Concerto di Max Bruch. Per usare un linguaggio da pasticceria, trattasi di un babà al miele ripieno di mascarpone, ricoperto di panna vanigliata e sciroppo di fragole e guarnito con marron-glacé e cioccolato gianduia liquido. Insomma: al confronto la mappazza del cacao-meravigliaio ha il sapore di un grissino integrale (smile!)  

Per dire: per tutta la partitura è come se il compositore usasse solo i tasti bianchi del pianoforte, servendosi di quelli neri due o tre volte al massimo, e conoscesse solo accordi di tonica e dominante… roba da chiodi! Il culmine di questa melassa lo si raggiunge nell’Adagio, dove incontriamo quella che è la melodia più famosa – delle tante, una più dolciastra dell’altra - del concerto:
Insomma, siamo in un clima adatto ad un episodio di Harmony (smile!) Il vulcanico Garrett pare il primo a digerire con fatica questo pezzo, tanto che ci infila anche qualche gigionata di troppo, compresi un paio di glissando che Bruch si guardò bene dallo scrivere. Certo, lui ha una tecnica straordinaria e col violino può fare ciò che vuole, quindi tutto ok.

Per lui, tifo da discoteca alla fine, così prima fa il solito bis carnevalesco, con accompagnamento chitarristico degli archi, poi si congeda seriamente con Bach. Peccato che, con lui, si congedino anche decine e decine di spettatori (ahiahi!)

Quindi, dopo l’intervallo, è un Auditorium semideserto quello che accoglie il Concerto per orchestra di Béla Bartók, già altre volte eseguito da laVerdi (ad esempio un paio d’anni fa). Altro caso di ottima musica del ‘900 composta, con mezzi tradizionali, da quello che fu probabilmente il più ispirato autore del secolo scorso.

Pezzo che, programmaticamente, impegna gli strumentisti - timpani inclusi - a livello solistico, e i verdiani hanno quindi l’occasione per mostrare le loro eccellenti doti, sciorinando un’esecuzione (quasi) impeccabile, trascinati da un convincente Axelrod.

Perciò tanti e meritati applausi dal poco pubblico rimasto.

Un altro emergente direttore-bambino-prodigio (asiatico, si dà il caso) Darrel Ang ci delizierà (speriamo) la prossima settimana con un Mendelssohn inframmezzato da Testi.

23 maggio, 2012

Alla Scala il Peter Grimes di Jones-Ticciati


La Scala ripropone di questi tempi Peter Grimes di Benjamin Britten, affidata alla coppia londinese di regista-direttore formata da Richard Jones e Robin Ticciati. Dirò subito che il giovane maestro ha dato gran prova di sé, mentre il regista mi ha lasciato tra il perplesso e l’insoddisfatto.

Tanto per cominciare, l’ambientazione. Jones porta tutto ai giorni nostri, ma sempre in Inghilterra (o comunque in un Paese, diciamo così, civilizzato). Orbene, è pur vero che anche nelle nostre società cosiddette avanzate permangono sacche di schiavitù più o meno mascherata, ma – che so – si dovrebbe trattare del solito cinese che fa lavorare bambini per 20 ore al giorno in qualche scantinato, oppure di un grosso amministratore di condomini che schiavizza fino alla consunzione dei poveri co-co-co… Ma che nell’Inghilterra di oggi ancora ci siano pescatori in proprio che sfruttano poveri orfanelli, come due secoli fa beh, mi pare proprio un’idea bizzarra! Di sicuro è fra quelle suggerite in questo manuale del regista d’avanguardia (smile!)

Essendo portata ai giorni nostri, la taverna di zia Auntie (così come la sala civica nel terzo atto) è trasformata in discoteca. Da esse escono i vendicativi borgatari per dare la (seconda) caccia a Grimes, in puro stile musical di Broadway, con i coristi che ballano come al carnevale di Rio, mentre cantano – ohibò – La nostra maledizione cadrà sul suo giorno malvagio. Noi domeremo la sua arroganza. Faremo pagare all’assassino il suo crimine. Una vera parodia, complimenti. 

Abbastanza banale l’ambientazione della baracca di Grimes e patetico il suo gesto di accendere la TV – che trasmette un cartone animato di contenuto marinar-piratesco, ma di quelli per bambini da scuola materna (smile!) - per tranquillizzare il ragazzo, prima della di lui caduta nel precipizio… della buca del suggeritore (mah!)   

