In una giornata a dir poco autunnale (pioggia
insistente e max 18°… ma oggi sta tornando l’estate) l’Adriatic Arena ha ospitato ieri sera (anzi… pomeriggio) l’ultima
rappresentazione di Guillaume Tell.
Palazzetto stracolmo di pubblico che
ha decretato un autentico trionfo allo spettacolo: o perlomeno alla componente
musicale; quanto all’allestimento, i buh e le sonore disapprovazioni al termine
della seconda scena del terz’atto (il Pas
de Soldats) hanno fatto chiaramente capire come non sia stato propriamente
gradito (ma ci torno fra poco).
Dicevo della parte musicale, di buon livello,
pur non toccando, a mio modesto avviso, vette di eccellenza assoluta.
JD
Florez,
il più atteso alla prova, ha mostrato di essere all’altezza del compito e mi è
parso più sicuro rispetto alla prima
ascoltata in radio: evidentemente due recite in più gli sono servite per
completare il… rodaggio. Si conferma comunque un gran professionista, che sa
garantire sempre il risultato: per lui lunghissimi applausi a scena aperta. Certo,
come attore non è un gran che, forse perché concentra tutto se stesso sul canto
(e come dargli torto!)
Con lui bene ha fatto Marina Rebeka, che a dispetto di una
certa metallicità negli acuti ha sciorinato una prestazione più che positiva.
Insieme i due hanno meritato un autentico trionfo dopo il duetto del
second’atto.
Anche Amanda Forsythe mi ha fatto miglior impressione rispetto alla prima: non ha urlato troppo gli acuti e
soprattutto ha più che dignitosamente esposto la sua non facile (e spesso
tagliata) aria di Jemmy del terz’atto.
Meritevoli anche Veronica Simeoni come Hedwige, Simon
Orfila nei panni di Walter e Simone Alberghini
nella parte breve ma importante di Melcthal.
Un Gesler passabile era Luca Tittoto, voce piuttosto cavernosa,
peraltro adatta al truce personaggio.
Celso
Albelo
ha fatto onestamente la sua parte, inclusi i due DO che gli son venuti un po’
meglio che alla prima.
Il Rodolphe di Alessandro Luciano ha appena la mia sufficienza: voce poco passante
priva di espressione. Un filino meglio di lui ha fatto Vojtek Gierlach nei suoi due ruoli di contorno.
Tell? Beh, Nicola Alaimo ha la prestanza fisica (fin troppo abbondante!) dello
svizzerotto tutto patria, casa e chiesa. Quanto alla voce, già sopra il RE
tende ad ingolarsi e a produrre schiamazzi più che suoni rossiniani. In
complesso una prestazione discreta ma non certo da ricordare nella storia.
Il Coro di Andrea Faidutti ha meritato ampiamente le ovazioni ricevute alla
fine, che hanno anche accolto l’Orchestra e il suo Direttore stabile, che si conferma profeta-in-patria: il suo è un Tell assai misurato, poco incline
alle enfasi e alla retorica, più religioso che eroico, mi verrebbe da dire.
___
Ed ora eccoci a Graham Vick.
Il quale ha cucinato un autentico
minestrone (ma di quelli proprio indigesti, però) in cui ha buttato quasi a
caso, e con dosaggi strampalati, gli ingredienti più diversi e perfino
inconciliabili, tipo mescolare curry e tartufo in un risotto, ecco: ti viene che
è proprio ‘na schifezza.
Intanto siamo subito avvertiti (dal pugno chiuso sul siparione bianco-rosso)
che ci sarà lotta di classe: siamo in
Svizzera a novecento iniziato (cineprese a manovella) poi a novecento avanzato
(il proiettore super-8 con cui Arnold guarda i filmini di quando era bambino) e
però, invece dei banchieri che sfruttano, più o meno direttamente,
l’immigrazione, ci sono finti austriaci che opprimono gli operosi contadini
elvetici. Notare: gli occupanti son dotati di mitra, i locali di… balestre.
Certo, ci sono espliciti ed
appropriati richiami alla terra e al lavoro (meno ai suoi frutti: nessuna
traccia di emmenthal, né di orologi,
in Svizzera, toh!) mescolati però a becere denunce dell’odierno sfruttamento
minorile (le scarpe della Nike in Bangladesh? e perché non la UnionCarbide in
India, già che ci siamo?) La prima scena dell’opera è emblematica: mentre libretto
e musica ci presentano gente che accudisce serenamente alle proprie incombenze,
Vick ci mostra persone vessate da aguzzini nazisti in campi di lavoro forzato. Ma
forse lui la musica nemmeno l’ha ascoltata,
altrimenti avrebbe capito che evocava tutt’altro.
