affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

21 agosto, 2013

ROF XXXIV: Guillaume Tel…lenin!

 

In una giornata a dir poco autunnale (pioggia insistente e max 18°… ma oggi sta tornando l’estate) l’Adriatic Arena ha ospitato ieri sera (anzi… pomeriggio) l’ultima rappresentazione di Guillaume Tell.


Palazzetto stracolmo di pubblico che ha decretato un autentico trionfo allo spettacolo: o perlomeno alla componente musicale; quanto all’allestimento, i buh e le sonore disapprovazioni al termine della seconda scena del terz’atto (il Pas de Soldats) hanno fatto chiaramente capire come non sia stato propriamente gradito (ma ci torno fra poco).

Dicevo della parte musicale, di buon livello, pur non toccando, a mio modesto avviso, vette di eccellenza assoluta.

JD Florez, il più atteso alla prova, ha mostrato di essere all’altezza del compito e mi è parso più sicuro rispetto alla prima ascoltata in radio: evidentemente due recite in più gli sono servite per completare il… rodaggio. Si conferma comunque un gran professionista, che sa garantire sempre il risultato: per lui lunghissimi applausi a scena aperta. Certo, come attore non è un gran che, forse perché concentra tutto se stesso sul canto (e come dargli torto!)

Con lui bene ha fatto Marina Rebeka, che a dispetto di una certa metallicità negli acuti ha sciorinato una prestazione più che positiva. Insieme i due hanno meritato un autentico trionfo dopo il duetto del second’atto.   

Anche Amanda Forsythe mi ha fatto miglior impressione rispetto alla prima: non ha urlato troppo gli acuti e soprattutto ha più che dignitosamente esposto la sua non facile (e spesso tagliata) aria di Jemmy del terz’atto.

Meritevoli anche Veronica Simeoni come Hedwige, Simon Orfila nei panni di Walter e Simone Alberghini nella parte breve ma importante di Melcthal.

Un Gesler passabile era Luca Tittoto, voce piuttosto cavernosa, peraltro adatta al truce personaggio. 

Celso Albelo ha fatto onestamente la sua parte, inclusi i due DO che gli son venuti un po’ meglio che alla prima.
 
Il Rodolphe di Alessandro Luciano ha appena la mia sufficienza: voce poco passante priva di espressione. Un filino meglio di lui ha fatto Vojtek Gierlach nei suoi due ruoli di contorno. 

Tell? Beh, Nicola Alaimo ha la prestanza fisica (fin troppo abbondante!) dello svizzerotto tutto patria, casa e chiesa. Quanto alla voce, già sopra il RE tende ad ingolarsi e a produrre schiamazzi più che suoni rossiniani. In complesso una prestazione discreta ma non certo da ricordare nella storia.

Il Coro di Andrea Faidutti ha meritato ampiamente le ovazioni ricevute alla fine, che hanno anche accolto l’Orchestra e il suo Direttore stabile, che si conferma profeta-in-patria: il suo è un Tell assai misurato, poco incline alle enfasi e alla retorica, più religioso che eroico, mi verrebbe da dire.
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Ed ora eccoci a Graham Vick.

Il quale ha cucinato un autentico minestrone (ma di quelli proprio indigesti, però) in cui ha buttato quasi a caso, e con dosaggi strampalati, gli ingredienti più diversi e perfino inconciliabili, tipo mescolare curry e tartufo in un risotto, ecco: ti viene che è proprio ‘na schifezza.

Intanto siamo subito avvertiti (dal pugno chiuso sul siparione bianco-rosso) che ci sarà lotta di classe: siamo in Svizzera a novecento iniziato (cineprese a manovella) poi a novecento avanzato (il proiettore super-8 con cui Arnold guarda i filmini di quando era bambino) e però, invece dei banchieri che sfruttano, più o meno direttamente, l’immigrazione, ci sono finti austriaci che opprimono gli operosi contadini elvetici. Notare: gli occupanti son dotati di mitra, i locali di… balestre.

Certo, ci sono espliciti ed appropriati richiami alla terra e al lavoro (meno ai suoi frutti: nessuna traccia di emmenthal, né di orologi, in Svizzera, toh!) mescolati però a becere denunce dell’odierno sfruttamento minorile (le scarpe della Nike in Bangladesh? e perché non la UnionCarbide in India, già che ci siamo?) La prima scena dell’opera è emblematica: mentre libretto e musica ci presentano gente che accudisce serenamente alle proprie incombenze, Vick ci mostra persone vessate da aguzzini nazisti in campi di lavoro forzato. Ma forse lui la musica nemmeno l’ha ascoltata, altrimenti avrebbe capito che evocava tutt’altro. 

Insomma, Vick finge di confondere (dico finge perché non può essere così stupido da far confusione per davvero) una lotta di liberazione nazionale con la lotta di classe tout-court. Quindi bandiere e guardie rosse, neanche fossimo nella Russia del ’17. Sarebbe come presentare la Resistenza italiana al nazifascismo esclusivamente come una fase della rivoluzione proletaria internazionale: per carità, dentro la Resistenza c’erano anche (ed erano magari maggioranza relativa) i rivoluzionari dal pugno chiuso, ma quel movimento fu molto di più e di diverso dalla pura lotta di classe.

Vicende come la scena-madre della mela (tipiche rappresaglie contro innocenti) sono del tutto estranee a fenomeni di lotta di classe, e invece perfettamente plausibili in scenari in cui si confrontano quasi a livello personale un potere assoluto e la resistenza di un popolo (Fosse Ardeatine, Marzabotto e altri simili fatti ne sono testimonianza). Così pure l’uccisione di un monarca (o di un suo rappresentante, come nel caso di Gesler) non è assolutamente un atto tipico della lotta di classe, ma di fenomeni di irredentismo o al massimo di anarchismo. E la vittoria finale, nel Tell, è quella di un popolo che riconquista libertà e indipendenza dal giogo straniero, per tornare – in uno spirito assolutamente conservatore, per nulla rivoluzionario o sovversivo – alle sue antiche tradizioni e consuetudini minacciate dall’oppressore straniero; non è certo l’arrivo del sol dell’avvenir che Vick ci propina con lo scalone rosso alla fine. Fenomeno, il primo, ben presente nel frangente storico in cui Rossini compose l’opera, dove invece il secondo era ben di là da venire. (Ma di tutto ciò, al regista-narcisista, nun glie ne po’ ffrega’ dde meno!)

