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29 dicembre, 2007

Il Ring: una “vision” pazza? (IV)

Anche per Paul Brian Heise la seconda scena del secondo atto della Walküre rappresenta la chiave di volta dell’interpretazione (tutta feuerbachiana, nel suo caso) del Ring. Come ci arriva Wotan, a questo fondamentale appuntamento?

I fatti narrati nel Rheingold ci dicono che il dio ha preso conoscenza e coscienza - tramite Alberich e Erda - della sua inevitabile fine. Ha ormai chiaro che lui - la divinità creata dalla paura e dall’auto-inganno (il Wahn) dell’Uomo come rifugio dai mali terreni (il Not) - e lo stesso Uomo religioso, sono destinati a soccombere di fronte al potere della conoscenza e della scienza (il Tesoro di Alberich che, sequestrato con l’inganno, solo temporaneamente è stato messo in grado di non nuocere, sepolto nella grotta di Neidhöhle e ivi custodito da Fafner).

Siegmund può rappresentare la salvezza, in quanto - pur nel suo ardore rivoluzionario e nel suo nobile spirito di abnegazione - altro non è se non una manifestazione diretta dell’essenza del dio medesimo, incarnandone la più intima natura e soprattutto la sua ormai incurabile paura. E Fricka altro non rappresenta se non la coscienza religiosa - quindi dogmatica, incapace di qualunque autocritica - che reclama il rispetto delle leggi, senza rendersi conto che il tesoro di conoscenza che Wotan sta accumulando finirà per distruggere - con Siegmund - non solo il credo religioso, ma addirittura la moralità del sacrificio (rappresentato dall’amore di Siegmund per Sieglinde e dalla sua sua rinuncia al Walhall).

Il rischio è che la vittoria di Alberich - tutti dovranno rinunciare all’Amore per rincorrere unicamente l’Oro - porti ad un mondo dominato esclusivamente dall’egoismo.

Wotan ha compreso di non aver speranza di sopravvivenza, ma allo stesso tempo non può accettare il mondo scientifico e senza amore che Alberich si appresta ad imporre. Quindi desidera la fine, la distruzione del suo mondo, come sollievo ad un peso divenuto ormai insopportabile. Ma cerca ancora disperatamente almeno una consolazione nel puro, intimo sentimento: nell’Arte. Si prepara quindi a trasferire quell’arcana, primigenia ispirazione che diede origine al sentimento religioso al suo erede, l’eroe-artista Siegfried.

Ed eccoci quindi al punto centrale, come Wagner stesso lo definiva, del Ring, l’Atto II, Scena II: Wotan parla a Brünnhilde. È la figlia il prodotto della sua paura della Verità, e del suo desiderio di consegnare la Verità all’oblio, in modo da cessare di temerla. È lei che chiede al padre di rivelarle ciò che lo angustia. Prima di iniziare il suo lungo racconto, Wotan afferma di temere che la sua esternazione possa privarlo del sostegno della sua stessa volontà. E Brünnhilde gli testimonia che lei null’altro è se non la sua volontà. Al che Wotan afferma che, parlando a lei, lui in realtà parla a se stesso, e che ciò che rivelerà alla figlia rimarrà eternamente taciuto.

Schopenhauer descrisse la pazzia come ciò che accade ad un essere umano quando non sopporta di prender conoscenza di un qualche traumatico insulto alla propria immagine: la mente involontariamente reprime questa auto-coscienza e la sostituisce con una consolante fantasia. La pazzia di cui soffre Wotan è il Wahn, la follia collettiva del credo religioso che sostituisce un’illusione alla Verità e rimuove la consapevolezza della Verità fuori dalla vista e dalla mente.

Brünnhilde è l’inconscio di Wotan, nel quale egli - confessandosi a lei - reprime e trasferisce la conoscenza del suo essere, la sua propria identità, di cui non sopporta la consapevolezza. Cerca in ciò redenzione al suo sempre più insopportabile cruccio esistenziale. Brünnhilde diventa ora lo strumento di cui Wotan si può servire per creare l’eroe libero. Dato che Brünnhilde è la sua mente inconscia, il suo volere, nel quale lui ha trasferito l’orribile Verità riguardo la sua vera identità, adesso attraverso di lei Wotan può simbolicamente rinascere come Siegfried, il folle eroe in cui Wotan riacquista la sua innocenza, poichè Siegfried non conosce la sua propria identità. In Siegfried, attraverso Brünnhilde, potrà rinascere Wotan, ma privo della coscienza del suo essere (depositata in Brünnhilde). E Siegfried sarà perciò senza paura, poichè protetto dall’amore di Brünnhilde, che gli tiene lontana la vergognosa conoscenza della Verità.

In Siegfried, Wagner rappresenta se stesso, come l’eroe-artista, libero da credenze e dogmi religiosi. L’Arte, a differenza della Religione, non pretende di imporsi alla Realtà, essa ammette di essere una finzione, e nella sua più alta espressione - la musica - non prende posizione per Verità o Falsità: semplicemente gioca con il mondo.

Siegfried rappresenta quindi la secolarizzazione dell’Artista, che esprime un sentimento religioso laddove il pensiero religioso deve far posto a quello scientifico. Hagen rappresenta la moderna Scienza, che eredita un mondo senza dèi. Arte e scienza sono le eredità della fede religiosa.

Brünnhilde viene punita da Wotan per aver cercato di sfuggire (appoggiando Siegmund) la maledizione di Alberich rimanendo nel mondo reale, cosa che Wotan ha compreso essere impossibile. Ma Brünnhilde può forse redimere Wotan da quella maledizione in un modo meno vulnerabile alla minaccia di Alberich: proteggendo Siegfried dalla consapevolezza della realtà (insopportabile per Wotan) e ispirandogli imprese artistiche redentrici, che consegnino quella consapevolezza all’oblio, sostituendola con una consolante illusione, Brünnhilde può creare con Siegfried un Walhall di Arte, un nuovo rifugio dagli assalti di Alberich.

Per questo, quando Brünnhilde chiede a Wotan “Mi toglierai tutto ciò che mi hai dato?”, e lui risponde: “Chi ti farà sua te lo toglierà!”, egli allude al suo tesoro di conoscenza repressa, al contenuto della sua inconscia confessione, di cui il suo eroe Siegfried sarà erede. Tale conoscenza rimarrà dormiente (con Brünnhilde) per tutti, tranne che per l’autentico eroe-artista, che solo potrà trarvi ispirazione per creare quelle opere d’arte che redimano l’umano impulso religioso per la trascendenza dalla minaccia della scienza.

(continua)

27 dicembre, 2007

Il Ring: una “vision” pazza? (III)

Continuiamo a seguire Paul Brian Heise nella sua interpretazione feuerbachiana del Ring, iniziando da personaggi ed avvenimenti del Rheingold.

La rinuncia all’Amore di Alberich rappresenta la nascita della mente riflessiva dell’Uomo, che deve sollevarsi al di sopra degli istinti naturali (rappresentati dal desiderio frustrato per le tre Rheintöchter) per raggiungere la capacità di astrazione e di pensiero simbolico. In sostanza: nell’Uomo, e solo in esso, l’istinto, quando represso, si trasforma in pensiero.

La forgiatura dell’Anello da parte di Alberich rappresenta:
- l’essenza della consapevolezza umana,
- l’impulso a completare ciò che l’esperienza ci presenta come incompleto,
- l’impeto a far quadrare il cerchio, a perfezionare l’imperfetto.

L’Uomo, unico fra tutti gli animali, cerca la conoscenza del mondo reale ben al di là di ciò che gli è strettamente necessario per garantirsi la sopravvivenza. Questa capacità di astrazione produce la conoscenza e il pensiero scientifico, la capacità di cogliere aspetti della Natura (le sue leggi) che vanno al di là delle sue immediate manifestazioni sensibili. Ecco il vero strumento del potere terreno, la capacità di forzare e piegare Madre Natura per soddisfare gli umani bisogni. Lo scavare di Alberich, e dei suoi, nel sottosuolo e l’accumulo del suo Tesoro rappresentano metaforicamente l’incessante opera dell’Uomo per penetrare sempre più i segreti di Madre Natura, per poi impiegarli a proprio vantaggio.

Ma la conoscenza, oltre a fornire all’Uomo la consapevolezza del suo potere sulla Natura, si porta dietro anche la consapevolezza dei limiti, delle miserie e della caducità della natura umana, insomma tutto ciò che viene racchiuso nel termine germanico Not: stato di necessità, privazione, ansia, pericolo. Da qui la nascita, nell’Uomo, di quell’angoscia esistenziale che lo porta addirittura - e proprio impiegando le sue stesse capacità raziocinanti, l’Anello e il Tarnhelm - a disconoscere il mondo reale allorquando esso delude le sue aspettative, e quindi ad inventarsi un mondo immaginario, un illusorio rimpiazzo di Madre Natura, un regno dei cieli, un paradiso senza fine e senza dolore (le mele d’oro di Freia) che lo affranchi dalla dura realtà della vita (rappresentata allegoricamente da Erda).

E questo abbandonarsi all’illusione (il termine germanico Wahn) porta alla nascita del pensiero religioso ed artistico. E Wotan impersona appunto questo impulso, tipicamente soggettivo, perchè controllato da immaginazione e sentimento, e non da Ragione e Verità. Questo desiderio a sua volta si estrinseca nel continuo affannarsi del dio per sequestrare prima (tramite Loge) e mantenere nascosta e inaccessibile poi (tramite Fafner) la conoscenza scientifica (l’Anello e il Tesoro di Alberich!) in quanto essa rappresenta per il mondo degli dèi un nemico mortale. Ma a sua volta questo disconoscimento della verità comporta metaforicamente l’uccisione di Madre Natura!

In definitiva, il conflitto fra Wotan e Alberich impersona quello fra Wahn e Not. La differenza fra i due sta nel fatto che Alberich guarda in faccia la realtà (Not), la affronta a viso aperto, avendo spazzato via, con la maledizione dell’Amore, tutte le illusioni e le sovrastrutture che condizionano l’uomo; mentre Wotan, pur avendo piena consapevolezza del Not, che muove le sue stesse azioni (musicalmente Walhall=Anello!) vorrebbe perpetuare il Wahn, che è il prodotto del lato religioso-artistico della mente umana. In sostanza: Nibelheim altro non è se non l’amara e cruda verità che si nasconde dietro la brillante facciata del Walhall, del mondo di Wotan. E ancora tutto ciò spiega perchè Wotan ed Alberich siano entrambi degli elfi, chiari e scuri (licht-alben, schwarz-alben).

Ma l’inevitabile progresso conoscitivo e scientifico dell’Uomo porterà - prima o poi - alla sconfitta della Religione (e alla vittoria della Ragione, di Alberich): questa terribile constatazione e consapevolezza è alla base di tutte le azioni e comportamenti di Wotan; e spiega l’intima dissociazione della sua psiche.

