affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

26 ottobre, 2015

Wozzeck torna alla Scala: 2. Un campionario di forme


Sembra paradossale ma Berg, proprio mentre propugnava (con il maestro Schönberg e il collega Webern) un metodo compositivo che negava ogni diritto di cittadinanza alla tonalità e alle sue regole costituite e consolidatesi in secoli di progresso, decise per il suo Wozzeck di impiegare praticamente tutte le forme che la musica occidentale aveva fatto proprie nel corso di quegli stessi secoli, forme che in buona misura erano legate proprio all’esistenza di centri di gravitazione tonale (basti pensare alla forma-sonata e alle regole che ne definiscono i rapporti di tonalità); ne vedremo l’interminabile lista fra poco. Si noti di passaggio che un approccio analogo terrà Schönberg al momento di codificare il suo metodo dodecafonico, nel quale avranno un ruolo di spicco i trattamenti fiamminghi (la barbarie delle stranezze fiamminghe, come l’aveva definita la Camerata dei Bardi) delle serie musicali. Insomma, a quanto pare l’anarchia allo stato puro non esiste, in musica come in politica!

Interessante la risposta che Berg medesimo (nel suo scritto Il problema dell’Opera) fornisce alla domanda: perché non impiegare sempre il (wagneriano) Durchkomponieren (ossia il seguire la propria ispirazione senza farsi condizionare dalle forme) invece di imbottire la sua opera di Suite, Sinfonie, Passacaglie, Rondò e cose simili (spesso, fra l’altro, di ardua decifrazione anche a tavolino)? Bene, la risposta è di una disarmante ingenuità: perché senza la presenza di quelle forme la sua musica sarebbe apparsa monotona, fino ad annoiare l’ascoltatore!

Ora, le quindici scene rimaste in base a tale selezione e condensazione esigevano una configurazione molto varia, la sola che può garantire l'univocità e l'incisività musicali, e questo vietava la prassi consueta del «musicare da cima a fondo» [durchkomponieren], seguendo semplicemente il contenuto letterario. Una musica assoluta, per quanto ricca nella sua struttura, per quanto appropriata nell'illustrare la vicenda drammatica, non avrebbe potuto impedire che, dopo qualche scena musicata in questa maniera, si avvertisse un senso di monotonia musicale, un senso di sgradevolezza; la serie di una dozzina di interludi - formalmente destinati soltanto a realizzare le conseguenze di una tale scrittura musicalmente illustrativa - non avrebbe fatto altro che acuirlo, portandolo fino alla noia. E la noia è l'ultima cosa da ammettere in teatro!

Mah: chi ha detto che il Durchkomponieren debba per forza annoiare? (O è per caso l’atonalità che rischia di annoiare?) E chi o cosa impedirebbe al compositore di introdurre nel discorso musicale costruito con l’atonalità dei cambi di agogica, di dinamica, di ritmo, di timbro (invece che forme codificate) tali da scongiurare il pericolo di monotonia e conseguente noia? In fin dei conti il terzo atto dell’opera (salvo la prima scena) pur camuffato sotto forma di invenzioni, è praticamente Durchkomponieren, ergo dovrebbe annoiarci? Per di più: Berg fa ampio uso dei wagneriani Leit-Motive, che di per sé dovrebbero orientare l’ascoltatore (però siamo sempre lì: riconoscere al volo un motivo atonale è impresa quasi disperata!) E infine: come si spiega allora la sua convinzione che l’opera si debba e si possa apprezzare anche ignorando la presenza di quelle forme? Insomma, quanto c’è in Wozzeck di stucchevole, accademica quanto ininfluente sovrastruttura? 

In realtà è stato giustamente osservato come l’impiego di forme della tradizione può benissimo essere giustificato dal (mascherato?) intento politico di Berg: denunciare le differenze di classe della società dei suoi tempi e le ingiustizie che ne derivano. Non è un caso che le antiche (e antiquate?) forme musicali siano appiccicate ai rappresentanti dell’establishment retrivo, conservatore e sfruttatore (Hauptmann, Doktor e Tambourmajor) mentre ne è del tutto sprovvisto il proletariato povero e sfruttato (Wozzeck, Marie). La Suite che supporta le prediche del Capitano nella prima scena dell’opera sembra appropriata ad evocare – con i suoi diversi numeri del tutto scollegati fra loro – il contenuto strampalato e insensato, oltre che reazionario, di tali prediche. Wozzeck invece alla fine canta un’aria, forma tipica della musica popolare! Gli sproloqui del Dottore sono accompagnati dalla Passacaglia, che esplode in tutta la sua retorica nell’ultima variazione, sulla vanagloriosa prefigurazione dell’immortalità (o di un Premio Nobel?) ormai a portata di mano. Quanto al Militare, la forma del Rondo ben si attaglia ad evocarne l’attitudine alla disciplina e al comando. Insomma, è più che plausibile che il ricorso alle antiche forme abbia motivazioni molteplici e non soltanto… tecnico-musicali. Altra particolarità: lo Sprechgesang (cantare-parlando) è affibbiato ai poveracci, mentre gli sfruttatori (privilegiati!) cantano (o parlano normalmente) e basta.

Sappiamo anche che Berg era maniaco dei numeri e in Wozzeck ne abbiamo più di una testimonianza. A parte la simmetria della macro-struttura (3 atti di 5 scene ciascuno) è eclatante il caso della Passacaglia (scena IV dell’atto I) dove il numero 7 ritorna in modo a dir poco ossessivo: il tema e 14 delle sue 21 variazioni occupano ciascuno 7 battute; tre variazioni (7-10-12) sono in una sola battuta, ma suddivisa in 7 segmenti; 2 variazioni (18 e 21) occupano 14 battute; solo due variazioni (19 e 20) occupano rispettivamente 9 e 18 battute, quindi hanno a che fare con il 3 e non con il fatidico 7! Il quale 7 torna anche nel tema con 7 variazioni (quasi tutte di 7 battute…) della prima scena dell’atto terzo! Insomma, Berg sembra non aver lasciato nulla al caso, impiegando nella composizione di Wozzeck un alto livello di arte combinatoria. Resta da vedere quanto essa sia determinante, o invece ininfluente, come causa del gradimento dell’opera presso il pubblico.

