affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

20 aprile, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°23

                         
Claus Peter Flor si sposta a Vienna per un programma (di fine ‘700 - inizio ‘800) dall’impaginazione classica.

Si parte con Egmont, la beethoveniana Ouverture delle musiche di scena per il dramma di Goethe, composte nel 1809. Il Conte di Egmont fu un nobile fiammingo che a metà del ‘500, dopo aver militato al servizio di Carlo V ed essersi distinto per le sue imprese militari, si oppose fieramente all’occupazione delle Fiandre da parte del Conte d’Alba, fino a venire da costui condannato alla decapitazione, affrontata con virile fermezza.

L’Ouverture, strettamente in forma-sonata (un autentico gioiello nel suo genere) è costruita su temi che evocano la vicenda umana di Egmont, e in particolare la sua eroica fine in difesa della libertà. Un soggetto assai caro, come sappiamo, a Beethoven, che in più sentiva come proprio l’eroismo del Conte delle Fiandre, paladino di una terra dalla quale provenivano anche i suoi antenati, come del resto testimonia scopertamente il suo stesso cognome.
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Seguiamone lo sviluppo attraverso un‘interpretazione di Claudio Abbado con i Berliner.    

Introduzione - Sostenuto ma non troppo, 3/2 FA minore. Possiamo plausibilmente vederci evocata la triste condizione di Egmont, perseguitato dall’invasore e condannato a morte, compianto dai suoi cari (moglie e... 11 figli!) Apre (2”) un poderoso unisono generale di FA, seguito (8”) da tre battute dei soli archi che compiono due salite: una terza maggiore armonizzata (15”) in LAb (relativa della tonalità d’impianto) e una terza minore che si appoggia (19”) a DO minore, poi ribadito (22”) in quinta vuota. Oboe e poi clarinetto e fagotto (24”) rispondono con una melodia lamentosa, in DO minore, che dalla tonica scende alla sensibile per poi salire alla sesta minore e scendere alla mediante MIb. Gli archi (36”) la riprendono chiudendola però sul MI naturale, sensibile del FA di impianto che torna (45”) ancora in unisono a piena orchestra. Si ripete la figura precedente, che sale (56”) al LAb maggiore, ma qui si interrompe, seguita (1’00”) dal tema lamentoso esposto da clarinetto, fagotto, oboe e flauto in REb maggiore, tonalità nella quale (1’15”) i violini primi espongono un grazioso e languido motivo (Ti) che dalla dominante LAb sale alla sesta per poi scendere per gradi congiunti alla mediante FA, subito ripetuto anche dal clarinetto, per terze. Un motivo che si può ricondurre agli affetti personali di Egmont (Famiglia e Patria) e che viene ripetuto ancora per ben otto volte, abbassandosi progressivamente (dalla sopratonica MIb, a 1’24”, due volte, in violini e flauto) poi dalla tonica REb (1’33”, violini-flauto); quindi dalla sesta SIb (1’37”, violini, oboe); ancora dalla quarta SOL (1’41”, violini, oboe); dalla seconda aumentata MI (1’46”, oboe e clarinetti); dalla sesta SIb (1’51”, violoncelli) e infine, a lunghezze raddoppiate, nei violini dalla sesta aumentata SI naturale (1’56”). Queste reiterazioni hanno di fatto riportato la tonalità all’originario FA minore, sul quale attacca ora...

L’Esposizione, Allegro 3/4. Qui (2’01”) si evoca lo spirito battagliero di Egmont, che affronta eroicamente le brutaità dell’invasore. Dopo 4 battute in cui il tema Ti svolazza in violini e violoncelli, ecco apparire (2’05”) proprio in questi ultimi il primo tema (T1) che è chiaramente mutuato dal Ti, quanto meno nell’inicpit: come a dire che Egmont lotta anche per la propria famiglia e la propria patria. La prima parte del tema (piano, sforzato) si adagia sulla sensibile (2’08”); la seconda lo riprende appoggiandosi sulla tonica (2’12”) dalla quale si dipartono tre reiterazioni di un motivo discendente - sulla scala minore - da tonica a dominante. Dopo questo temporaneo ripegamento riflessivo, effetto forse delle vessazioni dell’invasore, ecco una lunga transizione (2’18”) caratterizzata da una figura (Tr) di tre crome + semiminima, reiterata ben 16 volte dai violini, che evoca verosimilmente la faticosa e ansimante ripresa di fiato dell’eroe, il cui tema T1 si ripresenta ora (2’35”) in fortissimo, nei violini supportati dall’intera orchestra. Segue il ritorno di una variante della figura Tr che sfocia (2’49”) in una modulazione alla relativa LAb maggiore sulla quale si dipana un ponte di 8 battute che porta (2’58”) all’esposizione del secondo tema (T2) che è una riformulazione veloce del motivo che nell’Introduzione seguiva il FA di attacco e sale da dominante a sesta (MIb-FA). Esso è esposto dagli archi ai quali rispondono i legni (3’01”) con un inciso elegiaco. La cosa si ripete due volte, poi sulla terza il tema T2 sfocia (3’08”) sulla sesta abbassata (FAb, enarmonicamene MI naturale) e i legni rispondono immediatamente con una salita dal MI al LA maggiore, ripetuta, e poi culminante (3’15”) in un FA naturale sul quale i violini, con un salto SIb-MIb innescano il ritorno a LAb maggiore. Qui (3’22”) tre scale ascendenti dei violini seguite da sei cadute dalla dominante MIb chiudono l’esposizione.

Lo Sviluppo è assai breve: presenta (3’35”) il tema T1 in modo maggiore (LAb) e poi lo reitera più volte (3’44”) in minore, ogni volta chiudendolo con strappi di due semiminime in forte. Il ritorno (4’06”) sommesso e variato della figura Tr conclude lo sviluppo.         

