Zelensky e l'alternativa lose-lose, fra perdere:

la dignità VS l’alleato che ti chiede di perderla 

05 aprile, 2013

Orchestraverdi – concerto n.29


Jader Bignamini torna sul podio a guidare laVerdi in un nuovo appuntamento con la Russia (al di qua della cortina...) più qualcosa di italiano moderno.

Una nota di carattere logistico: quando un programma prevede due pezzi per pianoforte e due per sola orchestra, anche un fanciullo arriverebbe a capire che convenga accorpare i due brani col solista. Se invece, come puntualmente accade qui, si pongono i due brani col pianoforte in posizione 2 e 3 (prima e dopo l’intervallo) si ottiene il mirabile risultato di costringere il pubblico a due intervalli supplementari, da trascorrere obbligatoriamente ancorati alla propria poltrona, contemplando i (per carità, efficientissimi) addetti che spostano e poi riallontanano l’ingombrante strumento a tastiera. Si poteva almeno risparmiare il primo trambusto preparando il pianoforte già in posizione, coperchio chiuso, per il breve brano d’apertura.

Si apre quindi con Alexander Borodin e le tanto famose, quanto ignota è l’opera, danze dal Principe Igor. Che tutti però ricordiamo come Straniero fra gli angeli.

Il brano (che nell’opera chiude il secondo atto) consiste, dopo una brevissima introduzione, nel succedersi di quattro danze, seguito dalla ripresentazione della 1, poi della 4, poi della 2 e infine da una Coda:


Nell’opera agli strumenti si aggiunge anche il coro, con un grandissimo effetto (qui un Gergiev letteralmente forsennato!): peccato che laVerdi (che dispone di un coro con i fiocchi) non abbia pensato di impiegarlo, proponendoci invece la versione puramente strumentale del brano (orchestrata da Rimski). Un po’ un’occasione perduta, anche se l’esecuzione dell’orchestra è stata davvero trascinante.   
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Segue la primizia contemporanea: una specie di Concerto per piano e orchestra di Nicola Campogrande, la voce (maschile) più… sexy di Radio3-Suite. Musica a programma, precisamente il ritratto di una donna (R è l’iniziale del nome) commissionato dal compagno (di nome A). Insomma, una specie di Sinfonia domestica in casa d’altri (smile!)

Sono 5 movimenti, i tre dispari assai mossi (personalmente ci ho visto Respighi, Stravinski e Varèse) a incastonarne due più lenti e quasi delle cadenze del solo pianoforte. Musica gradevole che non si direbbe composta oggi, il che tutto sommato torna a suo merito!

La protagonista di questa primizia è Lilya Zilberstein, una russa trapiantata in Germania che ha frequentazioni assidue con il nostro Paese. A giudicare dai complimenti che le ha rivolto alla fine l’Autore, salito sul palco a prendersi i dovuti applausi, dobbiamo pensare che l’esecuzione sia stata precisamente come Campogrande (e  la famiglia committente…) se l’aspettava.  
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Dopo l’intervallo torna la bravissima Lilya per proporci le 24 variazioni (oh, pardon! la rapsodia) di Rachmaninov sull’ultimo capriccio di Paganini. Qui una sua esecuzione a Torino con la RAI, ma già circa 14 anni fa la russa aveva eseguito il pezzo con laVerdi!

 
Domanda: in un pezzo di Rachmaninov potrebbe mai mancare una qualche citazione del Dies Irae? Ma certo che no, e infatti basta pazientare poco (fino alla variazione VII) per trovare il chiodo fisso del russo:


E non sarà di certo questa l’unica apparizione del famoso tema medievale, che torna nella variazione X, poi, camuffato, nella XIV, poi ancora nella XXII e finalmente nella XXIV.

Alla variazione XVIII arriva anche la parte languida e zuccherosa (è pur sempre… Rachmaninov!) ottenuta con l’espediente di invertire il tema principale, trasportandolo poi in REb maggiore:

Si apre qui l’ultima parte della Rapsodia, che poi chiude con una specie di sberleffo, come di uno spiritello che sparisce nel nulla con un paf! Ecco: una croma di LA appena sussurrato dal pianoforte, dal pizzicato degli archi, da timpano e campanelli e da tuba, corni e fagotti. 

Trascinante l’esecuzione della Zilberstein, che ci mette tutta la dovuta diabolicità, ben sorretta da Bignamini, il che le merita un autentico trionfo, non ricambiato (ma bisogna pure capirla!) da un bis
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Chiude la serata Stravinski, con il suo… poker col morto (smile!) il compositore russo trapiantato in occidente era diventato un accanito giocatore di poker, e così gli venne in mente il soggetto per un balletto dove a danzare sono… le carte. Si tratta di tre mani sempre aperte dallo stesso motivo, che rappresenta l’atto della distribuzione delle carte:


Le note di regìa del balletto sono assai dettagliate, con i danzatori che rappresentano le carte di cui via via scoprono il contenuto, togliendosi maschere e mantelli e dando luogo quindi alle diverse fasi della partita, con vincitori e vinti.