La tabella che si può esplorare a questo link è derivata da molte dello stesso contenuto presenti in diverse esegesi (incluso il libretto del Teatro): ho semplicemente introdotto un livello di dettaglio molto più fine rispetto al normale (riferendomi prevalentemente alla struttura dell’opera come presentata nel testo di George Perle) tralasciando invece i riferimenti al soggetto. Una curiosità: in due sole occasioni, sempre nell’atto III, Berg impiega l’armatura di chiave, tipica della musica tonale: dapprima nella variazione 5 della prima scena (la parabola del piccolo orfanello, FA minore) e poi nella prima parte dell’interludio dopo la quarta scena (morte di Wozzeck, RE minore).

Qualche nota esplicativa sui contenuti della tabella.

Per la scena IV dell’atto I (Passacaglia) nella colonna componente sono indicati gli strumenti cui è affidata in prevalenza l’esposizione del tema di base nelle diverse variazioni. Analogamente, per le scene II, III e IV dell’atto III, la colonna componente reca i riferimenti agli strumenti cui è affidata in prevalenza l’esposizione dell’oggetto dell’invenzione (nota, ritmo e accordo, rispettivamente).

La colonna più a destra reca invece i riferimenti di minutaggio relativi alla pregevole edizione cinematografica dell’opera, datata 1970 e concertata da Bruno Maderna con la Philharmonische Staatsorkester Hamburg. Anche qui l’esame dei tempi ci porta a constatare come spesso e volentieri le forme impiegate da Berg facciano apparizioni fugaci se non addirittura fugacissime (pochi secondi di musica) il che spiega perché la loro presenza sfugga all’orecchio anche degli ascoltatori più attenti e preparati: soltanto la consultazione della partitura consente di individuarle e censirle.   

E a proposito di censimenti, vedremo nella puntata successiva a quali livelli di paranoica complicazione si sia arrivati.

(2. continua)

Atti di pirateria applauditi a Parma

 

La penultima delle 4 rappresentazioni del Corsaro al Regio parmigiano è stata accolta da applausi e bravi! da un pubblico che occupava sì e no il 60% dei posti del teatro. Forse mancavano proprio i leggendari loggionisti, chè altrimenti i buh si sarebbero sprecati (ciò è almeno quanto penso io della recita di ieri pomeriggio).

Quando si rappresenta un’opera dichiaratamente (da Verdi medesimo!) minore c’è un solo modo per renderla digeribile: eseguirla con il massimo livello di cura e qualità degli interpreti. Bene, qui è mancato tutto: la cura di chi ha allestito lo spettacolo – parlo della parte musicale – con leggerezza (lo testimoniamo i cambi di cast fino all’ultimo) e la qualità degli interpreti (nessuno che abbia, alle mie orecchie, meritato la sufficienza piena).

Peccato, poiché la parte non-musicale (quindi per definizione la meno importante) dello spettacolo ha mantenuto le promesse: si tratta infatti della riproposizione di un pregevole allestimento del compianto Lamberto Puggelli ripreso per l’occasione dalla moglie Grazia Pulvirenti, allestimento già proposto al Regio nel 2004 e poi a Busseto nel 2008.

Il protagonista (Corrado-il-corsaro) Diego Torre aveva già ciccato completamente la prima del 14, tanto da essere sostituito alla seconda del 20: anche ieri (ancora indisposto?) ha mostrato pesanti carenze nella vocalità, con acuti presi alla sperindio e fraseggio approssimativo.

Un filino meno-peggio il suo rivale (Seid-Pascià) Ivan Inverardi, che ha un vocione tanto potente quanto incontrollato, ricordando spesso schiamazzi e stonature da ubriaconi in osteria.

Le due rappresentanti del gentil sesso non alzano la media: la piagnucolosa Medora di Jessica Nuccio esibisce una vocina inconsistente che vira al cartavetro come si sale in alto; Silvia Della Benetta (reduce ripescata all’ultimo dall’edizione del 2008) fa appena-appena di più, ma meno di quanto si può apprezzare dal video di quell’edizione.

Luciano Leoni e Matteo Mezzaro (i tirapiedi dei due protagonisti) e Seung Hwa Paek (che si sdoppia in eunuco e schiavo, chissà quale dei due ruoli preferisce!) li mandiamo a casa con il minimo sindacale.

Il Coro di Martino Faggiani se non altro non fa danni e ciò rappresenta comunque un merito. La Toscanini risponde adeguatamente alle sollecitazioni di Francesco Ivan Ciampa: peccato che il Direttore, alla proverbiale vanga di Verdi, aggiunga di suo – ahilui - anche zappa, falce e forconi!

Morale: una domenica pomeriggio andata storta (e già era cominciata malissimo al mattino con la... pirlata del pirata Valentino!)

25 ottobre, 2015

Wozzeck torna alla Scala: 1. La rinuncia alla tonalità


Uno spiacevole contrattempo (la malattia della moglie che non ha permesso a György Kurtág di completare in tempo per il 2015 la sua Fin de partie – opera rischedulata a fine stagione 15-16) riporta alla Scala dal 29 ottobre il Wozzeck messo in scena da Jürgen Flimm, per la quarta volta in meno di 20 anni. La prima fu nella stagione 1996-7 (sul podio il compianto Sinopoli); poi venne Conlon (1999-0) indi Gatti (2007-8); oggi Metzmacher.
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Wozzeck è per antonomasia l’opera atonale: composta cioè prescindendo da tutta quella serie di regole (codificate e non-) oltre che di consuetudini, stereotipi, usanze, abitudini sulle quali si era appoggiata tutta la musica occidentale dal ‘500 in poi, passando attraverso una lunga serie di innovazioni culminate nell’esasperato cromatismo del wagneriano Tristan, che aveva portato la musica al limite di rottura delle regole consolidate. Dopo Wagner qualcuno aveva cercato di avanzare e progredire ulteriormente sul sentiero della tonalità (Mahler, Strauss); altri (Debussy) si erano indirizzati verso sistemi musicali alieni (scale esotiche); i giovani della seconda scuola di Vienna (Schönberg, Webern e Berg) avevano invece cominciato a contestare radicalmente la tonalità, col rifiutarne precisamente i fondamentali presupposti, primo fra i quali la necessaria presenza di un centro di gravitazione tonale in ciascun brano di musica.

Però l’assenza di qualunque regola è in po’ come l’anarchia: una bella utopia, in pratica… impraticabile. Se ne accorgerà lo stesso Schönberg (del quale proprio Mahler, pur appoggiandolo in quanto innovatore, affermava di non capire la musica) che in questa anarchia si impantanerà e, per uscirne vivo, dovrà inventare (o meglio: codificare cose inventate da altri…) un nuovo metodo compositivo, basato su regole ancor più ferree e cogenti di quelle della vecchia musica: e nascerà allora la dodecafonia, qualcosa di… talebano, ecco.