Insomma, Vick finge di confondere
(dico finge perché non può essere così stupido da far confusione per davvero)
una lotta di liberazione nazionale con la lotta di classe tout-court. Quindi bandiere e
guardie rosse, neanche fossimo nella Russia del ’17. Sarebbe come
presentare la Resistenza italiana al
nazifascismo esclusivamente come una fase della rivoluzione proletaria
internazionale: per carità, dentro la Resistenza c’erano anche (ed erano magari
maggioranza relativa) i rivoluzionari dal pugno chiuso, ma quel movimento fu
molto di più e di diverso dalla pura lotta di classe.
Vicende come la scena-madre della mela
(tipiche rappresaglie contro innocenti) sono del tutto estranee a fenomeni di
lotta di classe, e invece perfettamente plausibili in scenari in cui si
confrontano quasi a livello personale un potere assoluto e la resistenza di un popolo (Fosse
Ardeatine, Marzabotto e altri simili fatti ne sono testimonianza). Così pure
l’uccisione di un monarca (o di un suo rappresentante, come nel caso di Gesler)
non è assolutamente un atto tipico della lotta di classe, ma di fenomeni di
irredentismo o al massimo di anarchismo. E la vittoria finale, nel Tell, è
quella di un popolo che riconquista libertà e indipendenza dal giogo straniero,
per tornare – in uno spirito assolutamente conservatore,
per nulla rivoluzionario o sovversivo – alle sue antiche tradizioni e
consuetudini minacciate dall’oppressore straniero; non è certo l’arrivo del sol dell’avvenir che Vick ci propina con
lo scalone rosso alla fine. Fenomeno, il primo, ben presente nel frangente
storico in cui Rossini compose l’opera, dove invece il secondo era ben di là da
venire. (Ma di tutto ciò, al regista-narcisista, nun glie ne po’ ffrega’ dde meno!)
Quanto ai dettagli, davvero
insopportabile - perché precisamente motivato da odio di classe e non da
spirito patriottico – il trattamento che Vick ci propone degli occupanti
austriaci: in particolare nelle scene del terzo atto, infarcite di gratuite
violenze e di siparietti-porno di bassa lega. Qui Vick trasforma una delle
parti più intense dell’opera (dove la musica fa convergere mirabilmente aspetti
drammatici e sereni) in puro avanspettacolo scollacciato da teatrino
underground. Non per nulla il pubblico ha buhato sonoramente, purtroppo
coinvolgendo nella contestazione anche i musicanti
e i danzatori, non solo incolpevoli, ma anzi meritevoli di applauso.
E che dire dei cavalli di cartapesta
del second’atto? Che ci voleva ricordare qui Vick? Le cariche della Lady-di-ferro contro i minatori in
sciopero? Tanto erano nobili e appropriati i due destrieri dallo stesso Vick
impiegati nella sua Bolena, tanto sono
gratuiti i dodici che riempiono qui la scena, e dei quali uno (quello bianco,
su cui era salita Mathilde) ritroviamo all’inizio del terz’atto con la testa
mozzata, forse come simbolo della nascente rivoluzione proletaria guidata da
Arnold…
E che dire dell’efferatezza gratuita
di cui il regista riveste in egual misura (excusatio-non-petita?)
oppressi ed oppressori? Che si materializza nelle due scene parallele: della
gara di tiro che Jemmy vince mozzando di netto la testa di un manichino
rappresentante l’occupante; e della fine del vecchio Melcthal, prima linciato e
poi appeso precisamente come il manichino di poco prima.
Ecco, per dire dove portano le idee di
chi vuole a tutti i costi coniugare l’impegno professionale con il proprio
vincolo ideologico: rappresentare il Tell di Rossini e propagandare convinzioni
politiche comuniste!
Insomma, ancora una volta (era già
successo con il Mosè del 2011, in altro scenario) Vick manipola l’originale -
in modo, per me almeno, inaccettabile -
per piegarlo alle sue concezioni politiche e al suo obiettivo maieutico,
aspetti del tutto assenti (e direi proprio deliberatamente) nel testo e
soprattutto nella musica del Tell.
Quindi, siamo alle solite: c’è una musica, composta per rappresentare ed
evocare un certo scenario, che viene impiegata dal regista come colonna sonora per supportare il suo proprio scenario, che poco o nulla
ha a che fare con l’originale. Nobbuono…
Dopodichè, essendo Vick un grande uomo
di teatro, è garantito che il suo spettacolo sia di alto livello e in sé (basta
dimenticarsi l’originale, che problemi ci sono?) persino coinvolgente e
godibile.
Peccato che quello del regista
albionico – ma questa è solo una quisquilia, una pinzillacchera! – sia un prodotto adulterato. Sì, lo ripeto fino
alla nausea, proprio come spacciare una Lacoste, o un Rolex, o un VanGogh contraffatti.
(Quindi anche questa volta un premietto penso che lo abbia di sicuro, smile!)
___
Lo spettacolo sarà ripreso dal Regio di
Torino
il prossimo maggio; stesso allestimento, ma per il resto… tutto diverso, a
cominciare dalla lingua (versione italiana di Bassi) e poi: via i balletti,
altro cast, orchestra, coro e direttore (Noseda). Si vedrà…
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