C’è anche un risvolto quasi sociologico nella trama del balletto, laddove il Joker, che si comporta praticamente da tiranno e fa vincere alla sua squadra le prime due mani alla grande, viene alla fine smerluzzato dal… popolo delle carte normali (una sontuosa scala reale di cuori!) 

Certo, con l’esecuzione puramente strumentale si fatica a percepire il contenuto letterario del brano (come si fa, in musica, a rappresentare le picche e i quadri?) e non resta che gustarlo come musica pura, costellata da impertinenti citazioni di Rossini, Ciajkovski e Beethoven… 

Bignamini, che dirige tutto (Campogrande escluso…) a memoria, trascina i ragazzi in un’esecuzione spiritosa e vibrante, meritandosi grandi ovazioni da un pubblico abbastanza folto. 
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Prossimamente un Mahler classico, preceduto da Lutoslavski.

03 aprile, 2013

Alla Scala un Macbeth originale, anzi… strampalato


Fin dall’annuncio della stagione scaligera dei due bi-centenari era noto che questa produzione di Macbeth avrebbe rappresentato una novità, in quanto per la prima volta dopo 150 anni (precisamente dal 5 marzo 1863) il Piermarini avrebbe ospitato la versione originale del primo dramma shakespeariano di Verdi, quella andata in scena alla Pergola di Firenze il 14 marzo 1847. Tutte le precedenti edizioni, a partire dal 29 gennaio 1874, avevano avuto come oggetto la versione parigina dell’opera, datata 1865 (21 aprile, Théatre Lirique).
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Si sa che Verdi colse l’occasione della presentazione francese dell’opera - che forse aveva amato più di ogni altra – per apportarvi, oltre a modifiche espressamente richieste dal teatro committente, anche suoi propri ritocchi, essendosi reso conto, a più di 15 anni di distanza, di alcune piccole o grandi manchevolezze insite nella partitura.  

Tuttavia, se si escludono numerose modifiche che all’atto pratico sono distinguibili solamente al musicofilo, o comunque all’addetto-ai-lavori, mentre sfuggono ad un ascolto normale in teatro, le differenze sostanziali fra le due versioni si possono riassumere in quanto segue:

Atto 1:
a. una diversa distribuzione di voci nei cori delle streghe;
b. una diversa soluzione del duetto di Macbeth con Lady (prima del sestetto finale) portato tutto a FA minore – compresa l’armatura di chiave - da FA minore-maggiore;

Atto 2:
la cabaletta di Lady Macbeth Trionfai! (tutta virtuosismo, in SIb maggiore, con ascese al DO acuto) viene sostituita (testo e musica) con la drammatica La luce langue (in MI minore-maggiore); conseguentemente anche la frase di Macbeth che la precede viene abbassata di un semitono e chiude su SI anziché sul DO.

Atto 3:
a. aggiunta dei ballabili alla scena iniziale, in omaggio alle consuetudini parigine, con conseguente eliminazione delle ultime battute del precedente coro delle streghe; inserimento di alcune battute di raccordo al successivo ingresso di Macbeth (Finché appelli…) e leggere modifiche al successivo recitativo e alla della scena delle apparizioni;
b. modifica radicale del finale: eliminazione dell’aria di Macbeth (Vada in fiamme) sostituita da un dialogo fra Macbeth medesimo e la sua Lady;

Atto 4:
a. il coro iniziale (Scozia oppressa) diviene Patria oppressa ed è completamente ri-musicato (a parità di testo) mutando completamente carattere, dal cipiglio risorgimentale (SOL minore – SIb maggiore – SOL maggiore) al metafisico pessimismo (LA minore – MI minore – LA minore, con chiusa in maggiore); conseguentemente è ritoccato (5 battute) il successivo incipit di Macduff;
b. la scena della battaglia fra Macbeth e Macduff è completamente ri-musicata (con l’impiego di una fuga);
c. l’aria di Macbeth morente (Mal per me) viene eliminata e sostituita da una enfatica scena di tripudio generale.     

Ora, in questa edizione scaligera è stata presa effettivamente come base la versione del 1847, ma con due sostanziali eccezioni, consistenti nel farci il retro-fitting di due brani di quella successiva:

a. l’aria di Lady Macbeth La luce langue;
b. il coro Patria oppressa.

Con le inevitabili aggiustature necessarie per incastrare i due brani del 1865 nella struttura dell’opera del 1847.

