Zelensky e l'alternativa lose-lose, fra perdere:

la dignità VS l’alleato che ti chiede di perderla 

22 ottobre, 2018

Semiramide rinasce in laguna


È tornata nella sua casa natale la più grande opera (escludendo magari il Tell) di Rossini. Dopo la prima di venerdi scorso (trasmessa da Radio3) ieri pomeriggio(-sera...) è andata in scena la seconda recita, in un teatro non propriamente esaurito.

Prima dell’inizio ho fatto un giretto nella Sala Ammannati per dare un’occhiata a quell’autentico cimelio ivi esposto in questi giorni: la partitura autografa dell’opera. E si prova una certa emozione nel contemplare da vicino quelle carte da musica sulle quali il genio pesarese vergò le strabilianti note del suo capolavoro. Note che hanno ancora riempito gli spazi della Fenice, proprio come accadde per la prima volta quel lunedì 3 febbraio del 1823.   

Sulle diverse bizzarrie del libretto, che il Rossi ricavò da Voltaire (peggiorandolo assai) ho già scritto la mia un paio d’anni orsono, in occasione di una produzione del Maggio, quando ho anche sintetizzato la struttura dell’opera, appoggiandomi ad un’esecuzione in terra vallone del padreterno Zedda (che insieme al co-padreterno Gossett approntò l’edizione critica per la Fondazione Rossini). E ciò che viene presentato oggi è la versione praticamente integrale del lavoro, come testimoniano ampiamente le quasi 4 ore di durata netta della rappresentazione, che eguaglia praticamente al minuto secondo (anche nei singoli atti) quella della citata edizione di Zedda. 
___
Segnalo subito la recensione di Amfortas, che mi sento di condividere largamente nella sostanza. 

Di Riccardo Frizza - da bresciano tifo per lui - non posso dir che bene: non che non lo conoscessi, ma qui passava dal cockpit di un chessna a quello di un A380! Che ha guidato con grande sicurezza e padronanza della... materia. E l’Orchestra della Fenice lo ha pienamente assecondato, reagendo sempre con precisione e compattezza ai suoi comandi.

Ottima anche la prestazione del coro di Claudio Marino Moretti, che è impegnato (maschi e femmine) in misura quantitativamente (nulla è tagliato) e qualitativamente massiccia. 

Jessica Pratt è ormai una beniamina della Fenice ed ha ottenuto un gran trionfo. Personalmente, riconosciuta la sua strabiliante forma, torno a manifestare le mie perplessità sull’aderenza vocale del soprano anglo-australiano al ruolo di Semiramide. Qui non si tratta di fare impropri e impossibili paragoni con una tale Isabella, però ci son pochi dubbi che Rossini abbia scelto il personaggio proprio per il profilo chiaramente drammatico, che richiederebbe una voce diversa da quella adatta ad una Astrifiammante, per dire. E così la voce spiccatamente lirica e i MI naturali e MIb sovracuti che la Jessica ha splendidamente sciorinato fanno restare il pubblico a bocca aperta, ma non sono - sempre a parer mio - perfettamente appropriati alla personalità del ruolo-titolo: una femmina che - contrariamente a ciò che certa tradizione tramanda, di ninfomane incallita - per Voltaire e Rossi-Rossini è una fredda creatura avida di potere, e quasi di null’altro. Gli uomini sembrano interessarla solo come marionette da impiegare ai suoi fini: Assur per farsi aiutare da lui a far secco il marito che la stava ripudiando... adesso Arsace (che lei crede un proletario fedelissimo e pronto a tutto per lei) da nominare Re (travicello) solo per garantire a se stessa la perpetuazione del suo potere. 

Chi invece mi ha abbastanza impressionato è la Teresa Iervolino, un Arsace dalla voce morbida ed intonata, cui manca (ancora?) un po’ più di profondità e di robustezza. Purtroppo di Podles non ne nascono tutti i giorni, ma il contralto romano (non ancora 30enne) è sulla buona strada per emergere nel panorama musicale. 

Alex Esposito è un Assur sufficientemente autorevole: la sua voce è forse un filino troppo chiara (sempre per i miei gusti) ma lui compensa con la sua proverbiale presenza scenica. A proposito: la regista lo presenta dapprima con problemi di deambulazione (bastone da passeggio perennemente imbracciato) poi nel finale il nostro mostra doti addirittura da acrobata (?!) 

Il ragusano (trapiantato per l’occasione in India) Enea Scala se la cava discretamente come Idreno, parte affatto facile, sia detto, anche se gli acuti (fino al RE, peraltro) sembrano un po’ ghermiti... alla sperindio. La sua partner... poco convinta, Azema, è una Marta Mari ben dotata di mezzi naturali, che deve (come il tenore) mettere meglio a partito. 