Ma Berg si interessò al soggetto del Wozzeck nel 1914, quando ancora la dodecafonia con le sue regole era ben di là da venire e così si trovò per primo a sperimentare la composizione atonale su un’opera di grandi dimensioni, mentre fino ad allora la nuova musica si era espressa quasi esclusivamente su oggetti assai limitati, per non dire a livello aforistico. E per non smarrire la rotta, avendo rinunciato alla bussola (la tonalità) decise di orientarsi con… le stelle: cioè ricorrendo all’impiego di tutte le forme musicali conosciute. (Le vedremo in dettaglio nella prossima puntata.)   

Che la musica atonale presentasse potenziali problemi di ricezione e fruizione da parte del vasto pubblico era Berg per primo a temerlo. Dico, opere come il Barbiere o Norma, o Nabucco o anche Lohengrin, pur essendo diversissime - e per certi aspetti rivoluzionarie nei contenuti musicali - da quelle di Paisiello, di Gluck, di Mozart, erano state accolte con entusiasmo da tutti. E Bellini mai dovette tenere conferenze per aiutare il pubblico ad apprezzare la sua Sonnambula! Lo stesso Tristan incontrò all’inizio più ostilità dagli addetti ai lavori che non dal pubblico. Ecco che invece Berg, ancora anni dopo la prima di Wozzeck, sentiva il bisogno di esibirsi in dotte concioni sulla sua opera, per spiegarne tutti gli intimi segreti. Dopodichè – ma guarda un po’… - chiedeva al pubblico di scordare tutto ciò che lui aveva raccontato e di approcciare Wozzeck come si approccia Norma! Si legga al proposito l’ultimo paragrafo del testo di una di tali conferenze (dove c’era tanto di orchestra e cantanti a supportare Berg nella proposizione di esempi concreti) tenuta nel 1929.      

Ma allora: si può apprezzare Wozzeck anche senza conoscerne l’intima struttura? Semplicemente lasciandosi coinvolgere e trascinare da questa musica (così diversa da quella di quasi tutte le altre opere) che evoca passioni, sentimenti, gioie (pochissime) e dolori (soverchianti)? Mah, va riconosciuto che le prime rappresentazioni tedesche ebbero un’accoglienza tipo-Tristan: pubblico tutto sommato plaudente (addirittura Berg ne rimase stupefatto!) e critica a dir poco ostile. Le uniche disapprovazioni a scena aperta si ebbero a Praga, pochi mesi dopo la prima di Berlino del 1925 e molti anni dopo (1952) alla Scala, dove il venerabile Mitropoulos venne rumorosamente interrotto da un pubblico esasperato. In compenso l’opera era già stata rappresentata (in italiano, come alla Scala) con Serafin e Gobbi ben 10 anni prima e con buon successo a Roma, sotto il fascismo, in piena guerra e in barba alla scomunica nazista che l’aveva colpita in quanto musica degenerata.  

Musica che, proprio per la sua congenita struttura (di ostica afferrabilità per le nostre orecchie, inutile negarlo!) pare più adatta ad evocare soggetti cupi o truci, situazioni di squilibrio sociale e psichico, incubi ed allucinazioni, sopraffazioni e delitti (insomma tutti i principali ingredienti di Wozzeck) piuttosto che scenari di normalità (sia pure drammatici, se non proprio idilliaci). Domanda: come mai con il metodo atonale in più di un secolo non è stata composta una sola commedia brillante, un dramma giocoso, e men che meno una farsa? E perché anche in Wozzeck i pochissimi squarci di sereno (o di pietà) in mezzo a tante tempeste sono evocati con il ricorso alla vecchia e cara tonalità ?!

Forse chi teorizzava che dissonanze e tritoni fossero errori e rappresentassero lo scardinamento delle regole costituite non aveva tutti i torti, se la musica che fa delle dissonanze e dei tritoni la regola e non l’eccezione è stata impiegata per lo più a rappresentare fenomeni di sfascio sociale o psicologico. O magari… stonature, come si evince da questo esempio preso dalla seconda scena del primo atto, dove Andres canta un’allegra canzoncina che dopo due incisi (dominante-tonica, MIb-Lab) della tromba - e su un tappeto del flauto (REb-MIb) in quella stessa tonalità - attacca calando su un SOL maggiore per poi sconfinare in un orrendo tritono (LA-RE#)!


Ok, abbiamo capito che Andres ha qualche problema di intonazione, poveretto (ma non datene la colpa al tenore!) Sì, perché la stagione in cui nascevano, rustici ma intonatissimi, i Nemorini era irrimediabilmente finita!

(1. continua)

24 ottobre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 56


Dopo Campogrande, che ha parodiato l’inno turco con la marcia turca di Mozart, il 56° concerto de laVERDI, sotto la bacchetta del Direttore Principale Ospite è dedicato al grande Lenny Bernstein.

Del quale viene dapprima eseguita la Suite dalle musiche del famoso e pluri-oscar-premiato film di Elia Kazan Il fronte del porto (1954) che ci fece conoscere il leggendario Marlon Brando (e non solo lui). Era il Bernstein ormai entrato nella maturità, ed infatti tre anni dopo ebbe la consacrazione con West Side Story.

Qui Axelrod in una registrazione del 2009 con l’Orchestra Nazionale della Rai. Di fronte alla quale non sfigura certo la nostra compagine, guidata ieri sera dal Konzertmeister Dellingshausen.

Dopo l’intervallo ecco la monumentale Terza Sinfonia, Kaddish (Preghiera). Che ha avuto una storia complicata: composta nel 1963 con testi dello stesso Bernstein ed eseguita con la Israel Philharmonic, era caduta nel dimenticatoio, essendone lo stesso Autore insoddisfatto. L’incontro di Bernstein con Samuel Pisar, scampato ad Auschwitz e poi a… Stalin e divenuto consigliere di John F. Kennedy, diede a Lenny, molti anni dopo (1990) l’idea di far scrivere un nuovo testo ad un superstite dell’Olocausto, che aveva vissuto sulla propria pelle le tragedie che avevano insanguinato l’Europa. Cosa che avvenne dopo la morte di Bernstein. 

Così, dal 2003 viene eseguita la Kaddish con il nuovo testo di Pisar: eccone una registrazione fatta nel 2009 a Gerusalemme – in occasione di una celebrazione in ricordo dell’Olocausto, preceduta dall’Inno nazionale Hatikva e da un indirizzo del Presidente Shimon Peres - con lo stesso Pisar in veste di recitante e proprio John Axelrod (pupillo di Bernstein) sul podio.