Mah insomma, la solita tecnica del meccano, applicata alle opere di cui esistono versioni o varianti diverse: prendere di volta in volta dalla scatola di montaggio i componenti che piacciono di più e ri-montarli per costruirci una versione nuova e… diventare famosi. Che poi siano compromessi né-carne-né-pesce, cui l’Autore per primo mai aveva pensato, poco importa. (Fra qualche settimana il Macbeth nella versione davvero originale - almeno si spera! - è in programma proprio alla Pergola.) 

Chi sia stato il responsabile di questa trovata non è dato sapere; gli indiziati sono parecchi: dal direttore Gergiev (fra parentesi: il suo vice D’Espinosa è stato protestato proprio alla vigilia…) al regista Corsetti (che ne accenna nel video pubblicato sul sito-web del teatro e sul programma di sala); al maestro del coro Casoni (magari per via del più moderno e conosciuto Patria oppressa); o alla protagonista femminile (Lucrecia Garcia, nel primo cast) magari impreparata di fronte ai funambolici gorgheggi del Trionfai!; e per finire al soprintendente Lissner, forse arrogatosi il diritto inappellabile di interpretare i gusti del suo amatissimo pubblico (!?)

Questione di-vita-o-di-morte? Per carità, abbiamo già abbastanza rogne di nostro (ci si doveva mettere anche il Presidente a trasformarsi in Re…) quindi va bene tutto, e del resto in confronto alle invenzioni della regìa qui siamo ancora in paradiso.
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Ecco, un allestimento (come spesso capita) a dir poco pretenzioso, dove il regista, a forza di spremersi le meningi per inventare qualcosa di strabiliante che lo faccia passare alla storia, le manda arrosto e si imballa come un motore fuori-giri, che alla fine… fonde in un mare di fumo, spargendo una puzza insopportabile.  

L’ambientazione è in nessun posto e ovunque, allo stesso tempo: scene improbabili, con due ali semoventi di colosseo di cartapesta; un sofà e un tavolino, con bottiglia di whisky (siamo in Scozia, perdinci!) e bicchieri; costumi del primo ‘900, con militari dell’epoca guglielmina che sfilano in parata per tutta la platea, a luci riaccese (come nelle migliori tradizioni, ormai); teste di cuoio e guardiani di guantanamo che trattano i prigionieri con guanti scarponi di velluto; clochard in coda per un piatto caldo della Caritas, e altre cose più o meno improvvisate, come la presenza di un telefonino dove la Lady legge il famoso sms di Macbeth (qui una sola piccola sbavatura: sui display in sala il messaggio avrebbe coerentemente dovuto comparire come allgr ldy xkè sno avnti cmnq in sndgg di strgh…)

La categoria dei danzatori e/o mimi e/o acrobati deve avere con la Scala uno speciale contratto co-co-dè, perché di costoro c’è ormai traccia in qualunque opera. Come delle proiezioni di immagini o foto, qui usate in specie per mostrarci gli otto re, incubo di Macbeth: fra loro riconoscibili alcuni cattivoni, tipo Hitler e Stalin (Berlusconi non-pervenu…)  

Insomma, l’ennesimo spettacolo da localuccio underground spacciato per opera d’arte degna del teatro più rinomato del pianeta…
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Sul fronte delle note, dopo la débacle della prima, come spesso accade le cose sono migliorate: un solo, timidissimo vergogna indirizzato al rientro di Valery Gergiev. Il quale – impugnando uno… spiedino - ha poche volte alzato lo sguardo dalla partitura (all’apparenza un volume nuovo di zecca, a giudicare dalle pagine che si giravano da sole, che il maestro sfogliava probabilmente per la… seconda volta, smile!) Insomma,  pareva essere impegnato a non perdere il passo con l’orchestra, più che a guidarla (!?) Comunque a me non è dispiaciuto del tutto, per quanto desse l’impressione di dirigere Ciajkovski… smile!

Per il resto solo applausi (sì non da stadio, ma applausi): un paio anche a scena aperta per Secco e Vassallo.

Ecco, Franco Vassallo è stato un Macbeth accettabile, oltretutto qui dovrebbe chiedere cachet doppio, per via delle due arie in più che canta, grazie alla versione 1847: peccato che al termine di quella del terzo atto si sia montato la testa, credendo forse di essere… Ernani e sparando ridicolmente un LA acuto degno di miglior causa.

Stefano Secco ha abbastanza convinto, in una parte non impervia, e si è meritato anche il singolo, dopo la paterna mano.

Lucrecia Garcia ha un vocione abbastanza potente in alto, arriva anche a sparare i DO acuti, ma nell’ottava bassa e al centro stenta assai: come attrice (e per la Lady effettivamente ci vorrebbe una Duse…) è un pochino, ehm, impacciata dal quintalotto che si deve tirare appresso.