Quanto ai dettagli, davvero insopportabile - perché precisamente motivato da odio di classe e non da spirito patriottico – il trattamento che Vick ci propone degli occupanti austriaci: in particolare nelle scene del terzo atto, infarcite di gratuite violenze e di siparietti-porno di bassa lega. Qui Vick trasforma una delle parti più intense dell’opera (dove la musica fa convergere mirabilmente aspetti drammatici e sereni) in puro avanspettacolo scollacciato da teatrino underground. Non per nulla il pubblico ha buhato sonoramente, purtroppo coinvolgendo nella contestazione anche i musicanti e i danzatori, non solo incolpevoli, ma anzi meritevoli di applauso.       
 
E che dire dei cavalli di cartapesta del second’atto? Che ci voleva ricordare qui Vick? Le cariche della Lady-di-ferro contro i minatori in sciopero? Tanto erano nobili e appropriati i due destrieri dallo stesso Vick impiegati nella sua Bolena, tanto sono gratuiti i dodici che riempiono qui la scena, e dei quali uno (quello bianco, su cui era salita Mathilde) ritroviamo all’inizio del terz’atto con la testa mozzata, forse come simbolo della nascente rivoluzione proletaria guidata da Arnold…

E che dire dell’efferatezza gratuita di cui il regista riveste in egual misura (excusatio-non-petita?) oppressi ed oppressori? Che si materializza nelle due scene parallele: della gara di tiro che Jemmy vince mozzando di netto la testa di un manichino rappresentante l’occupante; e della fine del vecchio Melcthal, prima linciato e poi appeso precisamente come il manichino di poco prima.

Ecco, per dire dove portano le idee di chi vuole a tutti i costi coniugare l’impegno professionale con il proprio vincolo ideologico: rappresentare il Tell di Rossini e propagandare convinzioni politiche comuniste!

Insomma, ancora una volta (era già successo con il Mosè del 2011, in altro scenario) Vick manipola l’originale - in modo, per me almeno, inaccettabile -  per piegarlo alle sue concezioni politiche e al suo obiettivo maieutico, aspetti del tutto assenti (e direi proprio deliberatamente) nel testo e soprattutto nella musica del Tell.

Quindi, siamo alle solite: c’è una musica, composta per rappresentare ed evocare un certo scenario, che viene impiegata dal regista come colonna sonora per supportare il suo proprio scenario, che poco o nulla ha a che fare con l’originale. Nobbuono…

Dopodichè, essendo Vick un grande uomo di teatro, è garantito che il suo spettacolo sia di alto livello e in sé (basta dimenticarsi l’originale, che problemi ci sono?) persino coinvolgente e godibile.

Peccato che quello del regista albionico – ma questa è solo una quisquilia, una pinzillacchera! – sia un prodotto adulterato. Sì, lo ripeto fino alla nausea, proprio come spacciare una Lacoste, o un Rolex, o un VanGogh contraffatti. (Quindi anche questa volta un premietto penso che lo abbia di sicuro, smile!)
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Lo spettacolo sarà ripreso dal Regio di Torino il prossimo maggio; stesso allestimento, ma per il resto… tutto diverso, a cominciare dalla lingua (versione italiana di Bassi) e poi: via i balletti, altro cast, orchestra, coro e direttore (Noseda). Si vedrà…

19 agosto, 2013

ROF XXXIV: L’Occasione fa... centro

 

Terza e penultima recita dell’Occasione, ieri sera al Teatro Rossini, piacevolmente gremito da un pubblico più casalingo del solito, che forse ha voluto premiare con la sua presenza e poi con un autentico trionfo i beniamini locali (Orchestra Rossini e Accademici di Zedda).


È la quarta apparizione di questa farsa al ROF e, dopo la prima del 1987, anche gli altri ritorni si sono sempre giovati della concezione registica originale di Jean-Pierre Ponnelle, anche quest’anno ripresa da Sonja Frisell, che già l’aveva ripresentata anche alla Scala nel 2010.

Al contrario di quanto ha fatto Livermore con L’Italiana, un dramma giocoso buttato piuttosto beceramente in avanspettacolo, Ponnelle prese assai sul serio (come sempre) questa burletta per musica e ne ricavò una messinscena raffinata e geniale, che non per nulla resiste magnificamente alla sfida del tempo (leggi stramberie del Regietheater).

Qui è Paolo Bordogna ad impersonare, prima che Martino, il Rossini che arriva dal fondo della platea con il valigione in spalla, da cui dapprima estrae un gran tomo con la partitura, che consegna al Direttore, e poi sale sul palco per far uscire dalla valigia tutti gli… ingredienti dello spettacolo: protagonisti e pure le scene!

Poi, più che Martino, sarà ancora Rossini a provocare volutamente (e non fortuitamente, come riporta il libretto) lo scambio di valigie da cui nasce tutto il seguito di imbrogli, equivoci e assurdità, fino alla conclusione in gloria dell’improbabile vicenda.

E Rossini, pur di tutta fretta, ci costruì sopra una musica per nulla disimpegnata o di occasione (smile!) al contrario, ci si trovano arie e concertati degni di altre opere più famose. E come al solito ci si trovano anche semi di cose che verranno fatte germogliare anni e anni dopo da qualcun altro, come questa brevissima cellula della Sinfonia, che scopriremo avere figli e… nipoti!


E proprio di questa musica è stata interprete assai interessante la cinesina Yi-Chen Lin. La quale, lasciato chiuso sul leggio il volume consegnatole da… Rossini (e vorrà pur dir qualcosa) ha confermato quanto di buono aveva già mostrato domenica scorsa alla prima radiofonica: sfoggiando un gesto ampio ma mai enfatico ha padroneggiato con sicurezza questa non proprio banale partitura e ci ha messo quel pizzico di pepe che serve a valorizzarla. Una direzione più che positiva, ben assecondata dai ragazzi della locale Orchestra Rossini.