Purtroppo Pisar è scomparso pochi mesi fa e così il testimone è stato preso dalla moglie Judith e dalla figlia Leah: sono state loro a recitare i versi di Samuel in Auditorium, per la prima esecuzione italiana. Con loro il soprano Kelley Nassief e i cori de laVERDI guidati da Erina Gambarini e Maria Teresa Tramontin.

Il lavoro, che dura circa 50 minuti, ha una struttura in 4 movimenti (da qui il nome di Sinfonia) dove orchestra e cori e poi il soprano intonano 3 preghiere, più una specie di conclusivo Magnificat, in risposta alle voci recitanti, che declamano il testo di Pisar che ricorda le sofferenze patite dal popolo ebraico e con lui dall’intera umanità a causa delle atrocità di ogni colore. Un testo che invita anche alla vigilanza, poichè purtroppo la cronaca di questi anni ci dice che simili atrocità rischiano di tornare a ripetersi.

Un’opera quindi dal forte impatto emotivo, che tutti i protagonisti hanno saputo trasmettere in modo adeguato, meritandosi un autentico trionfo. È un'altra perla che si va ad aggiungere al già nutrito carnet de laVERDI.

19 ottobre, 2015

Aida riesumata al… museo egizio

 

Il Regio torinese ha inaugurato la stagione 15-16 con Aida, di cui ieri pomeriggio (a teatro pieno come un uovo) è andata in scena la quinta delle ben 10 rappresentazioni in programma. Come recita la locandina, questo allestimento è idealmente apparentato con la riapertura, avvenuta a fine dello scorso marzo, del Museo Egizio.

Beh, a proposito di musei restaurati, lo è anche l’allestimento di William Friedkin (che conta ormai 10 anni di vita): perchè è proprio di quelli che gli amanti delle regìe intelligenti liquiderebbero con l’epiteto da museo. Quindi, per noi poveri pirla ma amanti dei musei, va a meraviglia! Perchè credo che pochi giudizi siano più azzeccati di questo, che il pluri-oscar-premiato regista americano dà in risposta ad una domanda di Guido Andruetto sul programma di sala, intervista riportata anche da Sistema Musica: “…diversamente da quanto avviene nel cinema, dove il ruolo del regista è sicuramente il più importante, in una produzione operistica la situazione cambia e, seguendo una scala gerarchica, viene prima il compositore, poi il direttore d’orchestra, il maestro del coro, il cast, e infine il regista, lo scenografo, il costumista, il coreografo, il direttore delle luci…” Imprimatur!

Sappiamo che Aida è opera bifronte, o bitematica, quanto a caratteristiche del soggetto: il quale ha un fondo squisitamente introspettivo (aperto e chiuso dal sommesso preludio e dall’accorata preghiera finale) rappresentato dalle pulsioni degli animi dei tre protagonisti, dilaniati da sentimenti opposti e inconciliabili. (Questa ideale congiunzione alfa-omega viene realizzata dal regista mostrandoci, ancora nel Preludio, i due protagonisti uniti, come saranno nella scena conclusiva.) Sul quale sfondo – principalmente nei primi due atti - si innestano e si stagliano, a mo’ di eruzioni vulcaniche, le retoriche manifestazioni politiche, i cori, le danze e le marce trionfali.

Ciò che purtroppo nessuna coppia regista-concertatore riesce a rendere compiutamente è la scena finale dell’atto II, che storicamente ha trasformato Aida in un gran circo equestre (o elefantino). La colpa è di Verdi-Ghislanzoni, ahiloro, che hanno preteso un po’ troppo dal pubblico: distinguere non una, e neanche due o tre, ma ben 7 (in lettere: sette!) diverse manifestazioni di stati d’animo che vi albergano. Cioè quelli delle tre componenti del coro medesimo: sacerdoti (preoccupazione per le sorti dell'Egitto); popolo (giubilo per la vittoria); prigionieri (rispetto per la magnanimità del nemico che ha restituito la libertà). Più quelle dei quattro protagonisti: di Amonasro che già medita la sua vendetta; e dei tre personaggi principali, ciascuno dei quali vive quel momento in modi del tutto diversi: Aida letteralmente disperata, Amneris al settimo cielo e Radamès che si rende conto del vicolo cieco in cui si è cacciato. Qui per fortuna non ci sono quadrupedi, ma resta pur sempre il gran bailamme di voci e strumenti che ti lascia esclusivamente la sensazione del kolossal, e poco altro.
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Un paio d’anni fa Gianandrea Noseda aveva avuto una delle sue (poche) disavventure professionali (leggi: aperte contestazioni) proprio in un’Aida (zeffirelliana) alla Scala. Ero quindi assai curioso di riascoltarlo in quest’opera alla guida dei suoi ragazzi e la registrazione della prima, andata in onda sabato sera su Radio3 (a proposito, dal 24 c.m. e per sei mesi il video sarà disponibile in rete sulla nuova piattaforma europea) mi aveva un filino confortato. Ma bisogna sempre diffidare delle riproduzioni meccaniche, e infatti devo dire che l’ascolto dal vivo non ha definitivamente cancellato quella macchia: direzione e concertazione apprezzabili, sia ben chiaro, ma qualche eccesso di foga è emerso ancora, e non solo nel famigerato finale secondo, ma ad esempio sul culmine del duetto Amonasro-Aida, con le voci pur possenti dei due totalmente coperte dal clangore orchestrale.

Encomiabile la prestazione del coro di Claudio Fenoglio, in tutte le diverse componenti umane e psicologiche che è chiamato ad impersonare.

Reduce dell’Aida scaligera sopra menzionata è Kristin Lewis: non mi era dispiaciuta allora e confermo il giudizio; qui poi è stata accolta da un gran successo, che si merita se non altro per aver migliorato parecchio, in pochi mesi, la sua pronuncia della nostra lingua!

Con lei (altra reduce) Anita Rachvelishvili, della quale non si scopre oggi la dotazione naturale, ma fa piacere avere conferma della sua maturazione artistica, cioè la capacità di espressione delle varietà e sfumature di sentimenti che caratterizzano l’enigmatico personaggio di Amneris. Per lei, un trionfo meritato.

Radames è Marco Berti, non nuovo nella parte, che in passato mi aveva fatto una discreta impressione: personalmente tenderei a confermarla (certo, lui canta tutto forte e le sfumature di espressione gli sono estranee) però i buh insistiti che (unico del cast) ha dovuto incassare alla fine mi son parsi francamente troppo punitivi.  