Štefan Kocán era Banco (o Banquo che scriver si voglia) e si è meritato la brutta fine che ha fatto (smile!) così impara a cantar meglio. Però ha ben interpretato – come prescriveva Verdi – le sue due apparizioni da morto (che per nostra fortuna non deve cantare… stra-smile!)

Antonio Corianò ha fatto il suo dovere in Malcolm, e così le altre figure minori.

Il Coro di Casoni sui suoi standard.
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Alla fine applausi cumulativi (nessuna uscita singola, regista assente) ma abbastanza convinti. Fossimo al teatro di Pizzighettone ci sarebbe da fare complimenti a josa per lo spettacolo. Peccato che siamo alla Scala: amen.
     

28 marzo, 2013

Novità (quasi) assoluta alla Scala


Dopo Quartett di Francesconi, presentato nella passata stagione, ecco ancora una novità quasi assoluta nel cartellone della Scala: Cuore di Cane di Alexander Raskatov (2009) basata su un racconto di Michail Bulgakov della prima metà del ‘900, nell’epoca del consolidamento dei Soviet.

Per cominciare, una notazione di carattere linguistico: siamo, è vero, in tempi di globalizzazione selvaggia, ma è davvero singolare, per non dire ridicolo, che un’opera che ha il libretto originale scritto in italiano (da Cesare Mazzonis) venga rappresentata in Italia in lingua russa (traduzione di George Edelman) con sopratitoli in italiano!!! Mentre il programma di sala reca, toh!, esclusivamente il testo italiano, che diverge non poco da quello della traduzione russa, come si deduce dai tagli elencati sul programma scaligero e come chiunque può (più o meno facilmente) presumere ascoltando la registrazione della prima andata in scena poco tempo fa ad Amsterdam, dove l’opera fu commissionata.

Poi, indagando, si viene anche a sapere che la traduzione in russo è stata approntata anche in vista della rappresentazione dell’opera in quel Paese, cosa che però è risultata fino ad oggi impossibile, a causa dell’opposizione di un erede di Bulgakov, che millanta diritti di copyright sull’originale. Insomma, roba da… cani (smile!) E chissà se dentro a questa intricata faccenda non ci stia anche il forfait dal podio di tale Valery Gergiev.

La storia di Bulgakov – invero inverosimile – si colloca nel solco della letteratura russa paradossal-parodistica (tipo Il Naso di Gogol-Shostakovich, per dire) e vorrebbe essere una satira al vetriolo contro certe ideologie staliniste (l’uomo nuovo, modellato in provetta da scienziati pazzi) e contro le contraddizioni del regime, che tollera che all’interno della nuova società egualitaria sopravvivano sacche di privilegi borghesi, per non dire feudali.   

Va detto che lo spettacolo che la coppia di autori Mazzonis(Edelman)-Raskatov e il regista Simon McBurney hanno messo in piedi appare, almeno al primo contatto, assai accattivante, con la sua doppia essenza: di divertente farsa (l’atto primo) seguita dall’autentico dramma (atto secondo) del fallimento dell’uomo-cane, o cane-uomo, fino all’inevitabile e necessaria revoca del folle esperimento (revoca peraltro tardiva ed inefficace, secondo il finale di Mazzonis-Raskatov, che contraddice l’originale lieto-fine di Bulgakov). E proprio perché intelligente e interessante, in Italia l’opera meriterebbe di esser rappresentata nella nostra lingua (gli albionici ci hanno ancora una volta dato una lezione, offrendola al pubblico di Londra tradotta in inglese) per rendercela vieppiù digeribile. Chissà se ci sarà un’altra occasione… intanto questa però è stata persa, come dimostrano gli enormi vuoti che anche ieri sera si sono registrati in teatro, insieme al fuggi-fuggi nell’intervallo. Sì perché, diciamolo chiaro, se uno non ha come minimo letto prima, e molto attentamente, il libretto, rischia di non capirci proprio nulla e di mandar tutti a quel paese…

Il fatto è che la trama non è proprio così lineare e immediatamente comprensibile (se ascoltata in una lingua sconosciuta) poiché alla vicenda surreale del cane trasformato in uomo si sovrappongono e si mescolano altre vicende che pochissimo o nulla hanno a che fare con quella del cane, ma moltissimo con alcune problematiche psico-sociologico-politiche dell’epoca proto-staliniana in cui il soggetto è ambientato. Ad esempio, dopo che all’inizio si vede il povero cane randagio salvato dalla morte per fame-freddo ed ospitato in un palazzo altolocato, prima di arrivare al momento topico dell’operazione chirurgica che lo trasformerà in uomo, per quasi tutto il primo atto si intercalano – allo scopo evidentemente di mostrarci in quale ambiente il cane sia capitato, ma distogliendo l’attenzione dalla vicenda principale – le scene occupate dalle visite di due pazienti paranoici del professore padrone-di-casa, e poi quella  dell’arrivo dei rappresentanti del soviet-di-condominio che vorrebbero espropriare una porzione dello spazioso appartamento-clinica del medico. Queste scene, se non si conosce in anticipo il testo e in compenso lo si ascolta in ostrogoto, risultano incomprensibili e fuori dal contesto, finendo per disorientare completamente lo spettatore.