Roberto De Candia e Paolo Bordogna (i due buffi, padrone e servo) hanno offerto una prestazione onorevole, senza eccedere in facili gigionerie. Bordogna ci ha aggiunto anche le sue doti atletiche muovendosi con disinvoltura tra palco e… buca.

Ancora note positive da Elena Tsallagova, che anche dal vivo ha mostrato una bella voce, piccola ma non evanescente, insomma abbastanza tagliata per il ruolo.

Note (per me, non per il pubblico direi) meno liete da Enea Scala, che sopra la zona del cosiddetto passaggio mostra seri problemi e scade in uno sgradevole canto ingolato ed impiccato. Anche Viktoria Yarovaya non mi ha impressionato, anzi: troppo spesso calante e con difficoltà di intonazione. Dignitosa la prestazione di Giorgio Misseri.

Come detto, il pubblico assai caldo e ben disposto non ha avuto altro che applausi a scena aperta e ha poi decretato un gran successo per tutti, cantanti, direttore, orchestra e maestranze che entrano in scena per i cambi di… scena. 

Insomma, una serata che ha ampiamente superato le mie aspettative. E domani… Vick?

17 agosto, 2013

ROF XXXIV: L’Italiana in Algeri, ossia… altro petrolio


La mia personale avventura al ROF-2013 è cominciata ier sera con la terza delle cinque rappresentazioni dell’Italiana al Teatro Rossini, gremito quasi come la spiaggia di Rimini.


Quest’anno è toccato a Davide Livermore (che deve avere col ROF un contratto… vitalizio, smile!) riproporci uno dei più splendidi prodotti del genio di questi luoghi. 


Miracolo dell’invenzione registica moderna: siamo ad Algeri!

Niente Route66, niente Baku, niente MountRushmore, niente AlexanderPlatz, niente WallStreet. Però qualcosa che richiama il recente capolavoro di Castorf a Bayreuth c’è anche qui: il petrolio! Già, perché circa 150 anni dopo la composizione del dramma giocoso l’Algeria scoprì di avere sotto il culo un pochino (non certo tanto quanto ne hanno quei fottutissimi sceicchi) di oro nero, e così il regista ci ha trovato l’ambiente giusto (a suo insindacabile giudizio) per collocarci la sua Italiana.  

Poco importa che l’Algeri di 50 anni fa fosse tutto tranne che una città dedita a baldorie e sfoggio di ricchezza (vi vigeva anzi, con Boumedien,  un socialismo piuttosto austero) e che di Mustafà rossiniani ne circolassero pochi o punti. L’Algeri di Livermore (complici Bovey e Falaschi per scene e costumi) è una specie di sultanato o sceiccato del petrolio trasportato a Hollywood, un minestrone di cartone animato, avanspettacolo, zelig e parodia di quelle che facevano i simpatici del Quartetto Cetra al sabato sera.

Ma alla fine va bene così, compreso il disastro aereo (ma senza conseguenze) che sostituisce l’originale naufragio. Però, accipicchia: petrolio e incidente aereo che coinvolge italiani, a metà del secolo scorso… vien in mente qualcosa di drammatico e assai poco giocoso: Mattei (?!) Ah già, ma Livermore è mica quello che ha infilato la strage di Capaci nei Vespri? Ecco…

Dopodichè l’impresa di mettere in parodia e buttare in ridicolo un soggetto che è già in partenza giocoso o buffo o farsesco non è delle più semplici, diciamolo francamente. E allora il regista e i suoi compari si inventano, in barba al recitar-cantando, il ballar-cantando; dico, non c’è una sola nota di Rossini che sia stata emessa (da interpreti, coro maschile e figuranti assortiti) senza molleggiamenti, mossette da swing o balletti da avanspettacolo! Il che per un po’ diverte, ma dopo 2 ore e mezza rischia francamente di stomacare.

Insomma, una proposta che si può anche digerire, come certi avanspettacoli di 40-50 anni fa allo Smeraldo di Milano (smile!)   

Sul fronte… serio conferme e smentite rispetto alla radioaudizione di sabato scorso.  Le prime vengono da Alex Esposito, che ha riempito il piccolo spazio del Rossini con la sua bella voce brunita, aggiungendovi una gran dose di teatralità (comprese alcune cadute di stile, come l’imbottirsi di viagra e lo spararsi nelle palle, imputabili esclusivamente a Livermore).

Anche Yijie Shi si conferma solido interprete di questi ruoli Lindoriani: chi ha avuto la fortuna di sentire dal vivo Duprez (smile!) non potrà non farci un chiaro accostamento.

Brava anche la Mariangela Sicilia, che ha una voce tanto potente quanto forse non ancora ben… addomesticata. Però nei concertati sovrastava tutti gli altri.

Una menzione anche per Davide Luciano, che canta l’aria forse più mozartiana di tutta la produzione di Rossini (Le femmine d’Italia, un vero gioiellino): e lì il nostro si è davvero ben destreggiato.

Mario Cassi (Taddeo-babbeo) e Raffaella Lupinacci (Zulma) su uno standard di sufficienza.

Chi francamente mi ha deluso (rispetto all’ascolto via radio) è Anna Goryachova: forse per la trasmissione le avevano sistemato un  microfono direttamente in faringe (stra-smile!) Fatto sta che, pur nell’angusto spazio del teatrino pesarese, la sua voce si stentava proprio a percepirla. In compenso, dal vivo si son potute apprezzare altre sue pregevoli qualità: prima fra tutte, quella di essere una gran gnocca!

Il coro dei maschietti di Andrea Faidutti mi è parso all’altezza del compito, gravato oltretutto dai compiti supplementari imposti dal regista.

Orchestra non al meglio, direi, con diverse sbavature (corni, ma non solo) e Direttore (Encinar) a livello di dignitosa routine, nulla più.

Alla fine applausi per tutti (Esposito ne ha mietuti di più) e pubblico (come al solito cosmopolita) tutto sommato soddisfatto e sorridente.
     

13 agosto, 2013

ROF XXXIV: dopo le “prime” alla radio


Come introduzione alle prossime visioni dirette, ho seguito la tre prime del cartellone principale diffuse nei giorni scorsi da Radio3, presente sui luoghi pesaresi con la voce di Giovanni Vitali, ormai diventata una piacevole tradizione (a proposito: forza Maggio!)