Un ottimo voto lo darei a Giacomo Prestia, che ha il ruolo di Ramfis ai primi posti del suo curriculum, e direi che si è confermato con una prestazione encomiabile, davvero autorevole (lui è il Richelieu di tutta la vicenda) come il ruolo richiede! Il Re era l’orientale In-Sung Sim, che dovrà migliorare parecchio per raggiungere livelli accettabili. Chi mi ha sorprendentemente deluso è Mark Steven Doss, di cui avevo un ottimo ricordo in diversi ruoli e che invece mi è parso un Amonasro perennemente impiccato e a disagio… peccato. Dino Prola (Messaggero) e Kate Fruchtermann (sacerdotessa) su standard dignitosi.

Comunque sia è stato per me un pomeriggio più che soddisfacente!

17 ottobre, 2015

Il Falstaff di Carsen-Gatti alla Scala


A quasi tre anni di distanza torna alla Scala il Falstaff inscenato da Robert Carsen: ieri sera è andata in onda la seconda rappresentazione, in un Piermarini per la verità lontanissimo dal tutto esaurito.

Sull’impostazione registica di Carsen avevo già espresso più di un dubbio (insieme a doverosi apprezzamenti) ai tempi, e questa ripresa non poteva certo cambiare le carte in tavola: spettacolo godibile, a dispetto delle gratuite ma tutto sommato innocue idee del regista.

Sul fronte dei suoni, la bacchetta è passata dalla mano di Daniel Harding (che aveva ben meritato allora, qui l’audio) a quella di Daniele Gatti: il quale si trova evidentemente a suo agio con questo Verdi che, proprio mentre fa una specie di summa di tutta la musica dal barocco ai suoi tempi, sembra guardare verso il novecento, di cui il maestro milanese è indiscusso epigono. Così ne risulta una lettura molto analitica, rigorosa al limite della freddezza, spigolosa quanto mai, ma di grande impatto. L’Orchestra, disposta da Gatti in modo inusuale (legni e corni all’estrema sinistra) risponde bene in tutte le sezioni al gesto secco e preciso del Direttore.

Del (primo) cast del 2013 sono sopravvissuti 4 dei 10 personaggi: il Ford di Massimo Cavalletti, che in questo frattempo mi è sembrato… cresciuto, insomma una prestazione più che discreta. Poi encomiabile anche Carlo Bosi, un Dr.Cajus ancora molto efficace. Note meno liete dal Fenton di Francesco Demuro, che in questi due anni non mi pare abbia affinato le sue qualità. Idem dicasi per Laura Polverelli (Meg Page) che fatica a farsi udire nei larghi spazi del Piermarini.

I nuovi erano capitanati da Nicola Alaimo, lungamente acclamato alla fine, che direi essersi meritato ampiamente il successo, esibendo gran voce (qualche schiamazzo lo si perdona a tutti) unita ad efficacia interpretativa.       

Personalmente deluso da Eva Mei (Alice): acuti quasi sempre urlati e centri-bassi inudibili. Decisamente meglio la Nannetta di Eva Liebau, e ancor più la Quickly di Marie-Nicole Lemieux, che non ha fatto rimpiangere la Barcellona di allora.

Senza infamia e senza voto i due buzzurri Bardolfo e Pistola (al secolo Patrizio Saudelli e Giovanni Parodi).

Alla sua altezza il coro di Casoni (solo la fuga conclusiva gli vale l’ottimo). Successo calorosissimo e ripetute chiamate ed applausi per tutti indistintamente, con punte per Alaimo e la Lemieux.

16 ottobre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 55


Eiji Oue fa il suo ritorno in Auditorium dopo quasi due anni (da un’ignominiosa Sesta di Mahler!) per dirigere Mozart e Shostakovich (più il prezzemolo Campogrande, stavolta austriaco).

Oue inizia proprio da spavento, dimenandosi sul podio con gesti da… pavone, o da clown, fate voi: Campogrande e Mozart ne sono vittime; poi per fortuna si placa e in Shostakovich ridiventa un direttore quasi normale.

Torna anche una vecchia conoscenza de laVERDI, Natasha Korsakova, che stavolta ci offre il Terzo Concerto del Teofilo. Denominato Straßburg, dal tema dell’Allegretto che compare nel Rondeau finale, che riproduce quasi alla lettera quello di una danza molto popolare a Vienna, si dice opera di tale Georg von Reutter, Maestro di Cappella di Corte ed infatti chiamata La Strasbourgeoise de Reuter.

La bellissima Natasha – in un lungo immacolato, come già nell’ultima sua apparizione qui nel 2013, si lancia nel veemente Allegro iniziale con grande foga, sciorinando una bellissima cadenza; per poi placarsi nel cullante Adagio (del cui incipit si ricorderà Ciajkovski, grande ammiratore di Mozart, nella chiusa dell’Andante della sua Quinta). Poi affronta con delicatezza e sobrietà il Rondeau, che si chiude proprio alla chetichella… 
                                                                               
Successo pieno ricambiato con due celeberrimi bis bachiani: la ciaccona in RE minore (debitamente accorciata, per non far notte) e la giga in MI maggiore.
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Eccoci quindi alla sterminata Leningrado di Shostakovich, udita qui quasi 3 anni fa con Caetani.

Sinfonia a programma, verrebbe da definirla, o meglio: una sinfonia nella quale fa irruzione la guerra. Che si materializza col sostituire al canonico sviluppo dei due gruppi tematici dell’Allegretto iniziale quel gigantesco quanto volgare episodio di marcia, un tema (mutuato da Lehàr, di cui Bartók si fece beffe nel suo Concerto per orchestra) reiterato in non meno di 11 varianti e chiuso da una colossale coda. Ma in un certo senso è comprensibile che anche un’austera Sinfonia debba prendere atto che… la guerra non è un pranzo di gala!   

Oue non si smentisce e stiracchia i tempi a suo piacimento, però la cosa passa quasi inosservata, al cospetto della sontuosa prestazione dei ragazzi, che in questo repertorio hanno pochi rivali. E allora un Auditorium piacevolmente affollato si spella le mani per i suoi beniamini, così anche il giallo ne approfitta per godersi gli applausi, convinto di averli meritati (stra-smile!)

10 ottobre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 54


Stanislav Kochanovsky arriva sul podio de laVERDI per un appuntamento tutto russo (sempre Campogrande a parte, che stavolta se la prende con i crucchi). Auditorium abbastanza affollato, dopo un paio di turni fiacchi.     

