affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

26 settembre, 2020

La contagiata Traviata scaligera

Ieri sera alla Scala penultima recita della Traviata contagiata. La mia seconda esperienza scaligera del post-lockdown è stata - dal punto di vista ambientale - ancor più deprimente della prima: perchè, oltre alla negativa impressione che ti fa una sala semideserta, ho potuto anche fare l’esperienza di un intervallo. Che tristezza il foyer popolato da fantasmi che si aggirano tenendosi a distanza, e soprattutto che atmosfera spettrale, con le mascherine che non solo celano i volti, ma mettono la sordina alle voci, così pare di stare in un istituto per muti...  

La rappresentazione di un’opera in forma di concerto è una rarità in Scala (in passato è accaduto più che altro in casi di contrattempi organizzativi) e va lodata comunque l’organizzazione che ha predisposto un semi-scenico più che accettabile. Poi i frac dei maschi e gli abiti da ricevimento delle cantanti (firmati D&G) erano abbastanza coerenti con parecchi degli ambienti presenti nel libretto.

Certo, le regole di distanziamento hanno reso alcune scene piuttosto paradossali: il povero Alfredo, per dire, è dovuto restarsene impotente a due metri dalla sua Violetta morente (è andata meglio a Mehta che, alla fine, con la scusa di farsi sorreggere dalla Rebeka, ne ha approfittato per quasi abbracciarla e baciarla!)

Ecco, Mehta, uomo dalle nove vite: cammina a stento, ma quando si siede sullo sgabello del podio pare abbia 30 anni, tanto secco, preciso ed efficace è rimasto il suo gesto. La sua è stata una direzione apparentemente rilassata, senza grandi slanci retorici, un Verdi suonato à-la-Mozart potrei dire con una battuta. (Teniamo presente che l’orchestra è praticamente confinata in fondo all’enorme scena del Piermarini, il podio del Direttore è ben al di là del proscenio nella configurazione con buca, e tutti suonano sullo stesso piano, niente rialzi come nella configurazione per concerto; ciò che arriva in sala... ve lo lascio immaginare.)

Con Mehta trionfa l’altro giovanissimo della compagnia, tale Leo Nucci, un tipo che promette bene e farà carriera di sicuro! Lui poi, oltre a cantare come 50 anni fa, sa ancora correre con la leggerezza di un levriero...   

Marina Rebeka merita un voto più che discreto: 18 mesi fa non aveva proprio fatto un figurone, ma oggi devo dire che è progredita (non solo per il famigerato MIb) e il pubblico l’ha gratificata - con Leo e Zubin - di applausi a scena aperta e ovazioni finali... con sordina!

Dell‘Alfredo del carioca Atalia Ayans mi limito a dire che potrà sempre far meglio... Tutti gli altri al loro posto, ecco. Il coro di Casoni era relegato al lati e al fondo della caverna, quindi bravi ad aver fatto arrivare i suoni fino alla platea (e spero anche più su...)

Che dire, in conclusione: accontentarsi, dati i tempi che corrono, è come minimo doveroso... ma è dura davvero!

25 settembre, 2020

laVerdi 20-21. Concerto n°1

Dopo il concerto inaugurale alla Scala, Claus Peter Flor ha aperto la prima parte della stagione 20-21 con una novità per laVerdi: eseguire la Quarta di Mahler nella versione cameristica di Klaus Simon del 2007, la qual cosa consente di rispettare le regole anti-Covid. Il musicista tedesco (nativo del Bodensee, Lago di Costanza) seguendo le orme dell’opera avviata negli anni ’20 del secolo scorso da Erwin Stein, ha già prodotto versioni cameristiche di ben sei delle nove sinfonie mahleriane (mancano all’appello - per ora? - le ipertrofiche 2-3-8). E a fine ottobre Flor ne eseguirà in Auitorium anche la trascrizione della Prima.

Simon prevede un ensemble di 14 strumentisti:

- 5 fiati: Flauto (anche Ottavino); Oboe (anche Corno inglese), Clarinetto in SIb (anche in LA e basso in SIb); Fagotto; Corno in FA;
- 2 percussionisti: Glockenspiel, Triangolo, Sonagli, Piatto sospeso, Piatti, Tam-Tam, Grancassa;
- Armonium (o Fisarmonica);
- Pianoforte;
- Quintetto d’archi.