Ecco quindi qualche impressione, ovviamente condizionata, nel bene e nel male, dalla… tecnologia, che può far apparire Berlusconi come un Cavour e Stalin come un SanFrancesco…
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L’Italiana che ha aperto – sabato 11 agosto, a 200 anni e 3 mesi dalla prima a Venezia! - la rassegna di quest’anno è una delle opere veterane del festival, essendo alla quinta comparsa, dal lontano 1981, epoca in cui, tanto per dirne una, era ancora in attività tale Sesto Bruscantini, una specie di archètipo del baritono rossiniano.

Anna Goryachova (già un apprezzabile – o un’apprezzabile? hahaha - Edoardo nella Matilde del 2012) ha dato buona prova di sé, confermando pregi e difetti della sua constituency: convincente nell’ottava alta, assai meno in quella inferiore. Yijie Shi ha mostrato la sua vocina piccola e graziosa, creando un Lindoro interessante.
 
Un Mustafà dignitoso mi è parso Alex Esposito, che ha evitato facili gigionaggini, in favore di una concreta prosaicità.

Mariangela Sicilia e Mario Cassi hanno fatto del loro meglio per proporci le figure dei due sfigati della vicenda: lei e lui che nemmeno vengono cagati dai rispettivi partner!

La nota non propriamente entusiasmante di questa produzione è di proprietà, nuda, unica ed indivisibile del Kapellmeister: tale Encinar sembra essere stato catapultato a Pesaro a sua totale insaputa. Lui che Rossini lo conosce solo di… fama (smile!) ha diretto, mi è parso, come avrei diretto io: chiedendo all’orchestra di suonare come sa e… tirando continuamente il freno a mano (insomma, per fare un paragone enologico, ho sentito un’Italiana invece che frizzante, ferma).
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Domenica poi il tanto atteso Tell.

Quest’anno l’ultimo lascito operistico del buon Gioachino è tornato al ROF dopo 18 anni dall’esordio. Qui sul tubo si può seguire l’edizione del 1995 con Gelmetti e i musicisti di Stoccarda, Praga e Cracovia (regìa di Pizzi).  

Merito principale, se non esclusivo, di quell’edizione è di aver presentato l’opera così come licenziata in edizione critica dalla Fondazione Rossini. Nella fattispecie, il Tell edito da M.Elizabeth C. Bartlet, pubblicato nel 1992 e comprendente (tanto per citare due esempi macroscopici che lo differenziano dalle poche edizioni e dalle rare rappresentazioni) il Pas de deux del primo atto (fra il Pas de six e il Pas d’archers, da 1h2’55” a 1h10’53” nel filmato citato) e l’aria di Jemmy (Ah que ton âme se rassure) del terz’atto, subito prima della scena-madre del tiro-alla-mela (da 3h06’38” a 3h13’00”, sempre nel filmato citato).

Uno dei meriti del ROF è sempre stato quello di offrire le opere in forma integrale: per il Tell la cosa è invero rimarchevole, dato che questo capolavoro va rispettato come si fa, per dire, con i drammi di Wagner, di fronte ai quali non sfigura di certo, anzi… E quando la musica è a questi livelli, la durata dello spettacolo non può di sicuro essere un problema, anzi si vorrebbe non finisse mai.

Ebbene, in questa edizione (che c’entri lo zampino di Vick?) il Pas de deux è stato invece cassato (forse per consolare… Ghedini? stra-smile!) È stata invece proposta l’aria di Jemmy, mentre altri piccoli tagliuzzi sono stati comunque perpetrati alla partitura, così, tanto per risparmiare forse 2-3 minuti del tempo prezioso di tutti noi. Fra questi anche l’invocazione degli austriaci e dello stesso Gestler a Tell perché li salvi dal naufragio, nella scena settima dell’atto finale.

Insomma, l’aspetto, come dire, filologico dell’operazione sa assai di… illogicità.

Sulla natura del Tell si è scritto e si discute molto, e si sono formate scuole di pensiero: c’è chi la cataloga come opera romantica, chi invece la definisce come l’estrema evoluzione del Rossini classico e settecentesco. Una cosa è certa: chiunque ascoltasse l’Italiana (non dico l’Occasione) e poi il Tell, senza saper nulla degli autori, giurerebbe trattarsi di due compositori diversi, anzi appartenenti a due diversi secoli!

In fondo il Tell è tutto pervaso da uno spirito eroico, che se non è romanticismo tout-court è certamente ben lontano dagli schemi del teatro italiano a cavallo dei secoli XVIII e XIX. E la musica, compresa la strumentazione, ne è la più concreta testimonianza.

Ad esempio: i corni dei cacciatori che si odono a più riprese non possono non richiamare – anche nella tonalità - il Trio dello Scherzo dell’Eroica:


E una sezione del coro finale del terz’atto (che grida la sua ribellione contro il tiranno) richiama scopertamente, fin nella tonalità (FA maggiore) l’enfatica perorazione dell’Egmont beethoveniano:

Credo proprio che la cosa non sia affatto casuale: Egmont, in fin dei conti, incarna (qualche secolo dopo) le stesse aspirazioni alla libertà che sono al fondo della vicenda di Tell. E Goethe, che ne scrisse la tragedia, è proprio la mente che fa da cerniera, da snodo, fra classicismo e romanticismo. Precisamente come Beethoven in campo musicale…

Insomma, un Rossini che certo non fu colpito dal fulmine romantico sulla strada di… Parigi, ma che seppe cogliere e interpretare da par suo tutti i fermenti che si agitavano attorno a lui. Per dire, Der Freischütz è di 8 anni anteriore, e imperversava a Parigi proprio negli anni in cui Rossini pensava e poi componeva il Tell… e si sente! E nella musica di alcune danze del Tell pare di ritrovare atmosfere schubertiane della Rosamunde.   

E a sua volta il Tell non mancò di lasciare segni sui posteri: Wagner, nel suo famoso incontro col maestro a Parigi, non fece che lodare le bellezze e le innovazioni dell’opera. Di cui troviamo tracce in opere di compositori francesi, come Bizet. E di cui scopriamo reminiscenze persino impercettibili a 70 anni di distanza: ecco come un inciso dell’Introduzione del Primo Atto verrà ripreso alla lettera (a parte la tonalità) da Mahler, nell’Andante moderato della Seconda Sinfonia:


Orbene, come ce lo ha propinato il Mariotti-jr? Al di là delle intenzioni (confidate al tollerante Vitali) mi pare ci abbia messo tutta la carica innovativa del pesarese-trapiantato-a-Parigi. Certe attenzioni ai dettagli, come l’affidare a pochi strumenti gli incipit delle danze, ne sono la testimonianza.