L’abusivamente cosiddetta Polacca di Ciajkovski, classica sinfonia da chiusura di concerto, stavolta è incaricata invece di aprirne la parte canonica, tornando qui in Auditorium dopo quattro anni (allora sotto la bacchetta di Xian).

Il giovane Kochanovsky mostra di possedere già una notevole sicurezza e padronanza dei propri mezzi, dirigendo con gesto sobrio ma preciso ed efficace. La sua lettura della sinfonia è proprio nel segno della tradizione russa, senza facili forzature, specie nei movimenti esterni, dove il pericolo di cadere in eccessiva enfasi è sempre presente.
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Dopo l’intervallo la bella 30enne nizzarda Solenne Païdassi si cimenta con Stravinski e il suo Concerto in RE del 1931. Che è in realtà quasi una sinfonia concertante del violino con gli altri strumenti dell'orchestra.

Il solista è subito impegnato, nell’iniziale Toccata, da un problematico accordo di 11ma (MI-LA) sul RE basso:

Pare che Samuel Dushkin, che aiutò Stravinsky a districarsi con la parte di violino e fu il primo interprete del concerto, avesse in un primo tempo considerato ineseguibile quell’accordo, che Stravinski gli aveva proposto scrivendolo su un pezzo di carta fra una portata e l’altra in un ristorante di Parigi. Tornato a casa, il celebre violinista si rese conto che la cosa era non solo fattibile, ma addirittura quasi facile, e così quell’accordo verrà poi ripetuto all'inizio di tutti i movimenti!

Seguono ben due Arie: la prima più mossa, con frequenti contrappunti in pizzicato degli archi bassi. La seconda più elegiaca, con sommesso accompagnamento quasi esclusivamente limitato ai soli archi e con il motto dell'accordo iniziale che torna un paio di volte a separare le sezioni del brano. Nel Capriccio finale, dopo corno e fagotto, il nostro fa intervenire - a duettare con il solista - anche la spalla dell’Orchestra (nella fattispecie: Luca Santaniello) proprio come nel Concerto per due violini del sommo Johann Sebastian. Insomma, si sarà capito che lo Stravinski del 1930 si era assai… imborghesito, rispetto a quello di 20 anni prima (il Sacre, avete presente?)

La Solenne (ma guarda che razza di nome si deve ritrovare una ragazza all’acqua-e-sapone, nemmeno facesse Messa di cognome, strasmile!) dimostra tutta la sua classe, con un’esecuzione tecnicamente impeccabile di questo ostico brano, accolta da convinti applausi, che lei ricambia con una delle mille varianti del Dies Irae!
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Chiude la serata Scriabin con la sua Estasi (una spuria Sinfonia, che sarebbe poi la sua quarta, ma meglio forse chiamarla Poema sinfonico) venuta alla luce fra il 1905 e il 1908.

Quando venne eseguito il Poema dell’estasi Scriabin era il solo a credere che dovesse accadere qualcosa di straordinario. Solo lui si aspettava che dopo l’esecuzione tutto il pubblico morisse… di estasi. Ma poi siamo andati, lui compreso, al ristorante a cenare con altrettanto piacere che appetito (…) Insomma, la fine del concerto aveva dato l’impressione di un soufflé che si ammoscia.

Questo racconto di un amico del compositore spiega più di tante analisi il velleitarismo da cui era affetto Scriabin, che (peccato!) morì prima di aver potuto completare un’opera che avrebbe davvero fatto storia: poiché avrebbe dovuto semplicemente provocare la fine del mondo!

Ma intanto, di quale estasi si tratta veramente? La musica fu composta da Scriabin come una specie di colonna sonora di un poema (di 369 versi) da lui stesso vergato, il cui titolo originale (che avrebbe dovuto essere anche quello del brano musicale) era Poème Orgiaque! Insomma, ci sarà pure del misticismo, ma qui pare più che altro esserci del sesso bello e buono… Come del resto ci confermano le bizzarre indicazioni agogiche in partitura, che non sai mai se interpretare come lo stato d’animo che deve assumere l’esecutore, o come l’effetto che dovrebbe avere la musica sull’ascoltatore. Allora, a 4 prima del N°7: très parfumé (ecco, sappiamo che Scriabin vaneggiava di musica non solo colorata, ma anche profumata!) Subito dopo il N°7, ancora: avec une ivresse toujours croissante… E al N°8: prèsque en delire. Al N°15: avec une noble et joyeuse émotion. Al N°31: charmé. Il culmine del piacere post-orgasmo si raggiunge al N°34 della partitura, dove troviamo un’illuminante: avec une volupté de plus en plus extatique.

Non è quindi un caso se, insieme ad apprezzamenti sinceri, il brano abbia raccolto nel suo secolo abbondante di vita anche sferzanti sfottò e feroci sarcasmi! Ma cerchiamo di decifrarne almeno sommariamente struttura e contenuti seguendone un’esecuzione che ha fatto storia: Svetlanov con l’Orchestra dell’URSS.
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Si parte con un un’Introduzione in Andante languido, dove su un pedale di violini secondi, viole e fiati (un accordo a toni interi REb-MIb-FA-SOL che anticipa in qualche modo il famoso accordo mistico del successivo Prometeus) e con interventi dell’arpa, entrano tre strumenti che saranno poi protagonisti: dapprima (14”) il flauto, poi il violino solo (24”) che ne mima la tenue melodia e infine, supportata dai corni (45”) la prima tromba, che si presenta con un motivo che anticipa le velleità che ascolteremo più avanti.

Quella che possiamo chiamare Esposizione inizia (1’02”, Lento - Soavemente) con una melodia del clarinetto cui si aggiungono poi gli altri strumenti: è un passaggio sonnolento che culmina improvvisamente (2’04”) sull’Allegro volando, attaccato dal flauto cui rispondono i primi violini con quartine di semicrome. L’episodio si sviluppa fino ad un molto accelerando cui segue bruscamente (2’30”) un nuovo Lento, dove tocca al violino solo esporre una nuova melodia ripresa poi (3’09”, molto languido) dai flauti.

A 3’30” ecco una nuova sezione dell’esposizione, in Allegro non troppo, aperta da una fanfara di corni che introduce (3’31”) la tromba solista: la quale si presenta con un motivo che risentiremo nel seguito, una specie di promessa/minaccia di sfracelli. Ed infatti subito dopo (3’42”, avec un noble et douce majesté) la prima tromba viene affiancata dalla seconda per esporre quello che diventerà l’ossessivo tema principale dell’opera, che ci martellerà impietosamente i timpani fino alla fine.