Loge rappresenta la metafora dell’umana artistica capacità di auto-illusione. È lui che illude gli dèi di poter perpetuare la loro condizione (le Mele di Freia) mettendo a tacere la terribile verità (Freia reclamata come ricompensa dai Giganti) attraverso l’uso del Tesoro di Alberich! Da gran furbone qual’è, il filibustiere prende così due piccioni con una fava:

1. illude (musicalmente Loge=Tarnhelm!) gli dèi (e gli uomini) che davvero possono liberarsi dalle ferree leggi della Natura, impersonate dallo spaventevole ammonimento di Erda: tutto ciò che esiste, finisce, e
2. offre loro redenzione dal peccato insito nel loro egoistico impulso (il Walhall), che ha ingenerato le pretese dei Giganti su Freia.

Non è un caso che Loge nutra intimo disprezzo per gli dèi: lui conosce perfettamente la verità, sa benissimo che la sua Arte è tutta una finzione, che serve solo ad illudere quei miserabili. Per ora resta al loro servizio (alla fine del Rheingold si accoderà agli dèi che entrano in Walhall) ma non per molto... Intanto però il sequestro del Tesoro e dell’Anello priva - almeno momentaneamente - Alberich (la conoscenza) della possibilità di prevalere.

Di fondamentale importanza è lo scontro Wotan-Alberich - nella quarta scena - che porta alla maledizione dell’Anello. Alberich esclama, rivolto a Wotan: “...se io ho peccato, ho peccato solo contro me stesso; ma tu, immortale, se mi strappi l’Anello peccherai contro tutto ciò che fu, è e sarà”.

Alberich sta accusando Wotan del peccato di fede religiosa: il pessimismo e la rinuncia al mondo reale, che è soggetto a divenire e a mutare. Poco dopo sarà Erda a riecheggiare indirettamente quell’accusa, quando affermerà: “...io conosco tutto ciò che fu, è e sarà”. Prendendo in ostaggio l’Anello, Wotan peccherà (simbolicamente uccidendola) contro Madre Natura, nascondendone la Verità per perpetuare l’illusione che tiene in vita il suo mondo!

Qual’è il significato della maledizione di Alberich (“tutti coloro che possiederanno l’Anello, ne saranno distrutti”)? Tutti quei mortali che si sono auto-illusi con la Religione - inventandosi divinità, immortalità, paradiso, redenzione, libero arbitrio e amore superno, come antidoto alla fatale Verità - saranno inesorabilmente costretti ad accumulare tutto quel tesoro di conoscenza (l’oro) che alla fine distruggerà la loro stessa illusoria felicità.

Gli dèi - e gli uomini che credono in loro - aborriscono la Verità e si autoconvincono che le proprie false credenze siano la Verità. Ma questa situazione non può essere sostenuta a lungo: essi cominciano ad avvertire i dubbi e le paure che l’ammonimento di Erda induce. In effetti, Alberich ha maledetto quell’impulso religioso a fuggire la Realtà, che non può essere soddisfatto: per quanto tale impulso religioso dell’Uomo cerchi soddisfazione nella trascendenza, per sfuggire alla condizione di mortalità del mondo naturale, l’Uomo non può mai raggiungere la redenzione e continua a ritrovare se stesso anche nelle più remote regioni della sua immaginazione religiosa. Gli dèi e il Walhall restano inesorabilmente ancorati alla loro vera origine: l’Anello forgiato da Alberich; il quale Alberich invece non è colpito dalla maledizione, in quanto riconosce la propria condizione e prende atto della Realtà.

Ecco allora il dilaniante dilemma di Wotan: per impedire che il Tesoro di conoscenza venga usato da Alberich per destabilizzare il mondo degli dèi, egli deve metterlo sotto sequestro. Ma con la necessità di difendersi da esso, egli finisce per divenirne conscio a sua volta, e in ciò vede chiaramente la fine delle ragioni della sua propria esistenza, e la vittoria di Alberich!

Fafner impersona appunto la paura di Wotan dell’auto-conoscenza. Egli è il simbolo dei tabù religiosi che ostacolano il pensiero razionale, la paura della Verità che tiene in ostaggio la ragione (Alberich). L’uccisione di Fasolt - la dimostrazione pratica della potenza dell’Anello! - dà a Wotan la conferma delle ragioni della sua paura. Non potendo accettare, nè cambiare la tremenda e orribile Realtà, egli decide ora di cessare di esserne conscio; e cercherà di imparare da Erda (sia visitandola di persona, che percorrendone il dorso, come Wanderer in cerca di spiegazioni al suo stato di necessità) il modo per dimenticare la paura che lei gli ha instillato e per consegnare la conoscenza oggettiva all’oblìo.

Questo doppio, schizofrenico desiderio - conoscere le ragioni della sua paura e i mezzi con cui rimuoverla - si incarna in Brünnhilde. Lei insegnerà a Siegfried (l’erede di Wotan) sia la paura che il modo di dimenticarla. Ciò simboleggia quel dono di Natura che permette all’Uomo di neutralizzare il pensiero oggettivo, facendo prevalere il sentimento: sono i sogni della religione e dell’arte, resi possibili dall’impiego del pensiero e dell’immaginazione controllati dal sentimento. Ma questa redenzione dalla Verità non può che essere temporanea, poichè l’Uomo è destinato ad accrescere la conoscenza di sè e del mondo, finchè la scienza moderna (Hagen) arriverà ad estirpare definitivamente il nostro antico modo di pensare, e la nostra illusoria fede nel trascendente.

(continua)

24 dicembre, 2007

Neujahrskonzert n°69

Georges Prêtre dirige - per la prima volta - il più famoso concerto del mondo, trasmesso in diretta da (quasi) tutte le TV del pianeta, esclusa la RAI, che da qualche anno ha schizzinosamente deciso di non stare nel mucchio e di differire. (Radio3 per fortuna ha ancora qualche spicciolo da spendere - e un pò di sale in zucca - e manda come sempre tutto il concerto, a partire dalle 11:15). Il programma prevede:

Johann Strauss, Napoleon March, op. 156
Josef Strauss, Dorfschwalben aus Österreich. Walzer, op. 164
Josef Strauss, Laxenburger Polka, op. 60
Johann Strauss (padre), Pariser Walzer
Johann Strauss (padre), Versailler Galopp
Johann Strauss, Orpheus Quadrille op. 236
Joseph Hellmesberger, Kleiner Anzeiger. Galopp, op. 4
pausa
Johann Strauss, Overture a 'Indigo und die vierzig Räuber'
Johann Strauss, Freuet euch des Lebens. Walzer, op. 340
Johann Strauss, Bluette, polka française, op. 271
Johann Strauss, Tritsch-Tratsch, polka veloce, op. 214
Joseph Lanner, Hofball Tänze. Walzer, op. 161
Josef Strauss, Die Libelle, polka mazur, op. 204
Johann Strauss, Russischer Marsch, op. 426
Johann Strauss, Die Pariserin, polka française, op. 238
Johann Strauss (padre), Chineser Galopp, op. 20
Johann Strauss, Kaiser Walzer, op. 437
Johann Strauss, Die Bajadere, polka veloce, op. 351
...quindi un primo bis:
Josef Strauss, Sport-Polka, polka veloce, op. 170
...poi gli storici due bis:
Johann Strauss, An der Schönen blauen Donau, op. 314
Johann Strauss (padre), Radetzkymarsch, op. 228

Le precedenti 68 edizioni hanno visto sul podio:

25 Willi Boskowsky
13 Clemens Krauss
11 Lorin Maazel
4 Riccardo Muti
4 Zubin Mehta
2 Claudio Abbado
2 Carlos Kleiber
2 Josef Krips
2 Nikolaus Harnoncourt
1 Herbert von Karajan
1 Seiji Ozawa
1 Mariss Jansons

20 dicembre, 2007

Il Ring: una “vision” pazza? (II)

Come già anticipato, Paul Brian Heise ha sviluppato una sua singolare interpretazione filosofica del Ring, che non solo guarda al di là della pura e semplice trama della Tetralogia (cosa assolutamente doverosa e normale, che solo i programmi di sala ancora mancano di fare) ma si spinge ad un livello di astrazione ancora superiore a quello psicologico-esistenziale, ormai largamente acquisito, per inoltrarsi su un terreno che i matematici definirebbero da derivata seconda.

Il nocciolo della teoria di Heise sta nel presupporre (e poi cercare di dimostrare) che il vero significato del Ring, oltre a non doversi individuare nella proposizione di un’improbabile mitologia nordica, nemmeno si deve ricercare nelle interpretazioni psico-sociologiche largamente diffuse. No, nel Ring Wagner ci descrive - secondo Heise - il mortale conflitto filosofico fra tre componenti della civiltà umana: la Religione, l’Arte e la Scienza.

Non solo, ma nel Ring Wagner ci rappresenterebbe anche la sua propria vicenda autobiografica, quella dell’Arte che raccoglie dalla Religione, sempre più soccombente alla Scienza, il testimone della lotta dell’Uomo per la sopravvivenza rispetto al freddo, piatto e disumano materialismo che la Scienza, per l’appunto, va prospettando all’Umanità. E per di più - amarus-in-fundo - Wagner ci dichiarerebbe - per bocca di Siegfried - il suo totale pessimismo sulle possibilità che l’Arte medesima sia in grado di prevalere!

Cosa rappresentano i personaggi del Ring, secondo Heise?

Alberich e Hagen: il Progresso Scientifico, che strappa i segreti alla Natura, scavandola incessantemente, e mette a nudo la fatuità dei concetti di Religione e Trascendenza, creati dall’Uomo solo per difendersi dalla Scienza, cioè dalla consapevolezza dei propri limiti e della propria inevitabile caducità.

L’Anello e il Tesoro: la Conoscenza, che il progresso scientifico accumula continuamente e che - prima o poi - finirà per spazzar via le illusorie mistificazioni della Religione e dei suoi simboli (gli Dèi).

Wotan: l’Umanità che ha costruito la Religione per rimuovere gli effetti devastanti che la Scienza (meglio la Conoscenza) ha sulla psiche umana; e insieme: il concetto stesso di Divinità, ideale quanto effimera costruzione umana, che serve a mascherare la terribile Verità che la Natura porta con sè.

Loge: il Consulente Psichiatrico degli dèi, che usa l’ispirazione artistica per protrarre l’illusione degli Dèi di essere immortali (e l’illusione degli Uomini - attraverso la Religione - di avere una vita perenne e paradisiaca).

Fafner: la Paura che Wotan ha della Conoscenza, e il desiderio del dio di nasconderla per impedire che Alberich se ne impossessi per distruggere la Religione e i suoi simboli, gli Dèi.

Erda: la Natura, che ha la conoscenza assoluta e totale, che avverte l’Uomo Religioso (Wotan) dell’inutilità dei suoi sforzi atti a nascondere la Verità.

(continua)

19 dicembre, 2007

Concerto di Natale alla Scala: ancora “Deutsche Kunst”









Niente Presepe, solo molti Alberi-di-Natale...

