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23 marzo, 2011

Un Flauto poco magico alla Scala


Ancora uno spettacolo appena-appena degno del teatro più importante del mondo (modestissima auto-definizione della Scala). Una produzione che arriva dal Belgio ed è già transitata dal SanCarlo, anni fa. Di livello accettabile nella parte musicale e pretenzioso, ma con risultati così-così (ai miei occhi, s'intende) in quella dell'allestimento. Che ha comunque il non disprezzabile merito di non ambientare l'opera nel variegato mondo e sottobosco delle logge P2, P3, P4 e così via P-contando. (Ma qualche geniale regista prima o poi ci arriva, matematico.)

Dico subito che la ripresa TV di domenica scorsa aveva ulteriormente fatto danni, con inquadrature quasi sempre generali che davano l'impressione di assoluta monotonia e piattezza. In teatro le cose sono andate un filino meglio, ma certo non in misura sufficiente a sollevare il livello della rappresentazione da dignitoso ad eccellente.

Sulle vicissitudini dell'opera e sui relativi caratteri, incongruenze e bizzarrìe, ho già scritto la mia qualche tempo fa, e non sto a ripetermi.

I testi parlati sono stati – come sempre, e non a torto – pesantemente tagliati, anche se in modo tale da garantire un plausibile senso logico allo sviluppo dell'azione. Mi domando però - stante il fatto che l'opera è in lingua crucca e per lo spettatore medio capir qualcosa dai sottotitoli è impresa più ardua dell'imparare i testi a memoria prima di assistere allo spettacolo – se non convenga eliminarli del tutto (come si fa nelle esecuzioni concertanti) rimpiazzandoli con la proiezione di immagini (live o registrate) che spieghino o mimino ciò che dovrebbe essere solo recitato e che – proprio per questo – viene spesso e volentieri tagliato.

Un esempio, assai circoscritto, ce lo propone proprio il regista William Kentridge nel trattamento delle scene 9 e 10 del primo atto, scene di solo parlato ma che hanno (o dovrebbero avere) una certa importanza, trattandosi del primo impatto che lo spettatore ha con il mondo di Sarastro. Nella prima compaiono tre schiavi che si rallegrano della fuga di Pamina, che dovrebbe avere come conseguenza la punizione capitale di Monostatos, suo carceriere e loro aguzzino, da parte di Sarastro (che non ci farebbe propriamente la figura di un capo nobile e illuminato, ma di uno schiavista che applica giustizia sommaria). Nella seconda, si ode Monostatos ordinare agli schiavi di preparare le catene per Pamina, che lui ha riacciuffato. Ecco, Kentridge taglia al completo – come sempre accade - il parlato delle due scene (e già che c'è toglie anche dalla locandina i personaggi dei tre schiavi) però recupera parte del contenuto di esse con un siparietto in controluce – accompagnato dal fortepiano - in cui si vede Pamina che si divincola dal bavoso Monostatos (che cerca di ingropparsela) e scappa… per poi arrivare in scena nelle grinfie dell'aguzzino, che è riuscito a riagguantarla, e iniziare il N°6, Terzetto.

Kentridge – che non è un regista di professione, e questo potrebbe anche essere un merito (smile!) – imposta la sua messinscena partendo dalla contrapposizione oscurità-luce (chiave dell'opera) che lui materializza nell'oggetto/concetto macchina fotografica: dove chiaro e scuro si invertono, da negativo a positivo, dove la luce penetra nella camera oscura, che la filtra prima di portarla all'occhio; e l'occhio, sappiamo, è uno dei simboli massonici, incastonato nel triangolo, nel numero tre, altro simbolo esoterico, centrale nel mondo della massoneria. Di passaggio segnalo qui una particolarità: in partitura si legge che le tre Dame escono dal Tempio armate di argentei giavellotti e con quelli ammazzano il serpentone, tagliandolo precisamente in tre pezzi. Strano che Kentridge, così attento alla simbologia, trascuri questo particolare.

Tornando all'allestimento, l'idea originale del chiaro-scuro dell'apparecchio fotografico viene applicata di continuo, attraverso la proiezione di immagini in bianco-nero (fisse o in movimento, per simulare movimenti) e soprattutto di linee bianche: rette, continue o tratteggiate, o curve, che costruiscono in tempo reale, su fondo scuro (tipo lavagna) figure e simboli legati alla dottrina massonica. Peccato che la cosa, alla lunga, finisca con lo stancare l'occhio dello spettatore, o per distoglierne la mente – impegnata a decifrare simboli – dall'azione e soprattutto dalla musica. Inoltre, il concetto chiaro-scuro non pare applicato con coerenza: nel procedere dell'azione, dalla notte di Astrifiammante alla luce solare di Sarastro, ci si aspetterebbe che quelle linee trascolorino al nero e che i fondi trascolorino al bianco. Invece no, anche la scena finale avviene nella camera oscura, con le linee bianche e una luce che sembra rimanere un miraggio, più che un elemento che si imponga, inondandola completamente.

In conclusione, un'idea intelligente che mi è parsa realizzata in modo troppo stucchevole e monotòno. Quanto ai personaggi, una regìa apprezzabile, tenuto conto del soggetto.

Sul fronte musicale note positive per Alex Esposito (trionfatore della serata) che mostra di identificarsi perfettamente con la personalità di… Schikaneder!

Albina Shagimuratova è stata una più che discreta Astrifiammante. Oltretutto ha eseguito in modo abbastanza corretto i suoi impegnativi svolazzi sui FA sovracuti (dove domenica aveva francamente palesato qualche difficoltà).

Sui FA gravi ha invece mostrato la corda Günther Groissböck, per il resto un Sarastro per nulla disprezzabile, anche come presenza.

Steve Davislim e Genia Kühmeier se la sono cavata discretamente, ma senza suscitare (almeno nel sottoscritto) particolari entusiasmi.

Nella normalità anonima tutti gli altri, eccetto Peter Bronder che ha interpretato un Monostatos schiamazzante, sparando esclusivamente berci invece di suoni.

Lodi meritate, come sempre, per i cori (adulti e piccoli) di Casoni. Roland Böer pare un giovane di solida preparazione, si vede che con questo Mozart si trova a casa sua. E l'orchestra lo ha ben assecondato.

Pubblico timido – o non entusiasmato – negli applausi alle singole arie. Più deciso nell'approvazione generale, a fine spettacolo. (Il campionato riprenderà prossimamente.)
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2 commenti:

Amfortas ha detto...

Ho seguito la diretta tv e mi sono annoiato tanto, soprattutto nel secondo atto.
Mi pare che sia il classico spettacolo che si definisce carino perché non si ha voglia di parlarne e così si fa contenti tutti.
Sempre riferendosi alla prima vista in tv, il basso che interpretava Sarastro era sotto il limite della decenza, ma mi dicono che comunque ha cantato meglio nella seconda recita.
Ciao!

daland ha detto...

@Amfortas
Sì, spettacolo "da cineforum" si potrebbe definirlo e quindi - proprio come la c--azzata Potemkin - potenzialmente noioso.
Non l'ho scritto nel post, ma io mi ero divertito di più al Flauto di Colla, tutto pura fiaba, luci e colori.

Quanto al povero Groissböck, l'ho collocato sopra il (mio personale) limite della decenza, chè altrimenti con lui andrebbe collocato/a anche qualcun altro/a. A me personalmente non è parso migliorato fra domenica e martedi.
Ciao!