Il quale si esaurisce per ora (3’58”, Moderato avec delice) su un’entrata dei violini che propongono un nuovo motivo ammiccante che, dopo un tristaniano intervento (4’20”) del corno, lascia spazio (4’31”) ad un breve crescendo dell’orchestra. Ancora il violino solo (4’50”) apre un nuovo episodio sognante, nel quale si inserisce (5’08”) il corno seguito dai flauti, che poco dopo (5’32”) sono chiamati ad emettere suoni, ehm… odorosi (très parfumé). Il climax sale ancora e si trasforma in vera e propria ubriacatura (5’44”, avec une ivresse toujours croissante) protagonista ancora il violino solo, poi l’intera orchestra che arriva (5’59”, presque en delire) vicina all’orgasmo, con (6’11”) tre eloquenti… barriti dei corni (!)

In Allegro (6’33”) torna quindi la tromba a perorare il suo tema eroico, che si sviluppa ora con un crescendo di atmosfere davvero… degno di miglior causa: passiamo (6’46”) ad Allegro drammatico, poi (7’15”) a tragico, dove il tema eroico si trasferisce trucemente, e barbaramente smontato, ai tromboni e alla tuba, finchè (7’34”, tempestoso) ricompare la fanfara dei corni seguita dal secondo motivo della tromba (li avevamo già incontrati nell’Allegro non troppo). Qui ha inizio un’autentica orgia sonora, con esplosioni in fortissimo dell’orchestra, poi ecco ancora (8’36”, avec une noble e joyeuse émotion) il tema eroico nelle trombe, che si sviluppa accompagnato da nuove esplosioni generali, finchè (9’38”) dei trilli di flauti e ottavino accompagnati dagli altri legni non portano ad una progressiva rarefazione dell’atmosfera, dove (9’51”) le trombe ripropongono il motivo esposto nell’Introduzione.

Qui (10’10”, Lento) si può collocare l’inizio della Ripresa, con il clarinetto che espone la sua melopea, seguito dall’intera orchestra (con interventi del violino solo) che conduce alla sezione in Allegro volando (11’28”) con gli svolazzi di flauti e violini e un breve crescendo generale, che si interrompe bruscamente per fare spazio (11’55”, Lento) al flauto che ripropone il motivo presentato nell’Esposizione dal violino solo; motivo ripreso poi (12’15”) dall’oboe, con l’orchestra che porta (12’52”) ad un molto accelerando nel quale la prima tromba ripropone dapprima (13’00”) il suo motivo dell’Allegro non troppo e subito dopo (13’10”) il tema eroico. Ancora una rarefazione, peraltro su ritmi concitati, dell’atmosfera ci porta (13’37”, molto più lento) ad una transizione in cui spiccano fanfare delle trombe che portano verso la sezione conclusiva dell’opera (14’02”, Allegro).

Sezione che inizia con un ritorno della sequenza (fanfara di corni e tromba solista) udita nell’Introduzione, che però adesso si sviluppa in modo abnorme, in particolare con l’intervento in contrappunto di tutti gli ottoni, fino a sfociare (14’43”) nel ritorno del tema eroico nella tromba. Ancora una pausa (14’56”, Charmè) ci porta con una progressione dei corni verso la definitiva perorazione del tema eroico (15’35”) nelle due trombe, che dopo un passaggio scherzando si chiude (15’57”, avec une volupté de plus en plus extatique) con una sognante sezione che prepara (16’52”) l’Allegro molto. Leggierissimo. Volando, che ora assume piglio e velocità ancor maggiori di quelle delle sue due precedenti apparizioni. A 17’06” la tromba solista ripropone il tema dell’Allegro non troppo e da qui inizia la finale perorazione con un colossale Maestoso (17’27”) dove il tema eroico è esposto con magniloquenza pari alla retorica dai corni. Un’ultima, lunghissima presa di respiro (18’41”) conduce alla conclusione su un emblematico accordo generale di DO maggiore.
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Che dire? Che questa mappazza il suo bell’effetto – estasi esclusa - lo fa sempre, soprattutto se a suonarla sono ragazzi affiatati e preparati come quelli de laVERDI, cui si è aggiunta per l’occasione la magica tromba di Giuliano Sommerhalder, che Kochanovsky ha chiamato non una, né due, ma ben tre volte alla singola!

05 ottobre, 2015

A Parma un Otello un po’… basso

 

Il FestivalVerdi2015 mette in scena in questi giorni un capolavoro assoluto del Maestro di Roncole: ieri sera seconda delle quattro rappresentazioni, in un Regio abbastanza affollato e… ben disposto.

La produzione ha avuto qualche vicissitudine non proprio tranquilla, con defezioni e cambi nel cast fino all’ultimo. E proprio il protagonista (delle prime due recite) Rudy Park è arrivato quasi all’ultimo momento e gli va dato atto di aver tenuto la barca a galla (a dispetto della sua mole, smile!)  

Lui ha un vocione quasi da… basso con estensione tenorile, che alle prime lascia un filino perplessi; ma poi si deve riconoscere che il suo Otello non è proprio malaccio: caso mai gli si può rimproverare un certo approccio monocorde (tendenza a cantare sempre forte) e quindi una scarsa varietà di accenti. Comunque il coreano si merita un’ampia sufficienza, ed anzi il pubblico lo accoglie proprio come un… salvatore della patria!    

Altro protagonista subentrato in corsa è Marco Vratogna: il cui Jago mi è parso di livello onesto: se non altro scevro da facili gigionerie. Voce chiara e sempre ben passante, anche nei difficili concertati dove personaggi diversi cantano insieme frasi indipendenti, che spesso si fatica a decifrare.      

Aurelia Florian mi è parsa una Desdemòna (pronunciato all’albionica, niente di offensivo, smile!) a corrente alternata. Vociferante nei passaggi acuti e poco udibile nell’ottava bassa, si è però riscattata… prima di morire, con apprezzabili salice e Avemaria.  

Questi i protagonisti-chiave. Il resto della ciurma (vedi locandina) cerca di fare onorevolmente il suo dovere e per mio conto ci riesce abbastanza. Buona la prova del coro di Martino Faggiani e bravissimi i piccoli di Gabriella Corsaro.

Daniele Callegari (anche lui assoldato a rimpiazzare l’originale Bignamini) ha diretto con mestiere la ruspante Filarmonica Arturo Toscanini, forse eccedendo talvolta con indebiti fracassi. Buona però anche la sua concertazione con le voci sul palco.


Solo due parole sull’allestimento del venerabile Pier Luigi Pizzi. Che di questi tempi è da giudicarsi semplicemente scandaloso, avendoci presentato l’Otello precisamente come è scritto in libretto e partitura!