La Ricapitolazione (4’21”) ripropone il tema T1 in FA minore, poi (4’35”) la transizione Tr e ancora (4’51”) T1 in modo enfatico.  A 5’05” si modula a REb maggiore in vista della canonica riproposizione del tema T2 (5’24”) in questa tonalità, cui segue il passaggio un semitono più alto (quindi qui in RE maggiore, 5’34”). Ritorno a REb maggiore (5’44”) con le tre salite dei violini e le sei cadute dalla dominante LAb. A 6’00” rientra il secondo tema T2, negli ottoni, che si alterna tre volte con cadute nei violini, mentre la tonalità vira a DO minore. Ora  (6’20”) i soli violini espongono una spettrale caduta DO-SOL (sarà per caso la bipenne che scende sul collo dell’eroe?) dopodichè subentra quasi un silenzio religioso seguito (6’25”) da 8 battute meditabonde dei legni, chiuse scendendo da REb a DO. È il prologo alla travolgente...

Coda - Allegro con brio, 4/4 FA maggiore. Siamo all’apoteosi di Egmont. Una figurazione ascendente si ripete (6’42”) 4 volte in pianissimo, poi (6’46”) altre 6 volte a frequenza doppia e in crescendo. Ancora una battuta di velocissima ascesa fino alla mediante LA, ed ecco esplodere (6’52”) il trionfale motivo della vittoria morale dell’eroe sui suoi carnefici. Sono 6 reiterate salite dalla tonica FA alla mediante LA, ripetute (a 7’00”) e seguite (7’08”) da ben 6 ricomparse, sempre più cariche di suono, di un nuovo motivo di due battute che dal FA scende alla sesta RE, sale alla sopratonica SOL, scende ancora alla dominante DO per risalire alla tonica. I violini (7’11”) contrappuntano la seconda e terza apparizione con festosi svolazzi, poi (7’21”) ecco l’imperiosa salita da tonica FA a dominante DO, nota che viene ribadita enfaticamente. Il passaggio si ripete (7’29”) e finalmente (7’38”) arriva la trionfale fanfara delle trombe che porta, con ripetute scalate alla dominante, alla spettacolare conclusione. 
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Esecuzione trascinante, però a Flor mi sentirei di rimproverare uno scarso equilibrio delle dinamiche nei passaggi più enfatici, dove il suono dell’orchestra tende a divenire un magma che finisce per inghiottire (e quindi coprire) le linee melodiche.   
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La Concertante di Haydn è da anni impiegata come vetrina dove esporre quattro delle prime parti dell’Orchestra (violino, cello, oboe e fagotto) impegnati come solisti in questo brano che nel catalogo Hoboken è denominato abbastanza impropriamente Sinfonia (lo stesso accade per Mozart ai titoli K297b e K364).

Per restare solo agli anni più recenti e alla stagione principale, a gennaio 2012 i solisti furono Santaniello, Shirai, Stocco e Magnani; a novembre del 2015 Dellingshausen, Scarpolini, Greci e Magnani. Questa volta tocca a Dellingshausen, Shirai, Stocco e Magnani (quest’ultimo è davvero... inamovibile). I 4 moschettieri si sono ben distinti e il successo è stato caloroso (con tanto di omaggi floreali) così ci hanno regalato come bis una simpatica trascrizione del Chorale St.Antoni.
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Si chiude nel nome di Mozart con la sua ultima sinfonia, la celeberrima Jupiter. Qui Flor si riscatta, facendo emergere ogni particolare della partitura mozartiana e inoltre proponendocela con (parafrasando Schumann su Schubert) le sue celestiali lungaggini: che sarebbero poi tutti i ritornelli, nessuno escluso.

Auditorium a... scartamento ridotto, ma pubblico convinto e prodigo di applausi.

16 aprile, 2018

La furia di Orlando in Laguna


Ieri pomeriggio il piccolo ma glorioso Malibran ha ospitato la seconda recita di Orlando furioso di Antonio Vivaldi. Si tratta di un allestimento che fu presentato con gran successo la scorsa estate al Festival di Martina Franca, e di cui è ascoltabile in rete l’audio (pessimo, ahinoi, poichè piratescamente ripreso con mezzi di fortuna) grazie ai peripatetici melomani de L’impiccione viaggiatore.

Ultima delle tre opere dedicate da Vivaldi al soggetto ariostesco, si inserisce in pieno nella tradizione del barocco, sia dal punto di vista della grandiosità dello spettacolo, che da quello della struttura della parte musicale. Questa produzione di basa sull’edizione critica dello specialista Federico Maria Sardelli, che la coppia regista-concertatore (Fabio Ceresa - Diego Fasolis) ha poi liberamente rimaneggiato, attraverso qualche taglio (doloroso per la soppressione di alcune arie; meno critico, ma sempre dannoso per la coerenza del tutto, per quella di robusta parte dei recitativi) accompagnato a diversi arbitrari spostamenti di numeri all’interno della struttura del dramma. Lo spettacolo si riduce (per così dire...) a meno di tre ore lorde (20‘ di intervallo) rispetto alle più di 3 ore nette di un’esecuzione completa (come questa francese). In appendice un elenco dei principali numeri e della relativa ristrutturazione compiuta per questo allestimento: tra spostamenti di arie ed espunzioni (di arie e recitativi) sono il secondo ed il terzo atto ad essere pesantemente manipolati rispetto all’originale.   

La trama dovuta a Grazio Braccioli - da Ariosto, ma estremamente contorta - serviva (ai tempi) più che altro a giustificare le mirabolanti trovate sceniche (ippogrifi, mostri, naufragi, viaggi spaziali...) e le innumerevoli arie che consentivano agli interpreti di mettere in mostra le loro qualità di gorgheggiatori, oltre che di attori. Vi troviamo un quadrilatero e un triangolo sentimentali, rispettivamente rappresentati dai diversamente assortiti legami affettivi che a cascata collegano, da un lato, Bradamante<>Ruggiero<>Alcina<>Astolfo; e dall’altro Medoro<>Angelica<>Orlando.   