In questo dicembre 2007 La Scala ha davvero indossato un abito tedesco! Sarà stato solo un caso, o c’è dietro una precisa e voluta programmazione, magari con lo zampino del tedesco Barenboim?

Prima Wagner con il Tristan, poi la IX di Beethoven, con Masur; ora la Lobgesang di Mendelssohn, diretta da chi (Chailly) oggi ne prosegue la tradizione, calcando il podio della Gewandhaus.

Molto più della Reformationssinfonie (numerata 5 nel catalogo di Mendelssohn, quella che cita il famoso Dresden Amen, poi parsifalizzato da Wagner) la scarsamente eseguita Lobgesang (numerata 2, ma scritta quasi 10 anni dopo) incarna tutto un intero universo germanico.

Musicalmente: Bach, Händel e ovviamente - anche se per aspetti più superficiali che sostanziali, che diedero a molti, Wagner in primis, lo spunto per critiche e stroncature - Beethoven (la Nona, per l’appunto).

Ma soprattutto Gutenberg, di cui nel 1840 - anno della presentazione della sinfonia, il 25 giugno, nella Thomaskirche a Lipsia, con 500 esecutori! - ricorreva il 4° centenario della scoperta della stampa a caratteri mobili; scoperta (oggi sappiamo che fu coreana, ma insomma...) che contribuì in primo luogo alla capillare diffusione della Bibbia, da cui Mendelssohn trasse i versi da musicare nella sua colossale sinfonia-cantata.

Ma, con Gutenberg, anche Hans Sachs (su cui Lortzing compose per la stessa occasione un’operina comica) e, dulcis-in-fundo, Martin Luther, da Sachs apostrofato come l’Usignolo del Wittenberg, con versi ripresi poi da Wagner nel mirabile Wacht auf! dei Meistersinger.

Gutenberg, Sachs, Luther, Bach, Beethoven! Questo il crogiolo della Lobgesang, con la Bibbia a fare da sfondo unificante! (qui si possono chiudere gli occhi e, magari sul ricordo di acquerelli dello stesso Felix, immaginare il tipico ambiente tedesco di metà ‘800).

La struttura della sinfonia-cantata è così schematizzabile: tre movimenti strumentali, quasi senza soluzione di continuità, seguiti dalla cantata in nove sezioni (o dieci, a seconda delle edizioni critiche, che scindono o meno il n°2) con intervento di soli (2 soprani e un tenore) e coro. I testi sono intrisi di lodi a Dio e al continuo progresso umano - dall’oscurità alla luce - reso possibile, appunto, dalla diffusione del messaggio biblico, a sua volta accelerata dalla moderna tecnologia di stampa.

La mistura - per taluni schizzinosi critici, impropria e gratuita - fra musica da auditorium e musica da chiesa (vi interviene anche l’Organo) rappresenta il carattere principale dell’opera, dal punto di vista del contenuto. I tempi: Mendelssohn, come anche Beethoven del resto, ha posto in partitura chiare indicazioni metronomiche, che dovrebbero quindi guidare il direttore in modo abbastanza vincolante.

Ad aprire la sinfonia sono i tre tromboni soli, quasi un preludio di altre trombonate famose: dal Brahms di Ein Deutsches Requiem (per esempio ad accompagnare, nel n°6, le parole der letzten Posaune) al Wagner dei Cavalieri del Graal, per finire a Mahler, ultimo movimento - Auferstehung - della Sinfonia II (che ci porta nientemeno che nel Giorno del Giudizio).

L’incipt (FA-SOL-FA-SIb) richiama apertamente uno dei Magnificat, come riportati nel Liber usualis. Ne ritroveremo un altro anche in Strauss (Also sprach Zarathustra). Il tema ritorna ciclicamente più volte lungo l’intera opera, per poi chiuderla in modo solenne.

Nella sezione vocale, particolare rilievo ha il n°6. Questo numero, assieme al 3 e al 9, fu aggiunto da Mendelssohn qualche mese dopo la prima esecuzione. In realtà è fondamentale, nell’economia dell’opera, quasi fosse la zeppa di un portale.

Qui c’è il passaggio dalla notte al giorno (simbolizzato illuministicamente dall’invenzione della stampa) descritto con teatrale drammaticità: i tre richiami del tenore al guardiano (figura tanto severa e implacabile qui, pur non parlando in prima persona, quanto routinaria e oleografica sarà nei Meistersinger) angosciosamente interrogativi, con altezze sempre crescenti di un tono (REb, MIb, FA il motto orchestrale, citato da Wagner nella Walküre; DO, RE, MI la supplica: Hüter, ist die Nacht bald hin?) creano davvero una tensione cromatica fortissima, che sfocia nell’annuncio, in RE maggiore, del soprano solo e poi (al n°7, con l’intera orchestra) nella liberatoria perorazione di tutto il coro: Die Nacht ist vergangen! Der Tag ist gekommen! Una fuga di vaste proporzioni, che ne anticipa nell’atmosfera altre più famose, quelle del brahmsiano Requiem. E infatti un certo parallelo si può tracciare fra i n°6-7 della Lobgesang e il n°6 del Requiem di Brahms: anche in quest’ultimo abbiamo il contrasto fra la morte (con i tre richiami DO#-RE-MIb) e l’inferno, rappresentati dal DO minore, e la successiva fuga - di proporzioni gigantesche - in DO maggiore, sui versi:

“Herr, du bist würdig zu nehmen Preis und Ehre und Kraft,
denn du hast alle Dinge erschaffen,
und durch deinen Willen haben sie das Wesen und sind geschaffen.“

Analogo spirito emerge dal motto di Martin Luther, apposto da Mendelssohn sul frontespizio della Partitura della Lobgesang:

“Vorrei vedere tutte le Arti, in specie la Musica,
al servizio di Colui che ce le ha donate e create”.

Ed infatti nella sinfonia-cantata ci sono, insieme: Sacra Scrittura, Progresso, Illuminismo, fede in Dio e fede nella Ragione; un sistema di valori positivi, quasi al limite dell’utopia o addirittura dell’integralismo, dove la luce diventa nientemeno che un’arma (die Waffen des Lichts). Distanza stellare davvero - a cominciare dal diatonismo quasi stomachevole, che per noi scafati è paradossalmente un carattere di debolezza - dall’incipiente decadentismo del cromatico e notturno Tristan!

In ogni caso, inutile negare l’evidenza: la Riforma gettò nel mondo tedesco i semi di un progresso culturale, e quindi artistico, e quindi musicale, che il (nostro) mondo rimasto legato a Santa Romana Chiesa non ha saputo esprimere.

18 dicembre, 2007

Il Ring: una “vision” pazza? chissà...

Tale Paul Brian Heise sta dedicando la vita intera a mettere a fuoco una sua personalissima visione del Ring. Nel libro The Wound that will never heal (titolo scopertamente parsifaliano) propone una sua suggestiva ed accattivante tesi, basata sul postulato della totale adesione di Wagner alla filosofia di Ludwig Andreas Feuerbach. Secondo Heise il Ring altro non è se non...

...un’allegoria, il cui soggetto è il conflitto, che si manifesta in ciascuno di noi, fra il pensiero oggettivo, pratico e scientifico, il cui oggetto è il mondo reale in cui viviamo, e il pensiero religioso ed artistico, che nega il nostro mondo sensibile in favore di un mondo alternativo ed immaginario. La trama del Ring è la storia di come questo conflitto scuote il credo religioso dalle fondamenta, lasciandogli in eredità la moderna arte secolare, l’arte di Wagner. L’intero Ring dipinge non solo la storia di tale conflitto dalle origini dell’Uomo fino ai tempi di Wagner, ma si conclude con la descrizione che Wagner fa della sua stessa creazione del Ring, nelle parole e musica di Siegfried che narra la storia della sua vita (nel finale del Götterdämmerung, ndr.)

(continua)

14 dicembre, 2007

Di peggio in peggio...

Marcelo Alvarez e il regista Terry Gilliam rompono con La Scala.

I commenti sono da...

Italia: se la conosci, la eviti!

13 dicembre, 2007

Il peggio del peggio del peggio!

Lo si era sospettato fin dall’inizio: che fosse tutta una manfrina!

Due scioperi, per i Requiem (qualcuno spiega a cosa servirono?), minacce di sciopero per la prima del 7 e poi il balletto:
- Rutelli che fa promesse verbali (rifriggendo l’aria, senza impegnare seriamente nemmeno un’unghia incarnita),
- Lissner che promette elargizioni (di ciò che non ha),
- i Sindacati confederali che si bevono l’aria fritta e accettano il nulla e
- il Fials che, tra un atto e l’altro della generale del Tristan, fa finta di mostrare senso di responsabilità, ben sapendo di non condividere un’unghia incarnita di tutto ciò che viene votato in assemblea.

Così va in onda un’autentica, anche se spuria, precettazione per il 7/12, imposta promettendo un paio di panettoni di Natale.

Risultato?

Il pubblico falso e bugiardo del Sant’Ambrogio è accontentato, anzi servito in guanti gialli.

Quello che segue La Scala per tutto il resto della stagione? chissenefrega !

12 dicembre, 2007

Regietheater II - pastrani

Il pastrano sembra ormai essere divenuta l’uniforme ufficiale per i personaggi di opera (soprattutto di Wagner).

Così commenta A.C.Douglas sul suo blog:

Arieccoli! Questi pastrani ubiqui, maledetti e stupidi, così cari ai registi Eurotrash! Sarei eternamente grato a chi mi fornisse plausibile spiegazione del perchè questo capo di abbigliamento, totalmente inappropriato, abbia preso così indefettibilmente piede nell’immaginazione di registi e scenografi Eurotrash, che lo infilano nella produzione di qualsivoglia opera, indipendentemente da ogni necessità legata al dramma, o al tempo o al luogo...

Le immagini vengono dalla Scala, dalla Staatsoper, dalla Royal Opera House.
Come tutte le mode, passerà?!?


















10 dicembre, 2007

Regietheater

Il tema occupa, con alti e bassi, le discussioni, le recensioni, le pagine di cronaca e cultura musicale di giornali e riviste.

In sostanza, la materia del contendere è la validità - il diritto addirittura - di regista, scenografo e costumista (e aggiungiamo pure il responsabile delle luci) di intervenire di testa propria su regia, scene e costumi di un’Opera Lirica, magari in contrasto con la volontà, o la lettera, degli Autori, o con la tradizione interpretativa consolidata.

Il razionale che sta dietro al Regietheater (nome teutonico perchè è nel mondo tedesco che la pratica ha avuto inizio ed ha preso ampiamente piede) è che l’ambientazione di un’Opera vada rinnovata, rispetto all’originale, in modo da renderla meglio e più comprensibile da parte di un pubblico che ha sulle spalle 50 anni, o uno o due o tre secoli di storia, di esperienza e di evoluzione della civiltà, rispetto a quello dei tempi in cui l’Opera fu creata.