Così come la consumata (ormai possiamo dargliene atto) capacità di tenere insieme interpreti singoli e masse corali. E proprio il coro di Andrea Faidutti ha risposto da par suo, interpretando al meglio il ruolo di co-protagonista del dramma, e in tutte le sue declinazioni: fanciulle, svizzeri, austriaci, buoni e cattivi. L’Orchestra lo ha assecondato abbastanza bene (vedi il quintetto dei celli) con qualche (inevitabile?) imprecisione negli ottoni.

Fra gli interpreti, ovvia la curiosità e l’attesa per l’Arnold di JDF. Nourrit o Duprèz? O una sintesi dei due? (che come tutte le sintesi finisce per perdere qualcosa dei componenti). Mah, una prestazione degna anche se non da… sballo. Speriamo che il DO (spurio) dell’All’armi finale non abbia convinto il tenore a vestire in futuro i panni di… Manrico (smile!) Insomma, lui le note le ha cantate tutte, ma basta questo?

Tell era Nicola Alaimo, apparso all’altezza del compito, con qualche problema di… autorevolezza (leggi, un timbro un filino più pesante).

Una bella sorpresa la Mathilde di Marina Rebeka, mentre Veronica Simeoni si è ben distinta nei panni della moglie di Tell. Amanda Forsythe non più che discreta come il piccolo Jemmy e Simon Orfila un Walter passabile.

Celso Albelo era il pescatore, che deve cantare due DO acuti: il primo gli è uscito… a metà, l’altro appena-appena meglio: per fare Arnold dovrà mangiar polenta (smile!

Gli altri quattro interpreti si son guadagnati onestamente la pagnotta.
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Lunedi è stata la volta della ripresa de L’Occasione, che si vide per la prima volta nel 1987 con Accardo. Esordio sul podio, nel cartellone principale, per la cinesina Yi-Chen Lin, che prova a seguire, in campo operistico, le orme della più famosa Zhang Xian: mi è parso che ci abbia messo la giusta verve.

Bene i due buffi, soprattutto Roberto De Candia (ma anche Paolo Bordogna non ha sfigurato).

Pessimo, ahilui, Enea Scala, che sopra il FA acuto si impicca e si ingola che è un (dis)piacere. Sui SIb poi pareva un cappone cui vien tirato il collo.

Note positive invece dalla Elena Tsallagova, gradevolissima vocina che sale come nulla fosse e senza urlacchiare fino al MIb.

Giorgio Misseri e la Viktoria Yarovaya su standard appena appena accettabili.

In complesso una serata gradevole, più da Accademia (con tutto il rispetto) che da cartellone principale.
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A proposito di Accademia, il suo papà (da 25 anni) Alberto Zedda ha confessato a Vitali i titoli del ROF XXXV: nuovo allestimento di Armida (Ronconi); prima assoluta dell’Aureliano (con Martone, cui doveva andare il Tell di quest’anno…) e Inganno felice (così torna Vick anche nel 2014).
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Nei prossimi giorni le mie esperienze dirette.

09 agosto, 2013

ROF XXXIV: il cartellone principale


Qualche nota, per lo più di natura statistica, sul cartellone principale del ROF 2013, che prende il via domani.

Apre L’Italiana in Algeri, la cui prima apparizione al ROF risale al 1981 (seconda edizione del festival) con i grandi Ramey e Bruscantini. Seguì una ripresa nel 1982. Nuovo allestimento, di Dario Fo, nel 1994, ripreso nel 2006.

Tre delle precedenti apparizioni furono dirette da Donato Renzetti. Per questa quinta comparsa l’opera è affidata a Davide Livermore (ormai di casa da queste parti) per la regìa e a José Ramón Encinar per la concertazione.     

Ecco poi il Guillaume Tell, che è al suo secondo passaggio al ROF. Il primo avvenne nel 1995, con la coppia Gelmetti-Pizzi e un cast in cui spiccavano Pertusi, Kunde, Dessì e Bacelli.

Tre sono i motivi principali (epidermici, magari) di interesse di questa nuova produzione: Florez come Arnold, la direzione di Mariotti-jr e la regìa di Vick, che forse si è ispirato a questo…
tera-smile!

Terzo titolo in programma L’occasione fa il ladro, che apparve per la prima volta al ROF nel 1987, con la regìa del grande Jean-Pierre Ponnelle, ripresa poi dall’ammerecana Francesca Zambello nel 1989 e ancora nel 1996 da Sonja Frisell, che ne cura la messinscena anche per questa quarta tornata.

Insomma, dopo 26 anni, ancora le cose fatte da gente con la testa sulle spalle e senza grulli per la testa resistono a tutte le ondate lanzichenecche del Regietheater!

Solo un cenno per Il viaggio a Reims, che è ormai diventato una specie di… palestra per l’Accademia rossiniana (alle 11 del mattino solo degli autentici stoico-masochisti, o sedicenti talent-scout, possono preferire il chiuso di un teatro alla bollente sabbia adriatica, stra-smile!)

Chiuderà il festival, come di consuetudine, l’esecuzione in forma di concerto di un’opera diretta dal venerabile Alberto Zedda che, con Gossett, Cagli e Mariotti-sr, è un po’ il nonno, il papà, lo zio e ormai anche il figlio e il nipotino del ROF, a 85 anni suonati!

Si tratta de La donna del lago che, come l’Italiana, fece la sua prima apparizione al ROF nel lontano 1981, con Maurizio Pollini (!) sul podio, poi ripresa nel 1983. Nuova produzione (Ronconi e Gatti) nel 2001 con un super-cast (JDF, Devia, Barcellona).