L’allestimento è piacevole e intelligente: non si perde alcunchè del classico clima dell’opera barocca, grazie alle scene di Massimo Checchetto, assai efficaci pur nella relativa essenzialità: la luna di Orlando, il mondo incantato e sexy di Alcina, l’ippogrifo di Ruggiero e il naufragio di Medoro... Insomma, un simpatico revival delle atmosfere che nel primo ‘700 caratterizzavano i teatri musicali. Il tutto impreziosito dai coloratissimi e raffinati costumi di Giuseppe Palella e ravvivato dalle luci di Fabio Barettin. Essenziali anche le coreografie di Riccardo Olivier.
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Sul piano musicale, doverose lodi a Diego Fasolis, che ha fatto valere la sua indiscussa esperienza in questo repertorio, accompagnando personalmente ad uno dei due cembali e trascinando strumentisti e coristi della Fenice a confermare a loro volta la dimestichezza con il barocco, raggiunta anche grazie alle esecuzioni monteverdiane di questi ultimi anni.

Le voci si sono dimostrate tutte all’altezza del compito. A partire dall’Alcina di Lucia Cirillo e dall’Angelica di Francesca Aspromonte. Subito dietro collocherei la Bradamante di Loredana Castellano e la protagonista Sonia Prina, che ho personalmemte apprezzato spesso in Auditorium a Milano con laBarocca di Jais, ma che ieri non mi è parsa al meglio (incassando anche un eccessivamente severo buh nel second’atto).  

Apprezzabili il Medoro di Raffaele Pe, il Ruggiero di Carlo Vistoli e autorevole l’Astolfo di Riccardo Novaro.

Pubblico non oceanico e freddino negli applausi a scena aperta dopo le arie (ha fatto eccezione Sol per te, grazie soprattutto all’accompagnamento del magico traversiere, collocato in un palchetto). Anche alla fine applausi calorosi ma... centellinati.

Comunque uno spettacolo sicuramente da consigliare.
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Struttura dell’opera in questa edizione-produzione

I
Ang Un raggio di speme
Alc Alza in quegli occhi
Ast Costanza tu m’insegni
Bra Asconderò il mio sdegno
Orl Sorge l’irato nembo (da atto II) sostituisce Nel profondo, cieco mondo, spostato in atto II
Ang Tu sei degli occhi miei
Orl Troppo è fiero il nume arciero (espunto)
Med Rompo i ceppi (Nel libretto originale: Se tacendo, se soffrendo)
Rug Sol per te mio dolce amore (flauto traverso)
Alc Amorose ai rai del sole

II
Alc Vorresti amor da me?
Ast Benchè nasconda la serpe in seno
Bra Taci, non ti lagnar
Rug Piangerò sinchè l’onda del pianto (assente nel libretto originale)
(Orl Sorge l’irato nembo, spostato in atto I)
Med Qual candido fiore
Ang Chiara al pari di lucida stella (spostata poco avanti)
Orl Nel profondo, cieco mondo (da atto I)
Rug Come l’onda (da atto III) sostituisce Che bel morirti in sen, espunto
Bra Io son ne’ lacci tuoi (da atto III) sostituisce Se cresce un torrente, espunto
Cor Al fragor de’ corni audaci
Cor Gran madre Venere
Cor Diva dell’Espero
Ang-Med Belle pianticelle (espunto)
Ang-Med Sei mia fiamma - Sei mia gioia
Alc Così potessi anch’io (spostato qui da prima del duetto Ang-Med)
Orl Ah sleale, ah spergiura

III
Ast Dove il valor combatte
Alc L’arco vuò frangerti
Alc Che dolce più (espunto)
Ang Poveri affetti miei (espunto)
 (Bra Io son ne’ lacci tuoi, spostato in atto II)
Alc Non è felice un’alma (espunto)
(Rug Come l’onda, spostato in atto II)
Med Vorrebbe amando il cor (espunto)
Orl No no ti dico no
Alc Infelice, ove fuggo
Alc Anderò, chiamerò
Cor Con mirti e fiori (Nel libretto originale: Vien dal cielo in noi l’Amore)

13 aprile, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°22


                                           
Claus Peter Flor si fa russo per il concerto di questa settimana. Programma che percorre a ritroso la prima metà del ‘900, nel nome di tre dei principali compositori russi di quel periodo.

Si comincia da Shostakovich e dalla sua Ouverture festiva, composta nel 1947 in occasione dei 30 anni della Rivoluzione.


Il fatto che un brano come questo - abbastanza carico di facile retorica e di ingenuo entusiasmo - sia stato ideato da Shostakovich per iniziativa personale e non per compiacere all’establishment del PCUS (lo testimoniano la pubblicazione e la prima esecuzione, avvenute soltanto parecchi anni dopo la composizione) è l’ennesima prova della sincerità dei sentimenti rivoluzionari del compositore, a dispetto di tutte le angherie che aveva dovuto (e ancora avrebbe dovuto) sopportare da parte dei bidelli (nonchè aguzzini) di quello stesso establishment.   

L’Ouverture ha una struttura assai semplice, essendo in forma-sonata priva di sviluppo. Seguiamola per sommi capi in questa travolgente esecuzione di Temirkanov a Stoccolma nel 2009 (cerimonia del Nobel).

Introduzione (Allegretto 3/4 LA maggiore);

Esposizione (Presto, 4/4 alla breve).  
44” Primo tema in LA maggiore;   
1’59” Secondo tema nella dominante MI maggiore;   

Ricapitolazione
2’51” Primo tema in LA maggiore;  
3’45”  Secondo tema ripreso nella tonica LA maggiore;

Coda
4’45” (Poco meno mosso, 3/2, Tema dell’Introduzione);

Stretta finale
5’16” (Presto, 4/4 alla breve, Tema B accelerato).