Quindi si teorizza che rappresentare, negli anni 2000, personaggi in parrucca, ambienti settecenteschi, o scenari da improbabile fiaba, sia cosa disdicevole per le sorti dell’Opera, in quanto lo spettatore medio di oggi troverebbe tali messe in scena semplicemente ridicole, parruccone appunto, e in definitiva non degne della minima attenzione. Il Regietheater avrebbe quindi una nobile funzione culturale: mantenere alti l’interesse e la partecipazione del pubblico verso l’Opera Lirica.

È singolare osservare come questo furore innovativo si applichi, di norma, alla messa in scena, e non - o solo in misura limitatissima - alle componenti fondamentali dell’Opera: il testo e la musica. E in particolare non ci si preoccupa della banalità, della stupidità, o dell’anacronismo davvero ridicolo di molti libretti, per cui il Regietheater finisce per cambiare l’abito a personaggi che però continuano a recitare e a cantare frasi, espressioni e termini oggi del tutto desueti e ancor più stridenti se messi in bocca a persone vestite alla moda attuale e che si muovono in ambienti moderni. Ad una Traviata ambientata in una tifoseria hooligan andrebbe coerentemente cambiato il testo, e Libiamo, libiamo nè lieti calici dovrebbe diventare: Svuotiamo, svuotiamo le nostre lattine. Ma il Regietheater, statene pur certi, vi propinerà gli hooligan che cantano libiamo...

La musica poi, è sacra, e nessun regista se ne occupa, è giustamente affare del kapellmeister; il quale, salvo apportare tagli qua e là, o al massimo qualche ritocco all’orchestrazione (ma non scambierà di certo la sezione degli archi con quella degli ottoni!) si guarda bene dal rinnovare i contenuti musicali, poichè si conviene che avrebbe pochissimo senso riscrivere à la Rossini un’opera di Monteverdi, o à la Strauss un’Opera di Donizetti.

Sgombriamo qui il campo da un altro fenomeno, che con il Regietheater ha poco a che spartire: il taglio dei recitativi (opera italiana) o delle parti puramente vocali, senza accompagnamento musicale (singspiel tedesco): qui siamo di fronte all’esigenza, derivante dall’evoluzione del gusto, di concentrare al massimo la parte musicata, in sostanza penalizzando il testo e la comprensione della trama, in favore della musica. O anche di non tediare uno spettatore tedesco con dialoghi in italiano per lui incomprensibili, o uno spettatore italiano con dialoghi in crucco, del tutto ostici da digerire. Ad esempio, il Fidelio privato dei dialoghi si riduce a meno di due ore di grandissima musica, che si beve di un sol fiato (il che spiega perchè, per rimpolparlo, a partire da Mahler si infila la Leonore3 fra le ultime due scene).

Altro ancora è il problema delle cosiddette edizioni o revisioni critiche di opere incompiute, o presenti in versioni diverse o frammentarie, o tramandate in modo equivoco e con aggiunte o interventi apocrifi. Esempi ne sono: Die Kunst der Fuge di Bach, scritta su quattro righi senza alcuna altra indicazione, per cui la sua esecuzione richiede necessariamente e come minimo di decidere quale(i) strumento(i) impiegare. O la decima di Mahler, di cui restano solo abbozzi e schizzi che, per essere fatti ascoltare al vasto pubblico, richiedono interventi, anche discutibili, come quelli messi in atto da Derick Cooke. O ancora opere di Rossini ritrovate a spizzichi e bocconi e necessitanti quindi di revisione critica, se non addirittura di ricostruzione.

Fatte queste premesse, veniamo a descrivere un paio di esempi.

Calixto Bieito e la regia di Die Entführung aus dem Serail, alla Komische Oper Berlin. Per portare l’ambientazione ai tempi nostri, il català ci propina nientemeno che il taglio di capezzoli di una prostituta, molto sesso orale, la vista di bisogni corporali e altre piacevoli interpretazioni. E pensare che Mozart intervenne di persona sul libretto di Gottlieb Stephanie, proprio per meglio scolpire la personalità dei suoi personaggi! Questo è un esempio lampante di come un regista che faticherebbe a farsi largo in teatri underground, può invece arrivare a mettersi in primo piano, strumentalizzando ai suoi fini, e ai limiti del codice penale, un’opera fra le più splendide che la nostra civiltà abbia prodotto. Risparmio esempi fotografici, reperibili facilmente nel web.

Claus Guth e la regia dei Meistersinger, a Dresda. Alla fine dell’Atto II, il povero Beckmesser viene mostrato, nudo, con testa d’asino e genitali insanguinati (si veda qui sotto). Proprio quello che Wagner avrebbe immaginato, fosse vissuto 150 anni dopo! (vero?)













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Veniamo per l’appunto a Wagner, Rheingold, preludio e prima scena. Sulla partitura, insieme alle parole ed alle note, Wagner ha scritto: Sul fondo del Reno. Sì, con la sua propria (e bella) calligrafia. Non c’è dubbio alcuno, guardate che c’è proprio scritto così, sopra e prima del famoso MI bemolle dei contrabbassi (qualche direttore ha mai pensato di suonarci un LA, per caso?) esattamente come sulla partitura della V di Beethoven c’è scritto che l’incipit lo suonano gli archi, coi clarinetti, ma non gli strumentini e gli ottoni, e come - dal 1300 - ci è stato tramandato che il primo verso della Commedia recita: “Nel mezzo del cammin di nostra vita” e non, poniamo: “Al colmo del sentier della mia vita”.

Ora: se un regista ambienta l’inizio del Rheingold - invece che sul fondo del Reno, come Wagner ha scritto di suo pugno sulla partitura dell’opera - ai piedi di una centrale idroelettrica in disarmo, e le Rheintöchter le trasforma in prostitutelle da lupanare, che dobbiamo dire, indipendentemente dall’efficacia e dall’effetto spettacolare di questa ambientazione? Così la presero semplici ed onesti spettatori del Ring del centenario, che il del tutto incompetente Wolfgang Wagner fece inscenare all’ignorante crasso (in fatto di musica e di Wagner) Patrice Chéreau, nel 1976 a Bayreuth:


















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È tutto qui. Dopodichè sul problema e sulle innumerevoli materializzazioni del Regietheater si possono scrivere - e si sono scritti - fiumi d’inchiostro. Mentre basterebbe dire - prima e chiaro - che si sta facendo la parodia... in modo che lo spettatore:

1. sappia ciò che va a vedere/ascoltare (e questa è di gran lunga la cosa più importante) e
2. possa distinguere fra originale e contraffazione.

01 dicembre, 2007

Duetti wagneriani

Va da sè che il titolo è irriverente verso il Wagner del Tristan, e pochissimo applicabile al Wagner tout-cour. Sa di opera italiana a numeri, quanto di più distante dalla concezione wagneriana del musik-drama. Però serve ad intendersi sommariamente.

Lo sbudellante ed interminabile duetto che occupa 2/3 del secondo atto del Tristan è perfettamente inserito nel disegno unitario dell’opera, ma è anche in qualche modo legato, quasi ne fosse cerniera, ad altri due duetti che lo precedono e lo seguono cronologicamente, nella parabola compositiva di Wagner.

Sappiamo che Wagner, per dedicarsi al Tristan, nel 1857 abbandonò la composizione del Siegfried, alla fine dell’Atto II. Un anno prima, o giù di lì, Wagner aveva completato la Walküre, il cui primo atto è occupato, nella seconda parte, da un altro strepitoso duetto, quello fra Siegmund e Sieglinde.

Di durata inferiore e - inutile ricordarlo - di assoluto diatonismo, questo duetto tuttavia rappresenta quasi la prova generale di quello del Tristan, e ne prefigura anche alcuni aspetti tecnici, come ad esempio la serie di modulazioni a partire da “was in Busen ich barg”, o il trascinante alternarsi delle linee melodiche, perfettamente modellate sul tracciato del dialogo dei due gemelli-amanti.

Insomma, a parte gli stimoli che portava in sè da parecchio, ulteriormente e carnalmente amplificati dal rapporto con Mathilde, è possibile che la straordinaria riuscita, in termini drammatico-musicali, del duetto dei gemelli Wälsi abbia dato a Wagner la spinta definitiva ad affrontare senza indugi - e lasciando il povero Siegfried ad aspettare sotto il tiglio - l’impresa stratosferica del Tristan.

Ma attenzione! Al ritorno dal tristaniano aldilà (im weiten Reich der Weltennacht...) il nostro aveva di fronte, indovinate? un’altra bella gatta da pelare: il duetto Siegfried-Brünnhilde! Una freudiana enciclopedia dell’iniziazione sessuale! E ciò che nel Tristan viene inghiottito dal diluvio cromatico che sostiene la schopenaueriana visione del mondo della sehnsucht, nel Siegfried riemerge nell’abbagliante luce solare del leuchtende Liebe, lachender Tod! Con tanto di ritorno al diatonismo, dopo il bagno peccaminoso nel venefico filtro, nel furchtbare Trank...

Poi, prima di lasciar cadere l’orologio, il nostro musicherà la versione più straordinaria, e invero pazzesca, del duetto d’amore, dove la donna usa l’insano mix di amore materno e meretricio per adescare l’uomo, e desta in lui l’amore universale ed assoluto!

27 novembre, 2007

Deliri

a. (sehr lebehaft) 3-4-3-3-4-3-4-3-4-4-3-4-4-4-3-3-3-3-3-3-3-3-3-3-3-3
(accel.) 3-3-3-3-5-5-5-5-5-5-5-4-4-4
b. 3-4-4-3-4-4-3-4-3-4-3-3-3-3-4-3-3-3
c. 3-3-3-5-5
d. 5-5-4-4 (accel.) 4-4-3-3-3-2-2-2-2

I musico-tecnici avranno già capito trattarsi della sequenza di 76 misure (le cifre rappresentano il numero di semiminime per ciascuna di esse) dell’inizio della penultima scena del Tristan: sostengono l’ultimo stadio del di lui delirio, dal momento in cui Kurwenal lo lascia - per andare a prendergli Isolde, appena sbarcata - a quando Isolde entra a sua volta in scena.

La continua irregolarità del tempo musicale è lo specchio di quella del tempo psichico di Tristan, ed anche di quella dei suoi movimenti fisici. La didascalìa ci avverte che lui è:

(a.) dapprima preso da massima agitazione (O diese Sonne...) mentre ancora è sdraiato sul suo giaciglio, poi
(b.) si drizza completamente (Mit blutender Wunde...) quindi
(c.) strappa le bende dalla ferita (Heia, mein Blut) e infine
(d.) balza dal giaciglio ed avanza barcollando (Die mir die Wunde...)

(Parentesi malignotta, stanti i precedenti: Chéreau ci farà caso, alle didascalìe scritte in partitura, o si inventerà qualcos’altro di sana pianta? Se non si fosse capito, personalmente giudico il cosiddetto Regietheater alla stregua di un crimine da perseguire penalmente...)