E siccome in un’opera di teatro musicale (almeno da 200 anni in qua) la musica è strettamente legata al soggetto letterario, se allo spettatore sfugge il contenuto del soggetto medesimo, a maggior ragione gli sfuggirà quello della musica. Certo, ciò vale per qualunque opera cantata in una lingua sconosciuta allo spettatore, quindi anche per Janacek, Musorgski, e addirittura per Wagner, ma è da autolesionisti buttare alle ortiche un’occasione come questa, dove il soggetto è stato scritto precisamente nella nostra lingua!
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Come dicevo, spettacolo godibilissimo e messo in piedi con grande professionalità da tutto il team di produzione (davvero un Gesamtkunstwerk, cui concorrono cantanti, attori, mimi, intelligenti scene mobili, luci e proiezioni appropriate).

Una curiosità quasi paradossale: al termine del primo atto vediamo l’uomo, che da cane qual’era ha appena assunto in modo completo le sue fattezze, apparire completamente nudo, evidentemente per convincerci senza ombra di dubbio che proprio di uomo si tratti… Ebbene, nella rappresentazione di Amsterdam il protagonista appariva quasi pudicamente con la giacca, da cui spuntava qualcosa di penzolante: evidentemente nella terra dei tulipani (e di Nieuwmarkt…) dev’esser successa una rivoluzione (stra-smile!)
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Fermo restando che il giudizio sui contenuti musicali è difficile darlo dopo solo un paio di ascolti, mi sentirei di dire che Raskatov abbia saputo abbastanza sapientemente destreggiarsi (magari con una dose di sano opportunismo) fra modernità da avanguardie novecentesche e tradizione… romantica. Insomma, una musica che coniuga i necessari pugni-nello-stomaco con squarci di grande lirismo (con tanto di richiami e citazioni ottocentesche).

Certo, solo una maggior consuetudine – a livello personale e generale – potrà dirci se questa sia opera in grado di affermarsi fuori da ristrette cerchie di appassionati e di teatri, oppure finisca per entrare in quel limbo (che a volte prende forma di discarica) in cui si accumulano ogni giorno nuove creazioni musicali.  
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Il pubblico della terza di ieri sera (quello che ha resistito fino alla fine, perlomeno) ha accolto lo spettacolo con favore, se si esclude un isolatissimo buh dal loggione, stagliatosi fra gli applausi alla fine del primo atto. Al termine si sono uditi soltanto applausi abbastanza calorosi per tutti indistintamente i protagonisti dello spettacolo (per le identità dei quali rimando alla locandina, in modo da non far torto a nessuno).

Certo, è difficile giudicare così sui due piedi l’interpretazione musicale (chi può valutare il rispetto della partitura da parte di cantanti e direttore?) Da un lato possiamo immaginare che – date le circostanze, prima fra tutte la presenza in-loco degli autori – tutto sia stato fatto nel migliore dei modi… Per il resto, rimangono l’apprezzamento per l’originalità e la gradevolezza dello spettacolo, apprezzamento che avrebbe potuto ulteriormente crescere di livello con l’impiego delle lingua di casa nostra.

27 marzo, 2013

Orchestraverdi – concerto n.28


Siamo in settimana di… Passione e laVerdi non si sottrae ai suoi doveri e alle sue consuetudini, riproponendo un autentico mostro della musica sacra, la Matthäus-Passion del grande Giovanni Sebastiano. Sul podio lo specialista Ruben Jais.

Prestazione che non esiterei a definire eccezionale di tutto il complesso: dalla doppia orchestra ai doppi cori (più i piccoli) ai solisti, al maestro. Il quale va lodato per il sapiente equilibrio interpretativo, raggiunto attraverso la parsimoniosa distribuzione delle risorse vocali-strumentali, sempre rispettosa della lettera dell’originale.    

Tre ore – nette – di autentica manna per lo spirito, volate via quasi senza accorgersene. E quindi strepitoso successo, in un Auditorium pressochè esaurito.   

Dopo quella standard di oggi, venerdi 29 una replica tutta speciale: intanto perché si terrà nel tempio scaligero; e poi perché fatta a sostegno di una nobile finalità.
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Continuando nel revival di Musica&Dossier, allego qui uno studio sulle due Passioni bachiane di Stefano Catucci e Filippo Gonnelli, apparso nel numero di marzo-aprile 1992 della rivista.
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Jader Bignamini tornerà prossimamente sul podio per una nuova incursione in territorio russo.