Rimarchevole, soprattutto per presenza (un filino meno per portamento vocale, stante qualche berciata di troppo) l’Oroe di Simon Lim

Completano degnamente il cast il Mitrane di Enrico Iviglia e (invisibile ma... ampiamente controfigurato) Francesco Milanese che dà voce alla spaventevole ombra di Nino, che si aggira minacciosa a partire dalla fine del prim’atto. 
___ 
L’allestimento della giovane Cecilia Ligorio è essenziale nella scenografia (di Nicolas Bovey) che nel primo atto si riduce a uno scorcio di banlieu di Babilonia, che funge da tempio di Belo e poi da reggia di Semiramide, con ampio sfoggio di ori e piante... pensili; e nel secondo si riduce ad una piattaforma circolare all’interno di una scena totalmente buia e nera, direi appropriata allo scenario generale, che vede il compiersi della tragedia. Che anche l’intermezzo (teoricamente) idilliaco della definitiva unione (e conseguente... scomparsa) di Azema e Idreno sia ambientato in questa specie di girone infernale non è poi del tutto fuori luogo: credo che da buona femminista la Ligorio abbia voluto sottolineare come per una donna il dover seguire un uomo controvoglia sia, appunto, un inferno (qui però la regista ha dato retta più a Voltaire che a Rossi-Rossini, per i quali la fanciulla parrebbe accontentarsi anche di uno che fa l’indiano). 

Le luci di Fabio Barettin si adeguano perfettamente alla duplicità dello scenario: abbaglianti per rendere al meglio lo sfarzo della sfolgorante Babilonia e poi... assenti o quasi nel second’atto. 

I costumi di Marco Piemontese sono un pot-pourri di stili, mode ed epoche, una maniera come un’altra per rappresentare degli archètipi, senza dare precisi riferimenti: si va da abbigliamenti più o meno plausibilmente babilonesi (il popolo del primo atto) a uniformi militari austro-ungariche (Idreno) ad acconciature da barbie (Semiramide, Azema) e Rasputin (Assur); al bizzarro vestimento guerresco di Arsace, per finire ai completi neri (cappelli inclusi) degli scagnozzi di Assur, un autentico branco di pipistrelloni. 

Non particolarmente eccitante la recitazione: salvo Esposito che ci mette del suo, gli altri paiono lasciati un po’ a se stessi e non è che brillino particolarmente. Brava la coreografa-ballerina Daisy Ransom Phillips con le quattro danzatrici che fungono da ancelle del gran sacerdote. 

In conclusione, uno spettacolo più che dignitoso, che il pubblico ha accolto con grande favore gratificando tutti e ciascuno di applausi e di bravi! Per me, una trasferta tutto sommato piacevole.

19 ottobre, 2018

laVerdi 18-19 - Concerto n°4


Sul podio dell’Auditorium (ieri assai poco... frequentato, a dir il vero) fa il suo gradito ritorno Kolja Blacher, come spesso nella duplice veste di direttore e solista in un concerto assolutamente classico, ma con un intermezzo... famigliare: fra Beethoven e Mozart compare infatti il papà del musicista tedesco.

Il quale, dopo averci suonato quelli di Schumann (2011) Brahms (2016) e Mendelssohn (febbraio scorso) ci ri-propone (a distanza di 18 anni!) il monumentale Concerto per violino di Beethoven.

Come di consueto, l’approccio di Blacher è caratterizzato da teutonica rigorosità: quindi totale rispetto della lettera, oltre che dello spirito, del brano, e nessun cedimento a facili quanto discutibili gigionerie. Insomma, è proprio tutto Beethoven! Salvo che nelle cadenze, soprattutto la prima, dove il nostro si scatena in un fantastico duetto con i timpani della Viviana, una cosa invero memorabile.   
___
Arriva ora la parentesi domestica: la prima esecuzione italiana di Pentagramm, una specie di sinfonia da camera (16 archi previsti in organico) composta nel 1974 dal padre di Kolja, Boris, in omaggio alla berlinese Philharmonie, dove fu eseguita per la prima volta dai Berliner nell’ormai lontano 1975.



Ecco come il figlio descrive l’opera del padre:

Boris Blacher compose Pentagramm nel 1974 (un anno prima della sua morte) appositamente per i Berliner Philarmoniker. L’ispirazione gli fu data, idealmente, dalla
Philaharmonie, la sala da concerto dei berlinesi, un edificio molto particolare che fin dalla sua inaugurazione (1963) è diventato uno dei simboli della capitale tedesca. Nota
anche come “Circus Karajani”, il suo interno è stato progettato dall’architetto Hans Scharoun, amico del compositore, a forma pentagonale e mantenendo il palco come elemento centrale. Da qui l’idea del titolo Pentagramm. Il brano fu eseguito per la prima volta nell’aprile del 1975 dai Berliner Philharmoniker, tre mesi dopo la morte del
compositore. 

