Smaltita
l’indigestione wagneriana (mi verrebbe da dire: l’intossicazione, visto che la
maggior parte delle portate
arrivateci per radio da Bayreuth sapeva di cibo scaduto, se non proprio avariato…)
è tempo di preparare i bagagli per il prossimo ROF. Un festival che si può
tranquillamente godere senza prenotare posti 10 anni prima (per poi trovarsi a
vedere il capolavoro di Castorf!) e coniugando un’anonima vacanza
sull’Adriatico con le note del grande Gioachino.
Radio3, come è ormai tradizione, irradierà
le prime delle tre opere del
cartellone principale: a partire da sabato 10 (ore 20) con l’Italiana, per seguire domenica 11 (ore
18) con il Tell e poi chiudere lunedi
12 (ore 20) con la Valigia.
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Anche se può
prestare il fianco a facili critiche di ipocrisia, retorica e piaggeria, il
messaggio che il Sovrintendente del ROF, Gianfranco
Mariotti, ha affidato all’opuscolo di presentazione dell’edizione 2013 mi
sembra degno di attenzione e di meditazione.
Faccio perciò
un’eccezione alla regola di evitare cut&paste
quando basterebbe un link e riporto
qui sotto il testo di Mariotti.
Virtù contra furore
Virtù contra furore / prenderà l’arme, e
fia ’l combatter corto
ché l’antico valore / ne li italici cor
non è ancor morto.
Sono i versi di Petrarca che Niccolò Machiavelli
pone a epitome e suggello al termine del suo Principe. Riferiti all’Italia, e lo sono, questi versi sono ancora
attuali. Declinati in termini moderni, infatti, possono corrispondere a bellezza contro forza (forza economica, politica, militare) ed
esprimere così il motivo conduttore che presiede a tutta la nostra storia e
anche alla vocazione e al destino del nostro Paese.
Da quanti anni tutti noi, parlando di cultura,
ripetiamo invano le stesse cose? Che l’Italia detiene la maggior parte dei
beni culturali del pianeta, e che questo è il suo petrolio inutilizzato; che,
al contrario, cultura, istruzione, ricerca, formazione e tutela dell’ambiente
sono regolarmente marginalizzate; che la cultura non è una spesa, ma un
investimento; che la cultura “si mangia” e può produrre ricchezza; che
l’istruzione, musicale, scientifica e umanistica, è il fondamento,
l’architrave di una nazione civile, lo strumento indispensabile per qualunque
programma di crescita e sviluppo. Quante volte siamo tornati, inutilmente,
sugli stessi concetti? Allora, dobbiamo avere la chiara consapevolezza che
questi discorsi non hanno, e non avranno, alcun riscontro politico. Il
problema reale è dunque l’irrilevanza di ogni proposta che riguardi la
cultura, al di là della sua validità. È spontaneo attribuire tutto ciò alla
sordità della classe politica (come dimostrerebbero i programmi delle ultime
campagne elettorali), ma c’è di più e di peggio, ed è il diffuso disinteresse
dell’opinione pubblica. L’Italia ha perso il senso della sua identità, della
sua storia, del suo legame col passato, forse anche per l’uso distorto e
invasivo dei mezzi di comunicazione, in primo luogo delle TV commerciali.
Manca all’immaginario collettivo del Paese la coscienza della irripetibilità
italiana, il fatto che l’Italia è il più grande produttore di bellezza del
pianeta, e riveste questo ruolo, senza interruzione, da quasi tremila anni, ed
è chiaro che qui si parla di bellezza non solo ambientale e paesaggistica, ma
anche monumentale, pittorica, letteraria, poetica, musicale.