Discutibile la scelta di presentare il ritorno finale di Grimes dentro la sala civica, in piena luce, il che toglie gran parte delle suggestioni che la scena dovrebbe avere, se correttamente ambientata al buio e nella nebbia (così anche il Fog-Horn qui pare fuori posto!) Certo, il regista si è risparmiato con questa trovata un cambio di scena in vista del suo finale, ma il risultato è deludente.

E appunto per l’ambientazione della scena finale - che nell’originale è pari-pari, musica compresa, in LA maggiore, quella dell’inizio dell’atto primo – il regista ne ha proprio combinata una delle sue. Così, invece di mostrarci il ritorno del borgo alla vita un po’ sonnolenta e monotona, come nulla fosse successo, lui ci riporta al prologo, mostrandoci un nuovo processo, intentato ora ad Ellen, evidentemente ritenuta complice di Grimes. Questa non solo è un’invenzione bella e buona, ma per di più è totalmente strampalata. Chè, se Jones ci voleva significare che il borgo è sempre in cerca di qualche diverso da eleggere a capro espiatorio (cosa del tutto plausibile) ha proprio sbagliato personaggio. Poiché  né Ellen né del resto Balstrode (che allora potrebbe essere pure lui la prossima vittima) hanno alcunché delle caratteristiche di diversi che il borgo possa prendere a pretesto per farne, appunto, dei capri espiatori: sono onesti e tranquilli pensionati che non potrebbero materialmente far male ad una mosca. A meno che Jones non voglia insinuare che nella società di oggi si prendano per diversi coloro che mostrano semplicemente di avere un po’ di sale in zucca… ma questa mi sembrerebbe davvero una forzatura di bassa lega.

Alcuni spunti della regìa sembrano mutuati da quella di Willy Decker, autore dell’edizione presentata tempo fa al Regio di Torino: ad esempio il mare che non si vede mai, poiché secondo Jones sul mare sta il pubblico, che da lì osserva ciò che accade sulla riva (e questa è una trovata plausibile); oppure Grimes che si vede – a fine secondo atto – trascinare il ragazzino morto verso casa (qui siamo però ad un didascalismo quasi offensivo per le capacità cognitive dello spettatore). E anche l’apertura del primo atto, con borgatari seduti come fossero in platea a guardare il mare, tutti perfettamente allineati e composti, ricorda vagamente quella di Decker.

Per fortuna la caratterizzazione dei personaggi è in generale apprezzabile: quello che vediamo è il Grimes di Britten-Pears-Slater, e non quello di Crabbe… ed è già qualcosa! Qualche riserva, come detto, sul  modo un po’ troppo da avanspettacolo con il quale ci vengono presentate certe esternazioni, soprattutto del popolo. Intelligenti le scene e le luci, a parte… l’ambientazione moderna (il che coinvolge anche i costumi).  

Ma tutto sommato, quale valore aggiunto apporti all’originale questo allestimento, resta per me un mistero.  
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Come detto, buone se non proprio ottime notizie invece sul fronte musicale. Merito di Ticciati, giovane ma evidentemente assai preparato ed autorevole sul podio, e di Bruno Casoni, che ha riportato il coro al livello che gli compete.

John Graham-Hall è un Grimes efficace, pur faticando parecchio sulle note alte, come qui al momento di prendere la drammatica decisione che lo porterà alla rovina:
(Poi, nell’esternazione finale, il regista lo fa esibire su un tavolo e accucciato sulle punte dei piedi, posizione credo infelice per il canto…) In ogni caso si prende grandi applausi. Più grandi ancora (ma forse alle mie orecchie non così meritati) quelli andati a Susan Gritton, una Ellen che mi è parsa discontinua e in difficoltà nell’ottava bassa.

Christopher Purves è un ottimo Balstrode, e ancor meglio di lui fa Peter Hoare come Boles (pur penalizzato sul lato scenico da eccessivo macchiettismo). Felicity Palmer è una Auntie di gran livello. Nettamente al di sotto Catherine Wyn-Rogers (Sedley) Christopher Gillett (Adams) e Stephen Richardson (Hobson). Un poco meglio George von Bergen come Keene (e non Keen come scritto sulle locandine!) e lo Swallow di Daniel Okulitch. Anonime le nipotine e le due altre parti minori.     

Successo abbastanza caloroso, ma francamente nulla di epocale.