Oggigiorno questa composizione, per molti aspetti estremamente interessante, viene eseguita - purtroppo - molto raramente, soprattutto rispetto al piu noto, e per certi versi somigliante, brano per 12 violoncelli (Blues, Espagnola & Rumba, ndr) composto un paio di anni prima. Elaborata per un organico strumentale che prevede il solo impiego di 16 archi, e caratterizzata da una scrittura che si ispira ad uno stile musicale tardo, molto asciutto, in cui ritroviamo l’utilizzo sia della tecnica del canone inverso “a specchio” sia del canone retrogrado

Nel primo movimento il compositore fa suonare gli archi come fossero delle percussioni
(Blacher fu pioniere in questa tecnica), tamburellando sul corpo dello strumento.

Il secondo movimento è invece tipico del suo modo di sentire la musica: introverso ma allo stesso tempo molto espressivo. Reminiscenze dei suoi primi anni in Cina, in Manciuria, e della Siberia vengono interpretate dagli “a solo” dei violini e dei violoncelli.

Il terzo movimento è anch’esso peculiare dello stile di Blacher, poichè influenzato da un ritmo di 7/8 in continua progressione tipico della musica jazz.

Il quarto movimento è di nuovo un “lento”. Inizia con un ostinato-pizzicato che crea un
effetto di sospensione e dà la sensazione che “il tempo si sia fermato”.
  
Subito abbiamo una conferma alla descrizione di Blacher: a dispetto della presenza sul palco di soli archi (4+4+3+3+2) il brano inizia - e poi proseguirà e si concluderà - con interventi di... percussioni, presenti in incognito nella forma delle casse acustiche, sulle quali si abbattono i polpastrelli degli strumentisti. Brano che ha un andamento curvilineo, dal lento si muove verso il veloce, che culmina nel terzo movimento, per poi tornare a calmarsi. Le quattro prime parti hanno anche modo di esibirsi in difficili passaggi solistici.

Che dire: sono 24 minuti di musica a tratti ostica, in altri più digeribile, che il pubblico accoglie come si suole in casi simili: applausi di cortesia.
___
Mozart chiude la serata con la Sinfonia Haffner. Già il collocarla a chiusura del concerto fa capire quanta importanza le dia Blacher, al contrario di ciò che fanno altri Direttori, che magari la impiegano come antipasto. Effettivamente è una sinfonietta (derivata infatti da una precedente Serenata) ma già contiene i germi dei lavori della maturità.

Blacher, come fa spesso in questi casi, si siede al posto del Konzertmeister (spingendo Santaniello alla sedia di concertino) e dà gli attacchi con il... corpo. L’esecuzione è leggera, ma non leziosa, vibrante ed effervescente, con il languido intermezzo dell’Adagio.

Accoglienza calorosa per una proposta che merita più... attenzione (ma gli assenti di ieri hanno ancora due giorni per rimediare).

17 ottobre, 2018

Mozart acerbo in salsa barocca


Dopo averci proposto un’opera di un compositore ormai andato troppo in là con la maturazione (Cherubini, AlìBabà) ecco che la Scala, per riequilibrare la situazione, ce ne ha offerta una di un compositore ancora assai lontano dalla maturità (Mozart, La finta giardiniera): così la media è ristabilita, ma il risultato è che ci siamo dovuti sorbire due lavori non propriamente entusiasmanti... cose da festival, come infatti succede per questo spettacolo importato da Glyndebourne e approdato ieri sera alla terza delle sette recite in programma, non privo di qualche manipolazione, tipo spostamenti di arie e tagli ai recitativi.

Aspetti decisamente problematici sono la piattezza (appunto) dei recitativi e la prolissità di buona parte dei numeri, criticità che fanno quasi annegare le parti pur mirabilmente ispirate della partitura (dove si prefigura il Mozart che tutti... conosciamo). Mi permetto di aggiungere come l’approccio barocchista di Diego Fasolis (magari filologicamente corretto) forse non sia il più adatto a mettere in risalto le qualità dell’opera. Poi ci si è messa pure la sfiga che ha costretto la protagonista Hanna-Elisabeth Müller a mimare il suo ruolo alla prima di lunedi scorso, mentre la voce (della Martin du Theil) veniva dalle quinte; e poi a disertare la seconda, per cantare finalmente ieri sera.

E direi che non abbia cantato male, così come la travestita Lucia Cirillo e il convincente Mattia Olivieri. Gli altri su discreti standard, con qualche bercio di troppo da parte di Kresimir Spicer.

Frederic Wake-Walker (di cui avevamo apprezzato... con riserve le sue Nozze di un paio d’anni fa) propone una messinscena brillante e spiritosa (ne è testimone il finale davvero azzeccato) ma sa anche ben rendere le atmosfere da tregenda del second’atto.
    
Pubblco abbastanza folto, ma piuttosto parco di entusiasmi, salvo l’accoglienza divertita alla calata del sipario. Qualche minuto, non di più, di applausi per tutti.