Rispetto a Mahler, oltre allo smagrimento, nell’orchestra di Simon mancano le trombe, i clarinetti in DO e MIb, il controfagotto, i timpani e l’arpa. Armonium e pianoforte compensano queste assenze. Simon ha licenziato anche una versione estesa, che irrobustisce in particolare il pacchetto degli archi, portandolo dal nudo quintetto a 20 elementi (6,5,4,3,2).  

Chi fosse interessato ad esplorare i dettagli di questa versione cameristica della Sinfonia e dei problemi interpretativi ed esecutivi che presenta, può trovare ottimi spunti in questo scritto di JungHwan Kwon, il quale ne dà anche l’applicazione pratica, alla testa dell’Orchestra da Camera dell’Università dell’Arizona.

Un’esecuzione di alto livello è questa che viene da Israele, artefici gli strumentisti dell’ensemble cameristico Israel Soloists di Kfar Saba. E poi questa - per me la più interessante - dei canguri dell’Omega Ensemble (senza Direttore!) Ecco l’esempio di un’esecuzione con l’ensemble allargato, con 20 archi (più un esecutore aggiuntivo ai clarinetti) registrata in Francia un paio di mesi fa, proprio in era Covid. Infine è da lodare la prestazione dei giovani foggiani del Conservatorio Umberto Giordano, in una configurazione... ibrida (12 archi, 2 corni, niente clarinetto basso e fisarmonica al posto di armonium).

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Flor ha impiegato la versione estesa di Simon, ma è andato oltre, schierando 24 archi (6,6,5,4,3). In più ha anche aggiunto 3 fiati, raddoppiando oboe (corno inglese), clarinetto (basso) e corno; ha poi aggiunto un percussionista. In totale quindi 37 elementi. Se ne dovrebbe dedurre che il Direttore si sia posto l’obiettivo di avvicinarsi per quanto possibile alla versione originale di Mahler, più che di farci apprezzare quella di Simon. La quale scelta rischia però di... farci restare in mezzo al guado. Visto che si tratta di un’occasione (speriamo!) irripetibile, personalmente avrei preferito ascoltare la versione base di Simon che, almeno a giudicare dalle registrazioni disponibili in rete, ci permette di apprezzare (se non addirittura di scoprire) dettagli che con l’orchestra allargata (parlo proprio degli archi) spesso si perdono, nascosti nel pieno degli strumenti. Magari Jais - anche per ammortizzare l’investimento - potrebbe metterla in cantiere in qualche concerto delle stagioni collaterali.

Sala con alcuni posti vuoti, al di là di quelli inaccessibili causa virus, ma pubblico assai ben disposto. Flor nei primi due movimenti si prende alcune libertà agogiche (alle mie orecchie) eccessive: è vero che Mahler stesso aveva battezzato questi pezzi come Humoresken, cioè di carattere umorale, spensierato, disimpegnato, ma poi ne ha fatto una sinfonia in piena regola... Poi però il Ruhevoll - preceduto da una pausa per ri-accordare gli strumenti e far entrare sul palco Anna Lucia Richter, è stato quasi da manuale. Certo l’esplosione che ci fa balzare dal SOL al MI maggiore 40 battute prima della chiusura, con questi mezzi comunque ridotti non è la bomba atomica che dovrebbe essere, ma date le circostanze ci accontentiamo. Flor ci attacca subito il conclusivo Sehr behaglich, dove la giovane e bella Anna Lucia ha sfoggiato una voce veramente appropriata alla bisogna: timbro acuto e penetrante, perfetto per questo Lied fanciullesco, non a caso a volte affidato ad una voce bianca.

Flor va addirittura oltre le prescrizioni di Mahler (morendo, non affrettare!) e tiene le ultime tre battute (il MI grave, riservato ai contrabbassi e - in mancanza dell’arpa - al pianoforte) per un tempo interminabile. Poi il pubblico può abbandonarsi ad un liberatorio applauso. Ripetute chiamate e battimani ritmati a chiudere in bellezza la serata.