22 maggio, 2012

Fabio Luisi sul podio della Filarmonica


Il successore-in-pectore di James Levine alla guida del MET è stato ieri sera ospite della stagione della Filarmonica, dirigendo un concerto di musiche italiane più… Beethoven!

Ha aperto con una trascrizione di tre brani di Giovanni Gabrieli, fatta da Claudio Ambrosini nel 1998 per Milano Musica e già allora (30 ottobre di quell’anno) eseguita dalla Filarmonica guidata dal dedicatario Riccardo Muti.

Si tratta della Canzon XIII dalle Sacrae Symphoniae (1597), della Canzon I e della Sonata XIX dalle Canzoni et Sonate (1615, postume). L’approccio programmatico di Ambrosini è quello di evocare le melodie rinascimentali di Gabrieli immergendole  in uno scenario sonoro moderno. E tanto per tener fede al proposito, impiega anche un gong immerso in una vaschetta d’acqua (smile!) Oppure fa suonare lo xilofono con le nocche delle dita, o percuotere le corde del pianoforte con bacchette di spugna… insomma, cose che ai tempi di Gabrieli lo avrebbero fatto rinchiudere ai Piombi! C’è di buono che, pur immersa in un magma indecifrabile,  qualche nota di Gabrieli si può ancora ascoltare (ri-smile!)

Dopo questo esordio bizzarro, ecco arrivare il 27enne polacco Rafał Blechacz a proporci il Quarto concerto di Beethoven. Tutt’altra musica (tri-smile!) Il ragazzo ha una tecnica sopraffina che forse, nell’iniziale Allegro moderato, penalizza un poco l’espressività, dando (a me, perlomeno) l’impressione di un’esecuzione un po’… meccanica. In ogni caso dall’Andante in poi le cose migliorano e il resto della prestazione è davvero rimarchevole. Bravo anche Luisi a sostenerlo con un’orchestra mai invadente, ma allo stesso tempo protagonista. Gran successo per il bel Rafał che ringrazia con un paio di bis.  

Dopo l’intervallo si torna in Italia con Paganiniana di Alfredo Casella. Nel 1942 compivano 100 anni i leggendari Wiener (al 28 marzo 1842 risale il primo concerto della Philharmonische Academie, diretto dal fondatore Otto Nicolai). La ricorrenza cadde in un periodo disgraziato, ma a quel momento in Germania e in Italia il clima era euforico e il Patto d’acciaio più che mai saldo. Vienna era la seconda capitale tedesca e Karl Böhm – deciso fautore dell’Anschluss – sarebbe di lì a poco diventato direttore della Staatsoper. Così successe che l’italiano Casella (anche lui assai ben disposto verso il fascismo e i suoi alleati) compose per l’occasione questo divertimento in quattro parti che è ispirato a musiche (capricci e quartetti) del grande genovese. La cui prima fu diretta – per l’appunto - da Karl Böhm.

L’opera si suddivide in quattro sezioni, a partire da un Allegro agitato (Capricci 8-12-16-19) seguito dalla Polachetta (Quartetto n°4), dalla Romanza (Duo inedito violino-clarinetto) per chiudere con la Tarantella (ancora dal Quartetto). Un brano effettivamente di circostanza, in cui però Casella mostra la sua raffinata abilità di orchestratore, senza cadere nelle sesquipedali esagerazioni di Ottorino Respighi.

Del quale ha chiuso il concerto Feste romane, anteriore di 14 anni alla Paganiniana. È il terzo dei poemi sinfonici della triade romana (con Pini e Fontane) dove il nostro scimmiotta – pur con grande maestria, va detto - i Liszt e gli Strauss. In effetti l’orchestra pare quella dell’Alpensinfonie, con una sessantina di archi, sette trombe e percussioni a non finire. Il risultato – ammettiamolo pure – è un filino al di sotto, ma dobbiamo accontentarci.

