Penutima delle 10 recite di Alì
Babà, ieri sera al Piermarini. Spettacolo che vede impegnate
le voci e gli strumentisti dell’Accademia
della Scala.
Che non si tratti di un capolavoro è
cosa che non si scopre oggi. Basti pensare che trascorsero non meno di 130 anni
dalla prima (Parigi, 1833) in lingua
francese a quando l’opera fu data in italiano, proprio alla Scala nel 1963!
Dopodichè altri 55 anni sono passati prima di questo ritorno... e credo nessuno
si dorrà se ne passeranno altri 100 prima del prossimo, ecco.
Certo, il
libretto non è granchè, ma è pur vero che su libretti mediocri si è
scritta musica indimenticabile. Al contrario, questa dell’anziano (e magari un
po’... bollito) Cherubini è musica che davvero si fatica ad apprezzare e quindi
a ricordare: per cui è probabile che non avessero poi tutti i torti due che di
buona musica se ne intendevano, tale Mendelssohn
e soprattutto tale Berlioz, il quale
la bollò impietosamente come ciarpame! Sul programma di sala Marco Beghelli
ricorda come nel secolo scorso ci fu qualche buontempone che pensò di fare un parallelo fra quello
di Cherubini e un altro (celebre, questo) lavoro
senile: Falstaff! Dico, stiamo
scherzando, vero?
A scusante di Cherubini si può certo ricordare
come il compositore fosse costretto a cambiare in corsa la natura stessa dell’opera; che da Singspiel (musica + parlati) per l’Opéra comique si dovette trasformare in Grand-opéra per l’Académie Royale, con la conseguenza dell’introduzione obbligatoria dei recitativi
accompagnati (che sono francamente indigeribili, musicalmente parlando) e di un
bel quarto d’ora di balletti (anche questa, musica invero insulsa e noiosa,
secondo taluni nemmeno composta dall’Autore, ma da Fromental Halévy, il che più
che una scusante sarebbe un’aggravante a
carico di Cherubini). Ma anche le parti che dovrebbero di più caratterizzare
l’opera (romanze, arie, duetti, concertati) si muovono in una piatta
mediocrità, dalla quale emergono non più di due o tre passaggi degni di nota.
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E la mediocrità d’ispirazione di questo
tardo Cherubini è riscontrabile già nell’Ouverture,
ricca com’è di ampollosità, ripetitività (l’agogica e il tempo non cambiano
praticamente mai) e retorica, presentando temi francamente banali e trovate
piuttosto bizzarre (come lo stucchevole ripetersi di un isolato colpo di
timpano, accompagnato da triangolo, piatti e grancassa) a dispetto del ricorso tradizionale
alla forma-sonata. Seguiamola nella
citata edizione scaligera (Sanzogno
sul podio).
Esposizione
- Allegro molto - 4/4 alla breve.
Primo
tema,
dal carattere baldanzoso, in FA maggiore, chiuso dal colpo di timpano (8”)
- transizione
18” Riesposizione del
tema nella relativa RE minore, chiusa dal colpo di timpano (26”)
- transizione
37” Riesposizione del
tema in FA minore, chiusa dal colpo di timpano (48”) - transizione
59” Secondo
tema,
di carattere cantabile, canonicamente nella dominante DO maggiore - transizione
(1’23”)
1’29” Riproposizione del
tema, ampliato e variato, chiusa dal colpo di timpano (2’16”) - transizione
Sviluppo
- (c.s.)
2’39” Primo tema in LA minore (poi SOL-RE), chiuso dal
colpo di timpano (2’57”) - transizione
3’13” Varianti del Primo tema nei legni
Ripresa
- (c.s.)
3’29” Primo tema in FA maggiore (non ripetuto) chiuso dal
colpo di timpano (3’42”) - transizione
3’53” Secondo tema, canonicamente trasposto in FA maggiore,
con transizione alla riproposizione ampliata (4’24”) - cadenza (5’06”)
Coda
- Presto.
5’15” Nuovo tema in FA maggiore
5’35” Sezione che
richiama Rossini (Allegro vivace conclusivo dell’Ouverture
del Tell).
Nessuno
dei motivi dell’Ouverture ricompare nel corso dell’opera, ad eccezione di
quello rossiniano, che si ascolta nel finale, subito prima del provvidenziale arrivano-i-nostri. In realtà, in questa
produzione si ascolta quel Presto
anche come Preludio all’Atto III (credo proprio per volontà/necessità della
regista Cavani, più che del concertatore Carignani).
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Orbene, se fu un azzardo per la Scala
presentare l’opera nel lontano 1963 (e per sole 3 recite) quando però sul palco
c’erano voci come quelle di Ganzarolli, Stich-Randall, Kraus (!), Montarsolo,
Santunione e De Palma, questa scelta di Pereira appare proprio come una
provocazione verso il pubblico che paga il prezzo (o l’abbonamento) pieno per
vedersi poi propinare una ciofeca usata come training per ben due cast
di giovani dell’Accademia. Per nessuno dei quali (parlo per me, ovviamente, e riferendomi
solo a quelli che ho sentito ieri) mi pare si tratti di un trampolino di lancio,
a giudicare dalle loro prestazioni: tutti, per carità, sono da elogiare per
l’impegno profuso, però, accipicchia, la cosa può essere un’arma a doppio
taglio e pure ritorcersi contro di loro, se non sanno essere più che
convincenti. E (almeno ieri sera) quasi nessuno (mi) ha convinto.
Meglio le cose vanno (ma ciò è quasi
scontato) per gli strumentisti, che formano un complesso abbastanza affiatato e
che Carignani ha guidato con accuratezza,
anche se talvolta ha dimenticato le voci sul palco, coprendole con i suoni dell’orchestra.
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Liliana Cavani e il suo team registico hanno messo in piedi uno
spettacolo gradevole, senza alcun cedimento al Regietheater, ma limitandosi a raccontare questa specie di fiaba a
sfondo comico con leggerezza e gusto. Ma se lo zoccolo duro musicale (autore e
interpreti) è in realtà... molle, allora non c’è eccipiente che possa fare il
miracolo.
Insomma, come recita di fine anno
scolastico non sarebbe male, ma come minimo dovrebbe essere offerta... a gratis, ecco.
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