Gagliarda l’esecuzione de laVerdi, che serve a riscaldare gli animi (ma anche i corpi) raffreddati da questo inverno... precoce.
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Ecco poi il giovane Luca Buratto cimentarsi per la terza volta con laVerdi, e dopo due Rach (2-3) interpretare il ben più ostico Secondo Concerto di Prokofiev, del quale è ancora vivo il ricordo dell’ultima esecuzione qui in Auditorium, dovuta a Valentina Lisitsa nel 2014.

Il 26enne milanese non tradisce le aspettative e strapazza come si deve (a... Prokofiev) il prezioso strumento, senza farsi intimidire dalla colossale cadenza che occupa buona parte del primo movimento, superata con fredda determinazione. Certo non è strano che il pubblico che udì per la prima volta quest’opera ne fosse rimasto in prevalenza orripilato... ma il tempo è galantuomo, se a più (o meno) di un secolo di distanza ancora il brano occupa le locandine dei concerti in tutto il mondo. Per contrappasso Luca ci offre un celestiale bis monteverdiano, apprezzato ed applaudito (anche dal suo maestro Davide Cabassi...)
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Ha chiuso la serata la celebre Suite dall’Uccello di Fuoco di Stravinski, uno dei tanti cavalli di battaglia dell’Orchestra. Che anche stavolta non si smentisce. Farei un unico appunto a Flor: aver fatto annegare il tema principale del Maestoso finale nell’incandescente ma indistinto magma orchestrale. Ma il pubblico ha apprezzato assai.

12 aprile, 2018

Un modesto Don Pasquale è tornato alla Scala


Ieri sera la Scala (innumerevoli i posti vuoti) ha ospitato la terza recita del nuovo Don Pasquale, allestito da Davide Livermore e diretto da Riccardo Chailly.

Per introdurre il mio telegrafico commento allo spettacolo mi faccio aiutare da Riccardo Muti, che - nei primi 4 minuti e mezzo di questa registrazione del 2017 -  inquadra l’opera nel contesto storico in cui venne composta e ne sintetizza le principali qualità: dramma buffo che si rifà a Mozart (e all’opera napoletana); opera che mirabilmente amalgama il comico al patetico (quindi buffa e non buffonesca). Tradotto in termini di approccio di Direttore e Regista, sarebbe a dire: leggerezza di concertazione e raffinatezza di ambientazione.

Ecco, poco di tutto ciò si riscontra in questa produzione, caratterizzata - sul piano musicale - da eccessi bandistici e sonorità grevi (si salva solo il terzo atto); su quello registico, da volgarotte goliardate da avanspettacolo anni-60.

Quando Chailly è già sul podio Alex Pereira si affaccia al proscenio, bucando il sipario: annuncia che non ci sono malati o defezioni... ma che l’Orchestra scaligera ha ricevuto a Londra il prestigioso award che la colloca sul piedistallo del mondo. Forse così si spiega l’eccessiva foga di strumentisti e direttore, che per i primi due atti hanno voluto far sentire solo il loro suono, coprendo regolarmente le voci. Persino Maestri si faticava a udire come si deve. Non parliamo di Rosa Feola che, se non è male sugli acuti, scompare nei centri e nei gravi. Pessimo l’inizio di Mattia Olivieri, intonazione periclitante e più rumori che suoni. Si salva per fortuna René Barbera, che almeno si riesce ad udire distintamente. E insieme a lui il coro, che nessun fracasso orchestrale sarebbe in grado di coprire.

Come detto, il terzo atto è stato abbastanza accettabile, anche perchè la partitura proibisce... escandescenze.
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Livermore si inventa per il protagonista il complesso materno, che ci viene esposto mentre l’Orchestra suona la Sinfonia: Pasquale, ormai vecchio decrepito, si può finalmente sposare solo perchè la madre-padrona-matusa s’è decisa una buona volta a togliere il disturbo... Poi il regista si appella al cinema italiano anni-60 (idea da lui già applicata altre volte, cito il Turco in Italia al ROF-2016) per ambientare colà il soggetto di Giovanni Ruffini.

Trattandosi di un dramma sì, ma buffo, è quasi impossibile stravolgerne il soggetto o farne una parodia, così ciò a cui assistiamo è una commedia agrodolce che si può anche digerire senza troppo sforzo. E il pubblico ha mostrato di gradire.
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Ma devo dire che la produzione dell’Accademia del 2012 mi aveva convinto di più, ecco.

09 aprile, 2018

Gioconda ha chiuso il tour a Reggio E.



Ieri pomeriggio al Valli di Reggio E. (piacevolmente affollato in ogni ordine di posti) si è chiuso il tour emiliano de La Gioconda, già transitata a marzo da Piacenza e Modena (teatri co-produttori dello spettacolo). Rendo subito merito alla provincia (emiliana, nella fattispecie) che ancora una volta mostra di saper proporre e allestire opere importanti e difficili come questa, raggiungendo allo stesso tempo risultati di tutto rispetto.

È noto che le difficoltà di allestire Gioconda risiedono principalmente nella necessità di mettere insieme un cast vocale di quantità (oltre che qualità) assai robusta: si tratta di sei protagonisti e deuteragonisti che coprono altrettante (quindi tutte le) diverse tessiture vocali. E il cast che ha sostenuto per intero la prova si è dimostrato mediamente all’altezza del compito.

A partire dal Barnaba di Sebastian Catana, davvero convincente sia sul piano vocale (ottima impostazione e timbro bronzeo) che su quello scenico, perfettamente calato nel truce personaggio.