Il brano ci elenca – con precise didascalie poste in prefazione alla partitura - quattro tipi di passatempo SPQR: dai gladiatori e dai cristiani offerti in pasto a belve fameliche, ai pellegrini che arrivano al Giubileo, alla classica ottobrata, e infine alla Befana. Nel cui conclusivo episodio – come fece nei Pini di Roma, dove introdusse, insieme ad altre filastrocche, la famosa Madama Doré - Respighi non manca di citare uno dei tipici stornelli romaneschi:

che chiude le feste con gran fracasso e fuochi d’artificio. Caos sonoro talmente parossistico, che diventa persino difficile capire se i suonatori (gli ottoni in particolare) hanno eseguito proprio le note giuste, o altre buttate lì a caso (smile!) Nel dubbio, gran trionfo per tutti, e quindi per Luisi un buon viatico in vista della prossima Manon

21 maggio, 2012

Anne-Sophie Mutter per beneficenza alla Scala


A una settimana precisa di distanza dall’esibizione della Staatskapelle Dresden con Colin Davis, la Scala ha ospitato, per l’annuale iniziativa benefica della Croce Rossa, un altro bel concerto mozartiano, protagonisti Anne-Sophie Mutter e la Kammerorchester Wien-Berlin (formata da strumentisti dei celebri Wiener e Berliner Philharmoniker).

Come una settimana addietro, in programma c’era quel Mozart leggero ed etereo che – almeno a me personalmente – non manca mai di provocare emozioni e grande piacere estetico. Per di più se eseguito da autentici fuoriclasse, come sono i Musikanten di Dresda e quelli di Vienna-Berlino. I quali si schierano in 17 (nessuna superstizione, evidentemente) con due corni e due oboi  (prescritti dai tre brani in programma) e 13 archi, disposti alla tedesca (quattro primi violini a sinistra, tre secondi violini a destra e dietro, da sinistra, il contrabbasso, i due violoncelli e le tre viole.

Dà inizio al concerto Rainer Honeck (con tali strumentisti un Direttore non serve davvero…) attaccando con la Sinfonia K201.

È questa una delle opere che vengono indicate come lo spartiacque fra il Mozart ancora acerbo, principalmente influenzato dallo stile italiano (di J.Christian Bach) e il Mozart che – sotto l’influsso della Mannheim di Stamitz e della Vienna di Haydn - si incammina sulla strada della maturità.

Già l’articolazione in 4 movimenti è un chiaro sintomo del nuovo corso (vero è che sinfonie successive - K297, K338 e K504-Praga - tornano alla struttura in 3 movimenti) ma è soprattutto lo spessore delle idee musicali che fa davvero intravedere cosa uscirà di lì a poco dalla penna del Teofilo. Per dire, all’attacco dell’Allegro moderato deve aver pensato 30 anni dopo Beethoven al momento di mettere su carta il tema principale del suo Quarto Concerto per pianoforte:


Anche la struttura formale – a parte il movimento aggiuntivo – si arricchisce: nascono temi diversi e a volte contrapposti, che vengono, sia pure moderatamente, sviluppati e inquadrati negli schemi che si stavano consolidando della forma-sonata, pur ancora allo stato embrionale. E certi rimandi tematici (come il salto di un’ottava discendente che apre il primo movimento, e poi si ritrova… raddoppiato anche all’apertura dell’ultimo) sono indici di un’attenzione particolare alla caratterizzazione dell’opera nel suo insieme.

Impeccabile l’esecuzione dei vien-linesi; data la (relativa) brevità della Sinfonia, è da apprezzare anche il rispetto dei da-capo prescritti da Mozart.



Ora la sempre affascinante (a dispetto dell’anagrafe) Anne-Sophie - in un lungo e scollato turchese - va in cattedra con il primo dei due Concerti in programma: il K216, terzo dei cinque nel catalogo mozartiano. Denominato Straßburg, dal tema dell’Allegretto che compare nel Rondeau finale, che riproduce quasi alla lettera quello di una danza (si dice opera di tale Georg von Reutter, Maestro di Cappella di Corte) molto popolare a Vienna:
  
Invece: il motivo dell’incipit del tema principale e della chiusa dell’Adagio ci ricorda qualcosa? Ma come no! Quell’ammiratore sfegatato di Mozart che rispondeva al nome di Ciajkovski lo citò (quasi) letteralmente – nei clarinetti – al momento di chiudere l’Andante cantabile della sua Quinta:

La Mutter ha proprio tutte le carte in regola, e non fa certo rimpiangere i mostri sacri del passato! 

Dopo l’intervallo ecco il K219, famoso come il turco. Del quale avevo scritto qualcosa un anno fa, dopo averlo ascoltato da Isabelle Faust accompagnata da Abbado a Ravenna.

Curiosa la chiusura di questo 5° concerto (come del resto quelle del 3° e del 4°) che, invece di presentare i classici accordi dell’orchestra, avviene sommessamente, come di chi non voglia disturbare eventuali ascoltatori già passati nel mondo dei sogni (smile!)