21 settembre, 2020

laVerdi riparte dalla Scala

Continuando, pur in tempi di virus, una tradizione ormai consolidata, laVerdi si è presentata ieri sera alla Scala per quello che solitamente è il concerto di apertura della nuova stagione (della quale in realtà per il momento si conosce soltanto la prima parte, fino a fine 2020, poi... si vedrà). 

Sul podio il Direttore Musicale Claus Peter Flor con un programma di musiche di inizio ‘900 di due autori nativi del vicino est europeo, Gustav Mahler (Jihlava, Boemia) e Leoš Janáček (Hukvaldy, Moravia):

Due musicisti che ebbero rapporti assai diversi con l’establishment musicale (e anche politico!) della mitteleuropa: Mahler pienamente integrandovisi, Janáček cercando una via artistica legata profondamente alle radici della sua terra, e propugnando (proprio con Taras Bulba) la lotta di liberazione di quella che diverrà la futura Cecoslovacchia dal dominio austro-ungarico.
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Il mio primo incontro con la Scala post-lockdown è stato abbastanza (ma anche prevedibilmente) straniante, fin dall’ingresso nel foyer e dall’accesso alla platea, rigorosamente guidati da maschere e percorsi obbligati. Anche qui il distanziamento fra gli spettatori crea del disagio psicologico, mentre appena un poco meglio vanno le cose sul palco, dove l’enorme disponibilità di spazio consente a laVerdi di schierare quasi l’organico standard. Tuttavia anche l’Orchestra intera è distanziata dal pubblico (resta deserto l’intero tetto della buca) e quindi il suono arrivato in sala non mi è sembrato per nulla ottimale.

Il concerto - tuttora le regole-Covid ne limitano la durata e vietano gli intervalli - si è aperto con il ciclo di 5 Lieder mahleriani su testi di Friedrich Rückert (per qualche breve nota rimando ad un mio vecchio post del 2012) proposti dalla quasi 58enne Petra Lang, nata come mezzosoprano ma col tempo salita di tessitura (e di fama) fino a... Brünnhilde e Isolde.   

La sequenza dei cinque canti (composti fra il 1901 e il 1902 con accompagnamento di pianoforte e successivamente orchestrati dall’Autore – salvo l’ultimo, strumentato da Max Puttmann) è lasciata alla scelta dell’interprete, dal momento che Mahler non diede precise indicazioni in proposito. La Lang ha optato per il seguente ordine, spesso proposto dalle voci femminili (fra parentesi quello cronologico di composizione):

a. Ich atmet' einen linden Duft! (2)

b. Liebst du um Schönheit (5)

c. Blicke mir nicht in die Lieder! (1)

d. Um Mitternacht (4)

e. Ich bin der Welt abhanden gekommen (3)

 
La Lang non mi è parsa propriamente al meglio della condizione: proprio nelle note più gravi, che da mezzosoprano di nascita dovrebbero esserle più congeniali, ha mostrato qualche logoramento, compensato dal mestiere e da un’apprezzabile sensibilità interpretativa. Flor ha trattenuto al massimo l’orchestra - già cameristica per volontà dell’Autore - accentuando il carattere intimistico e quasi crepuscolare di queste canzoni nella cui atmosfera Mahler sembra identificarsi in pieno. Applausi e un paio di chiamate hanno comunque gratificato l’esecuzione.
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Breve intervallo per far posto in palcoscenico a qualche sedia aggiuntiva, occupata ora dalle co-primeparti dell’Orchestra, entrate per accrescerne la potenza di fuoco di fronte alla rapsodia Taras Bulba (un esordio, per laVerdi). Trattasi in realtà di un poema sinfonico (da Gogol) in tre parti, ciascuna evocante vicende assai luttuose (con una spruzzata sentimentale): è il battagliero cosacco Taras che vede i due figli morire (uno per la verità lo fa secco proprio lui!) prima di essere a sua volta mandato arrosto dai suoi acerrimi nemici polacchi. Il patriota Janáček stravedeva per tutto ciò che sapeva di russo e così esaltò questo sanguinario condottiero come fosse un grande eroe, forse solo perchè anche lui ce l’aveva con i polacchi... (Chissà però se nel 1968 avrebbe esaltato la passeggiata in piazza SanVenceslao dei tank dell’eroico... Leonid Bulba Brezhnev!)