Francesco Meli conferma le sue doti di fine lirico, sfoggiando difficili acuti a mezza voce e timbro cristallino. Il suo cielo&mar è stato lunghissimamente applaudito da un pubblico in delirio, che in pratica lo ha costretto ad un bis che taglierebbe la... gola a chiunque.

Bene la Cieca di Agostina Smimmero, voce corposa e passante, accompagnata ad un’efficace presenza scenica.

Giacomo Prestia è stato un Alvise corretto, ma i decibel cominciano a scarseggiare e - forse involontariamente - Callegari lo ha un paio di volte coperto con eccessivo volume dell’orchestra.
   
Note discrete, non di più, per le due donne principali: Saioa Hernández ha un vocione invidiabile, ma assai poco... disciplinato, dall’emissione periclitante e con acuti spesso tendenti alla vociferazione. Si è salvata con il... suicidio (!) che essendo l’aria più impegnativa dell’opera è stata probabilmente studiata e messa a punto meglio del resto. Anna Maria Chiuri ha mostrato discreta padronanza del ruolo di Laura, ma negli acuti ha manifestato analogie con la Gioconda: il loro duetto-scontro del second’atto è stato un po’ un festival dello schiamazzo, ecco...

Oneste le prestazioni dei comprimari Dellavalle, Donini, Izzo e Tansini. Un encomio al Coro piacentino di Corrado Casati e ai piccoli del Farnesiano guidati da Mario Pigazzini (tutti applauditissimi alla fine).

Ottime cose ha fatto il concertatore Daniele Callegari, che ha saputo estrarre e soprattutto valorizzare le tante raffinatezze dell’orchestrazione di Ponchielli, mantenendo (quasi) sempre un buon equilibrio nel sostegno delle voci. Onori ovviamente all’Orchestra ORER, sia come complesso che come singoli, spesso chiamati da Ponchielli a difficili passaggi solistici.

In definitiva, un bel successo sul piano musicale.
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Successo condiviso dall’equipe responsabile dell’allestimento. Federico Bertolani ha rispettato in pieno lo spirito ed anche la lettera del soggetto di Boito-Ponchielli, mettendo in risalto gli aspetti peculiari delle personalità dei diversi protagonisti del dramma. Una volta tanto è stata apprezzabile l’esecuzione del Preludio a sipario alzato: un tableau-vivant dove - sottolineati dai temi del Rosario e di Barnaba - il pubblico ha potuto far conoscenza con i principali protagonisti del dramma.

Il regista si è avvalso di scene (Andrea Belli) di assoluto ma essenziale ed efficace minimalismo: cielo e mar, verrebbe da dire, che sono onnipresenti nell’opera, e che si materializzano nell’acqua vera che allaga il palco (e riverbera le sue increspature fin sul soffitto del teatro...) e sul cielo dalle sfumature tenui, che fa da sfondo e si confonde con l’acqua, proprio come accade normalmente in laguna. Fa eccezione l’ambientazione del terzo atto, dove l’interno della Ca’ d’Oro è rappresentato come un enorme crogiolo tutto rosso porpora: il sangue che viene versato da ciò che si trama in quell’ambiente. Ambiente abitato invece - e qui siamo al nero più nero - da autentici pipistrelli (quali appaiono tutti i dignitari - e rispettive consorti - della Repubblica colà riuniti).

Efficaci e raffinati i costumi di  Valeria Donata Bettella, così come i giochi di luce di Fiammetta Baldisserri.

Gioconda è un grand-opéra infarcito di danze e balletti. La Compagnia Artemis Danza di Monica Casadei si fa carico di questa non marginale componente dello spettacolo, valorizzandola al meglio, pur con risorse ridottissime (6 danzatori per Le ore!)

In complesso: una prova encomiabile da parte di tutti, che il pubblico ha gratificato di lunghi e calorosi applausi. Viva la provincia!

07 aprile, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°21

                               
Il 30enne orsacchiotto uzbeko Aziz Shokhakimov onora finalmente la sua posizione di Direttore Principale Ospite de laVerdi tornando dopo 18 mesi sul podio dell’Auditorium per dirigervi un concerto dall’impaginazione ancora una volta piuttosto inconsueta. Dopo la respighiana Sinfonia Drammatica e la Prima di Kalinnikov, ascoltiamo un’altra quasi-primizia per l’Orchestra (che non la eseguiva da 20 anni): la Quarta Sinfonia di Carl August Nielsen.

Il quale, a dispetto delle reiterate dichiarazioni di voler comporre musica assoluta e non a programma, pose sottotitoli a 4 delle sue 6 sinfonie, etichette che sembrano rivaleggiare con quelle di Scriabin: i 4 temperamenti (no, non musicali, ma psicologici); sinfonia espansiva; l’inestinguibile; sinfonia semplice. Ed è appunto quella denominata Inestinguibile (per la quale è l’attributo di Sinfonia ad essere posto come sottotitolo!) che ascoltiamo questa settimana, composta nei primi anni della Grande Guerra. A fronte della quale l’Autore lasciò un programma (a proposito!) assai dettagliato, quanto ambiguo e contraddittorio, ma riassunto dal concetto: così come la vita, anche la musica è inestinguibile! (messa così, la definizione si attaglia al 99,9% di ogni composizione, almeno nelle intenzioni dei compositori...)

La partitura non indica alcuna suddivisione classica in movimenti, ma solo alcune notazioni agogiche (accompagnate da cambi di chiave) che possono interpretarsi come confini fra 4 pseudo-parti (ma per il resto, manca ogni soluzione di continuità): l’Allegro iniziale, poi il Poco allegretto, quindi il Poco adagio, quasi andante e infine l’Allegro che chiude il brano. La forma ha risvolti ciclici, poichè il tema principale (glorioso) che monopolizza l’Allegro iniziale torna a farsi udire nel finale: ma siamo più alla fantasia che alla sinfonia, a dir il vero. A proposito del citato tema principale, ne è già stata notata (Ludvig Dolleris, 1949) la stretta rassomiglianza con quello che evoca l’alba nella straussiana Alpensinfonie (composta subito prima del lavoro di Nielsen): l’andamento degradante e la tonalità di LA maggiore ne sono testimoni:


E in effetti, avesse Nielsen messo dei sottotitoli ad alcune sezioni della sua opera, l’avrebbe potuta tranquillamente far passare come una risposta alla gita in montagna di Strauss! 