Ma alla Scala credo nessuno si sia addormentato al suono dello Stradivari della Mutter! Che ci regala due bis: il primo ancora mozartiano e poi, quasi a chiudere il concerto come si era iniziato – con un minuto di raccoglimento per i recenti fatti luttuosi - l’Aria dalla bachiana Suite 1068, che lei esegue con le sole quattro prime parti degli archi.

Bellissima serata, che ci fa tornare a credere che il mondo non sia solo stragi e terremoti.

18 maggio, 2012

Orchestraverdi – concerto n°33


Ancora Zhang Xian alla ribalta con un programma di gran tradizione, Beethoven e Mahler, in un Auditorium finalmente affollato, dopo qualche puntata un po’ stanca.

Sono tre moschettieri de laVerdi: Luca Santaniello al violino, Mario Shirai Grigolato al violoncello e il residente Simone Pedroni al pianoforte a proporci dapprima il cosiddetto Triplo Concerto in DO maggiore di Beethoven. Opera da sempre relegata in quel limbo delle composizioni giudicate minori, disimpegnate e mancanti di quel tasso di eroismo che l’agiografia ha affibbiato alla produzione del genio di Bonn.

E magari solo perché composta per gratificare un illustre allievo, l’Arciduca Rodolfo che da poco si era messo a prender lezioni di pianoforte dal già rinomato Ludwig (siamo nel 1803-1804, ai tempi dell’Eroica, per intenderci… ma l’opera non verrà eseguita se non nel 1808, chissà, forse perché l’Arciduca ebbe bisogno di molte lezioni? smile!) O perché, prevedendo tre solisti – invece di uno solo, come è caratteristica dei Concerti – finisce per apparire, ai solisti medesimi, come un lavoro poco gratificante e in fin dei conti da… snobbare.

E così, normalmente si sottovaluta (un po’ troppo, pare a me) la struttura stessa della composizione, per il suo primo movimento privo dei caratteristici contrasti (temi poco distinguibili) e in compenso ricco di enfasi, affettazione e di eccessive lungaggini e divagazioni tematiche (tutti aspetti considerati estranei alla tipica scrittura di Beethoven); un movimento centrale troppo breve e lezioso e uno conclusivo da… festa campestre.

Sarà, ma personalmente trovo in questo apparente disimpegno un voluto omaggio a forme settecentesche, fatto con garbo e con un po’ di ironia, ma sempre con grande sapienza e ispirazione. Un pezzo assolutamente godibile, anche se non manda messaggi universali né evoca chissà quali scontri fra ragione e tenebre!
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L’Allegro è una corposa costruzione, in forma-sonata assai liberamente interpretata: una lunga esposizione, dove si possono individuare parecchi motivi; uno sviluppo piuttosto breve e da essa quasi indistinguibile; una ripresa a sua volta molto complessa e infine una veloce coda a concludere il movimento.       

Sono gli archi bassi ad esporre immediatamente, soli e pianissimo, il motivo principale (1):

Poco dopo l’orchestra presenta una specie di introduzione, in crescendo, basata su una variante del motivo (1), che culmina in fortissimo e per due volte sulla sottodominante FA, poi (con curiosa presenza di due intervalli di tritono ascendenti – FA-SI e SOL-DO#) si sposta sulla dominante SOL, dove i primi violini espongono un secondo motivo (2):

Che viene ripreso quasi subito dai fiati, ma in DO (!) Sulla tonalità di impianto ecco poi i primi violini esporre un nuovo motivo (3):

ripetuto poi un’ottava sopra, che sfocia in fieri incisi trocaici (MIb-DO) dell’intera orchestra, a chiudere, prima sul SOL, poi sul DO la prima esposizione.

Esposizione che viene ora affidata ai solisti, a partire (sarà sempre così…) dal violoncello (pare che in origine il concerto fosse proprio stato concepito per questo strumento). È lui che, nel registro acuto, ci propone il motivo (1) che viene sviluppato, salendo alla sesta per poi scendere sulla dominante SOL, dove il violino solista ripropone il motivo, sulla cui conclusione si innesta un arabesco (terzine puntate) dei due, che riconduce al DO sul quale finalmente entra anche il pianoforte. Esso sviluppa ulteriormente il tema, con veloci quartine di semicrome, contrappuntate dagli altri due solisti, fino all’esplosione, sempre in DO maggiore, di un nuovo motivo (4), enfaticamente colmo di prosopopea:

Il violoncello però, riprendendolo e ampliandolo (5), mostra come quel tema in fondo non sia poi così becero:

Motivo che subito è sviluppato con veloci quartine di semicroma insieme al violino, cui poi si aggiunge il pianoforte con veloci scale ascendenti in ottava, che intercalano un inciso (6) degli altri due solisti, ripreso poi dall’orchestra:

È il pianoforte a svilupparlo dapprima, poi imitato dal violoncello e quindi dal violino, con terzine in staccato che fanno lentamente virare l’atmosfera verso il LA, sulla cui dominante MI si afferma una perentoria cadenza dell’orchestra (7), due discese di ottava, da tonica a tonica, passando per dominante e mediante:

Il Pianoforte con arpeggi di semicrome ci porta ora verso la riproposizione del motivo (2) nella tonalità abbastanza lontana di LA maggiore (è sempre il violoncello ad aprire le danze…); gli risponde il violino ribadendo il tema, ma nella sottodominante RE. Presto si torna a LA con lo stesso motivo riproposto dall’orchestra, mentre i solisti si lasciano poi andare ancora a svolazzi di semicrome, spostando l’atmosfera verso il LA minore, dov’è ancora il violoncello a introdurre un nuovo motivo (8) dal ritmo trocaico:

che poi si sviluppa con terzine in staccato dei due archi solisti, per accelerare con semicrome all’arrivo del pianoforte, che fa ristagnare l’atmosfera sul LA minore, finchè il violoncello, poi il pianoforte e quindi il violino presentano un nuovo motivo (9) che insiste sulla sopratonica SI e, ancora in ritmo trocaico, se ne discosta scendendo di un semitono:

Violino, poi pianoforte e quindi violoncello si imbarcano in svolazzi di semicrome che portano ad un crescendo vorticoso, chiuso da un trillo dei tre solisti sull’accordo di sensibile, che sfocia platealmente sul LA fortissimo di tutta l’orchestra. La quale, muovendo da quel LA come mediante di FA, reitera il retorico motivo (4) in questa nuova tonalità.

A differenza della prima comparsa, qui il tema non è ripreso né sviluppato, ma l’orchestra passa direttamente ad esporre gli stessi incisi trocaici uditi dopo il motivo (3) a chiusura dell’esposizione orchestrale, ma qui ancora in LA minore (DO-LA). Qui si potrebbe parlare di fine dell’esposizione canonica.

Lo sviluppo è aperto dal violoncello, che su quel LA passa a maggiore dove, dopo una breve transizione, riespone il motivo (1). Il violino lo imita nella dominante MI maggiore, poi ancora sul LA arriva il pianoforte che però vira a RE minore, e da qui, con arpeggi in cui tornano intervalli di tritono (DO#-SOL), tramite sesta napoletana, a SIb, dove i tre solisti si rincorrono con terzine in staccato, mentre oboe e fagotto contrappuntano con uno spezzone del motivo (1). Altre modulazioni portano finalmente a DO minore, dove è ancora il violoncello protagonista dell’esposizione di un nuovo motivo (10) sottolineato cantabile in partitura; è l’unico motivo che non riudiremo più nel seguito:

Manco a dirlo segue il violino, e poi il pianoforte, che in realtà non ripete questo tema, ma si limita ad accompagnarlo. Scale ascendenti negli archi solisti, contrappuntate da un ritmo sincopato ci portano con un grande crescendo alla conclusione dello sviluppo, con un poderoso accordo di DO maggiore dell’orchestra, che dà inizio alla ripresa.

A piena orchestra e in fortissimo viene esposto il motivo (1) che in origine avevamo ascoltato dai soli bassi e in pianissimo. Quindi l’introduzione, con le esplosioni in fortissimo sui FA (come all’inizio) intercalate qui però dai solisti; ma poi, che succede? Niente temi principali, ma improvvisamente compare il motivo (5), nel violoncello naturalmente, in FA maggiore! Che è seguito, come nell’esposizione, ma sempre in FA, dall’inciso (6) che porta a sua volta alla perorazione (7), le due discese di ottava, ma qui sul SOL.