13 ottobre, 2018

laVerdi 18-19 - Concerto n°3


Anche laVerdi non poteva trascurare la ricorrenza dei 150 anni dalla morte di Rossini, così questo terzo concerto della stagione è incentrato su una delle opere non teatrali del genio pesarese, il grandioso Stabat Mater. E per l’occasione si è stabilito anche un sodalizio fra l’Orchestra e il Rossini Opera Festival, precisamente con l’Accademia Rossiniana “Alberto Zedda”, la fucina di voci rossiniane creata e diretta (fino all’ultimo suo respiro!) dal venerabile maestro milanese che a Rossini ha dedicato l’intera sua esistenza. Della quale Accademia sono qui rappresentanti le voci soliste che - insieme al Coro di casa di Erina Gambarini (che festeggia i suoi primi vent’anni) e agli strumentisti guidati da Claus Peter Flor - danno vita alla serata.
___
In un Auditorium preso d’assalto la serata è stata aperta dalla Trauer Symphonie (la n°44) dell’imparruccato - ma innovatore - Josephus Haydn, il quale tolse il disturbo proprio mentre un 17enne Gioachino stava per spiccare il volo verso la stratosfera... non prima però di aver approfondito gli studi delle opere di Mozart e, appunto, di Haydn, autore a sua volta di un sommo Stabat Mater (da qui l’appellativo di tedeschino affibbiato al ragazzo). A proposito di influenza di Mozart e Haydn su Rossini mi permetto di segnalare un acuto studio (una tesi di dottorato di laurea) di Federico Gon, che pochi mesi fa è stato ospite in Auditorium in veste di compositore... tardoromantico. 

L’accostamento di questa sinfonia con lo Stabat rossiniano ha quindi una valenza squisitamente musicale e non è certo da intendersi come omaggio funebre al grande Gioachino, cosa che si potrebbe arguire essendo stata la Sinfonia coloritamente quanto apocrifamente definita funebre... ma senza altro appiglio che il desiderio - espresso in tarda età dal compositore - di farne eseguire l’Adagio ai suoi funerali. Poichè per il resto poco o nulla si incontra nell’opera che richiami un mortorio, e la tonalità minore non basta a definire funebre un brano musicale (a nessuno viene in mente di affibbiare questo appellativo alla K550 di Mozart, per dire). Lo stesso Adagio è in tonalità maggiore, ed esprime serenità e pace, atmosfere che il vecchio Haydn si augurava evidentemente di trovare all’aldilà... ma a 35 anni di distanza dalla composizione di quella musica, partorita quando era 40enne nell’accogliente bambagia di Esterháza! 

Sinfonia, come detto, che contiene germi di innovazione rispetto agli standard classici settecenteschi, oltre a scelte piuttosto coraggiose, come il piano tonale che rimane costante per l’intera sinfonia, gravitando sempre sul MI minore e sulle due relative maggiori: MI e SOL. Tutti i movimenti sono sostanzialmente monotematici; il Menuetto è anticipato in seconda posizione, spostando quindi l’Adagio in terza. La compagine orchestrale è assai ridotta, al tempo Haydn faticava ad avere 20 strumentisti, quindi si tratta quasi di musica da camera
___ 
Proviamo a seguire il brano come interpretato da Christopher Hogwood con la sua Academy of Ancient Music (diapason a 415 o giù di lì). 

L’Allegro con Brio è in MI minore (4/4) e si apre con l’esposizione del tema, che è costituito da due sezioni: la prima di carattere stentoreo, una sorta di motto di sole 4 battute e la seconda (8”) più cantabile, di 8 battute, che chiude sulla dominante SI. Il tema viene ripetuto (22”) ma in forma variata: alle 2 prime battute del motto segue (26”) una progressiva transizione di 5 battute verso la tonalità relativa di SOL maggiore, dove il motto (35”) è esposto dagli archi bassi, mentre il resto degli archi e gli oboi si sbizzariscono in veloci figurazioni di crome e semicrome. L’esposizione rimane in SOL maggiore, con riapparizione del tema (1’12”) seguita da una lunga cadenza che si chiude sul SI, dominante del MI con cui viene ripetuta (col canonico da-capo) l’esposizione (1’47”). 

Esposizione che si chiude (3’33”) per dar spazio allo sviluppo. Che si apre con il motto esposto dapprima in SI minore e poi (3’41”) in LA minore, seguito dalla sezione cantabile che sfocia in una modulazione (3’56”) a DO maggiore dove ricompaiono le veloci quartine di crome e semicrome degli archi, che modulano dapprima (4’14”) a RE maggiore e poi (4’22”) al SOL maggiore, per tornare infine al MI minore per la ripresa

Che inizia allorquando riudiamo (4’41”) il tema, motto più sezione cantabile che si amplia quasi fosse un nuovo sviluppo, ed è seguita (5’07”) dalle 5 battute di transizione e poi (5’16”) dalle folate dei violini. Le quali portano (5’28”) ad una ricomparsa del motto, cui segue un cadenza che sfuma sorprendentemente (5’50”) in un accordo di settima diminuita negli archi (RE#-FA#-LA-DO) con tanto di corona puntata