Per chi passa da quelle parti, solita e benemerita proiezione in Piazza del Popolo (c’è anche la disponibilità di un gelato o di una coca… non compresi nell’offerta gratuita!)
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Il mio ruolino di marcia, dopo l’ascolto delle prime via Radio3 (10-11-12) prevede la timbratura del cartellino il 16, 18, 20 e 23 (seguiranno impressioni…) 

07 agosto, 2013

ROF XXXIV: ottimismo della volontà...?


Smaltita l’indigestione wagneriana (mi verrebbe da dire: l’intossicazione, visto che la maggior parte delle portate arrivateci per radio da Bayreuth sapeva di cibo scaduto, se non proprio avariato…) è tempo di preparare i bagagli per il prossimo ROF. Un festival che si può tranquillamente godere senza prenotare posti 10 anni prima (per poi trovarsi a vedere il capolavoro di Castorf!) e coniugando un’anonima vacanza sull’Adriatico con le note del grande Gioachino. 

Radio3, come è ormai tradizione, irradierà le prime delle tre opere del cartellone principale: a partire da sabato 10 (ore 20) con l’Italiana, per seguire domenica 11 (ore 18) con il Tell e poi chiudere lunedi 12 (ore 20) con la Valigia
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Anche se può prestare il fianco a facili critiche di ipocrisia, retorica e piaggeria, il messaggio che il Sovrintendente del ROF, Gianfranco Mariotti, ha affidato all’opuscolo di presentazione dell’edizione 2013 mi sembra degno di attenzione e di meditazione.

Faccio perciò un’eccezione alla regola di evitare cut&paste quando basterebbe un link e riporto qui sotto il testo di Mariotti.

Virtù contra furore
Virtù contra furore / prenderà l’arme, e fia ’l combatter corto
ché l’antico valore / ne li italici cor non è ancor morto.

Sono i versi di Petrarca che Niccolò Machiavelli pone a epitome e suggello al termine del suo Principe. Riferiti all’Italia, e lo sono, questi versi sono ancora attuali. Declinati in termini moderni, infatti, possono corrispondere a bellezza contro forza (forza economica, politica, militare) ed esprimere così il motivo conduttore che presiede a tutta la nostra storia e anche alla vocazione e al destino del nostro Paese.

Da quanti anni tutti noi, parlando di cultura, ripetiamo invano le stesse cose? Che l’Italia detiene la maggior parte dei beni culturali del pianeta, e che questo è il suo petrolio inutilizzato; che, al contrario, cultura, istruzione, ricerca, formazione e tutela dell’ambiente sono regolarmente marginalizzate; che la cultura non è una spesa, ma un investimento; che la cultura “si mangia” e può produrre ricchezza; che l’istruzione, musicale, scientifica e umanistica, è il fondamento, l’architrave di una nazione civile, lo strumento indispensabile per qualunque programma di crescita e sviluppo. Quante volte siamo tornati, inutilmente, sugli stessi concetti? Allora, dobbiamo avere la chiara consapevolezza che questi discorsi non hanno, e non avranno, alcun riscontro politico. Il problema reale è dunque l’irrilevanza di ogni proposta che riguardi la cultura, al di là della sua validità. È spontaneo attribuire tutto ciò alla sordità della classe politica (come dimostrerebbero i programmi delle ultime campagne elettorali), ma c’è di più e di peggio, ed è il diffuso disinteresse dell’opinione pubblica. L’Italia ha perso il senso della sua identità, della sua storia, del suo legame col passato, forse anche per l’uso distorto e invasivo dei mezzi di comunicazione, in primo luogo delle TV commerciali. Manca all’immaginario collettivo del Paese la coscienza della irripetibilità italiana, il fatto che l’Italia è il più grande produttore di bellezza del pianeta, e riveste questo ruolo, senza interruzione, da quasi tremila anni, ed è chiaro che qui si parla di bellezza non solo ambientale e paesaggistica, ma anche monumentale, pittorica, letteraria, poetica, musicale.

Sappiamo bene che vi sono state nei millenni altre civiltà che hanno contribuito al progresso spirituale dell’umanità: in Egitto, in Mesopotamia, in Cina e soprattutto in Grecia, vera culla della cultura europea. È in Grecia che poesia, letteratura, filosofia, matematica, arti visive, architettura hanno incarnato lo spirito dell’Occidente. Eppure nessuna di queste civiltà ha retto alla prova del tempo: tutte, prima o poi, hanno perduto l’energia creatrice e la forza propulsiva e adesso, direbbe Leopardi, più di lor non si ragiona. Pensiamo a città come Atene, il Cairo, Corinto, Alessandria, Bagdad, Damasco: furono splendide e illustri, ma oggi, a parte le residue testimonianze monumentali, sono diventate città come le altre. Roma no, l’Italia no: per quasi trenta secoli essa è sempre saldamente restata il luogo privilegiato della bellezza nel pianeta, malgrado le guerre, le invasioni, la debolezza politica, le dittature.

Una parentesi sulle dittature. Di regola esse, imponendo una cultura di stato, impediscono la libera espressione artistica come autonoma lettura del mondo. In tempi moderni ne abbiamo avuto due esempi drammatici nella Germania di Hitler e nell’Unione sovietica di Stalin. Nella prima il ministro Goebbels diceva di mettere mano alla pistola appena sentiva parlare di cultura, nella seconda il “realismo socialista” soffocava in partenza ogni voce fuori dal coro. In entrambi i casi si verificò una imponente diaspora di scrittori, scienziati, artisti e musicisti, in fuga verso i paesi democratici. Nello stesso periodo, anche l’Italia ha avuto la sua dittatura, con la fuga all’estero di grandi personalità (come Arturo Toscanini, Rita Levi Montalcini, Enrico Fermi…). Una dittatura non meno oppressiva delle altre, con abolizione della libertà di stampa e della libertà di opinione, carcere e confino per gli oppositori, militarizzazione dei giovani, qualche assassinio di stato, leggi razziali, spirito guerrafondaio e infine il famigerato Minculpop che condizionava tutte le attività culturali attraverso le veline. Eppure, incredibilmente, anche in queste condizioni il Paese, imperturbabile, ha continuato a produrre bellezza. Proprio in questi giorni nella vicina Forlì è stata aperta una mostra dedicata all’Arte italiana dal 1920 al 1940. Essa mostra plasticamente non solo il livello qualitativo, ma anche la dimensione quantitativa del fenomeno. Persino i manifesti dedicati alla goffa retorica di regime attorno al mito della romanità e dell’impero sono bellissimi. E allora?