22 marzo, 2013

Orchestraverdi – concerto n.27


Giuseppe Grazioli sale sul podio nella stagione principale (lui ne ha una sua propria, che occupa molte mattinate domenicali) per dirigere un programma (quasi) sovietico.

Si parte proprio dall’unico non-sovietico, Stravinski e dalla sua Suite da PulcinellaÈ costituita da 8 (in realtà 11) dei 18 numeri del balletto originale (dove è prevista anche una voce) che Stravinski compose ispirandosi a – anzi, diciamo pure, scopiazzando a più non posso – il buon Pergolesi, più altri musicisti autori di brani erroneamente attribuiti al famoso maestro del settecento:  

1. Sinfonia
2. Serenata
3. Scherzino - Allegretto - Andantino
4. Tarantella
5. Toccata
6. Gavotta (con due variazioni)
7. Vivo
8. Minuetto - Finale 

Naturalmente va dato atto a Stravinski dello sfoggio di gran maestrìa nella trascrizione di temi e soprattutto nell’orchestrazione, con la ricerca raffinata di timbri e sonorità innovativi. 

Buona la prestazione dell’orchestra, pur con qualche sbavatura negli ottoni, chiamati a difficili acrobazie, come questa del finale, affidata alla tromba:

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L’italo-russo 64enne Boris Petrushansky, non nuovo come ospite de laVerdi, si cimenta poi in Shostakovich, e precisamente nel controverso Secondo Concerto, composto (1957) 4 anni dopo la morte di Stalin e circa un anno dopo l’inizio della cosiddetta destalinizzazione che ebbe per artefice quella specie di simpatico contadinaccio (apparentemente) troglodita che rispondeva al nome di Nikita Kruscev (quello della scarpa sbattuta sul banco dell’ONU nel 1960, o della gomitatina galeotta quanto ridicola rifilata a Jaqueline Kennedy a Vienna nel 1961):


Sarà che è una composizione quasi di ricorrenza (per il 19° compleanno del figlio Maxim, che ne sarà poi interprete) ma di sicuro sembra opera di uno che finalmente può farsi gli affari suoi la musica sua come gli pare e piace, senza la spada di… baffone sul capo!
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Pur impiegando i mezzi classici (forma-sonata, bitematismo, esposizione, ripresa e cadenza solistica) Shostakovich sa inventare un primo movimento (Allegro) assolutamente originale, dove pianoforte e orchestra si integrano vicendevolmente, scambiandosi spesso i ruoli e i motivi.

E gli stessi motivi sono fra loro intrecciati, come si può notare già dall’esposizione del primo oggetto tematico (FA maggiore); sei battute introduttive e poi l'irruzione del pianoforte:


Segue un secondo tema esposto dalla tastiera, con l’impertinente accompagnamento del tamburino militare, sulla dominante DO maggiore (regola da Conservatorio…):


Il solista lo sviluppa, poi assume la funzione di contrappunto alla melodia del primo tema, esposta ora dall’orchestra e ulteriormente sviluppata.

Ancora il solista che propone un nuovo motivo, ora in RE minore (tonalità relativa di quella di impianto, anche qui siamo a scuola…):


Dopo averla abbondantemente sviluppata, il pianoforte la chiude in RE maggiore, sfumando poi a minore.

Qui ecco un improvviso accordo di sesta, sul SI (che in realtà è mediante di SOL) dove si introduce lo sviluppo, che svaria dal SOL del primo tema variato al MI del secondo tema; ancora una transizione del pianoforte sul SOL, indi il primo tema in orchestra sul SIb e quindi, dopo un intervento del solo pianoforte, ancora negli archi in LA maggiore… insomma si va parecchio a spasso! Ecco il secondo tema ancora in SIb, in tutta l’orchestra, seguito da una lunga e poderosa transizione caratterizzata da volate del solista e secchi accordi dell’orchestra, che porta alla cadenza solistica, imperniata sul primo tema.

Ed ora, canonicamente, la ripresa del primo tema esposto in FA dall’orchestra e seguito dal secondo, che il pianoforte riespone – toh! – pure in FA. Torna il primo tema, enfaticamente, mentre il pianoforte ci ricorda, sempre in FA, il motivo esposto precedentemente in RE minore (insomma, un’applicazione quasi… talebana dei sacri canoni). Si arriva così alla perentoria conclusione con accordi secchi di crome di tutta l’orchestra e del solista.