Inizia ora (5’54”) la coda, con il motto in MI minore negli archi bassi e viole, sommessamente contrappuntato in canone alla dominante dai violini. A 6’06” sono ancora le veloci figurazioni dei violini a portare il movimento alla conclusione (6’24”) Ma Haydn qui ci fa un bello scherzetto: mette il da-capo anche all’intera sezione sviluppo-ripresa-coda! Se lo si rispetta - come fa Hogwood - il primo tempo chiude a 9’16”

Il Menuetto (3/4, Allegretto) rimane nella tonalità di MI minore. Il suo tema (9’22”) occupa 16 battute ed è esposto a canone (ritardo di una battuta) da violini, poi celli-bassi (un’ottava sotto, da cui l’indicazione Canone in Diapason) e quindi viole, sfociando nella relativa SOL maggiore. Viene canonicamente ripetuto (9’40”). La seconda sezione (9’58”) ripropone il tema in SOL maggiore, ma subito torna a MI minore. Per spegnersi sulla dominante SI (10’15”). Ora troviamo un nuovo soggetto, variante del tema, che chiude la sezione (10’45”) da ripetersi.come la prima. Il Menuetto si conclude quindi a 11’33” 

Ecco il Trio in MI maggiore, con la sua prima sezione che chiude sulla dominante SI (11’46”). Sezione ripetuta e seguita poi (11’59”) dalla seconda, sempre in MI maggiore, fino a 12’17”, anch’essa ripetuta: il trio chiude quindi a 12’34”. Qui riprende il Menuetto, dove Hogwood (contrariamente alla prassi moderna) esegue le ripetizioni di entrambe le sezioni. Menuetto che chiude quindi a 14’42”

Passiamo ora (14’49”) al mirabile Adagio, 2/4 in MI maggiore, strutturato su due sezioni (entrambe da ripetersi). La prima inizia con un dolcissimo tema esposto dai violini con sordina, seguito (15’13”) da una sua variante tutta puntata, chiusa (15’34”) da un crescendo che porta la tonalità (15’46”) alla dominante SI maggiore, con il ritmo dettato da continue terzine, che chiudono questa sezione (16’45”) poi ripetuta fino a 18’38”

Ecco poi la seconda parte, che rimane inizialmente in SI maggiore per poi tornare perentoriamente (19’26”, intervento del corno) al MI maggiore, con il persistere delle terzine che portano (protagonista ancora il corno) alla chiusura della sezione (20’44”) che viene ripetuta fino a 22’53”

Il Finale (Presto, 4/4 alla breve, MI minore) è suddiviso in due sezioni e si apre (22’58”) con il tema principale, tutto in staccato e con ritmo concitato. Il tema viene ripreso subito (23’04”) un’ottava sopra, fino a raggiungere (23’12”) in forte la relativa SOL maggiore. A 23’50” il suono si dirada assai per il ritorno a MI minore, che conduce alla chiusa (23’56”) della prima sezione, che viene ripetuta (fino a 24’52”). 

La seconda sezione sviluppa il tema principale, in MI minore, con escursioni a SOL e MI maggiore (si fa notare il corno). Dopo una teatrale cadenza (26’03”) si arriva rapidamente alla conclusione (26’19”). Anche la seconda sezione prevede il da-capo
___ 
laVerdi non eseguiva questa sinfonia da più di 11 anni. Flor è più ricco di Haydn e così, anche per meglio riempire lo spazio sonoro dell'Auditorium che dev'essere ben più vasto di quello delle sale di Esterháza, rimpolpa assai gli archi, disposti alla tedesca, con i violini secondi al proscenio.

Approccio del Direttore assai rispettoso della lettera della partitura (rigorosamente rispettati ed eseguiti tutti i da-capo!) e piuttosto lezioso, con qualche gigioneria corporea (mossette, ammiccamenti vari) esibita proprio nell’Adagio che il vecchio Haydn desiderava suonato al suo funerale! Ma va bene così, e il pubblico non ha lesinato applausi convinti.
___

Ed eccoci allo Stabat, che è alla sua settima comparsa in stagioni de laVerdi (l’ultima meno di tre anni fa sempre con Flor sul podio in un Audiorium meno affollato). Invece al ROF è stato eseguito in ben 13 edizioni, a partire dal 1981, l’ultima nel 2017 (qui da me commentata) quando cantò Salome Jicia, originariamente scritturata per questo concerto, ma poi rimpiazzata da Aleksandra Sennikova.

Flor non ha cambiato una virgola rispetto alla precedente esecuzione per ciò che riguarda la disposizione degli strumenti e delle voci, con trombe e tromboni all’estrema destra, legni all’estrema sinistra e solisti a sinistra del podio.

Mentre il coro della Gambarini ha sciorinato le sue ottime qualità, i 4 solisti non hanno particolarmente brillato. Discreti il basso Roberto Lorenzi (cui manca però un pizzico in più di profondità) e il mezzo Valeria Girardello, buona intonazione e voce abbastanza corposa. Shanul Sharma ha una voce proprio piccola, anche se bene impostata; non ha però avuto difficoltà sul REb acuto del Cujus animam. La Sennikova, oltre alla vocina pigolante, mostra la corda negli acuti, dove il timbro diviene francamente sgradevole.

