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07 agosto, 2013

ROF XXXIV: ottimismo della volontà...?


Smaltita l’indigestione wagneriana (mi verrebbe da dire: l’intossicazione, visto che la maggior parte delle portate arrivateci per radio da Bayreuth sapeva di cibo scaduto, se non proprio avariato…) è tempo di preparare i bagagli per il prossimo ROF. Un festival che si può tranquillamente godere senza prenotare posti 10 anni prima (per poi trovarsi a vedere il capolavoro di Castorf!) e coniugando un’anonima vacanza sull’Adriatico con le note del grande Gioachino. 

Radio3, come è ormai tradizione, irradierà le prime delle tre opere del cartellone principale: a partire da sabato 10 (ore 20) con l’Italiana, per seguire domenica 11 (ore 18) con il Tell e poi chiudere lunedi 12 (ore 20) con la Valigia
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Anche se può prestare il fianco a facili critiche di ipocrisia, retorica e piaggeria, il messaggio che il Sovrintendente del ROF, Gianfranco Mariotti, ha affidato all’opuscolo di presentazione dell’edizione 2013 mi sembra degno di attenzione e di meditazione.

Faccio perciò un’eccezione alla regola di evitare cut&paste quando basterebbe un link e riporto qui sotto il testo di Mariotti.

Virtù contra furore
Virtù contra furore / prenderà l’arme, e fia ’l combatter corto
ché l’antico valore / ne li italici cor non è ancor morto.

Sono i versi di Petrarca che Niccolò Machiavelli pone a epitome e suggello al termine del suo Principe. Riferiti all’Italia, e lo sono, questi versi sono ancora attuali. Declinati in termini moderni, infatti, possono corrispondere a bellezza contro forza (forza economica, politica, militare) ed esprimere così il motivo conduttore che presiede a tutta la nostra storia e anche alla vocazione e al destino del nostro Paese.

Da quanti anni tutti noi, parlando di cultura, ripetiamo invano le stesse cose? Che l’Italia detiene la maggior parte dei beni culturali del pianeta, e che questo è il suo petrolio inutilizzato; che, al contrario, cultura, istruzione, ricerca, formazione e tutela dell’ambiente sono regolarmente marginalizzate; che la cultura non è una spesa, ma un investimento; che la cultura “si mangia” e può produrre ricchezza; che l’istruzione, musicale, scientifica e umanistica, è il fondamento, l’architrave di una nazione civile, lo strumento indispensabile per qualunque programma di crescita e sviluppo. Quante volte siamo tornati, inutilmente, sugli stessi concetti? Allora, dobbiamo avere la chiara consapevolezza che questi discorsi non hanno, e non avranno, alcun riscontro politico. Il problema reale è dunque l’irrilevanza di ogni proposta che riguardi la cultura, al di là della sua validità. È spontaneo attribuire tutto ciò alla sordità della classe politica (come dimostrerebbero i programmi delle ultime campagne elettorali), ma c’è di più e di peggio, ed è il diffuso disinteresse dell’opinione pubblica. L’Italia ha perso il senso della sua identità, della sua storia, del suo legame col passato, forse anche per l’uso distorto e invasivo dei mezzi di comunicazione, in primo luogo delle TV commerciali. Manca all’immaginario collettivo del Paese la coscienza della irripetibilità italiana, il fatto che l’Italia è il più grande produttore di bellezza del pianeta, e riveste questo ruolo, senza interruzione, da quasi tremila anni, ed è chiaro che qui si parla di bellezza non solo ambientale e paesaggistica, ma anche monumentale, pittorica, letteraria, poetica, musicale.

Sappiamo bene che vi sono state nei millenni altre civiltà che hanno contribuito al progresso spirituale dell’umanità: in Egitto, in Mesopotamia, in Cina e soprattutto in Grecia, vera culla della cultura europea. È in Grecia che poesia, letteratura, filosofia, matematica, arti visive, architettura hanno incarnato lo spirito dell’Occidente. Eppure nessuna di queste civiltà ha retto alla prova del tempo: tutte, prima o poi, hanno perduto l’energia creatrice e la forza propulsiva e adesso, direbbe Leopardi, più di lor non si ragiona. Pensiamo a città come Atene, il Cairo, Corinto, Alessandria, Bagdad, Damasco: furono splendide e illustri, ma oggi, a parte le residue testimonianze monumentali, sono diventate città come le altre. Roma no, l’Italia no: per quasi trenta secoli essa è sempre saldamente restata il luogo privilegiato della bellezza nel pianeta, malgrado le guerre, le invasioni, la debolezza politica, le dittature.