Da qui, come nell’esposizione, ma in DO (le sacre regole!) ecco il motivo (2) esposto, indovinate da chi? dal violoncello, natürlisch! Il violino risponde, ma adesso in FA, che vira quindi al DO, dove l’orchestra ribadisce il motivo (2). I solisti lo sviluppano fino a modulare su DO minore, dove – sempre nel violoncello – riudiamo il motivo (8) che nell’esposizione era in LA minore. Come nell’esposizione, pianoforte e violoncello ci riportano al motivo (9) nel violoncello, qui incardinato sulla sopratonica (RE) di DO (là era sul SI…)

Quindi i tre solisti con vorticose ascese raggiungono il DO, dove tutta l’orchestra ripete la poderosa perorazione (4) che, partendo dal DO come mediante, cade sul LAb maggiore. Ancora gli incisi trocaici MIb-DO con caduta sul SI, che torna sensibile di DO, dove – sempre il solito violoncello – espone ora il motivo (3), il quale prende però una strada tutta diversa rispetto all’esposizione; strada che conduce, passando anche da modulazioni a FA, alla chiusura della ripresa e al passaggio diretto alla coda

La quale consta di 18 battute (Più Allegro) dove, aizzati dall’orchestra, i tre solisti si scatenano prima in scalette ascendenti, poi in trilli e quindi in scale discendenti, fino ai due secchi accordi conclusivi.

Beh, il risultato puramente estetico potrà magari far storcere il naso a qualcuno, ma mi pare che come strutturazione questo movimento non sia poi tanto banale, anzi si potrebbe concludere che configuri una complessità che si fatica a riscontrare anche in opere più mature di Beethoven.

Il Largo centrale, in LAb maggiore (3/8) è invece di una semplicità assoluta: una brevissima introduzione degli archi, poi il tema presentato – c’è da dubitarne? – dal violoncello. Tema languido, carezzevole, di 17 battute, scomponibile in tre frasi di 5-6-6 battute:

Si ripete l’introduzione (con i fiati) e poi sono i due archi solisti a riesporre il tema, per terze, con il pianoforte ad arpeggiare languidamente. Ora inizia un ponte che modula lentamente un semitono sotto, a SOL maggiore (una cosa analoga farà Beethoven, più bruscamente, nell’Adagio non troppo dell’Imperatore, scendendo dal SI al SIb in vista del MIb del Rondo), per preparare l’attacco del conclusivo Rondo alla Polacca.

Il quale ha – come il primo movimento – una struttura assai articolata, così sommariamente interpretabile: A-B-A-C-A-B-A’-A”. Il tempo è sempre 3/4, salvo che per A’ (2/4).
    
Immancabilmente è il violoncello, che ha concluso in solitaria (salvo un pizzicato degli archi) l’Adagio con una serie di biscrome e semibiscrome sempre più affrettate, ad introdurre il Rondo, la cui sezione ricorrente A è inizialmente presentata con una struttura interna in cui si distinguono tre motivi: A1, A2 e A3. Il violoncello espone A1:

Lo chiude modulando a MI maggiore, dove lo riespone il violino, che a sua volta lo chiude virando a minore e rimodulando quindi a DO. Ora abbiamo il motivo A2, nell’orchestra:

che viene sviluppato poi dai tre solisti e in particolare dai due archi, fino ad una cadenza dell’orchestra sull’accordo di settima. Torna il motivo A1, nei tre solisti e subito dopo – accorciato - ad orchestra piena. Da qui si diparte, negli strumentini, un ponte in semicrome che porta, dopo marziali accordi che anticipano il ritmo di polacca, ad un nuovo motivo (A3)  esposto primi violini e poi ripreso dai legni:

La sezione A si chiude con decisi accordi di DO in staccato dell’orchestra. E subito compare la sezione B, con il violoncello e in contrappunto il violino che espongono il motivo B1:

Poco dopo è il pianoforte a riprendere il motivo, modulando verso SOL, dove il solito violoncello presenta il motivo B2, contrappuntato dal violino, mentre il pianoforte arpeggia in sestine:

Dopo che i solisti si sono sbizzarriti in svolazzi con sestine di semicrome è l’orchestra a riprendere il motivo B2, con i solisti ad interloquire e poi a riprendere in mano il pallino, con le loro sestine che conducono alla chiusa in DO della sezione B.