L’irripetibilità italiana è il frutto della sua storia complessa e inquieta: l’avvicendarsi di papi, monarchi, principi, condottieri, tribuni, tiranni, demagoghi ha fatto dell’Italia il crogiuolo culturale dell’Occidente. Si obietterà che l’Italia è l’ultimo dei grandi paesi europei ad aver raggiunto la dignità di nazione politicamente unita e indipendente: appena un secolo e mezzo fa. È vero, ma il concetto storico di Italia è in realtà antichissimo e ben delineato. Esiste da sempre una precisa koinè italica che accomuna
tutti i popoli della Penisola ed è basata su tre pilastri: la lingua, la religione e la storia. È noto che Metternich, nel 1849, fece infuriare i patrioti del Risorgimento sostenendo che l’Italia era solo “un’espressione geografica”. In realtà l’affermazione non era in sé priva di fondamento: piuttosto il politico austriaco avrebbe dovuto aggiungere a “geografica” anche “storica e culturale”. Del resto, non c’è solo il ricordato Machiavelli a rivolgersi agli “italici cor”. C’è l’esempio di Dante con la sua invettiva: Ahi serva Italia, di dolore ostello…, cui fa eco Petrarca con: Italia mia, benché il parlar sia indarno…, e la geniale sintesi linguistica dantesca: …del bel paese là dove il sì suona…, e quella geografica, ancora di Petrarca: …il bel paese / ch’Appennin parte, il mar circonda e l’Alpe. Di cosa parlano questi spiriti illuminati? Di una terra sconosciuta? Di un regno immaginario? O parlano del nostro Paese, l’Italia? E a chi rivolge Leopardi, qualche secolo dopo, la sua appassionata invocazione: O patria mia, vedo le mura e gli archi… quando l’unità d’Italia è ancora di là da venire?

La particolarità della bellezza italiana non sta solo nei monumenti, nelle cattedrali, nei borghi umbri e toscani, nelle colline marchigiane, nei castelli piemontesi, nelle costiere amalfitane, nelle ville venete, nelle rocche, nei campi disegnati secondo antiche armonie dal genius loci, tutte cose non riproducibili, ma nella storia dell’arte tutta, nel miracolo del Rinascimento, il più impressionante accumulo di genio umano mai raggiunto sulla terra, nell’Umanesimo, che mette l’uomo – il suo gesto, la sua fatica, il suo talento – al centro delle cose, nel Melodramma, di cui l’Italia è la culla e il centro propulsivo, nell’architettura, dai Romani, costruttori di ponti, acquedotti e arene spesso ancora funzionanti, fino a Giò Ponti, Giovanni Michelucci e Renzo Piano, nelle biblioteche, negli archivi, nella rete dei teatri. Nessun altro Paese ha altrettanta possibilità di riassumere nella sua storia la trama del tempo e il divenire della civiltà, di raccontare l’Europa e il mondo attraverso una successione di culture fra le maggiori e più universali (si pensi all’essere il centro della Cristianità) mai fiorite su questa terra. L’Italia è dunque una parte decisiva della coscienza del mondo.

Curiosamente, si può arrivare alle stesse conclusioni anche invertendo il punto di vista, considerando cioè l’atteggiamento degli stranieri, oggi e lungo la storia, nei riguardi del nostro Paese. Pensiamo al Grand tour, il viaggio iniziatico che i rampolli delle nobili famiglie del Nord Europa facevano nel XVIII secolo in Italia per completare la loro cultura. Esso è l’epifenomeno di un’attrazione più antica, complessa e anche contraddittoria che l’Europa ha avuto (e ha) per l’Italia. Nella prima metà del ’500, di fronte al consolidamento dei grandi regni europei (Francia, Inghilterra e Spagna) l’Italia si presentava come una realtà frammentata e disomogenea, caratterizzata da uno straordinario sviluppo artistico e una totale fragilità politica. Nasce di qui la spinta, la voglia di appropriarsi di questa ricchezza diversa, fatta di città libere e ricche, ma militarmente imbelli, sedi di una cultura evoluta e affascinante. Questo motivo correrà lungo i secoli e influenzerà generazioni di moderni viaggiatori, non solo quelli del Grand tour, fino ai giorni nostri.

Cosa affascina così tanto gli stranieri? Quale frutto proibito cercano, a quale carenza vogliono rimediare? Si muove lungo i secoli uno strano sentimento di attrazione-diffidenza per questo paese meraviglioso e pericoloso, infido giardino di delizie, paradiso e luogo di perdizione: anche perché abitato – secondo l’antico stereotipo – da un popolo disordinato e allegro, simpatico e superficiale, accogliente e inaffidabile. Ma in realtà al fondo di tutto c’è una speciale invidia, un’ammirazione incoercibile, un atteggiamento forse inizialmente altezzoso, ma subito contraddetto dallo spettacolo schiacciante della bellezza. Sono in gioco alcuni miti: il mito della classicità (le rovine, i monumenti…), il mito del clima (la luce, il sole, l’amore…), il mito del Rinascimento (l’indiscusso vertice spirituale della storia del mondo). A tutto ciò si aggiunga l’evidenza di un popolo, erede legittimo di tanto patrimonio, che vive da sempre immerso nella grazia e nell’armonia. Ne deriva un sentimento contrastante che, seppure declinato nelle forme più affabili, ritroviamo persino nei più appassionati dei nostri spettatori al ROF.