Già Händel aveva usato (Orlando) la metrica di 5/8 per descrivere lo stato d’animo di persone in preda alla pazzia o all’isteria. Poi invece Ciajkovski musicherà nel claudicante tempo di 5/4 l’intero secondo movimento della sua “Patetica”, ma per richiamare il ritmo di danze popolari, non certo per descrivere un dramma psichico. Lo stesso Mahler impiegherà in molte sue composizioni - a volte in modo superficiale e gratuito - la tecnica dei continui salti di tempo.

Personalmente trovo - se non proprio una similitudine stretta - quantomeno un’analogia nell’ambientazione psicologica di questo passaggio con quello di cui è protagonista Florestan, all’inizio del secondo atto del Fidelio (sappiamo quanto Wagner ammirasse Beethoven); in particolare con la frase Und spür ich nicht linde... - un poco allegro, dopo l’adagio di In des Lebens Frühlingstagen... - con cui Florestan manifesta, anche lui in preda ad una specie di delirio (Wahnsinn, si legge in partitura) il presentimento dell’arrivo liberatore di Leonore.

Sono stati di un animo alterato o irresistibili e spaventevoli pulsioni della psiche (Dies furchtbare Sehnen...) quelli che in entrambi i casi vegono stupendamente rappresentati in musica.

25 novembre, 2007

Rienzi a Lipsia

Grazie a Radio3, sabato 24 si è potuto ascoltare da Lipsia il Rienzi, opera tanto spesso rappresentata in Germania, quanto ignorata nel resto del mondo.

Del Rienzi si esegue, rare volte comunque, l’Ouverture, di solito come riempitivo in concerti di musica romantica. Il tema che vi compare per primo è quella stupenda frase che il protagonista canta all’inizio del V Atto (Du stärktest mich, du gabst mir hohe Kraft, du liehest mir erhabne Eigenschaft) il cui incipit - gruppetto rovesciato attorno alla tonica e salto in alto alla sesta - verrà da Wagner ripreso nientemeno che nel Prologo del Götterdämmerung (lì partendo dalla sottodominante per salire alla sopratonica) a scolpire la personalità adulta di Brünnhilde.

A Lipsia il GrandOpera è stato decurtato del Grand... quanto meno nella durata (4 ore e 15’, 2 intervalli inclusi, contro le 6 ore standard): il taglio macroscopico era costituito dalla serie di 5 balletti (mi permetto di usare questo termine un poco offensivo, ma proprio da JockeyClub) che nell’Atto II accompagnano i festeggiamenti per la nomina di Rienzi.

In sostanza: si sente, lontana lontana, qualche avvisaglia di ciò che verrà (molto Lohengrin, ad esempio...) ma per il resto siamo a prima del Weber di Euryanthe e Freischütz.

A qualcuno - compreso chi come me non conta nulla - non dispiacerebbe comunque vedere il Rienzi completo al Festspielhaus: in fondo, se vi si fanno Holländer e il Tannhäuser del ‘43, non si capisce il perchè del perdurante ostracismo per il Tribuno...

23 novembre, 2007

Il riunificatore della Germania

Nessuno più e meglio dell’ottantenne Kurt Masur può impersonificare l’idea dell’Europa Unita, eseguendo il 10 dicembre (di lunedì, per lui un giorno particolare!) con la Filarmonica della Scala, la IX Sinfonia di Beethoven!

Poichè oggi non ci potrebbe essere l’Europa Unita, senza la Germania Unita.

E se la Germania è unita lo si deve, oltre che alla scommessa economica di Helmut Kohl (1 marco della BRD dato in cambio di 1 marco della DDR!) anche e soprattutto alla straordinaria partecipazione popolare, che a Lipsia trovò nell’allora poco più che sessantenne Kapellmeister Kurt Masur il suo autentico alfiere!

La sera del 9 ottobre 1989, durante una delle Manifestazioni del Lunedì che caratterizzarono la transizione dall’epoca della cortina a quella della libertà, Masur - sfidando le minacce di ritorsione delle autorità comuniste - lesse un appello, Keine Gewalt!, firmato insieme ad altre 5 personalità di spicco, in cui si inneggiava alla libertà e al dialogo. Lo scorso 19 settembre Masur è stato insignito, dal Presidente della Repubblica tedesca, della gran croce al merito per le sue attività artistiche e il suo impegno civile.

Sarà una combinazione, ma sul podio della Gewandhaus - calcato per 27 anni da Masur - è salito un beniamino della Filarmonica: Riccardo Chailly.

22 novembre, 2007

Il Tristan di Chéreau/Peduzzi/Bickel

Si sa poco ancora della regia, ma qualcosa comincia almeno a trapelare su scene e costumi.

Un paio di servizi del TGR Lombardia hanno presentato - con immagini dall’Ansaldo - le strutture generali delle scene di Peduzzi per i tre atti del dramma e alcune idee sui costumi della Bickel.

Scene:
1. un muro romano (proprio copiato, con tanto di calco, da un edificio di Roma);
2. una pietra liscia e piatta;
3. una diga, o sbarramento marino.

Come interpretarli?

Il muro (ma perchè proprio romano?) del primo atto non può che rappresentare - per l’appunto - il muro di incomunicabilità che separa Tristan e Isolde. I due si amano fin dal momento dello sguardo, ma i rispettivi complessi (presunzione, superiorità, costrizione psichica, schizofrenia, insomma) gli impediscono di dichiararsi il reciproco amore. Anzi, la frustrazione che da ciò si crea nelle rispettive psiche, li porta dall’amore all’odio, e ai propositi di distruzione (di sè e/o dell’altro).

Se l’interpretazione è corretta, ci sarebbe da aspettarsi che - bevuto il filtro da parte dei due protagonisti - il muro si volatilizzi, oppure si trasformi - sdraiandosi - in un ponte che permette ai due di riunirsi.

La pietra piatta e liscia del secondo atto potrebbe rappresentare l’assenza totale di freni inibitori, che ormai caratterizza i rapporti fra i due. La nuda esposizione delle loro anime, che progressivamente e reciprocamente si spogliano di tutte le incrostazioni e le sovrastrutture che caratterizzavano la loro precedente dimensione mondana.

Lo sbarramento marino dell’atto finale ripropone, in certa misura, il concetto di ostacolo, che ancora torna a frapporsi fra i due amanti; forse non è più il muro - artificiale e artificioso - di incomunicabilità, ma un quasi naturale impedimento a che il mare (l’infinito...) li possa accogliere, finalmente uniti, per l’eternità.

La venerabile Moidele Bickel pare abbia pensato a costumi fuori da ogni contesto storico, e ciò sarebbe assolutamente condivisibile: non siamo nè a Gottfried von Straßburg, nè a Ibsen... ma nel regno della sehnsucht, al di là del tempo e dello spazio. Quindi: colori anonimi (nero e molto grigio... a parte un gran drappo rosso per Isolde Atto II) e forme decontestualizzate.

Il peggior torto che si può fare allo spettatore del Tristan è di distrarlo dal dramma - tutto interiore - con la spettacolarizzazione di scene e costumi.

21 novembre, 2007

Brendel: ancora un anno



Il 18 dicembre 2008 Alfred Brendel terrà il suo ultimo concerto, a Vienna, con i Philharmoniker diretti da Mackerras. Suonerà il K271... poi si ritirerà a scrivere, saggi e poemi.

19 novembre, 2007

C’è anche un Parsifal, al SanCarlo

O’ Parsifallo torna quest’anno nella sua Napoli.

In assenza dell’acciaccato Tate, sarà un pupillo di Barenboim, Ascher Fisch, a dirigere l’estremo lascito wagneriano, con robusta compagnia teutonica (come si deve... per garantirsi un minimo di risultato).

La prima di domenica 2 dicembre (ore 19) è in programma su Radio3.

PS: le singolari analogie fra il 2° atto del Parsifal e il Robert le Diable di Meyerbeer fanno giustizia di molti luoghi comuni, e degli stessi pregiudizi di Wagner verso l’odiato ebreo...

16 novembre, 2007

Tristan und Isolde: una tesi freudiana (II)


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Premessa.
Nel primo atto, Wagner ci fa di Tristan e Isolde due ritratti - per certi aspetti - simili, o speculari (sono entrambi affetti da acuta schizofrenia) ma per altri assai diversi; in particolare:
- Isolde racconta i suoi sentimenti: a Brangäne e a tutti noi, ma non a Tristan; a quest’ultimo racconta più che altro cose inverosimili, o come minimo provocatorie;
- Tristan invece, i suoi sentimenti non li racconta proprio a nessuno (nè a Kurwenal, nè a noi, nè tanto meno ad Isolde).
Già in ciò possiamo forse individuare un tratto che oggi si definirebbe maschilista nel carattere di Tristan, ma in realtà di Wagner medesimo. (Ne avremo una chiara conferma al momento dell’assunzione del filtro: Isolde lo programmerà come atto congiunto e unificante, mentre Tristan lo eseguirà smaccatamente da solo, a titolo personale.)
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Dunque, Tristan e Isolde, al primo sguardo, si sono innamorati. O meglio: nelle rispettive psiche è scoccata una scintilla, si è prodotta la classica oscillazione brusca, tipica dei sismografi allorquando rilevano un - vicino o lontano - terremoto.

Che Isolde sia innamorata, ce lo dice - ma proprio esplicitamente - lei stessa, all’inizio della Scena II: Mir erkoren, mir verloren, hehr und heil, kühn und feig! Todgeweihtes Haupt! Todgeweihtes Herz! Non c’è dubbio che si tratti di una straordinaria dichiarazione d’amore. Però si tratta di un amore impossibile, quello di una donna per un uomo votato - ragione e sentimento - alla morte! Uno - crede lei - per il quale l’amore è una categoria sconosciuta, che non trova posto nella sua Heldenleben (per questo, oltre che kühn - ardito - è anche feig - vile!) Essendo lei prigioniera della sua stessa presunzione, oltre che delle convenzioni, si guarda bene dal fare il primo passo verso l’amato.

Tantris, guarito da Isolde, torna come Tristan in Cornovaglia, ma quella scintilla, scoccata nella sua psiche, ha ormai fatto divampare un fuoco che comincia a consumarlo insopportabilmente. Come ammetterà nell’Atto II, in fondo al cuore (...bis in des Herzens tiefsten Schrein) la ama, ma contemporaneamente il suo subconscio comincia ad odiarla, come responsabile di avergli creato questa condizione, per lui innaturale: ma come! un puro eroe che si è fatto irretire da una donna? Per di più così superbamente fiera (...so rühmlich schien und hehr...) che gli pare irrangiungibile, a meno che lui non si abbassi ad abdicare all’intero suo sistema di valori. E questo è ancora nulla: la donna in realtà ha anche in mano la sua vita, e non una, ma due volte addirittura: per avergli risparmiato una sicura morte (la spada lasciata cadere), e poi per averlo curato e rimesso in salute.