Si ripete ora la sezione A, praticamente identica alla sua prima apparizione, ma solo fino al motivo A1 nell’orchestra, al termine del quale un nuovo ponte, invece di portare ad A3, conduce direttamente alla sezione C, preparandone con incisi dattilici il caratteristico ritmo di polacca. La tonalità è mutata nel frattempo nella relativa LA minore. Qui, per l’unica volta nel Concerto, tocca al violino solista aprire le… danze, con l’esposizione del motivo C1:

Il motivo viene poi reiterato più volte dai solisti, che se lo rimpallano con continue variazioni e modulazioni di tonalità. Finalmente compare un nuovo motivo più cantabile ed espressivo (C2) che è sempre il violoncello ad esporre per primo, subito imitato dal violino:

Il pianoforte si limita ad un accompagnamento in semicrome, come a mantenere il ritmo, aiutato qua e là dai fiati. Poi avvia un breve crescendo in cui trascina gli altri solisti e l’orchestra, dopo il quale è ancora compito suo esporre una cadenza in terzine, quindi rallentando, fino a chiudere la sezione C sul SOL, da cui riprende una nuova ricorrenza della sezione A, col violoncello, costituita peraltro dal solo motivo A1, cui però non segue come al solito il violino, ma direttamente il tutti orchestrale.

Ultima comparsa della sezione B, sempre in DO, con B1 in violoncello, poi violino e pianoforte e quindi B2 nel violoncello, cui si aggiungono gli altri due solisti che si imbarcano ancora in veloci sestine di semicrome. L’intera orchestra ripropone B2, finchè sono i solisti a portarlo a compimento.

Ora un’autentica sorpresa, con la ricomparsa, dapprima nel pianoforte, del motivo di polacca C2, ripreso subito da violino e violoncello che vanno poi a chiudere la sezione sul LA.

Altro scombussolamento, con il tempo che passa ad Allegro in 2/4. È il violino ad esporre un il motivo A1 variato e velocizzato. Poi lo seguono gli altri due solisti, che sembrano ingaggiare una gara di velocità, finchè l’orchestra non interviene riproponendo ancora A1 sempre nel tempo marziale di 2/4.

Un ultimo ponte, con i solisti impegnati in terzine, porta – col ritorno a 3/4 e al Tempo I - alla conclusiva comparsa del tema A1, o meglio di suoi spezzoni, nei solisti. Quindi si riaffaccia nel violino anche il motivo A3, reiterato dal pianoforte e poi dall’orchestra che innesca la coda dove ancora i solisti si sfogano con veloci sestine, prima dei tre pesanti accordi conclusivi.
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Prestazione discreta – non eccezionale, secondo me - dei solisti, che non sono andati esenti da qualche pecca, specie nell’iniziale Allegro, dove può darsi che un po' di emozione gli abbia giocato qualche scherzetto... E anche il Rondò, soprattutto la sezione polacca, non mi ha entusiasmato. Forse anche per colpa della direzione di Xian, che mi è parsa piuttosto anonima e priva di mordente: chissà, magari proprio per non accreditare le critiche di eccessiva appariscenza che vengono tradizionalmente mosse al Concerto.

Ma trattandosi dei beniamini del pubblico il successo non è mancato di certo, ricompensato anche da un bis… 

Poi Mahler e Das Lied von der Erde, già da Xian interpretato in Auditorium poco più di due anni faQui la cinesina (stante che con quest’opera si deve sentire… a casa propria, smile!ha offerto di nuovo un’interpretazione assolutamente convincente, cavando fuori tutti i tesori di questo capolavoro, fin dal magnifico attacco iniziale dei corni. Assecondata in ciò da un’orchestra quasi perfetta, nell’insieme e nelle diverse parti solistiche che questa partitura impegna assai, a partire dall’oboe di Luca Stocco, dal flauto di Massimiliano Crepaldi e dal fagotto di Andrea Magnani, per non tacere poi della sezione dei corni guidati da Giuseppe Amatulli. Di assoluto livello, in particolare, gli interludi dell’Abschied.

Peccato che il canto abbia invece lasciato parecchio a desiderare: in particolare il tenore John Daszak, voce magari potente, ma assai sguaiata e impiccata (la scusa che deve interpretare gente che brinda, che beve e che si ubriaca non giustifica schiamazzi da osteria, smile!) mentre il contralto Carina Vinke ha mostrato qualche buona qualità, soprattutto nell’ottava alta, laddove mi è parsa deficitaria in quella bassa (in particolare, il passaggio concitato del quarto Lied ne ha sofferto assai).

Anche qui comunque grandi applausi, da parte mia riservati soprattutto a direttora e orchestra.

Prossimamente si rifarà vivo il Direttore principale per proporre un programma moderno con intermezzo… caramelloso.