L’orchestra è assai nutrita, ma vi mancano le percussioni a suono indeterminato; in compenso un secondo timpanista è prescritto per intervenire nel finale. Sì, poichè verso la conclusione della sinfonia esplode una vera e propria battaglia di timpani (artiglierie contrapposte nella Grande Guerra, a proposito di musica a programma...) che si chiude con i due esecutori impegnati (per terze!) in una folle salita cromatica (10 delle 12 note della scala) in glissando, il che richiede l’uso esperto dei piedi, oltre che delle braccia:


Altra curiosità riguarda l’impegno del Controfagotto (parlo dello strumento): in più di mezz’ora di musica, viene suonato (dallo strumentista del Fagotto III) per sole 18 battute, proprio all’inizio della citata battaglia di timpani, e per emettere una sola nota (SI).  

In definitiva, un lavoro che merita rispetto più che ammirazione, ecco. Shokhakimov ci ha sguazzato dentro, nulla lesinando delle brutalità sonore che lo costellano, e cercando poi di far emergere - nelle sezioni centrali - qualche squarcio lirico e contemplativo. E l’Orchestra ha dato il massimo per renderci digeribile il tutto. Un appunto che mi sento di fare riguarda la disposizione della coppia di timpani: Nielsen prescrive che i due esecutori siano dislocati ai lati opposti dell’orchestra, evidentemente per creare un effetto di contrapposizione-a-distanza fre due agenti... bellici. Invece le otto caldaie erano poste una adiacente all’altra, col che si è perso totalmente l’effetto-stereo, ottenendo per contro un sesquipedale fracasso indistinto e monocorde.
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Chiudono la serata i Quadri di Musorgski nella celebre strumentazione di Ravel. Quasi esattamente 6 anni orsono erano risuonati qui in Auditorium sotto la bacchetta di un (allora) giovane rampante: Jader Bignamini. Riapparsi nell’autunno 2013 con un altro giovane, D’Espinosa, tornano oggi con Shokhakimov, anche lui (ancora) giovane e a suo modo rampante:



Non so se si capisce, ma l’orso qui raffigurato brandisce la clava proprio come Aziz la bacchetta (!!!) A parte le battute (e poi il Direttore, per i Quadri, la bacchetta l’ha proprio abbandonata...) mi sento di riconoscere a Shokhakimov di essere assai cresciuto, rispetto alle precedenti apparizioni da queste parti: meno atteggiamenti gigioneschi e lodevole sobrietà di gesto e precisione di attacchi. Insomma, l’orso si sta addomesticando!

01 aprile, 2018

A Reggio E. arriva la Gioconda


Dopo il Trittico pucciniano, a fare il tour dell’Emilia tocca all’opera che ha reso famoso Amilcare Ponchielli. Dopo le rappresentazioni di metà e fine marzo a Piacenza e Modena questo nuovo allestimento approda a Reggio E. (venerdi 6 e domenica 8).

Tanto per inquadrare l’opera nello scenario storico (dal punto di vista musicale) basta ricordare che la prima (alla Scala, aprile 1876) anticipò di 4 mesi quella del wagneriano ciclo del Ring a Bayreuth. Verdi era fermo all’Aida (1871) e solo 5 anni più tardi si sarebbe rifatto vivo col Boccanegra rimesso a nuovo, nel libretto, da Arrigo Boito. E proprio costui - guarda caso - firmandosi per l’occasione Tobia Gorrio (ma anche Troia Brigo non sarebbe stato niente male, come pseudonimo...) scrisse il libretto di Gioconda ispirandosi a Victor Hugo, del dramma del quale (Angelo, tyran de Padoue) conservò le figure dei cinque personaggi principali, spostando peraltro l’azione dalla Padova del 1549 alla Venezia di un non meglio precisato anno del secolo XVII. Così Angelo divenne Alvise, Catarina si rinominò Laura, Tisbe Gioconda, Rodolfo Enzo e Homodei Barnaba.

Leggere le tre giornate del dramma di Hugo (La clef - Le crucifix - Le blanc pour le noir) è come scorrere un emozionante thriller, che non ti lascia un attimo di respiro, ambientato com’è nei più reconditi e labirintici recessi del palazzo del Podestà, con tanto di pareti che celano varchi di accesso e di misteriose chiavi che aprono porte proibite. Invece la trama di Boito (La bocca dei Leoni - Il rosario - Ca’ d’Oro - Il canal Orfano) si svolge prevalentemente in luoghi pubblici o aperti, e i colpi di scena sono - tutto sommato - più inverosimili che spaventevoli.