Il centrale Andante è un pezzo elegiaco, dove il pianoforte opera quasi esclusivamente per terzine (tipo la Mondschein, per intenderci) sulle tonalità dei tre bemolli (DO minore e MIb maggiore) con una breve sezione - proprio l’ingresso del solista - in DO maggiore:


Per il resto i soli archi e un corno accompagnano languidamente e assai discretamente il solista nelle sue sognanti divagazioni, chiuse da due terzine… zoppe, sul DO, che preparano l’attacco diretto del finale Allegro.

In tutto il movimento il solista ha soltanto sei brevissimi momenti di respiro (ciascuno di 2-3 battute al massimo); per il resto deve suonare continuamente e alla velocità di un treno in corsa. 

Ecco la prima esposizione, dove sembra proprio di sentire un treno che si mette in moto:


Ad essa segue una sezione in 7/8, introdotta dalla sola orchestra, dove il ritmo si fa più frenetico:

Poi il pianoforte riprende la sua corsa sfrenata, spesso suonando quasi da solo, con scarsi interventi orchestrali, oppure accompagnato da pochi fiati (corni e clarinetti). È un turbine di volate e di scale (pare che Shostakovich vi abbia introdotto deliberatamente esercizi scolastici, a beneficio del figlio… diplomando) che non conosce soste, fino allo schianto conclusivo, che rappresenta per tutti un’autentica liberazione!
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Trascinante l’esecuzione di Petrushansky, benissimo coadiuvato dall’orchestra, che Grazioli tiene sempre saldamente in controllo. Sicuro nei passaggi più percussivi (come le famose ottave spaccatasti) e delicato nel porgere le atmosfere sognanti dell’Andante.   

Trionfo assicurato e ricambiato da un bis... dicembrino.
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Dopo l’intervallo arriva Prokofiev con la Suite delle musiche dal film di Aleksandr Nikoleyevich Faintsimmer (tratto dal breve racconto di Yury Tynyanov) Il luogotenente Kiže, del 1933. La trama del film e soggetto del paradossale racconto è un inesistente militare, nato per un errore di copiatura di un documento da parte di uno scrivano dello Zar Paolo I. Il quale Zar si infatua della figura del militare, lo promuove e ne vuol seguire la carriera. Per non disilluderlo, i burocrati dell’esercito fanno addirittura maritare il fantomatico luogotenente, ma quando lo Zar chiede di riceverlo in persona, non trovano di meglio, per pararsi il culo, che dichiararlo improvvisamente morto e fargli un dovuto funerale (!) 

La Suite si articola in cinque brani che trattano:

I. Nascita di Kiže. Si tratta ovviamente della venuta al mondo del tutto virtuale e involontaria del militare, cui lo Zar dedica inaspettatamente grandi attenzioni. 
II. Romanza. Il fantomatico luogotenente si innamora.
III. Il matrimonio di Kiže, necessario a soddisfare i desideri dello Zar, che pensa che tutti i suoi eroi debbano essere sposati.
IV. Troika.
V. Funerale di Kiže. Per evitare figuracce con lo Zar, i burocrati fanno all’inesistente Kiže delle esequie di Stato. 
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La Suite si apre e si chiude con un segnale militare (tipicamente da silenzio) che la tromba solista esegue standosene molto in lontananza:
L’ottavino presenta un motivo marziale, ma da marcia di… marionette, come si addice ad un soldatino immaginario:

Il matrimonio è introdotto da una fanfara davvero degna di miglior causa…

Infine ecco il tema, a metà fra il guascone e il ridicolo, del luogotenente, ancora esposto dalla tromba:

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L’Orchestra ha dato il meglio, come insieme e come singoli: in particolare la tromba di Alessandro Caruana che, sistemato remotamente, ha intonato nascita e… dipartita del luogotenente virtuale.

A proposito di Prokofiev, allego qui un approfondito – e assai problematico - studio di Franco Pulcini, comparso nel numero di Maggio-Giugno 1991 di Musica&Dossier
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Chiude il concerto Aram Khachaturian, un esempio classico di come l’Unione Sovietica riuscisse, con le buone e più spesso con le cattive, a tenere insieme gente delle più disparate origini. Lui era uno nato in Georgia (la terra di Stalin) da genitori azeri di sangue armeno e si era integrato (non senza avere poi delle marginali divergenze di vedute con quel simpaticone di Andrej Aleksandrovič Ždanov) nell’apparato dell’arte di regime. 

Di lui ascoltiamo la Suite dalle musiche di scena del dramma ottocentesco Masquerade di Mikhail Yurevich Lermontov, un soggetto vagamente simile ad Otello, dove il protagonista Eugene Arbenin uccide la moglie Nina, accecato dalla gelosia provocatagli dallo smarrimento da parte di lei di un bracciale, durante una festa mascherata.  