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Il racconto di Gogol (12 capitoli, terminato nel 1842) tratta delle imprese dei cosacchi della Seč - la comunità militare insediatasi a Zaporizzia, occupando la grande isola sul Dnepr - che nella prima metà del ‘600 si opposero alle invasioni turche e tartare e soprattutto alla dominazione polacca. In apertura del racconto Gogol ci presenta un loro condottiero, Taras, già in età matura (il più giovane dei suoi due figli ha ormai passato i 20 anni) nella propria casa nel momento in cui i due giovani (Ostap e Andrei) vi fanno ritorno avendo concluso il loro tirocinio in Accademia a Kiev. Taras non vede l’ora di aggregarli alla Seč e di portarli con sè sui campi di battaglia.  

Gogol non ci dà indicazioni geografiche precise sulla posizione della casa di Taras, ma abbiamo alcuni indizi che ci possono aiutare a localizzarla, almeno approssimativamente. Il primo ci informa che Taras, i due figli e la scorta di 10 uomini cavalcano nella steppa verso sud; poi sappiamo che - dopo un giorno e una notte passata all’addiaccio - il gruppo si trova ad attraversare un piccolo fiume, il Tatarka, affluente del Dnepr (quindi dalle parti dell’odierna Dnipro); infine, da lì impiegano quasi tre altri giorni per arrivare in vista della Seč di Zaporizzia. Da tutto ciò si può indurre che la casa di Taras fosse situata parecchio a nord della stessa Dnipro. Orbene, da quelle parti si trovano, guarda caso, luoghi assai cari a Gogol: il suo villaggio natale (Sorochyntsi) poi la cittadina di Mirgorod, che diede il nome alla collana di racconti di cui fa parte Taras, e infine Dikanka, altro teatro di storie gogoliane.

Nella mappa sottostante sono schematicamente rappresentati gli spostamenti di Taras nella narrazione dello scrittore russo:

1. Trasferimento di Taras con i due figli dalla loro casa alla Seč di Zaporizzia.

2. Restati a lungo inoperosi contro i turchi (avendo concluso un trattato di pace con il Sultano) i cosacchi di Zaporizzia, aizzati da Taras, trovano la giusta causa per muoversi finalmente alla guerra (loro attività prevalente) apprendendo delle continue soperchierie che gli occupanti polacchi (spalleggiati dai ricchi ebrei) stanno perpetrando nell’intera Ukraina. Così cominciano a risalire verso nord-ovest per liberare la loro terra, che consideravano venduta ai Polacchi con la creazione della Confederazione polacco-lituana. Dopo aver commesso atrocità di ogni genere arrivano infine presso Dubno (600 Km in linea d’aria da Zaporizzia) dove pongono l’assedio alla ricca città. Qui il giovane Andrei tradisce i suoi per amore di una bella giovane e nobile polacca conosciuta a Kiev, così non solo diserta, ma addirittura combatte contro padre e fratello, a fianco dei polacchi che cercano di rompere l’assedioÉ Taras in persona a punirlo a sangue freddo, con una pallottola in fronte. I polacchi dopo alterne vicende hanno la meglio sui cosacchi, riuscendo a far prigioniero Ostap. Invano il padre cerca di difenderlo, ma viene a sua volta ferito ed è salvato da un suo fedelissimo.

3. Mentre Ostap viene portato via dai polacchi, Taras ferito e ignaro della sorte del figlio maggiore viene ricondotto agli accampamenti della Seč di Zaporizzia, nel frattempo visitati dai nemici tartari.

4. Qui partecipa ad alcune scorribande contro i Turchi nel MarNero, ma è incapace di resistere al desiderio di conoscere il destino di Ostap. Così Taras si reca ad Uman (circa 300 Km in linea d’aria) presso un commerciante ebreo...

5. ...dal quale si fa trasportare (nascosto nel sottofondo di un carretto) fino a Varsavia (altri 600 Km in linea d’aria) dove immagina sia prigioniero il figlio. E infatti arriva giusto in tempo per assistere, mescolato alla folla, alla tortura e all’esecuzione di Ostap sulla pubblica piazza. Allora si fa avanti e grida alla folla esultante tutta la sua ira, promettendo vendetta.