Questa doppiezza di sentimenti (schizofrenia amore-odio) ingenera in Tristan l’idea di un folle disegno: far sì che lei sia costretta ad essergli vicina, così da porla davanti ad un’alternativa secca: rodersi nell’ansia per il resto dei suoi giorni, o cedere e dichiararsi a lui. Null’altro spiega perchè Tristan convinca, quasi obbligandolo, Re Marke ad accettarla in sposa e pretenda di essere lui stesso a recapitargliela, andandola a prelevare in Irlanda.

Non è quindi il codice cavalleresco a determinare il suo comportamento, bensì la tremenda frustrazione (e relativa dissociazione) che lacera la sua psiche! E già dal viaggio di ritorno, sulla nave che ci appare all’alzarsi del sipario, Tristan mette in atto il suo piano: restare a portata di sguardo di Isolde, e contemporanemente ignorarla. Costringerla ad uno psicologico logorante braccio di ferro, da cui lei esca comunque piegata: o rassegnandosi a subire una perenne sofferenza, o cedendogli finalmente (nel qual caso a Tristan basterebbe dare un semplice comando alla ciurma: virare a dritta di 90°, e volgere la prua a sud, invece che ad est!)

Che Tristan in cuor suo aspetti quest’ultimo evento risulta inequivocabilmente chiaro dal suo trasalire (auffahrend) e dalla sua emozionata esclamazione (Was ist? Isolde?) all’annuncio fattogli da Kurwenal dell’arrivo del messaggio recato da Brangäne. Ma subito si ricompone (Er fasst sich schnell...) e per ora continua a tirare la corda, rifiutandosi di far visita ad Isolde, con la scusa di dover reggere il timone.

Isolde, dal canto suo, è ormai convinta, dal comportamento tenuto da Tristan, che egli per davvero la consideri nulla più che un oggetto da regalo (per Marke). Lo ama, ma contemporaneamente comincia ad odiarlo - e non solo per la sua indifferenza, ma anche per la sua ingratitudine - e a meditare sull’insopportabilità del suo proprio futuro: Ungeminnt den hehrsten Mann stets mir nah zu sehen, wie könnt ich die Qual bestehen?

Analizziamo un attimo lo stato in cui si trova la sua psiche: lei si è innamorata dell’uomo che le ha appena ucciso il promesso-sposo, quindi subisce già per questo una gigantesca costrizione psichica, con annesso senso di colpa; per di più, l’uomo di cui si è innamorata la ignora bellamente (frustrazione...) Insomma: lei ama perdutamente un tale che le ha distrutto la felicità passata e contemporaneamente le nega quella futura! Davvero una condizione insostenibile!

E quindi decide di farla finita... Da sola? Fosse così, le basterebbe tracannare il filtro di morte dall’ampolla che lei stessa ha chiaramente contrassegnato! No, evidentemente anche Tristan deve morire, per pagare la sua colpa, il suo peccato di presunzione e di superbia; e affinchè - almeno nella morte - i loro destini si possano incontrare. Il problema di Isolde, a questo punto, è: come creare l’occasione per il mortale brindisi con lui?

Quando Kurwenal la sollecita a prepararsi per essere accompagnata da Tristan verso Marke, è lei a trasalire e rabbrividire: il viaggio sta per concludersi, e l’occasione rischia di sfumare! E allora trova un pretesto - la riconciliazione dovutale per una colpa non espiata - per incontrare Tristan prima dello sbarco. E fa preparare a Brangäne il filtro di morte, per Tristan e per sè.

Tristan - anche per lui ormai il tempo stringe - adesso dimentica il pretesto del timone e si presenta ad Isolde, ma con atteggiamento formale, scruta le intenzioni della donna (segretamente spera ancora e sempre nel miracolo?) risponde con frasi fatte alle di lei rimostranze riguardo l’etichetta, domanda quale sia il motivo per cui Isolde chiede riconciliazione.

Per tutta risposta, Isolde si inventa una nuova, inverosimile spiegazione al comportamento da lei tenuto con Tantris. A Brangäne aveva raccontato una prima verità: di non aver ucciso Tantris perchè intenerita dalla sua misera condizione... A Tristan racconta invece di averlo risparmiato e rimesso in sesto perchè lui potesse poi essere vittima di un legittimo vendicatore di Morold (!?) Vendicatore che però non può esistere in alcun luogo, essendo Tristan da tutti amato...

Al che Tristan, pallido e cupo, offre ad Isolde la sua spada perchè lei stessa possa compiere la vendetta. Ma attenzione: le si rivolge non più con il lei, ma con il tu (!?!) Perchè questo stato d’animo? E perchè questo improvviso mutamento di etichetta? Comincia per caso a sospettare che Isolde non lo ami? Che il suo atteggiamento di allora fosse motivato da un cinico disegno di vendetta? (O da pura carità cristiana, null’altro?) Insomma: un sospetto che ingigantisce la sua frustrazione; sì, poichè se le cose stessero così, allora sarebbe tutto il suo castello di carte a cadere miseramente. E con esso perderebbe di significato la sua propria esistenza: ed allora, tanto vale chiuderla, una volta per tutte! E per di più offrendo a quella stessa ingrata donna la spada con cui finirlo, per manifestarle tutta la sua superiorità di maschio...

Isolde rifiuta però la spada adducendo due giustificazioni: (a). Come potrei uccidere il servitore fedele del Re a cui vado sposa? (b). Ciò che non feci tempo addietro (con Tantris) a maggior ragione non potrei fare ora. Ma allora, sta forse per cedere? Per rivelare a Tristan che lei lo ama dal primo momento? Al contrario, lei decide di alzare ulteriormente la posta, aggiungendo un particolare di portata capitale: tu, Tristan, mi guardasti fisso negli occhi per valutarmi (come fa un mediatore di vacche che scruta un capo per deciderne il prezzo) per capire se ero degna di andare in sposa al tuo Re (!?!) Ma davvero Isolde è convinta di una simile stupidaggine? Insomma: sta qui confermandoci di aver ormai perso tutte le speranze, oppure sta tentando l’estrema provocazione, per costringere Tristan a cedere?

E infatti, dopo che Isolde rifiuta la spada, Tristan cade in cupa meditazione (...düsterem Brüten). Come mai? Sta forse ancora cercando di capire quali carte stia giocando l’altra? Oppure è per caso anche lui sul punto di cedere? Perdinci, lui sa bene quali fossero (e siano) i suoi sentimenti verso Isolde e che quando le rivolse quello sguardo non era certo per misurarne le qualità esteriori... gli basterebbe una parola per rompere finalmente quel muro di presuntuosa incomunicabilità che li separa!

E invece, finster (cupo) sempre più schiavo della sua nevrosi, decide pervicacemente di continuare nel braccio di ferro, e pronuncia la famosa, criptica frase: ...fass' ich, was sie verschwieg, verschweig ich, was sie nicht fasst.

Che significa? Non significa, per caso (nel suo maschilista subconscio!): io ho capito che tu mi ami, anche se me lo nascondi... mentre tu non capisci che io ti amo, e perciò te lo nascondo (perchè non mi meriti...) (?!?)

Ormai il tempo stringe, si sta gettando l’àncora, e Isolde non può che giocare il tutto per tutto: mit leisem Hohne, quasi schernendolo, dètta a Tristan il discorsetto di circostanza da fare a Marke, di lì a poco, in occasione della consegna del regalo!

E Tristan, a questo punto - ormai ha la disperata conferma che il futuro rischia di essere insopportabile per lui, quanto e più che per Isolde - beve per primo e da solo. In modo da chiudere (guarire del tutto) un’esistenza divenuta per lui invivibile e contemporaneamente per dare alla donna che non lo ha capito - o che non si è voluta piegare - l’estrema, inequivocabile e sprezzante lezione di superiorità.

E infatti Isolde si sente ancora e nuovamente tradita e disprezzata: per bere a sua volta, deve letteralmente strappargli di mano la coppa.

Insomma: nessuno dei due ha voluto/saputo cedere all’altro(a). Una speculare schizofrenia li ha costretti ad agire contro se stessi e - in definitiva - contro l’Amore!

La tensione psicologica, che si era creata entro ciascuno dei due e fra i due, ha ormai raggiunto il suo apogeo: in realtà siamo arrivati al limite di rottura di quell’instabile equilibrio, al momento in cui il surplace risulta non più prolungabile.

A questo punto il dramma avrebbe anche potuto chiudersi lì, con i due protagonisti a morire, ai lati opposti della scena, ciascuno vittima della propria presunzione, oltre che delle vigenti convenzioni (Ehre e Schmach). Insomma: un tragico atto unico, una Cavalleria Rusticana ante-litteram e sui-generis!

Wagner aveva però ancora da confezionare, per poi somministrarceli, due etti - pardon, due atti - di oppio; e, come farebbe ogni grande mago o stregone, si è servito di un filtro per garantirsi la possibilità del taglio e dello spaccio.

14 novembre, 2007

Buon compleanno, Daniel!



...e facci sognare (con Tristan...)

13 novembre, 2007

Il Ring come se l’era immaginato Wagner (?!)

Richard Wagner, nei suoi quarantotteschi rivoluzionari vaneggiamenti, aveva immaginato un festival estivo da tenersi in un teatro messo su alla bell’e meglio, con qualche asse e tanto cartone, in cui rappresentare delle opere nuove e innovative (quelle che cominciavano a frullare nella sua mente...) Poi, finito il festival, il tutto veniva dato alle fiamme e buonanottealsecchio.

Sappiamo che Wagner - molto più avanti, e moltissimo imborghesitosi - riuscì a realizzare il suo megalomane sogno: ne uscì il Festspielhaus, fatto di robusti mattoni e tutt’ora saldamente in piedi, a 130 anni e più dalla sua erezione, e passato (quasi) indenne attraverso i bombardamenti alleati.

A Speyer, ridente e storica cittadina appena ad ovest del Reno (pochi Km dalla musicale Mannheim, oltretutto) qualcuno ha avuto una pazza idea: realizzare ciò che Wagner aveva soltanto vaneggiato.

E così, su una radura sul Reno, a nord di Speyer (terreno del demanio, della Bundeswehr per la precisione) verrà costruito un teatro di legno e cartapesta - per 2000 posti comodi - dove fra il 9 e il 12 settembre del 2008 si rappresenterà il Ring.

Alla fine del Götterdämmerung, il Walhall e tutto il teatro - esclusi, si spera, gli spettatori - verranno dati letteralmente alle fiamme!

Così il 13 settembre ci sarà una quarta giornata del Ring, dedicata all’esecuzione della Nona di Bruckner, sulle ceneri del teatro...

Difficile pensare che personaggi come: Wilhelm Keitel e Gustav Kuhn (direttori d’orchestra), Hinrich Horstkotte (regista), Matteo Thun (architetto tirol-milanese, scenografo) Peter Schmidt (costumi) e Walter Hitz (produttore) siano improvvisamente ammattiti, o si siano trasformati in una banda di imbroglioni. Nè siamo a ridosso del 1° aprile...