02 ottobre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 53


Il terzo concerto della stagione autunnale de laVERDI, diretto da Gustavo Gimeno (che torna in Auditorium dopo due anni) ha un’impaginazione insolita ed interessante. Peccato che ieri sera a goderne fossero proprio pochi intimi…

Dopo l’ennesima invenzione expositiva di Nicola Campogrande (con la Cina… vittima di turno!) ecco la schumanniana Ouverture dalle musiche di scena per il Manfred. Che è in realtà un compendio dell'intero dramma, quasi un poema sinfonico. Dopo l'introduzione lenta si presenta, in MIb minore, un tema agitato, che ben rappresenta l’instabilità psichica del personaggio di Byron. Esso si sviluppa poi nella relativa FA# maggiore, per introdurre il tema elegiaco, femminile, legato ad Astarte, l'amore proibito, origine di tutti i complessi esistenziali del protagonista (e, potremmo dire, pure dei suoi due autori!) Da qui in poi, secondo i canoni della forma-sonata, i temi si sviluppano, si intrecciano, si confrontano e scontrano, fino a quando il tema di Astarte, canonicamente scivolato nella tonalità di impianto – momentaneamente virata a maggiore - conduce ai lenti accordi di MIb minore della mesta conclusione.

L’attacco dell’Ouverture presenta una sola battuta (4/4) con agogica Rasch (Impetuoso) e metronomo 132 semiminime. Ciò significa che le tre strappate dell’orchestra (altrettante semiminime, in realtà coppie di crome legate) dovrebbero occupare meno di un secondo e mezzo. Dopo la corona puntata che chiude la prima battuta, si passa a Langsam (Adagio) con metronomo più che dimezzato (63). Bene, ora ascoltate come fa suonare quella prima battuta il sommo Furtwängler ai Berliner nel dicembre del 1949: il contasecondi di youtube ci dice: in 3 secondi! Cioè a 60 di metronomo. Insomma, il sommo ha bellamente ignorato il Rasch e ha fatto anche l’attacco in Langsam! Ohibò. (Però con i Wiener ha cercato di rimediare…)

Ora, dato che Gimeno ha più o meno (per far rima) rispettato il Rasch, dobbiamo concludere che è meglio di Furtwängler? Beh, di polenta ne deve mangiar molta ancora, però almeno non si diletta a correggere le partiture altrui! E così l’Orchestra gli ha fatto fare una bella figura.
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Rolf Martinsson, classe 1956, è già stato ospite qui in Auditorium all’inizio del 2014, quando Xian presentò la prima italiana di A.S. in memoriam. Da quel successo nacque l’idea de laVERDI di commissionargli (insieme alla Tonhalle-Orchester di Zurigo e ad altre orchestre) questo ciclo di Lieder (Ich denke dein…) su testi di Rilke, Eichendorff e Goethe. Il ciclo è dedicato al soprano Lisa Larsson, divenuta la musa del compositore, che lo ha presentato in prima a Zurigo lo scorso gennaio. Ecco qui la stessa Larsson in occasione della terza presentazione del lavoro, lo scorso marzo al Concertgebouw, con Albrecht sul podio: 1-LiebesLied, 2-BlaueHortensie, 3-DieLibendeSchreibt, 4-Mondnacht, 5-NäheDesGeliebten. Questa di Milano sotto la bacchetta di Gimeno (guarda caso c’entra un po’ anche lui con il Concertgebouw, avendovi suonato come percussionista) è la quinta uscita del ciclo, diretto già da Storgårds e Manacorda, oltre al citato Albrecht.

Non è dato sapere se è una novità assoluta, riservata agli amici milanesi, ma Martinsson ha deciso di cambiare la sequenza dei brani, portando in testa il rumoroso Nähe Des Geliebten e chiuso quindi con lo straussiano Mondnacht (con tanto di violino e violoncello solisti).

Che dire? Un salto all’indietro di almeno un secolo? A partire dai testi: Rilke (1907 e 1906); Eichendorff (1835) e Goethe (1807 e 1795). Alcuni dei quali (Eichendorff e Goethe) già più volte musicati da famosi romantici dell’800, a cominciare da Schubert e Mendelssohn. E nella musica in effetti c’è un po’ di Mahler, di Strauss, parecchio Schönberg, di cui Martinsson è cultore (qui però è uno Schönberg ancora non seriale!) e magari qualcosa di Scriabin, con ampi squarci di atmosfere nordiche, ma anche incursioni a… Broadway e Hollywood! Insomma, una specie di gradevole amarcord, che i maligni potrebbero derubricare a facile scopiazzatura, o considerare tuttalpiù adatto ad accompagnare qualche pretenzioso reality

In ogni caso si tratta di musica gradevole, che non ti esaspera e che puoi ascoltare quasi (ehm, sì, molto quasi) come fosse… i Ruckert o i Vier Letzte, ecco. Brava la Larsson, che esibisce una bella voce corposa e buon portamento (non per nulla è interprete apprezzata di Mahler e Strauss!) e così ringrazia il compositore (presente in sala e salito sul palco) per la dedica dei 5 canti.  
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Chiude la serata l’enigmatica Quinta di Prokofiev. Queste musiche composte in piena guerra sotto Stalin ti lasciano sempre il dubbio (vale pure per Shostakovich) sulla sincerità dell’ispirazione: la libertà cui il compositore allude sarà quella da Hitler o anche e soprattutto quella da Zdanov? E nella retorica del grandioso corale verso la fine dell’Andante introduttivo, quanto c’è di affettato e di ammiccante al potere? Meno ambiguo lo Scherzo, con quel caratteristico ritmo da treni sferraglianti o magli di industria bellica interrotto dal Trio per una meritata pausa di riposo. Ispirato ma anche piuttosto cupo l’Adagio, che ha tratti espressionisti e ricorda l’ultimo Mahler, chiudendo con una evanescente cadenza del clarinetto. Il finale Rondo riprende ciclicamente il tema dell’Andante iniziale ma poi si rimette a correre come un treno, impegnando tutti (ottoni in primis) allo spasimo, fino all’esilarante conclusione sul terzo tempo della battuta.        

Eccellente la prestazione dei ragazzi, che questa musica hanno quasi nel sangue, eredità del venerabile Delman e di altri maestri russi (Barshai, Fedoseyev, Caetani) che si sono succeduti negli anni alla guida dell’Orchestra. Successo quindi caloroso e meritati applausi per tutte le singole sezioni dell’Orchestra (che di Gimeno potrebbe anche farne… a meno? strasmile!)