6. (?) Non si sa come, ma riesce a sfuggire a linciaggio e cattura: Gogol ci racconta solo che Taras torna in Ukraina e si mette alla guida di un reggimento di cosacchi che - con altri sette, ciascuno forte di 12000 uomini - dà la caccia ovunque ai polacchi, che nella cittadina di Polonnoie sono costretti infine a capitolare e a promettere pace e libertà agli ukraini.

7. Ma Taras non accetta quella che considera un’ennesima resa e con i suoi seguaci marcia sulla Polonia, arrivando fino a Cracovia mettendo a ferro e fuoco ben 18 città e 40 chiese cattoliche.

8. I polacchi a questo punto impiegano tutte le loro forze armate e riescono a ricacciare indietro i cosacchi di Taras. Il quale - attardatosi a recuperare pipa e tabacco cadutigli dal cavallo, per non farli cadere in mano nemica! - viene catturato lungo il corso del Dnestr, presso l’attuale confine, quindi legato ad un albero e infine bruciato vivo, non prima di aver lanciato contro i nemici la sua profezia: la Russia dominerà il mondo! 

Quanto ai tempi dell’azione, Gogol ci dà solo vaghe indicazioni. Una abbastanza precisa riguarda l’assedio di Dubno, che avviene in luglio. Possiamo quindi posizionare l’inizio del racconto verso la fine di maggio (lo spostamento 2 non può durare meno di 30-40 giorni). Taras viene poi riportato a Zaporizzia (diverse settimane) dove si rimette in sesto (per almeno un mese e mezzo, racconta Gogol) prima di partire - presumibilmente quindi a fine settembre - per Uman (spostamento 4, fatto in una sola settimana, precisa Gogol!) e da qui per Varsavia (spostamento 5). Nella capitale polacca arriverà quindi non prima di novembre inoltrato. Qui abbiamo il black-out informativo, poichè Gogol non ci dà indicazioni su come e quando Taras sia tornato in Ukraina (spostamento 6?) e quanto tempo sia passato prima delle vicende di Polonnoie (ma ci sono di mezzo scorribande e battaglie contro i polacchi, quindi mesi e mesi...) Il blitz in terra polacca (Cracovia, spostamento 7) non può durare a sua volta meno di 30-40 giorni e una settimana trascorre (lo riporta Gogol, spostamento 8) prima della cattura e morte di Taras. Insomma, il tutto assomma a non meno di un anno. 

In preparazione al concerto, il Professor Fausto Malcovati, insigne russologo, ha tenuto una interessante conferenza trasmessa in rete, dove si inquadra la figura di Gogol nella storia della letteratura russa e - per le opere che ispirò - in quella della musica russa, da Musorgski a Shostakovich... e oltre.

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Orbene, da tutto questo po’po’ di avventure - ma Gogol ci infilò anche lunghe descrizioni di usi-e-costumi di quell’epoca - cosa cavò fuori il buon Janáček? Un grand-opéra di 4 ore à-la-Berlioz? Un ciclo di poemi sinfonici à-la-Smetana? No, tre movimenti di meno di 25 minuti, intitolati alla morte dei tre Bulba:

1. Il primo tratta dell’amore di Andrei per la bella nemica e della sua morte violenta.

2. Il secondo evoca i momenti della cattura di Ostap - e della successiva esecuzione.
3. Il terzo ricorda proprio la fine del condottiero, esaltandone lo spirito patriottico.

A differenza da quelli di Strauss, per dire, che impiegano sapientemente temi e motivi musicali per evocare - in modo per quanto possibile appropriato - ora le caratteristiche psicologiche e... somatiche dei personaggi, ora l’ambiente teatro delle loro avventure, questo di Janáček si ispira forse più a Liszt, cioè ad una concezione tendente, del soggetto ispiratore, a conservare solo pochi tratti salienti.
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Seguiamo la trama musicale in questa registrazione amburghese, facendoci aiutare dall’esegesi di Jaroslav Vogel, che raccolse informazioni di prima mano direttamente dalla voce dell’Autore.