Insomma, sembra una cosa terribilmente seria... come serio è il prezzo dei biglietti di ingresso: 600-1400€ a serata, oppure 3000-7000€ per il ciclo, o anche 11000-15000€ per un esclusivo programma di vita con gli artisti!

Gli organizzatori aspettano ansiosi la vostra prenotazione (soprattutto il bonifico associato) ...altrimenti non sanno come fare a dar inizio ai lavori.

11 novembre, 2007

Tristan und Isolde: una tesi freudiana (I)

Tristan e Isolde si innamorano - per Novella4000: colpo di fulmine - al primo incontro. Per l’esattezza: nel preciso istante dello sguardo.

Lei, che ha riconosciuto Tristan nel Tantris sofferente, invece di ucciderlo, lo guarisce: ciò facendo, gli rivela implicitamente il suo amore, ma la sua presunzione (di donna intellettualmente emancipata) e insieme il suo subconscio (di donna tout-cour) le impediscono di abbassarsi ad esternargli il suo sentimento, e le impongono di attendere che sia Tristan a fare il primo passo.

Tristan non solo si rende conto di essersi innamorato (orrore, per un cavaliere della sua statura!) e sa perfettamente - o almeno così crede il suo (maschilista?) subconscio - di aver fatto colpo su Isolde, ma la sua presunzione (di maschio superiore) gli impedisce di abbassarsi ad esternarle il suo sentimento, e gli impone di aspettare che sia lei a cadergli ai piedi.

Ecco il cuore del dramma: entrambi aspettano che sia l’altro(a) a cedere per primo(a).

Una situazione di stallo, un autentico surplace; e quindi un equilibrio instabile, che non può diventare normalità, ma che dovrà essere rotto, inevitabilmente e traumaticamente.

Infatti, siccome nessuno dei due è disposto a cedere, la nevrosi che si crea all’interno delle rispettive psiche e quindi fra le loro persone, sale fino al parossismo. Entrambi perdono letteralmente la testa (in linguaggio scientifico: schizofrenia acuta) e mettono in atto sconsiderati propositi di distruzione dell’altro(a), in un’assurda e freudiana escalation, che culmina con il gesto di suprema, speculare presunzione: l’assunzione del filtro.

E per l’appunto il filtro aliena finalmente entrambi dalla schiavitù delle convenzioni (i vacui e presuntuosi vaneggiamenti, i rispettivi Träume, di Ehre e Schmach) e così può finalmente entrare in campo e in scena una cosa, straordinaria ma indescrivibile perchè oscura (misterioso, altero...) che quelle stesse convenzioni (di cui anche noi spettatori siamo schiavi) chiamano irrispettosamente: amore.

E soltanto un mezzo - posto nelle sapienti mani di un autentico stregone - poteva riuscire nella proibitiva impresa di descriverci quella cosa: la Musica.

(per i dettagli, alla prossima postata...)

06 novembre, 2007

Tristan und Isolde: il “plot”

Per carità del buon dio... non intendo certo ri-scrivere (come miliardesimo + 1) la trama del Tristan!

All’unico scopo di rendere a qualcuno più semplice e veloce la ricerca, mi permetto di fare qui alcune segnalazioni (di testi in italiano):

qui c’è un sunto in Wikipedia;

qui ancora un bigino in Encarta;

e qui un programma di sala del Regio di Torino.

Ciò che li accomuna è peraltro un certo semplicismo, una vaga superficialità, neanche si stesse trattando di un qualunque melodramma, dove la trama è un puro eccipiente per supportare arie, concertati, cabalette e cori... Wagner ?!?

Ma voglio invece segnalare l’eccellente scritto di Guido Paduano, professore dell’Università di Pisa, che fu inserito nel programma di sala della Fenice, in occasione di alcune rappresentazioni del Tristan, tenute in forma di concerto nell’estate 2002.

Davvero interessante, la trattazione che Paduano fa del dramma wagneriano, con acutissime e profonde osservazioni, che la rendono meritevole di lettura e rilettura.

Se però posso - assai modestamente - fare un appunto a Paduano, questo riguarda lo scenario esistenziale in cui ci viene presentato Tristan, e le motivazioni del suo conflitto interiore. Che vedrebbe scontrarsi la sua attrazione per Isolde con il suo codice d’onore, che pretende da lui fedeltà al suo Re e massimamente distacco e rispetto per la futura Regina...

Insomma, saremmo a Gottfried von Straßburg, e alla morale cavalleresca. Ma ce lo vedete Wagner a comporre un drama su tale soggetto?

Wagner - lo sappiamo bene - fu il Freud ante-litteram, e in questa chiave - credo - dovremmo leggere anche - soprattutto! - il Tristan.

Ci proveremo... next post!

05 novembre, 2007

La Scala è piccola

Alle 9:00 di stamane (5/11) è stato aperto - in internet - l'accesso all'acquisto biglietti per il Tristan.

Alle 9:03 tutti i posti di tutte le rappresentazioni erano già stati accaparrati!

(Col fiatone... ce l'ho fatta per un loggione del 2 gennaio, ultima recita... e anche mio compleanno... fantastico, grazie WWW!)

31 ottobre, 2007

Personaggi minori del Tristan: Melot, il traditore...

Anche la parte di Melot è assai modesta, in quantità... forse meno impegnativa ancora di quella del marinaio, che deve aprire l’opera tutto solo.

Melot appare per la prima volta nella scena finale del secondo atto, dopo l’interminabile, quanto sbudellante “duetto” (mi si perdoni se uso un termine da melodramma e non da musik-drama...) che ne occupa la gran parte. Mostra a Marke il tradimento dell’amico, cantando non più di nove versi (in 13 misure); poi, dopo il mirabile passaggio in cui Tristan e Isolde si promettono eterna unione, canta altri tre versi (in altrettante misure) per suggerire a Marke vendetta per l’onta subita. (La punta della sua spada accoglierà poco dopo il petto dell’amico che - sulle parole “Wehr dich, Melot!” - vi si butta a corpo morto, cercandovi la fine).

Rivediamo Melot nel finale del dramma allorquando, da dietro le quinte, canta in due misure altrettanti versi di ammonimento a Kurwenal; poi, entrato sulla scena e da questi trafitto, esala - con il “Weh mir, Tristan!” (quasi un postumo contrappunto - o contrappasso? - di quel “Wehr dich, Melot!”) - l’ultimo suo respiro.

Will Hartmann è all’esordio nel ruolo. La buona impressione da lui lasciata lo scorso anno a Lisbona, nella ben più impegnativa parte di Loge, non dovrebbe lasciare dubbi sulla sua affidabilità.

30 ottobre, 2007

L’”affaire” Bayreuth

Il prossimo martedi (6 novembre) si riunisce a Monaco lo Stiftungsrat, il consiglio di amministrazione della Fondazione che governa il Festspielhaus di Bayreuth.

Sul tappeto l’ormai annosa questione della successione di Wolfgang Wagner - nipote del sommo Richard - alla carica di Direttore Generale del Festival che si tiene ogni anno fra fine luglio e fine agosto.

WW - oggi ottantottenne - ha con la fondazione un contratto a vita, il che significa che - fin quando non tira le cuoia per cause naturali, o subisce impedimenti tali da giustificarne l’interdizione, o non rinuncia di sua spontanea volontà - nessuno lo può detronizzare. Insomma, è un pò come Fafner che tiene le chiappe sul tesoro di Alberich, con tanto di Anello al dito e Tarnhelm in testa, alla faccia di tutto e di tutti.

Già nel 2001 la fondazione aveva deciso di nominare la figlia (di primo letto) di WW - Eva - a nuovo Direttore, ma la cosa è rimasta lettera morta. Oggi Eva ha 62 anni e qualcuno sostiene che ormai sia “fuori tempo massimo”. La nipote di WW, figlia del fratello Wieland - Nike - è pure in corsa, ma è vecchia quanto Eva, quindi...

Nel frattempo però il vecchio Fafner, dopo aver sposato la sua segretaria Gudrun nel 1976, ha con lei messo al mondo un’altra figlia, Katharina (Kathi, per gli amici) che oggi sta arrivando ai 30 e che proprio quest’anno ha inaugurato il Festival firmando la regia dei Meistersinger (altro esempio istrionesco e velleitario di Regietheater, un costume, più che un’arte, che secondo il mio modesto parere andrebbe perseguito per vie legali...)

WW, Gudrun e Kathi non nascondono il loro “programma politico”: tenere le mani sul Festival, affidandone la direzione alla piccola; la quale, essendo appunto piccola e un poco immatura, ha bisogno di un tutore che nessuno possa discutere: così si è offerto nientemeno che il “nuovo Furtwängler” (?!) Christian Thielemann per affiancarla nello sfidante ruolo.

C’è chi sostiene peraltro che la decisione più benefica per il Festival (che si regge, dal 1876, nella più cristallina tradizione “scrocconesca” di Richard, grazie a generose elargizioni pubbliche e private) sarebbe quella di far piazza pulita, una buona volta, degli indegni eredi del genio di Lipsia, trasformando Bayreuth, da cadente santuario in cui si celebrano consunte liturgie, in una moderna “Opera-House”.

Vedremo come andrà a finire...

18 ottobre, 2007

Tristan e l’interprete fantasma

In qualunque locandina del Tristan troveremo, nell’elenco dei personaggi e interpreti, Ein Hirt (un pastore). L’interprete - un tenore - ha il “sovrumano” compito di cantare quanto segue (tutto nell’Atto III):

- 4 misure, subito dopo il Preludio, sui versi:
“Kurwenal! He! / Sag’, Kurwenal! / Hör’ doch, Freund! / Wacht er noch nicht?”
- 9 misure, poco dopo, sui versi:
Eine andre / Weise hörtest du / Dann, so lustig als ich sie nur / Kann. / Nun sag’ auch / Ehrlich, alter / Freund: was / Hat’s mit unserm / Herrn?
- 3 misure, ancora poco dopo, sui versi:
Öd’ und / leer das / Meer!
- 2 misure, all’inizio della Scena III, sui versi:
Kurwenal! Hör! / Ein zweites Schiff.

Francamente, una parte secondaria (18 battute in tutto, di cui forse 4 un poco impegnative!)

C’è però un altro interprete dello stesso personaggio, il cui nome non vedrete mai stampato sulla locandina, e che invece vi si meriterebbe un posto di primo piano, almeno al livello di Marke o Brangäne: è il suonatore di corno inglese che - sulla scena - deve sostenere una delle parti solistiche più straordinariamente difficili e impegnative mai scritte per quello strumento (invero reietto dai compositori di concerti classici, che hanno scritto per oboi, clarinetti, flauti, trombe, corni, fagotti... ma nulla di importante per il corno inglese!)