Una parentesi sulle dittature. Di regola esse, imponendo una cultura di stato, impediscono la libera espressione artistica come autonoma lettura del mondo. In tempi moderni ne abbiamo avuto due esempi drammatici nella Germania di Hitler e nell’Unione sovietica di Stalin. Nella prima il ministro Goebbels diceva di mettere mano alla pistola appena sentiva parlare di cultura, nella seconda il “realismo socialista” soffocava in partenza ogni voce fuori dal coro. In entrambi i casi si verificò una imponente diaspora di scrittori, scienziati, artisti e musicisti, in fuga verso i paesi democratici. Nello stesso periodo, anche l’Italia ha avuto la sua dittatura, con la fuga all’estero di grandi personalità (come Arturo Toscanini, Rita Levi Montalcini, Enrico Fermi…). Una dittatura non meno oppressiva delle altre, con abolizione della libertà di stampa e della libertà di opinione, carcere e confino per gli oppositori, militarizzazione dei giovani, qualche assassinio di stato, leggi razziali, spirito guerrafondaio e infine il famigerato Minculpop che condizionava tutte le attività culturali attraverso le veline. Eppure, incredibilmente, anche in queste condizioni il Paese, imperturbabile, ha continuato a produrre bellezza. Proprio in questi giorni nella vicina Forlì è stata aperta una mostra dedicata all’Arte italiana dal 1920 al 1940. Essa mostra plasticamente non solo il livello qualitativo, ma anche la dimensione quantitativa del fenomeno. Persino i manifesti dedicati alla goffa retorica di regime attorno al mito della romanità e dell’impero sono bellissimi. E allora?

L’irripetibilità italiana è il frutto della sua storia complessa e inquieta: l’avvicendarsi di papi, monarchi, principi, condottieri, tribuni, tiranni, demagoghi ha fatto dell’Italia il crogiuolo culturale dell’Occidente. Si obietterà che l’Italia è l’ultimo dei grandi paesi europei ad aver raggiunto la dignità di nazione politicamente unita e indipendente: appena un secolo e mezzo fa. È vero, ma il concetto storico di Italia è in realtà antichissimo e ben delineato. Esiste da sempre una precisa koinè italica che accomuna
tutti i popoli della Penisola ed è basata su tre pilastri: la lingua, la religione e la storia. È noto che Metternich, nel 1849, fece infuriare i patrioti del Risorgimento sostenendo che l’Italia era solo “un’espressione geografica”. In realtà l’affermazione non era in sé priva di fondamento: piuttosto il politico austriaco avrebbe dovuto aggiungere a “geografica” anche “storica e culturale”. Del resto, non c’è solo il ricordato Machiavelli a rivolgersi agli “italici cor”. C’è l’esempio di Dante con la sua invettiva: Ahi serva Italia, di dolore ostello…, cui fa eco Petrarca con: Italia mia, benché il parlar sia indarno…, e la geniale sintesi linguistica dantesca: …del bel paese là dove il sì suona…, e quella geografica, ancora di Petrarca: …il bel paese / ch’Appennin parte, il mar circonda e l’Alpe. Di cosa parlano questi spiriti illuminati? Di una terra sconosciuta? Di un regno immaginario? O parlano del nostro Paese, l’Italia? E a chi rivolge Leopardi, qualche secolo dopo, la sua appassionata invocazione: O patria mia, vedo le mura e gli archi… quando l’unità d’Italia è ancora di là da venire?

La particolarità della bellezza italiana non sta solo nei monumenti, nelle cattedrali, nei borghi umbri e toscani, nelle colline marchigiane, nei castelli piemontesi, nelle costiere amalfitane, nelle ville venete, nelle rocche, nei campi disegnati secondo antiche armonie dal genius loci, tutte cose non riproducibili, ma nella storia dell’arte tutta, nel miracolo del Rinascimento, il più impressionante accumulo di genio umano mai raggiunto sulla terra, nell’Umanesimo, che mette l’uomo – il suo gesto, la sua fatica, il suo talento – al centro delle cose, nel Melodramma, di cui l’Italia è la culla e il centro propulsivo, nell’architettura, dai Romani, costruttori di ponti, acquedotti e arene spesso ancora funzionanti, fino a Giò Ponti, Giovanni Michelucci e Renzo Piano, nelle biblioteche, negli archivi, nella rete dei teatri. Nessun altro Paese ha altrettanta possibilità di riassumere nella sua storia la trama del tempo e il divenire della civiltà, di raccontare l’Europa e il mondo attraverso una successione di culture fra le maggiori e più universali (si pensi all’essere il centro della Cristianità) mai fiorite su questa terra. L’Italia è dunque una parte decisiva della coscienza del mondo.

Curiosamente, si può arrivare alle stesse conclusioni anche invertendo il punto di vista, considerando cioè l’atteggiamento degli stranieri, oggi e lungo la storia, nei riguardi del nostro Paese. Pensiamo al Grand tour, il viaggio iniziatico che i rampolli delle nobili famiglie del Nord Europa facevano nel XVIII secolo in Italia per completare la loro cultura. Esso è l’epifenomeno di un’attrazione più antica, complessa e anche contraddittoria che l’Europa ha avuto (e ha) per l’Italia. Nella prima metà del ’500, di fronte al consolidamento dei grandi regni europei (Francia, Inghilterra e Spagna) l’Italia si presentava come una realtà frammentata e disomogenea, caratterizzata da uno straordinario sviluppo artistico e una totale fragilità politica. Nasce di qui la spinta, la voglia di appropriarsi di questa ricchezza diversa, fatta di città libere e ricche, ma militarmente imbelli, sedi di una cultura evoluta e affascinante. Questo motivo correrà lungo i secoli e influenzerà generazioni di moderni viaggiatori, non solo quelli del Grand tour, fino ai giorni nostri.