Ma a dispetto di ciò il successo è stato grande per tutti e il pubblico se n’è uscito in questa notte ancora tiepida con il sorriso sulle labbra.

04 ottobre, 2018

Il futuro del teatro musicale italiano, secondo Isolde


No, Tristan non c’entra (o c’entra da lontanissimo...) ma è Paolo Isotta il soggetto di questo post.

Il nostro ha scritto ieri sul benemerito (complimento mio personale) Il Fatto Quotidiano un autentico libello contro la situazione attuale del teatro musicale in Italia.

Già il titolo la dice lunga:

Abbassiamo subito tutti i sipari. Per 5 anni


La premessa è lapidaria:

Attorno a me non vedo che desolazione, rovine, e un livello artistico e culturale così abietto da toglierti per sempre la voglia di andare all’Opera. 

Poi ci fa sapere a cosa, secondo lui, dovrebbero servire le Fondazioni lirico-sinfoniche:

...Come i musei, le gallerie, i monumenti. Ma questi sono tenuti in vita per preservare e offrire al pubblico il più ricco patrimonio artistico mondiale, quello della civiltà italiana. L’essenziale fisionomia di questo patrimonio d’arte e di cultura si completa solo con la musica. La sola ratio per la quale le Fondazioni ricevano le centinaia di milioni di euro loro destinati sarebbe che fossero i musei della civiltà musicale, italiana in primis, mondiale poi.

E invece, ecco come siamo messi (sempre selon Isolde):

I teatri servono in gran parte per le demenziali masturbazioni dei registi (Michieletto, De Rosa, etc), lodati da quei marchettisti dei cosiddetti critici musicali che nessuno legge più e hanno a disposizione spazi irrisori su giornali che nessuno legge più.

E chi va a teatro? e chi li governa, i teatri?

A teatro vanno solo sfaccendati, pensionati, vedove benestanti, che non capiscono nulla e applaudono sempre; o turisti ancor più ignari. Non conosco un sol soprintendente che abbia un minimo di cultura e persino di intelligenza: sono solo furbastri, capaci di galleggiare e animati da cupiditas serviendi persino quando non ne ricavano utile.

Ci sono anche nomi e cognomi di buoni e cattivi:

In tutti i teatri italiani esistono solo tre direttori artistici competenti e colti (posso fare i nomi: Meli, Nicolosi, Vlad) ma sovente sono costretti a fungere da segretari artistici a sovrintendenti che o preferiscono farsi preparare le compagnie dalle agenzie o fanno lavorare i raccomandati di Nastasi – o, adesso, il figlio della Casellati. 

Ora le proposte radicali:

Paghiamo i dipendenti lasciandoli a casa fino alla pensione. Si risparmierebbe su tutto il resto.

e infine:

Ma chiuderli tutti (i teatri, ndr) e subito. Per cinque anni. Poi, scrivere una nuova legge che li consideri musei, non circhi equestri, impedendo che diventino il ricettacolo di Nino D’Angelo, Alessandro Siani, Maradona, Bellavista…. Musei con lo scopo di far conoscere il patrimonio della cultura musicale.

___
Beh, la terapia sarà pure contestabile, ma - secondo me - la diagnosi non è proprio così sballata...

27 settembre, 2018

laVerdi 18-19 - Concerto n°2

Il quasi-47enne lusitano Nuno Côrte-Real fa il suo esordio con laVerdi dirigendo un programma piuttosto variegato, i cui tre pezzi sono labilmente collegati dall’evocare terre lontane (magari non per noi, ma per... Ibsen, Gauguin e Dvořák): Africa, Tahiti e America. Le date del concerto sono state anticipate rispetto allo standard poichè l’Orchestra parte ora per una tournée proprio in Portogallo, dove Côrte-Real ne terrà a battesimo l’esordio.

Sulla genesi delle musiche composte da Edvard Grieg per il Peer Gynt mi sono già dilungato all’interno di questo commento ad un’esecuzione di Bignamini di tre anni giusti-giusti orsono, quindi non aggiungo altro. Dirò invece dell’esecuzione di ieri, che mi è parsa rivelare (ma lo confermerà il brano successivo) la natura romantica del Direttore, che ha proposto questa pagina con grande leggerezza, ma senza quelle sdolcinature che troppo spesso ne caratterizzano l’esecuzione. Il pubblico, tutt’altro che oceanico a dir il vero, ha mostrato di apprezzare, stabilendo subito un rapporto di simpatia con questo portoghese dall’atteggiamento schivo e quasi timido, che dirige con gesto poco appariscente ma preciso ed efficace.
___
E queste qualità sono emerse poi nel secondo brano in programma, che è - nientemeno - una prima assoluta! Si tratta di una sua composizione intitolata Noa-Noa e battezzata dall’Autore come Sinfonia (in cinque movimenti). È in realtà la versione orchestrata e assai ampliata (Op.62) di una breve composizione di musica elettroacustica del 1995, Noa-Noa, homenagem a Gauguin (Op.3) con la quale Côrte-Real vinse nel 2000 il Concorso Musica Viva a Lisbona. Ecco come l’Autore in persona ci presenta questo lavoro:

La Sinfonia Noa-Noa (‘profumo’, ndr) è stata ispirata dal libro omonimo di Paul Gauguin, scritto dal pittore dopo il suo primo soggiorno a Tahiti. È interessante notare come questa composizione (suddivisa in cinque movimenti, ciascuno dei quali ha lo stesso titolo dei quadri dipinti da Gauguin nelle isole del Pacifico) si riveli selvaggia e dirompente - proprio come è stata l’esperienza del pittore parigino - rispetto agli stili e alle convenzioni esistenti; la durezza, l’aridità e le dissonanze tipiche della musica contemporanea sono in essa totalmente estranee.

Un’attenzione particolare va riservata all’ultimo movimento intitolato Matamoe, che in tahitiano significa ‘Morte’, ma che nella visione di Gauguin ha un significato diverso: quello della morte della società borghese che non lo ha capito e la risurrezione in un nuovo, puro e genuino paradiso terrestre, libero da interessi e criminalità.

E queste note pubblicate sul programma di sala sono state integrate da Côrte-Real subito prima dell’esecuzione, con un breve intervento dove il Direttore ha spiegato il suo rapporto con la musica (e qui è emerso il suo carattere romantico) con la quale il compositore cerca di simboleggiare la sua visione del mondo, precisamente come fece Gauguin con le sue tele tahitiane. All’ascoltatore è riservato il compito di... decifrare la visione del rapsodo! O semplicemente di abbandonarsi ai suoi suoni.

1 D’où venons-nous? Que sommes-nous? Où allons-nous?


Atmosfera sognante, esotica, un tappeto sonoro (à la Debussy...) da cui emergono via via richiami ora cupi, ora sereni; un cammino che parte dal REb iniziale e si chiude sul SI conclusivo: risposte alle tre fatidiche domande?

2 Contes Barbares


Paesaggio crudo, aspro e minaccioso, sordi richiami del trombone sui colpi secchi delle percussioni; atmosfera da tregenda.

3 Idylle à Tahiti


Romanza per archi: un breve, classico intermezzo languido (SOL e DO maggiore!)

4 Le cheval blanc


Le percussioni sembrano effettivamente ritmare uno scalpitìo... contrappuntando il corno inglese che canta una mesta melopea, chiusa da una cadenza DO-SI.

5 Matamoe


Un insistente martellamento di tamburi lascia poco spazio al dispiegarsi di frasi musicali di senso compiuto, poi chiude bruscamente sulla cadenza RE-SI dell’orchestra. Evidentemente, la resurrezione deve ancora aspettare! 
___ 
Accoglienza non meno che trionfale quella che il pubblico ha riservato a quest’opera, richiamando più e più volte sulla scena il musicista lusitano, che ha a sua volta ringraziato l’Orchestra, quasi schermendosi per un successo così pieno. Beh, abbiamo avuto un’altra piaceevole dimostrazione della preveggenza di Lenny Bernstein, che nel pieno della temperie serial-dodecafonica di 60 anni fa pronosticava un futuro per la musica... tonale!
___ 
Chiude il concerto l’inflazionata Sinfonia dal nuovo mondo, che l’Orchestra nel corso dei 25 anni della sua storia aveva già messo in programma per ben 14 volte (l’ultima quasi 3 anni orsono). E Côrte-Real si affida a questa pluri-decennale esperienza per garantirsi il prevedibile successo. Cito un nome solo per glorificare tutti i ragazzi: il corno inglese di Paola Scotti.

26 settembre, 2018

Un Cherubini raro per l’Accademia scaligera


Penutima delle 10 recite di Alì Babà, ieri sera al Piermarini. Spettacolo che vede impegnate le voci e gli strumentisti dell’Accademia della Scala.    

Che non si tratti di un capolavoro è cosa che non si scopre oggi. Basti pensare che trascorsero non meno di 130 anni dalla prima (Parigi, 1833) in lingua francese a quando l’opera fu data in italiano, proprio alla Scala nel 1963! Dopodichè altri 55 anni sono passati prima di questo ritorno... e credo nessuno si dorrà se ne passeranno altri 100 prima del prossimo, ecco.

Certo, il libretto non è granchè, ma è pur vero che su libretti mediocri si è scritta musica indimenticabile. Al contrario, questa dell’anziano (e magari un po’... bollito) Cherubini è musica che davvero si fatica ad apprezzare e quindi a ricordare: per cui è probabile che non avessero poi tutti i torti due che di buona musica se ne intendevano, tale Mendelssohn e soprattutto tale Berlioz, il quale la bollò impietosamente come ciarpame! Sul programma di sala Marco Beghelli ricorda come nel secolo scorso ci fu qualche buontempone che pensò di fare un parallelo fra quello di Cherubini e un altro (celebre, questo) lavoro senile: Falstaff! Dico, stiamo scherzando, vero?