In effetti Boito mise in piedi una trama che definire contorta è ancora poco, tanti e tali sono gli aspetti privi di logica e i colpi di teatro di plausibilità assai discutibile di cui è costellata. Non che il dramma di Hugo mancasse di situazioni improbabili o di gratuite combinazioni, ma Boito in questo superò ampiamente il maestro. Del cui lavoro peraltro ignorò del tutto (e furbescamente) il taglio filosofico-politico(-femminista) per concentrarsi quasi esclusivamente su quello dei sentimenti (amore, odio, gelosia, libidine, invidia, frustrazione): ingredienti sicuramente più adatti a cucinare un bel melodrammone da grand-opéra. Nel lavoro di Hugo spiccano appunto due straordinarie esternazioni - femminismo in piena regola, valgono più di 100 comizi di una Bonino (con tutto il rispetto) - delle due donne protagoniste: la nobile, nata con la camicia ma privata degli elementari diritti reali (ad una vita affettiva liberamente vissuta); e la plebea, che ha dovuto scegliere tra la fame e l’orgia. Dapprima ecco Catarina che, nel tremendo scontro con il marito Angelo che ha deciso di giustiziarla sommariamente (sì, senza processo nè difesa) per il suo supposto (in realtà solo... platonico) adulterio, sciorina un’autentica requisitoria contro la barbarie, l’ipocrisia e la disumanità delle regole su cui si fonda la società del suo tempo. Poi tocca a Tisbe che denuncia a Rodolfo la misera condizione di una donna sfruttata, a cui viene negato il diritto di essere amata, restandole solo la sofferenza e il disprezzo della società. Ecco, due aspetti forti dei personaggi femminili che Boito ignora bellamente, presentandoci una Laura succube e remissiva, del tutto incapace anche di una timida reazione all’estremo sopruso del marito-padrone; e una Gioconda che accetta il suo ruolo subalterno nella società, senza mostrare alcuna presa di coscienza delle cause che lo determinano.

Particolare evidenza ha in Boito la figura dello spione Barnaba, chiaro prototipo di quello straordinario Jago che torreggerà 10 anni più tardi nella penultima fatica di Verdi. Lui è il personaggio che significativamente apre e chiude l’opera, dentro la quale la sua improbabile macchinazione, che coinvolge nientemeno i più alti gradi dell’autorità della Repubblica veneziana, ha un obiettivo tutto sommato limitato e... prosaico (insomma: il classico cannone per sparare ad una mosca): ingropparsi una buona volta l’avvenente cantatrice. E l’opera si chiude con il misero fallimento del suo disegno, mandato in fumo dal suicidio di Gioconda. In Hugo lo spregevole Homodei ha invece un movente assai più serio per le sue complicate macchinazioni: vendicarsi del rifiuto opposto alle sue attenzioni sentimentali da Catarina, che in gioventù gli aveva preferito Rodolfo, prima di essere costretta al matrimonio con Angelo. Liberarsi in un sol colpo della femmina ingrata e del suo amante e ferire l’immagine del Podestà: questo è rimasto l’unico scopo della sua vita. Il suo piano diabolico peraltro naufraga miseramente per opera di Tisbe e lui paga con la vita il prezzo della sua scelleratezza, costretto ad abbandonare la scena abbondantemente prima dell’epilogo, visto che Hugo lo fa ammazzare senza pietà da Rodolfo.  

Il quale, trasformato da Boito in Enzo, ci viene presentato come personaggio senza macchia - l’insincerità e l’ipocrisia del suo rapporto con Gioconda restano in secondo piano - e viene gratificato del consolante (e mica tanto meritato, ammettiamolo) lieto-fine: lui e Laura che... vissero felici e contenti, risparmiando a lui - con il provvidenzialmente tempestivo risveglio di lei - l’onta di ammazzare Gioconda (peraltro colpevole ai suoi occhi solo di... trafugamento di cadavere, nulla più) e il rimorso che ne deriverebbe e distruggerebbe la sua felicità nel ritrovare poi viva l’amata Laura. Cosa che viceversa succede al personaggio di Hugo (che chiude il suo dramma con tutt’altra autorevolezza, verrebbe da dire): prima che Catarina si risvegli, Tisbe viene uccisa da Rodolfo in quanto erroneamente ritenuta diretta corresponsabile, con Angelo, della morte dell’amata; e così i due amanti non potranno certo avere un futuro felice (ammesso di averne uno!)

Gioconda. Per Boito, come detto, è una povera cantante di strada che vive alla giornata senza porsi domande, portando il fardello della madre cieca e sopportando le molestie sessuali dell’infoiato spione Barnaba, senza avere al contempo alcun tipo di rapporto con Alvise. La Tisbe di Hugo è invece una donna le cui vicende ricordano un poco quelle di Marie Duplessis (la Marguerite Gautier di Dumas, poi Violetta verdiana): di umili origini, strappata - quando era una ragazzina mendicante - alla miseria e alla fame e trasformata in puttana-d’alto-bordo (appunto, vittima dell’alternativa fame-orgia) fino a divenire la favorita del Podestà Angelo. Homodei da parte sua non la degna della minima considerazione, pensando solo ad usarla come esca per intrappolare Catarina e Rodolfo. In comune, Gioconda e Tisbe hanno però (proprio come Marguerite/Violetta) il sincero amore per un uomo che in realtà (a differenza di Armand/Alfredo) le inganna, trattandole come semplici diversivi; amore che le spinge (al prezzo della vita!) a cercare altruisticamente di rendere felice l’amato con la donna rivale. Le loro fini sono, come si è visto, diverse, pur avendo molto in comune: Gioconda suicida per non sottomettersi alla libidine di un mostro; Tisbe uccisa dall’unico uomo che aveva disperatamente amato. C’è una differenza non da poco, invece, fra le donne di Boito e Hugo; quest’ultima manifesta anche aspramente (verso Catarina e Rodolfo) la sua gelosia, ma sempre in modo genuino e sincero. Scopriamo invece che Gioconda sa anche essere mentitrice: quando nel second’atto, per averlo tutto per sè, vuol convincere Enzo che Laura è fuggita per il rimorso, e che non lo ama più.    