Il primo movimento è incentrato sull’amore di Andrei per la bella polacca, e inizia (25”, Moderato quasi recitativo, con dolore) con un tema esposto dal corno inglese a rappresentare il desiderio del giovane per la donna amata, tema poi chiuso (54”) dall’oboe. Ora ecco (1’13”, Andante) la rocambolesca fuga di Andrei dal campo cosacco per penetrare attraverso un passaggio segreto nella chiesa cattolica della città assediata (a 1’25” si odono rintocchi di campana). A 1’39” ecco subentrare timore e apprensione che assalgono Andrei al suo ingresso nella chiesa, dove risuonano a due riprese le note di un organo sulla melopea dell’oboe; poi (2’36”, Allegro vivo) è Andrei ad affrettare il passo in cerca dell’amata. Con la quale si riunisce infine (3’30”, Adagio) accompagnato dal classico love-theme nell’oboe e poi (4’00”) nel clarinetto, tema che si sviluppa successivamente - in due ondate - con piglio sempre più incalzante (Un poco più mosso) come la passione (5’19”) che travolge i due amanti. Dopo una parentesi di calma (5’44”, Adagio e quindi Lento) appare (6’34”, Allegro) minacciosa e proterva, la figura di Taras, con il crudo inciso dei tromboni seguito dalle scosse degli archi bassi. Segue la battaglia che vede Andrei schierato contro il padre, dal quale viene raggiunto e accusato di tradimento. Andrei si sottomette, ma resta fedele (7’49”, Adagio) al suo amore anche di fronte all’estremo castigo comminatogli dal padre, che se ne va al galoppo (8’18”, Presto) lasciando il figlio morente (ultime due battute in Adagio)

Il secondo movimento ha a che fare con la morte di Ostap, ma il suo contenuto musicale è di ardua decifrazione (lo riconoscono musicologi ed esegeti, incluso lo stesso Vogel) riguardo all’attinenza con il soggetto letterario. Le prime 10 battute (8’54”, Moderato) ci presentano verosimilmente la figura del primogenito di Taras, con quattro apparizioni (in violini primi, secondi e viole) di un tema che sembra evocare una personalità austera, caratterizzata da forza di volontà e grande determinazione. Ecco (9’29”) un passaggio in Allegro che richiama evidentemente cavalcate e scontri bellici, cui segue (10’00”, tornando al Tempo I) la riapparizione (3 volte, in violini e archi bassi) del tema di Ostap. Riprende (10’28”, Vivo) la battaglia, ma subito Ostap viene sopraffatto e catturato, come testimonia (10’32”) lo schianto in orchestra. Il passaggio successivo (Moderato) è una vera e propria via-crucis, caratterizzata da una melopea di legni e archi che evoca con pesante mestizia (tema di Ostap negli archi bassi, poi nei legni) il lungo e penoso trasferimento del prigioniero da Dubno a Varsavia. Dove (12’43”, Vivo) c’è grande agitazione seguita da manifestazioni di tripudio popolare a suon di... mazurka, che scimmiotta il tema di Ostap. Il quale è portato verso il patibolo e il clarinetto in MIb ne raccoglie (13’36”) l’eroica resistenza alle torture e il disperato appello al padre. Il quale (13’54”) risponde, palesandosi alla folla dei polacchi e promettendo vendetta.

Il movimento conclusivo si apre (14’23”, Con moto) con un motivo guerresco (terzina arpeggiante e nota lunga) nei corni, che evoca la battagliera personalità di Taras. Gli esegeti non concordano sul significato di queste prime battute musicali: seguendo Vogel, immaginiamo Taras già legato all’albero e in procinto di essere bruciato, mentre ricorda il diletto figlio Ostap, accompagnato da un mesto e dolente motivo che si ripete in varie sezioni dei fiati, accompagnato da ondeggianti sestine degli archi e poi si conclude (16’07”, Maestoso) con un sereno REb maggiore. Ora sono i nemici polacchi ad inscenare (16’35”, Presto) un’irridente krakowiak, che si prende gioco del motivo di Taras. Ma ecco che l’inciso protervo del condottiero cosacco, già udito al momento di punire Andrei, si fa largo (16’57”) a sottolineare la soddisfazione di Taras che vede i suoi (17’14”) scampare alla cattura con una discesa forsennata conclusa gettandosi con i cavalli nel Dnestr. A 17’57”, Allegro, ecco ancora il motivo di Taras udito in apertura che riappare in corni e trombe con sordina e introduce un crescendo (18’26”) che porta infine alla Coda (19’00”) dove il motivo lamentoso di poco prima si trasfigura mirabilmente, chiudendo (20’08”, Maestoso) con cinque battute di enfatica introduzione al patriottico tema (20’36”, con interventi di campane e organo!) che chiude l’opera, con la morte di Taras trasformata in realtà in trasfigurazione, un’autentica beatificazione - in RE bemolle - dell’eroe tanto caro a Janáček.