Un impegno da far tremare i polsi, un poco come l’incipit del Till di Strauss, su cui cadono miseramente e invariabilmente 9 cornisti su 10... o l’acuto del Posthorn nella Terza di Mahler (ricordo come fosse ieri la stecca di chi suonava quella parte alla prima uscita della Filarmonica con Abbado, quel lontano 25 gennaio 1982) o ancora - per restare a Wagner - l’assolo del corno nell’Atto II di Siegfried (incipit bucato in pieno persino dal cornista di Bayreuth alla prima dello scorso 30 luglio!)

Oltre a ciò che deve fare standosene giù nel “golfo” (e nel Tristan non è nè poco, nè facile) il nostro interprete fantasma deve salire - nel terzo atto - in palcoscenico, e suonare:

- 42 misure di puro solo, all’inizio dell’Atto (proprio a ridosso della prima breve entrata del tenore) costellate nientemeno che da una cinquantina (!!!) di indicazioni dinamico-agogiche;
- 18 misure, dopo la terza entrata del tenore,
- poi ancora 31 misure e altre 11, dopo il delirio di Tristan e accompagnando i di lui luttuosi ricordi di padre e madre,
- e altre 10 misure e poi ancor 5 a cavallo del “Die alte Weise sagt mir's wieder...“
- e infine le 25 misure, sull’avvistamento del vascello di Isolde, ancora 9 al suo approssimarsi e infine altre 9 all’arrivo: qui Wagner prescrive che lo strumento non solo debba suonare fortissimo (ff), ma addirittura dare l’effetto di un alpenhorn.

Dopodichè - per premiarlo o punirlo? - Wagner mette l’interprete fantasma a tacere proprio nelle ultime tre battute dell’opera... e così possiamo immaginare il nostro che, esalato per l’ultima volta - sotto lo sguardo penetrante di Barenboim - il motivo della sehnsucht, appoggia lo strumento sulle ginocchia, chiude gli occhi, e ascolta tutti i suoi colleghi orchestrali produrre il celestiale accordo di SI maggiore.

Insomma, se si stampa il nome di chi interpreta “Ein Steuermann“ (12 parole declamate, in tutto...) si fa un gran torto - tacendone l’identità - a quel musicista che magari passa notti da incubo, pensando alla sua parte...

Ma chi sarà costui, il 7 dicembre?
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Prof. Renato Duca.

Nel 2004 ha già sostenuto brillantemente la parte a Santa Cecilia, con Chung... quindi: forza e auguri!

17 ottobre, 2007

Ultime dal Giappone

In questi giorni Daniel Barenboim è in Giappone (con la Staatskapelle Berlin) per un tour di rappresentazioni, fra cui spiccano Don Giovanni e il Tristan (questo con la Meier).

A Yokohama trionfi ed ovazioni... poi a Tokio il nostro ha ricevuto - dalle mani del Principe Hitachi - il Praemium Imperiale 2007, massimo riconoscimento giapponese ad artisti di eccellenza nella musica, pittura, scultura, architettura e teatro.

Insomma, Daniel dovrebbe arrivare a Milano il 7 dicembre in forma imperiale... davvero un bel viatico per una prima che dovrà fare storia.

15 ottobre, 2007

Luisi a Dresda: una prima col brivido


Fabio Luisi - dopo la forzata rinuncia al Tannhäuser di Bayreuth07 - ha avuto il suo battesimo di kapellmeister della Semperoper (la cui orchestra è nota come Staatskapelle Dresden) con un’operina da nulla: i Meistersinger!


Roba da far tremare i polsi. Per di più, prima dell’inizio del terzo atto, il tenore Robert Dean Smith (Walther) ha perso la voce e si è dovuto sostituirlo in fretta. Come non bastasse, pure Eva (Camilla Nylund) ha dovuto cantare mezza ammalata, dopo una sommaria cura prestatale dal medico in un intervallo.

Luisi se l’è cavata onorevolmente, anche se qualche supercritico lo ha accusato di aver troppo “forzato” il volume del suono e di una non perfetta intesa fra golfo mistico e palcoscenico.

Insomma, una prima onorevole, sul podio calcato - non dimentichiamolo - da gente come Fritz Busch, Karl Böhm, Josef Keilberth, Rudolf Kempe e Giuseppe Sinopoli, ma soprattutto, in tempi ormai remoti, da Carl Maria von Weber e Richard Wagner!

11 ottobre, 2007

Daniele nella fossa...




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Il nostro è l’attuale - e di gran lunga - recordman di direzioni a Bayreuth: 161 (incluso un concerto) contro le 138 del venerando (e da tempo pensionato) Horst Stein: per un ebreo non è davvero poco (alla faccia dei teorizzatori del sofisma Wagner=Hitler) e non è detto che il Daniel non torni prima o poi a calcare il torrido podio dell’Orchestergraben.

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Non che tutti siano concordi sul tasso di wagnerianità del suo sangue (ma del resto anche Karajan - tanto per far un nome a caso - era considerato, dai molti schizzinosi, essere privo del peculiare e quasi introvabile “gene”) e peraltro di Furtwängler o Knappertsbusch o Solti forse non ne nasceranno più, e nemmeno di Toscanini o di deSabata, per restare ai wagneriani di casa nostra (il più grande dei quali ci ha prematuramente lasciato, ahinoi, nel 2001...)

Insomma, non siamo forse in presenza del non-plus-ultra, ma oggi come oggi -diciamola pure tutta - è difficile trovare sul mercato qualcuno di meglio: Mehta, Levine, Gergiev, Salonen, Rattle, Thielemann, tutti hanno grandi qualità, ma non c’è nessuno che “si stacca” dal gruppo...

Dice il nostro: «Non faremo il Tristan “definitivo” perché in musica di definitivo non c’è nulla. Ma lo faremo come se fosse il nostro ultimo Tristan».

Ohibò, per la Scala è un gran bel complimento! Evidentemente il maestro argentino si sta affezionando per davvero alla nostra maggiore Opera-House...

E ancor più grosso è il regalo che Barenboim ha deciso di farci nel 2008, con l’integrale delle sonate per piano di Beethoven, ripetendo qui da noi lo storico exploit di Berlino 2005!

09 ottobre, 2007

Waltraud-Isolde


La cinquantunenne Meier ha già aperto la stagione scaligera altre volte, sempre diretta da Muti: nel ‘91 con Parsifal, nel ’94 con Walküre, nel '98 con Götterdämmerung e nel ’99 con Fidelio. Si potrebbe malignamente dire che si deve - anche e soprattutto - a lei se quelle provincialotte produzioni “Muti-centriche” ebbero un minimo - ma proprio minimo - di risonanza internazionale.
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Forse nemmeno lei ricorda più quante volte è stata Isolde nella sua carriera! (lo fu per la prima volta nel 1993 a Bayreuth, proprio con Barenboim).
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E alla Scala la Meier arriverà dopo adeguato “preriscaldamento”: avrà cantato Isolde 4 volte in ottobre (in Giappone, sempre con Barenboim e la Staatskapelle Berlin) poi l’11 e il 18 novembre (alla Staatsoper di Monaco) con Kent Nagano.
Poi chiuderà in bellezza l'inverno a Madrid, con 6 recite a gennaio-febbraio. Tornerà Isolde a fine giugno a Monaco, poi - tra ottobre e dicembre - alla Bastille, nel controverso allestimento Sellars-Viola.
Insomma, oggi come oggi è difficile immaginare un’interprete meglio preparata e “calata nel ruolo” di lei.

06 ottobre, 2007

I personaggi “minori” del Tristan

Ein junger Seemann (un giovane marinaio) sarà Alfredo Nigro:
oltre ad essere il marito dell’assai più illustre Violeta Urmana (una notevole Isolde, fra l’altro) il tenore pugliese ha il compito - ingrato per davvero - di aprire il dramma, senza accompagnamento orchestrale e subito dopo lo spegnersi del mirabile Preludio. La sua è una di quelle parti apparentemente secondarie, perchè ristrettissime nella quantità (dopo l’incipit della prima scena, il personaggio ricanta, all’inizio della seconda scena e stavolta con modesto accompagnamento orchestrale, la parte centrale della sua “canzone”) ma che in realtà devono essere sostenute alla perfezione, pena il rischio di cadere nel ridicolo, trascinandovi con sè l’intera opera. Il nostro peraltro ha già sostenuto il ruolo un paio di altre volte... però la prima alla Scala è cosa troppo diversa dal normale: incrociamo le dita per lui!

Ein Hirt (un pastore) è Ryland Davies:
tenore inglese assai attempato - calca le scene da più di 40 anni - e mai cimentatosi con Wagner. Possiamo insinuare che Barenboim lo abbia portato alla Scala come “premio alla carriera”? Il ruolo è apparentemente secondario (pochissimi versi in tutto) ma in realtà il nostro deve “aprire” il terzo atto e la frase musicale “Eine andre Weise...” (che è quasi tutta la sua parte) è tutt’altro che facile e banale.

Ein Steuermann (un timoniere) è Ernesto Panariello:
deve declamare, più che cantare, in tutto 12 parole, nell’ultima scena! “Marke mir nach mit Mann und Volk: vergebne Wehr! Bewältigt sind wir.” Qui siamo perciò di fronte ad una parte veramente “terziaria” (secondaria sarebbe eccessivo onore...) Panariello ha fatto l’Heerrufer nel Lohengrin, parte molto più impegnativa, quindi per lui nessun problema, ma il privilegio di “essere in squadra”.

03 ottobre, 2007

Curiosità sulla sehnsucht

1. Il tema cosiddetto dell’anelito - SOL#-LA-LA#-SI, che si ode già nella terza battuta del Preludio (subito dopo lo sbudellante tristanakkord RE#-FA-SOL#-SI...) - si trova, suonato da contrabbassi, clarinetto e fagotti, alle misure 867-868 del finale del (famosissimo) concerto per violino di Mendelssohn! Wagner - che a parole e per iscritto (vedi il libello Das Judenthum in der Musik) - disprezzava l’illustre amburghese, colpevole soltanto di essere ebreo, lo saccheggiava poi a dovere nelle sue opere: si confronti il tema di apertura della sinfonia Scozzese con il tema del presagio di morte dalla Walküre, atto II, scena IV. E come non riconoscere l’anguillesca Schöne Melusine nel “liquido” Preludio del Rheingold?

2. Lo stesso tema si ode nelle ultimissime battute dell’opera, suonato da oboi e corno inglese... poi però nell’accordo finale - tre misure - di SI maggiore, manca il corno inglese, che tacet. Perchè? Georg Solti raccontava che questo indovinello gli fu posto da Richard Strauss, nel primo loro incontro, e di come lui avesse fatto scena muta: così il vecchio marpione gli spiegò che quello strumento, dopo aver suonato per mille volte quel tema durante l’opera, adesso taceva, essendosi quell’anelito placato per sempre...

3. Dopo il canto conclusivo di Isolde (comunemente, quanto bizzarramente, definito Liebestod) c’è un inciso del tema della Giustificazione di Brünnhilde, dalla Walküre, ultima scena. Non è l’unica citazione di Wagner da parte di Wagner: il succitato tema dell’anelito verrà messo in bocca ad Hans Sachs nei Meistersinger...