Allora, tutto ciò detto: la crisi economica è anche una crisi culturale e d’identità, una crisi di saperi, di conoscenze e di competenze. Non si dà crescita né sviluppo possibili senza un consapevole investimento sulla cultura, la formazione, la ricerca, l’istruzione (si pensi che la Germania ha tagliato 80 miliardi di spesa pubblica e ne ha investiti 13 nella cultura!); senza l’orgoglio per la nostra identità e la nostra storia, il legame fra passato e presente che fa inimitabile il nostro Paese. Occorre cioè un moderno umanesimo, che combini il patrimonio storico con una nuova creatività, e individui la cultura non come uno strumento, ma come un fine, un obiettivo in sé. C’è bisogno di una svolta, di un soggetto nuovo. Ciò che occorre è un Ministero della cultura: siamo uno dei pochi grandi paesi d’Europa a non averlo. Non si tratterebbe di accorpare le diverse funzioni oggi disperse fra vari ministeri (beni culturali, istruzione, ambiente, turismo, ricerca…) ma di un soggetto veramente diverso, nuovo, fortemente identitario, che fosse uno dei più importanti dell’esecutivo, e che si facesse carico dei temi legati a un’identità di nazione unica nel pianeta, che ha proprio nella cultura e nell’arte, intrecciate ai beni paesaggistici e ambientali, la sua vocazione storica e la sua cifra caratteristica. Dunque un dicastero fondamentale (come quello della difesa in Israele o dell’industria in Germania) autorizzato anche a operazioni di peso e di grande respiro, come il Beaubourg e la piramide del Louvre a Parigi, o il MoMA a New York. Finora hanno fatto ostacolo forse la paura di un altro Minculpop o la nascita di una cultura di stato, cioè l’occupazione da parte di una forza politica che voglia dettare regole in campo artistico. Ma ormai, nel XXI secolo, è un rischio che si può correre, e che le maggiori nazioni europee hanno corso senza danni. Si tratta davvero di una strada obbligata per il nostro Paese.

Bellezza contro forza, si diceva all’inizio. Ebbene, finora, malgrado le innumerevoli vicissitudini storiche che hanno agitato nel tempo la Penisola, e malgrado la brevità della nostra vicenda unitaria nazionale, la bellezza ha sempre vinto la sua sfida. Perché non dovrebbe vincere ancora?

Gianfranco Mariotti
Sovrintendente

Qui comunque il link alla presentazione completa del ROF-XXXIV.  

Francamente non so quanto l’idea di istituire un nuovo Ministero sia efficace e risolutiva: più che il rischio di farne un Minculpop ci vedo la certezza di creare un nuovo carrozzone clientelare di castaioli. Qualche concreto provvedimento preso dai Ministeri attuali potrebbe invece produrre risultati apprezzabili: penso ad una seria introduzione dell’insegnamento della musica nelle scuole inferiori, a partire da quelle materne; incentivi fiscali a chi produce prodotti multimediali e programmi televisivi di contenuto divulgativo sulla musica classica e lirica, indirizzati ai piccoli e ai ragazzi; priorità di erogazione dei finanziamenti pubblici (tipo FUS) a quelle istituzioni che mettono in atto specifici programmi educativi per gli under-18 (tanto per chiarire: non la farsa scaligera del 4 dicembre!) Insomma, cose anche modeste ma concrete.  
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Colgo l’occasione per contribuire alla… diffusione di cultura allegando un memorabile scritto di Roman Vlad su Rossini, comparso in Musica&Dossier nel Dicembre 1988.

E di seguito un altro studio di Arrigo Quattrocchi uscito sulla stessa rivista nel Luglio 1989.

02 agosto, 2013

Bayreuth 2013: Lohengrin chiude l’indigestione


Un Lohengrin come da copione (essendo ormai alla quarta stagione) ha chiuso – almeno per noi radioamatori - questa scorpacciata wagneriana (in buona parte indigesta) del bicentenario.

Andriss Nelsons non ha apparentemente subito irreversibili danni cerebrali dalla botta in testa patita pochi giorni fa, ed ha quindi confermato la sua qualità di direttore wagneriano, guidando in modo apprezzabile orchestra, coro (sempre o quasi impeccabili) e il cast ormai collaudato di questo allestimento.

Certo Vogt è un Lohengrino ancora da svezzare (per ora è un gradevole Nemorino) e chissà che con qualche trucco (del tipo ingolamenti alla Kaufmann) non possa in futuro contrabbandare qualche parvenza di Heldentenor

La Dasch resta su un livello accettabile (in Scala mesi fa stava allattando e quindi era forse un pochino troppo…  materna) e Petra Lang si è confermata una dignitosa Ortrud. Il suo marito-burattino (Thomas J.Mayer) se l’è cavata alla meglio.

Samuel Youn ormai sta diventando famoso come Olandese, e la parte dell’Heerrufer (che pure non è uno scherzo!) comincia ad andargli stretta.

Gli altri su di una onorevole media.

La regìa con i topi di Neuenfels ormai sta diventando un classico (della serie: l’uomo si abitua a tutto). Quindi anche Castorf ha qualche speranza (smile!)
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Adesso però bisogna assolutamente disintossicarsi dall’oppio wagneriano, e nulla di meglio c’è, alla bisogna, di tale Rossini da Pesaro. 

01 agosto, 2013

Bay…roma 2013: Berluschäuser rimandato senza perdono


Questo Tannhäuser in Italia passerà alla storia per l’unica ragione di essere andato in onda in contemporanea alla camera di consiglio della Cassazione.

Lì non c’era un Papa, ma 5 vecchi decrepiti che tuttavia hanno riservato al povero penitente appena arrivato a piedi dal nord (beh, insomma… da Arcore) lo stesso sdegnato trattamento di cui il pontefice gratifica il pellegrino di Turingia.

Così adesso possiamo tirare un sospiro di sollievo: sappiamo per certo che per almeno 10 degli ultimi 20 anni siamo stati governati da un criminale comune con l’hobby del venusbergunga.
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Tutto è relativo, quindi al confronto con lo scempio del Ring questo Tannhäuser pare venuto da Marte.

Axel Kober dev’essere uno che dirige l’orchestra di Bayreuth come un macchinista dirige un… treno: sicuro che, a meno di non buttarsi a 190 all’ora dove c’è il limite di 80, è matematico che a destinazione ci arrivi, garantito!

Non che il cast – comprendente un paio di… superstiti del Rheingold - sia da incorniciare, tutt’altro! Insomma, un’onesta prestazione da teatro di provincia, di quelle cui normalmente si assiste, per dire, alla Scala (smile!)

La regìa ha avuto la sua razione di buh (ma era scontato, essendo ormai un dejà-vu) proporzionali alla quantità di, ehm, merda riciclata nell’impianto del genietto Baumgarten.

Domani ultima tappa radiofonica del primo giro, con il Lohengrin dei simpatici topolini Dasch e Vogt.