Da ultimo: la Cieca. Nel dramma di Hugo la madre di Tisbe è morta da tempo (si scoprirà essere stata graziata anni addietro per intercessione di Catarina, da cui la riconoscenza di Tisbe per la moglie del Podestà). Boito invece ne fa un personaggio di primo piano, che condiziona continuamente i comportamenti della figlia (Barnaba cerca di sfruttare ai suoi fini quel forte legame affettivo) e Ponchielli la gratifica di musica di ottima fattura.
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A proposito di musica, si è soliti collocare il compositore cremonese a metà strada fra il romanticismo e il verismo: seguace convinto dell’estetica verdiana, sarà maestro (al Conservatorio di Milano) di Puccini e Mascagni! Quanto a Gioconda, è singolare il giudizio che ne diede Gustav Mahler: dieci anni dopo la prima dell’opera, quando era di stanza a Praga ma in procinto di trasferirsi a Lipsia, il 26enne direttore boemo non esitò a dichiarare (in una lettera al responsabile del suo prossimo impiego) che all’opera di Ponchielli andasse preferita la Dejanice di Catalani. E giammai alla povera Gioconda e al suo autore fu concesso il privilegio e l’onore di essere diretti dal più famoso Kapellmeister di quei tempi. (Nè Catalani ebbe peraltro miglior fortuna, se è per questo...)   

La contemporaneità con le innovative produzioni wagneriane si scorge nell’impiego (limitato ma significativo) di pochi temi ricorrenti: non hanno nulla di paragonabile alle fitte trame architettate dal genio di Lipsia, tuttavia servono assai bene a creare atmosfere e a collegare fra loro diversi momenti del dramma.

In ordine di apparizione, possiamo distinguere il tema del Rosario, esposto quasi subito nel Preludio, che risentiremo nella quinta Scena del primo Atto, dalla voce della Cieca che dona il suo strumento di preghiera a Laura, per ringraziarla della sua intercessione presso Alvise. Subito dopo è l’orchestra a riprenderlo in forma di postludio alla stessa scena. Nel secondo Atto, Scena 7 (quella del drammatico confronto fra Gioconda e Laura) il tema ricompare nei violini dopo che Gioconda ha scorto il rosario nelle mani di Laura, e così decide di salvarla, e subito dopo nei legni, seguendo Laura che si allontana. Ancora nell’Atto terzo, quinta Scena, il tema fa capolino nei legni mentre Gioconda (che ha appena sostituito il veleno con il sonnifero, salvando una seconda volta Laura) fugge disperata, con la consapevolezza di dover definitivamente rinunciare al suo Enzo. Infine ritroviamo il tema nella quinta Scena dell’Atto finale, allorquando Gioconda rivede il rosario al collo di Laura, e benedice lei ed Enzo che stanno per fuggire verso la felicità.

Ecco poi il tema di Barnaba, che insieme a quello del Rosario monopolizza il Preludio. Lo si ritroverà più volte ed esclusivamente in orchestra a sottolineare la presenza e la bieca personalità dello spione. Lo si ode nei celli già all’inizio della seconda Scena, poi lo si ascolta quando la spia incontra per la prima volta Gioconda e la madre, di cui chiude il duetto. Ancora fa capolino all’inizio della settima Scena, quando lo spione detterà a Isepo la lettera di denuncia della tresca Laura-Enzo. Lo ritroviamo poi in archi e fiati nell’ottava Scena dell’Atto secondo, quando Barnaba vede Laura fuggire dal brigantino e il suo piano andare in fumo. L’ultima comparsa del tema avviene nella Scena quinta dell’Atto conclusivo, allorquando Gioconda, salutati con lo strazio nel cuore Enzo e Laura, rammenta il patto con Barnaba, che sta in effetti sopraggiungendo.      

All’entrata di Gioconda e della madre (Scena 2) udiamo in bocca alla Cieca (poi alla figlia e ad entrambe) un motivo (L’amor filiale) che riappare proprio in chiusura dell’Atto primo, quando la Cieca e Gioconda se ne vanno, consolandosi a vicenda. Riudiamo il motivo nei clarinetti all’inizio del quarto Atto, allorquando Gioconda prega i compagni di tornare a Venezia in cerca della madre, di cui ha perso le tracce.

Il tema del Destino compare al termine del primo atto, poco prima di quello dell’Amor filiale, nel canto di Gioconda, schiantata dalla scoperta che Enzo ama un’altra; e nel postludio orchestrale, proprio a chiudere l’atto. Ricompare nella quinta Scena dell’Atto terzo, allorquando Gioconda esterna la sua disperazione, dopo aver compiuto il sacrificio di salvare ancora (col narcotico) la sua rivale per consegnarla all’uomo che lei ama e da cui non è riamata. Lo ascoltiamo, dal clarinetto, nel Preludio dell’Atto quarto, ad anticipare precisamente l’ineluttabilità del destino di Gioconda. Nella seconda Scena dello stesso Atto il tema torna nei legni a sottolineare lo strazio della protagonista, cui le luci e le feste di Venezia in lontananza risvegliano l’irresistibile attrazione per Enzo.


Altri rimandi tematici si ritrovano ovviamente all’interno di singole sezioni dell’opera, la cui struttura è ancora tradizionale, con i classici numeri ad intercalare le scene. Mirabile è l’equilibrio complessivo, ottenuto attraverso una sapiente alternanza fra scene corali - per lo più manifestazioni di allegria e di festa di popolo (siamo in uno dei periodi del Carnevale veneziano) - e i momenti topici del dramma. Parte rilevante hanno anche le coreografie: danze e balli che non sono limitati alla corposa e celeberrima Danza delle Ore che occupa la parte centrale dell’Atto terzo. 

I sei ruoli principali impegnano tutti i gradi della tessitura vocale: soprano (Gioconda); mezzo (Laura); alto (Cieca); tenore (Enzo); baritono (Barnaba) e basso (Alvise). Il coro è al completo, compreso quello di voci bianche. L’orchestra è quasi tardoromantica, con corpose percussioni e nutrita banda interna. Insomma, un dispiegamento di mezzi vocali e strumentali di prim’ordine, che rende sempre impegnativo l’allestimento dell’opera. Le quattro uscite già compiute (Piacenza e Modena) hanno avuto ottimi riscontri di pubblico e critica. Che non dovrebbero mancare alle recite di Reggio.