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Flor qui ha tenuto tempi davvero degni di una cavalcata cosacca, credo abbia stabilito il record di durata minima del Taras. Non che la cosa debba fare scandalo, anzi... L’Orchestra ha risposto da par suo e il pubblico ha mostrato di apprezzare assai. Quindi, ecco Flor tornare sul podio quasi di corsa per un bis ancora più indiavolato (come da partitura...): l’Ouverture di Ruslan&Ljudmila di Glinka, che scatena l’entusiasmo generale.
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Ora l’appuntamento è per il 24 prossimo, con il ritorno in Auditorium, e ancora con il Mahler (smagrito pure lui!) di inizio ‘900.

17 settembre, 2020

La Cecilia fa gli ultimi bagni a Rimini

Inaugurare al Teatro Galli la stagione concertistica dell’edizione 2020 della Sagra Musicale Malatestiana è toccato a Cecila Bartoli, che si è esibita ieri sera, insieme all’Ensemble Les Musiciens du Prince-Monaco (emanazione dell’Opera voluta proprio dalla Cecilia e sostenuta dal Principe in persona) diretto dall’ottimo Gianluca Capuano, in un interessante programma che spaziava dal barocco a Rossini a romanze italiane e... altro ancora.

Arrivato in Romagna con un fuori-programma all’ultimo momento e non avendo quindi trovato posto in teatro, mi son dovuto accontentare della diffusione del concerto nell’antistante Piazza Cavour, trasformata per l’occasione in un unico grande bar all’aperto, con tavolini a far da distanziatori fra le sedie, pur esse contingentate come le poltrone del teatro.

20 minuti di ritardo sull’ora d’inizio (21:00) sono calmierati con musiche accattivanti (Boccherini, Beethoven 1 e 2 e altro); poi è il Sindaco Gnassi che non perde l’occasione per (auto-)celebrare i fasti della Rimini che due anni orsono (ma ne ha impiegati più di 70...) ha rimesso in sesto il Galli semidistrutto dalla guerra e quest’anno ha combattuto da par suo il virus, riuscendo persino a proporre (pur smagrita) la ormai storica Sagra.

Finalmente ecco Capuano attaccare il Te Deum di Charpentier come verosimilmente lo si ascoltava a suo tempo... (Molti avranno ancora nelle orecchie la gloriosa sigla italiana dell’Eurovisione, suonata manco fosse Tannhäuser.)

Poi arriva la diva (che si cambierà d’abito non meno di 3 volte in 90 minuti) a proporre il suo prediletto barocco di Händel.

Torna la sola orchestra introducendo la (prima) sessione rossiniana, con Cenerentola, Temporale e Sinfonia) ad alternarsi con la mirabile aria del salice da Otello e il Nacqui all’affanno.

Dopo la Sinfonia del Bruschino, che Capuano fa eseguire a folle velocità (ma anche nella Cenerentola non aveva scherzato in proposito...) ecco una prima variante alla locandina: ascoltiamo subito le quattro romanze italiche.

A questo punto torna Rossini con il posposto peccatuccio La Danza, dove Cecilia si accompagna con un tamburello. E prosegue con il primo fuori-programma, protagonista il riminese d’adozione Bruno Praticò, che accompagna la Cecilia nel duetto del biglietto dal Barbiere.

Poi un altro intermezzo barocco, con la Cecilia a gareggiare in virtuosismi e... apnee con il trombettista dell’Ensemble, fino ad un arrivederci all’estate con Summertime; e il concerto si muta definitivamente da malatestiana a sagra paesana, con un quasi rituale Romagna mia, che manda in visibilio spettatori dentro e fuori il teatro.

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Interessante (ahimè non potrò godermela) la chiusura di questa prima sezione della Sagra, il 19 settembre con Gergiev e i suoi di SanPietroburgo, che qui sono già stati graditi ospiti più volte, come minimo da un quarto di secolo...