Cosa affascina così tanto gli stranieri? Quale frutto proibito cercano, a quale carenza vogliono rimediare? Si muove lungo i secoli uno strano sentimento di attrazione-diffidenza per questo paese meraviglioso e pericoloso, infido giardino di delizie, paradiso e luogo di perdizione: anche perché abitato – secondo l’antico stereotipo – da un popolo disordinato e allegro, simpatico e superficiale, accogliente e inaffidabile. Ma in realtà al fondo di tutto c’è una speciale invidia, un’ammirazione incoercibile, un atteggiamento forse inizialmente altezzoso, ma subito contraddetto dallo spettacolo schiacciante della bellezza. Sono in gioco alcuni miti: il mito della classicità (le rovine, i monumenti…), il mito del clima (la luce, il sole, l’amore…), il mito del Rinascimento (l’indiscusso vertice spirituale della storia del mondo). A tutto ciò si aggiunga l’evidenza di un popolo, erede legittimo di tanto patrimonio, che vive da sempre immerso nella grazia e nell’armonia. Ne deriva un sentimento contrastante che, seppure declinato nelle forme più affabili, ritroviamo persino nei più appassionati dei nostri spettatori al ROF.

Allora, tutto ciò detto: la crisi economica è anche una crisi culturale e d’identità, una crisi di saperi, di conoscenze e di competenze. Non si dà crescita né sviluppo possibili senza un consapevole investimento sulla cultura, la formazione, la ricerca, l’istruzione (si pensi che la Germania ha tagliato 80 miliardi di spesa pubblica e ne ha investiti 13 nella cultura!); senza l’orgoglio per la nostra identità e la nostra storia, il legame fra passato e presente che fa inimitabile il nostro Paese. Occorre cioè un moderno umanesimo, che combini il patrimonio storico con una nuova creatività, e individui la cultura non come uno strumento, ma come un fine, un obiettivo in sé. C’è bisogno di una svolta, di un soggetto nuovo. Ciò che occorre è un Ministero della cultura: siamo uno dei pochi grandi paesi d’Europa a non averlo. Non si tratterebbe di accorpare le diverse funzioni oggi disperse fra vari ministeri (beni culturali, istruzione, ambiente, turismo, ricerca…) ma di un soggetto veramente diverso, nuovo, fortemente identitario, che fosse uno dei più importanti dell’esecutivo, e che si facesse carico dei temi legati a un’identità di nazione unica nel pianeta, che ha proprio nella cultura e nell’arte, intrecciate ai beni paesaggistici e ambientali, la sua vocazione storica e la sua cifra caratteristica. Dunque un dicastero fondamentale (come quello della difesa in Israele o dell’industria in Germania) autorizzato anche a operazioni di peso e di grande respiro, come il Beaubourg e la piramide del Louvre a Parigi, o il MoMA a New York. Finora hanno fatto ostacolo forse la paura di un altro Minculpop o la nascita di una cultura di stato, cioè l’occupazione da parte di una forza politica che voglia dettare regole in campo artistico. Ma ormai, nel XXI secolo, è un rischio che si può correre, e che le maggiori nazioni europee hanno corso senza danni. Si tratta davvero di una strada obbligata per il nostro Paese.

Bellezza contro forza, si diceva all’inizio. Ebbene, finora, malgrado le innumerevoli vicissitudini storiche che hanno agitato nel tempo la Penisola, e malgrado la brevità della nostra vicenda unitaria nazionale, la bellezza ha sempre vinto la sua sfida. Perché non dovrebbe vincere ancora?

Gianfranco Mariotti
Sovrintendente

Qui comunque il link alla presentazione completa del ROF-XXXIV.  

Francamente non so quanto l’idea di istituire un nuovo Ministero sia efficace e risolutiva: più che il rischio di farne un Minculpop ci vedo la certezza di creare un nuovo carrozzone clientelare di castaioli. Qualche concreto provvedimento preso dai Ministeri attuali potrebbe invece produrre risultati apprezzabili: penso ad una seria introduzione dell’insegnamento della musica nelle scuole inferiori, a partire da quelle materne; incentivi fiscali a chi produce prodotti multimediali e programmi televisivi di contenuto divulgativo sulla musica classica e lirica, indirizzati ai piccoli e ai ragazzi; priorità di erogazione dei finanziamenti pubblici (tipo FUS) a quelle istituzioni che mettono in atto specifici programmi educativi per gli under-18 (tanto per chiarire: non la farsa scaligera del 4 dicembre!) Insomma, cose anche modeste ma concrete.  
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Colgo l’occasione per contribuire alla… diffusione di cultura allegando un memorabile scritto di Roman Vlad su Rossini, comparso in Musica&Dossier nel Dicembre 1988.

E di seguito un altro studio di Arrigo Quattrocchi uscito sulla stessa rivista nel Luglio 1989.

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