A scusante di Cherubini si può certo ricordare come il compositore fosse costretto a cambiare in corsa la natura stessa dell’opera; che da Singspiel (musica + parlati) per l’Opéra comique si dovette trasformare in Grand-opéra per l’Académie Royale, con la conseguenza dell’introduzione obbligatoria dei recitativi accompagnati (che sono francamente indigeribili, musicalmente parlando) e di un bel quarto d’ora di balletti (anche questa, musica invero insulsa e noiosa, secondo taluni nemmeno composta dall’Autore, ma da Fromental Halévy, il che più che una scusante sarebbe un’aggravante  a carico di Cherubini). Ma anche le parti che dovrebbero di più caratterizzare l’opera (romanze, arie, duetti, concertati) si muovono in una piatta mediocrità, dalla quale emergono non più di due o tre passaggi degni di nota.
___
E la mediocrità d’ispirazione di questo tardo Cherubini è riscontrabile già nell’Ouverture, ricca com’è di ampollosità, ripetitività (l’agogica e il tempo non cambiano praticamente mai) e retorica, presentando temi francamente banali e trovate piuttosto bizzarre (come lo stucchevole ripetersi di un isolato colpo di timpano, accompagnato da triangolo, piatti e grancassa) a dispetto del ricorso tradizionale alla forma-sonata. Seguiamola nella citata edizione scaligera (Sanzogno sul podio).   

Esposizione - Allegro molto - 4/4 alla breve.

Primo tema, dal carattere baldanzoso, in FA maggiore, chiuso dal colpo di timpano (8”) - transizione
18” Riesposizione del tema nella relativa RE minore, chiusa dal colpo di timpano (26”) - transizione
37” Riesposizione del tema in FA minore, chiusa dal colpo di timpano (48”) - transizione

59” Secondo tema, di carattere cantabile, canonicamente nella dominante DO maggiore - transizione (1’23”)
1’29” Riproposizione del tema, ampliato e variato, chiusa dal colpo di timpano (2’16”) - transizione

Sviluppo - (c.s.)

2’39” Primo tema in LA minore (poi SOL-RE), chiuso dal colpo di timpano (2’57”) - transizione
3’13” Varianti del Primo tema nei legni

Ripresa - (c.s.)

3’29” Primo tema in FA maggiore (non ripetuto) chiuso dal colpo di timpano (3’42”) - transizione
3’53” Secondo tema, canonicamente trasposto in FA maggiore, con transizione alla riproposizione ampliata (4’24”) - cadenza (5’06”)

Coda - Presto.

5’15” Nuovo tema in FA maggiore
5’35” Sezione che richiama Rossini (Allegro vivace conclusivo dell’Ouverture del Tell).

Nessuno dei motivi dell’Ouverture ricompare nel corso dell’opera, ad eccezione di quello rossiniano, che si ascolta nel finale, subito prima del provvidenziale arrivano-i-nostri. In realtà, in questa produzione si ascolta quel Presto anche come Preludio all’Atto III (credo proprio per volontà/necessità della regista Cavani, più che del concertatore Carignani).
___
Orbene, se fu un azzardo per la Scala presentare l’opera nel lontano 1963 (e per sole 3 recite) quando però sul palco c’erano voci come quelle di Ganzarolli, Stich-Randall, Kraus (!), Montarsolo, Santunione e De Palma, questa scelta di Pereira appare proprio come una provocazione verso il pubblico che paga il prezzo (o l’abbonamento) pieno per vedersi poi propinare una ciofeca usata come training per ben due cast di giovani dell’Accademia. Per nessuno dei quali (parlo per me, ovviamente, e riferendomi solo a quelli che ho sentito ieri) mi pare si tratti di un trampolino di lancio, a giudicare dalle loro prestazioni: tutti, per carità, sono da elogiare per l’impegno profuso, però, accipicchia, la cosa può essere un’arma a doppio taglio e pure ritorcersi contro di loro, se non sanno essere più che convincenti. E (almeno ieri sera) quasi nessuno (mi) ha convinto.

Meglio le cose vanno (ma ciò è quasi scontato) per gli strumentisti, che formano un complesso abbastanza affiatato e che Carignani ha guidato con accuratezza, anche se talvolta ha dimenticato le voci sul palco, coprendole con i suoni dell’orchestra.
___
Liliana Cavani e il suo team registico hanno messo in piedi uno spettacolo gradevole, senza alcun cedimento al Regietheater, ma limitandosi a raccontare questa specie di fiaba a sfondo comico con leggerezza e gusto. Ma se lo zoccolo duro musicale (autore e interpreti) è in realtà... molle, allora non c’è eccipiente che possa fare il miracolo.

Insomma, come recita di fine anno scolastico non sarebbe male, ma come minimo dovrebbe essere offerta... a gratis, ecco.