Sappiamo bene che vi sono state nei millenni
altre civiltà che hanno contribuito al progresso spirituale dell’umanità: in
Egitto, in Mesopotamia, in Cina e soprattutto in Grecia, vera culla della
cultura europea. È in Grecia che poesia, letteratura, filosofia, matematica,
arti visive, architettura hanno incarnato lo spirito dell’Occidente. Eppure
nessuna di queste civiltà ha retto alla prova del tempo: tutte, prima o poi,
hanno perduto l’energia creatrice e la forza propulsiva e adesso, direbbe
Leopardi, più di lor non si
ragiona. Pensiamo a città come
Atene, il Cairo, Corinto, Alessandria, Bagdad, Damasco: furono splendide e
illustri, ma oggi, a parte le residue testimonianze monumentali, sono
diventate città come le altre. Roma no, l’Italia no: per quasi trenta secoli
essa è sempre saldamente restata il luogo privilegiato della bellezza nel
pianeta, malgrado le guerre, le invasioni, la debolezza politica, le
dittature.
Una parentesi sulle dittature. Di regola esse,
imponendo una cultura di stato, impediscono la libera espressione artistica
come autonoma lettura del mondo. In tempi moderni ne abbiamo avuto due esempi
drammatici nella Germania di Hitler e nell’Unione sovietica di Stalin. Nella
prima il ministro Goebbels diceva di mettere mano alla pistola appena sentiva
parlare di cultura, nella seconda il “realismo socialista” soffocava in
partenza ogni voce fuori dal coro. In entrambi i casi si verificò una
imponente diaspora di scrittori, scienziati, artisti e musicisti, in fuga
verso i paesi democratici. Nello stesso periodo, anche l’Italia ha avuto la
sua dittatura, con la fuga all’estero di grandi personalità (come Arturo
Toscanini, Rita Levi Montalcini, Enrico Fermi…). Una dittatura non meno
oppressiva delle altre, con abolizione della libertà di stampa e della
libertà di opinione, carcere e confino per gli oppositori, militarizzazione
dei giovani, qualche assassinio di stato, leggi razziali, spirito
guerrafondaio e infine il famigerato Minculpop che
condizionava tutte le attività culturali attraverso le veline. Eppure, incredibilmente, anche in queste condizioni il Paese,
imperturbabile, ha continuato a produrre bellezza. Proprio in questi giorni
nella vicina Forlì è stata aperta una mostra dedicata all’Arte italiana dal 1920 al 1940. Essa mostra plasticamente non solo il livello
qualitativo, ma anche la dimensione quantitativa del fenomeno. Persino i manifesti
dedicati alla goffa retorica di regime attorno al mito della romanità e
dell’impero sono bellissimi. E allora?
L’irripetibilità italiana è il frutto della sua
storia complessa e inquieta: l’avvicendarsi di papi, monarchi, principi,
condottieri, tribuni, tiranni, demagoghi ha fatto dell’Italia il crogiuolo
culturale dell’Occidente. Si obietterà che l’Italia è l’ultimo dei grandi
paesi europei ad aver raggiunto la dignità di nazione politicamente unita e
indipendente: appena un secolo e mezzo fa. È vero, ma il concetto storico di
Italia è in realtà antichissimo e ben delineato. Esiste da sempre una precisa
koinè italica che accomuna
tutti i popoli della Penisola ed è basata su tre
pilastri: la lingua, la religione e la storia. È noto che Metternich, nel
1849, fece infuriare i patrioti del Risorgimento sostenendo che l’Italia era
solo “un’espressione geografica”. In realtà l’affermazione non era in sé
priva di fondamento: piuttosto il politico austriaco avrebbe dovuto
aggiungere a “geografica” anche “storica e culturale”. Del resto, non c’è
solo il ricordato Machiavelli a rivolgersi agli “italici cor”. C’è l’esempio
di Dante con la sua invettiva: Ahi serva Italia, di dolore ostello…, cui fa eco Petrarca con: Italia mia, benché il parlar sia indarno…, e la geniale sintesi linguistica dantesca: …del bel paese là dove il sì suona…, e quella geografica, ancora di Petrarca: …il bel paese / ch’Appennin parte, il mar
circonda e l’Alpe. Di cosa parlano questi
spiriti illuminati? Di una terra sconosciuta? Di un regno immaginario? O
parlano del nostro Paese, l’Italia? E a chi rivolge Leopardi, qualche secolo
dopo, la sua appassionata invocazione: O patria mia, vedo le mura e gli archi… quando l’unità d’Italia è ancora di là da venire?
