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10 dicembre, 2007

Regietheater

Il tema occupa, con alti e bassi, le discussioni, le recensioni, le pagine di cronaca e cultura musicale di giornali e riviste.

In sostanza, la materia del contendere è la validità - il diritto addirittura - di regista, scenografo e costumista (e aggiungiamo pure il responsabile delle luci) di intervenire di testa propria su regia, scene e costumi di un’Opera Lirica, magari in contrasto con la volontà, o la lettera, degli Autori, o con la tradizione interpretativa consolidata.

Il razionale che sta dietro al Regietheater (nome teutonico perchè è nel mondo tedesco che la pratica ha avuto inizio ed ha preso ampiamente piede) è che l’ambientazione di un’Opera vada rinnovata, rispetto all’originale, in modo da renderla meglio e più comprensibile da parte di un pubblico che ha sulle spalle 50 anni, o uno o due o tre secoli di storia, di esperienza e di evoluzione della civiltà, rispetto a quello dei tempi in cui l’Opera fu creata.

Quindi si teorizza che rappresentare, negli anni 2000, personaggi in parrucca, ambienti settecenteschi, o scenari da improbabile fiaba, sia cosa disdicevole per le sorti dell’Opera, in quanto lo spettatore medio di oggi troverebbe tali messe in scena semplicemente ridicole, parruccone appunto, e in definitiva non degne della minima attenzione. Il Regietheater avrebbe quindi una nobile funzione culturale: mantenere alti l’interesse e la partecipazione del pubblico verso l’Opera Lirica.

È singolare osservare come questo furore innovativo si applichi, di norma, alla messa in scena, e non - o solo in misura limitatissima - alle componenti fondamentali dell’Opera: il testo e la musica. E in particolare non ci si preoccupa della banalità, della stupidità, o dell’anacronismo davvero ridicolo di molti libretti, per cui il Regietheater finisce per cambiare l’abito a personaggi che però continuano a recitare e a cantare frasi, espressioni e termini oggi del tutto desueti e ancor più stridenti se messi in bocca a persone vestite alla moda attuale e che si muovono in ambienti moderni. Ad una Traviata ambientata in una tifoseria hooligan andrebbe coerentemente cambiato il testo, e Libiamo, libiamo nè lieti calici dovrebbe diventare: Svuotiamo, svuotiamo le nostre lattine. Ma il Regietheater, statene pur certi, vi propinerà gli hooligan che cantano libiamo...

La musica poi, è sacra, e nessun regista se ne occupa, è giustamente affare del kapellmeister; il quale, salvo apportare tagli qua e là, o al massimo qualche ritocco all’orchestrazione (ma non scambierà di certo la sezione degli archi con quella degli ottoni!) si guarda bene dal rinnovare i contenuti musicali, poichè si conviene che avrebbe pochissimo senso riscrivere à la Rossini un’opera di Monteverdi, o à la Strauss un’Opera di Donizetti.

Sgombriamo qui il campo da un altro fenomeno, che con il Regietheater ha poco a che spartire: il taglio dei recitativi (opera italiana) o delle parti puramente vocali, senza accompagnamento musicale (singspiel tedesco): qui siamo di fronte all’esigenza, derivante dall’evoluzione del gusto, di concentrare al massimo la parte musicata, in sostanza penalizzando il testo e la comprensione della trama, in favore della musica. O anche di non tediare uno spettatore tedesco con dialoghi in italiano per lui incomprensibili, o uno spettatore italiano con dialoghi in crucco, del tutto ostici da digerire. Ad esempio, il Fidelio privato dei dialoghi si riduce a meno di due ore di grandissima musica, che si beve di un sol fiato (il che spiega perchè, per rimpolparlo, a partire da Mahler si infila la Leonore3 fra le ultime due scene).

Altro ancora è il problema delle cosiddette edizioni o revisioni critiche di opere incompiute, o presenti in versioni diverse o frammentarie, o tramandate in modo equivoco e con aggiunte o interventi apocrifi. Esempi ne sono: Die Kunst der Fuge di Bach, scritta su quattro righi senza alcuna altra indicazione, per cui la sua esecuzione richiede necessariamente e come minimo di decidere quale(i) strumento(i) impiegare. O la decima di Mahler, di cui restano solo abbozzi e schizzi che, per essere fatti ascoltare al vasto pubblico, richiedono interventi, anche discutibili, come quelli messi in atto da Derick Cooke. O ancora opere di Rossini ritrovate a spizzichi e bocconi e necessitanti quindi di revisione critica, se non addirittura di ricostruzione.

Fatte queste premesse, veniamo a descrivere un paio di esempi.

Calixto Bieito e la regia di Die Entführung aus dem Serail, alla Komische Oper Berlin. Per portare l’ambientazione ai tempi nostri, il català ci propina nientemeno che il taglio di capezzoli di una prostituta, molto sesso orale, la vista di bisogni corporali e altre piacevoli interpretazioni. E pensare che Mozart intervenne di persona sul libretto di Gottlieb Stephanie, proprio per meglio scolpire la personalità dei suoi personaggi! Questo è un esempio lampante di come un regista che faticherebbe a farsi largo in teatri underground, può invece arrivare a mettersi in primo piano, strumentalizzando ai suoi fini, e ai limiti del codice penale, un’opera fra le più splendide che la nostra civiltà abbia prodotto. Risparmio esempi fotografici, reperibili facilmente nel web.

Claus Guth e la regia dei Meistersinger, a Dresda. Alla fine dell’Atto II, il povero Beckmesser viene mostrato, nudo, con testa d’asino e genitali insanguinati (si veda qui sotto). Proprio quello che Wagner avrebbe immaginato, fosse vissuto 150 anni dopo! (vero?)













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Veniamo per l’appunto a Wagner, Rheingold, preludio e prima scena. Sulla partitura, insieme alle parole ed alle note, Wagner ha scritto: Sul fondo del Reno. Sì, con la sua propria (e bella) calligrafia. Non c’è dubbio alcuno, guardate che c’è proprio scritto così, sopra e prima del famoso MI bemolle dei contrabbassi (qualche direttore ha mai pensato di suonarci un LA, per caso?) esattamente come sulla partitura della V di Beethoven c’è scritto che l’incipit lo suonano gli archi, coi clarinetti, ma non gli strumentini e gli ottoni, e come - dal 1300 - ci è stato tramandato che il primo verso della Commedia recita: “Nel mezzo del cammin di nostra vita” e non, poniamo: “Al colmo del sentier della mia vita”.

Ora: se un regista ambienta l’inizio del Rheingold - invece che sul fondo del Reno, come Wagner ha scritto di suo pugno sulla partitura dell’opera - ai piedi di una centrale idroelettrica in disarmo, e le Rheintöchter le trasforma in prostitutelle da lupanare, che dobbiamo dire, indipendentemente dall’efficacia e dall’effetto spettacolare di questa ambientazione? Così la presero semplici ed onesti spettatori del Ring del centenario, che il del tutto incompetente Wolfgang Wagner fece inscenare all’ignorante crasso (in fatto di musica e di Wagner) Patrice Chéreau, nel 1976 a Bayreuth:


















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È tutto qui. Dopodichè sul problema e sulle innumerevoli materializzazioni del Regietheater si possono scrivere - e si sono scritti - fiumi d’inchiostro. Mentre basterebbe dire - prima e chiaro - che si sta facendo la parodia... in modo che lo spettatore:

1. sappia ciò che va a vedere/ascoltare (e questa è di gran lunga la cosa più importante) e
2. possa distinguere fra originale e contraffazione.

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