La particolarità della bellezza italiana non sta
solo nei monumenti, nelle cattedrali, nei borghi umbri e toscani, nelle
colline marchigiane, nei castelli piemontesi, nelle costiere amalfitane,
nelle ville venete, nelle rocche, nei campi disegnati secondo antiche armonie
dal genius loci, tutte cose non riproducibili, ma nella storia
dell’arte tutta, nel miracolo del Rinascimento, il più impressionante
accumulo di genio umano mai raggiunto sulla terra, nell’Umanesimo, che mette
l’uomo – il suo gesto, la sua fatica, il suo talento – al centro delle cose,
nel Melodramma, di cui l’Italia è la culla e il centro propulsivo,
nell’architettura, dai Romani, costruttori di ponti, acquedotti e arene
spesso ancora funzionanti, fino a Giò Ponti, Giovanni Michelucci e Renzo
Piano, nelle biblioteche, negli archivi, nella rete dei teatri. Nessun altro
Paese ha altrettanta possibilità di riassumere nella sua storia la trama del
tempo e il divenire della civiltà, di raccontare l’Europa e il mondo
attraverso una successione di culture fra le maggiori e più universali (si
pensi all’essere il centro della Cristianità) mai fiorite su questa terra.
L’Italia è dunque una parte decisiva della coscienza del mondo.
Curiosamente, si può arrivare alle stesse
conclusioni anche invertendo il punto di vista, considerando cioè
l’atteggiamento degli stranieri, oggi e lungo la storia, nei riguardi del
nostro Paese. Pensiamo al Grand tour,
il viaggio iniziatico che i rampolli delle nobili famiglie del Nord Europa
facevano nel XVIII secolo in Italia per completare la loro cultura. Esso è
l’epifenomeno di un’attrazione più antica, complessa e anche contraddittoria
che l’Europa ha avuto (e ha) per l’Italia. Nella prima metà del ’500, di
fronte al consolidamento dei grandi regni europei (Francia, Inghilterra e
Spagna) l’Italia si presentava come una realtà frammentata e disomogenea,
caratterizzata da uno straordinario sviluppo artistico e una totale fragilità
politica. Nasce di qui la spinta, la voglia di appropriarsi di questa
ricchezza diversa, fatta di città libere e ricche, ma militarmente imbelli,
sedi di una cultura evoluta e affascinante. Questo motivo correrà lungo i
secoli e influenzerà generazioni di moderni viaggiatori, non solo quelli del Grand tour, fino ai giorni nostri.
Cosa affascina così tanto gli stranieri? Quale
frutto proibito cercano, a quale carenza vogliono rimediare? Si muove lungo i
secoli uno strano sentimento di attrazione-diffidenza per questo paese
meraviglioso e pericoloso, infido giardino di delizie, paradiso e luogo di
perdizione: anche perché abitato – secondo l’antico stereotipo – da un popolo
disordinato e allegro, simpatico e superficiale, accogliente e inaffidabile.
Ma in realtà al fondo di tutto c’è una speciale invidia, un’ammirazione
incoercibile, un atteggiamento forse inizialmente altezzoso, ma subito
contraddetto dallo spettacolo schiacciante della bellezza. Sono in gioco
alcuni miti: il mito della classicità (le rovine, i monumenti…), il mito del
clima (la luce, il sole, l’amore…), il mito del Rinascimento (l’indiscusso
vertice spirituale della storia del mondo). A tutto ciò si aggiunga
l’evidenza di un popolo, erede legittimo di tanto patrimonio, che vive da
sempre immerso nella grazia e nell’armonia. Ne deriva un sentimento contrastante
che, seppure declinato nelle forme più affabili, ritroviamo persino nei più
appassionati dei nostri spettatori al ROF.
Allora, tutto ciò detto: la crisi economica è
anche una crisi culturale e d’identità, una crisi di saperi, di conoscenze e
di competenze. Non si dà crescita né sviluppo possibili senza un consapevole
investimento sulla cultura, la formazione, la ricerca, l’istruzione (si pensi
che la Germania ha tagliato 80 miliardi di spesa pubblica e ne ha investiti
13 nella cultura!); senza l’orgoglio per la nostra identità e la nostra
storia, il legame fra passato e presente che fa inimitabile il nostro Paese.
Occorre cioè un moderno umanesimo, che combini il patrimonio storico con una
nuova creatività, e individui la cultura non come uno strumento, ma come un fine,
un obiettivo in sé. C’è bisogno di una svolta, di un soggetto nuovo. Ciò che
occorre è un Ministero della cultura: siamo uno dei pochi grandi paesi
d’Europa a non averlo. Non si tratterebbe di accorpare le diverse funzioni
oggi disperse fra vari ministeri (beni culturali, istruzione, ambiente,
turismo, ricerca…) ma di un soggetto veramente diverso, nuovo, fortemente
identitario, che fosse uno dei più importanti dell’esecutivo, e che si
facesse carico dei temi legati a un’identità di nazione unica nel pianeta,
che ha proprio nella cultura e nell’arte, intrecciate ai beni paesaggistici e
ambientali, la sua vocazione storica e la sua cifra caratteristica. Dunque un
dicastero fondamentale (come quello della difesa in Israele o dell’industria
in Germania) autorizzato anche a operazioni di peso e di grande respiro, come
il Beaubourg e la piramide del Louvre a Parigi, o il MoMA a New York. Finora
hanno fatto ostacolo forse la paura di un altro Minculpop o la nascita di una cultura di stato, cioè
l’occupazione da parte di una forza politica che voglia dettare regole in
campo artistico. Ma ormai, nel XXI secolo, è un rischio che si può correre, e
che le maggiori nazioni europee hanno corso senza danni. Si tratta davvero di
una strada obbligata per il nostro Paese.
Bellezza contro forza, si diceva all’inizio. Ebbene, finora, malgrado
le innumerevoli vicissitudini storiche che hanno agitato nel tempo la
Penisola, e malgrado la brevità della nostra vicenda unitaria nazionale, la
bellezza ha sempre vinto la sua sfida. Perché non dovrebbe vincere ancora?
Gianfranco Mariotti
Sovrintendente
|
Francamente non so quanto l’idea di
istituire un nuovo Ministero sia efficace e risolutiva: più che il rischio di
farne un Minculpop ci vedo la certezza di creare un nuovo carrozzone clientelare di castaioli. Qualche concreto
provvedimento preso dai Ministeri attuali potrebbe invece produrre risultati
apprezzabili: penso ad una seria introduzione dell’insegnamento della musica
nelle scuole inferiori, a partire da quelle materne; incentivi fiscali a chi
produce prodotti multimediali e programmi televisivi di contenuto divulgativo
sulla musica classica e lirica, indirizzati ai piccoli e ai ragazzi; priorità
di erogazione dei finanziamenti pubblici (tipo FUS) a quelle istituzioni che
mettono in atto specifici programmi educativi per gli under-18 (tanto per chiarire: non la farsa scaligera del 4 dicembre!)
Insomma, cose anche modeste ma concrete.
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Colgo l’occasione per contribuire
alla… diffusione di cultura allegando un memorabile scritto di Roman Vlad su Rossini, comparso
in Musica&Dossier nel Dicembre
1988.
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