Poco prima dell’invasione tedesca dell’URSS (1941) Khachaturian compose queste musiche di scena, precisamente 14 numeri così intitolati:

1. Romanza
2. Mazurka 
3. Walzer (al ricevimento)
4. Galop
5. Notturno
6. Walzer (camera da letto)
7. Walzer (alla Masquerade)
8. Walzer (al casinò)
9. Tema della baronessa Strahl
10. Tema di Kazarin (una specie di Jago, ndr)
11. Tema del braccialetto
12. Introduzione
13. Finale del ricevimento
14. Inno

L’Autore estrasse in seguito la Suite che ascoltiamo qui, composta da 5 numeri, disposti con perfetta simmetria (tre mossi – altrettante danze - alternati a due lenti):

1. Walzer
2. Notturno
3. Mazurka
4. Romanza
5. Galop 
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Il Walzer – che è il cuore dell’intera musica di scena, ha una struttura assai semplice, regolare: A-B-A-C-A-B-A. Struttura anche simmetrica, salvo per il fatto che i temi A e B alla prima apparizione vengono ripetuti (di norma un’ottava più in alto) mentre nella ripresa non lo sono.

La tonalità è LA minore (A), MI minore (B) e DO maggiore (C). I temi vengono sempre esposti dagli archi, mentre i legni fanno da contrappunto (a canone) o da raddoppio e gli ottoni più che altro scandiscono i levare del tempo di walzer (salvo alcuni brevi interventi melodici di trombe e corni).

Il primo tema è costituito da due frasi giustapposte; la prima è una ostinata ripetizione di una scala ascendente:

La seconda è una melodia più cullante che degrada pian piano per poi risalire velocemente. Il secondo tema – che Kachaturian confessò di aver ideato mentre posava per un ritratto fattogli da Eugenia Lurie, prima moglie di Boris Pasternak – ha tratti somiglianti al primo, con le sue salite e riprese a dente di sega:

Il tema centrale, introdotto da pesanti ed enfatici accordi, si muove prevalentemente sull’arpeggio di DO maggiore e chiude con una reminiscenza del verdiano libiamo:

 
Il Notturno (Andantino con moto) è un breve brano monotematico, aperto da 5 battute di accordi arcani di corni, poi fagotti e clarinetti. Il tema, affidato al violino solista e contrappuntato principalmente dal clarinetto, viene sostanzialmente riproposto cinque volte, le prime e le ultime due nella tonalità di LA minore, la terza in SOL minore. Una melodia, a somiglianza dei temi del Walzer, caratterizzata da ascese intercalate da brusche ricadute:

Sia la transizione interna che la chiusa si appoggiano sulla tonalità di DO# maggiore.

La Mazurka (Allegro) in MIb maggiore, presenta, come il Walzer, una struttura perfettamente simmetrica: A-B-C-B-A. Vi troviamo un primo tema che richiama alla lontana quello del primo quadro di Coppelia, tema formato da due sezioni, la prima ancora una volta costituita da veloci salite e bruschi ripiegamenti:


La seconda da una serie di ondeggiamenti di crome in staccato. Dopo la sua ripetizione, ecco il secondo tema, nella relativa DO minore, inizialmente più elegiaco, ma che poi si agita in archi e legni, con veloci scalate:

 
Esso viene ripetuto e poi gli subentra un nuovo, spigliato motivo in FA maggiore, pure ripetuto:

Ritorna poi il secondo tema (qui una sola volta) che infine cede il passo a quello iniziale, che con due ripetizioni chiude il numero.   

La Romanza (Andante) è la musica che deve sostenere i versi che la protagonista Nina canta al suo sposo, che dubita di lei. Il motivo principale, in SIb minore, è esposto dai violini, che salgono lungo l’ottava, da dominante a dominante (FA) per poi ripiegare giù sul SOLb:

Qui il motivo si ripete, ma sviluppato fino virare a REb maggiore, e quindi tornare a SIb minore, chiudendo sulla sopratonica DO.

Ora sono viole e violoncelli a riprenderlo, in seguito modulando dolcemente a LAb maggiore, dove il clarinetto espone una nuova e struggente melodia:

Dopo che l’orchestra ha sviluppato il secondo motivo, si torna al primo tema, SIb, ora esposto con gran portamento e nobiltà dalla tromba solista, che viene poi affiancata dagli archi a completare la riesposizione del tema, fino alla sommessa chiusura sulla dominante FA.

Chiude il Galop (Allegro vivo) un ubriacante pezzo (in SIb maggiore) che ricorda vagamente la polka Tritsch-Tratsch di Johann Strauss. Anche qui struttura semplice e immetrica: A-B-A-C-A-B-A.

Dopo 8 battute che servono ad impostare il folle ritmo del brano, un primo tema esilarante è esposto inizialmente dagli strumentini, e poi verrà ripreso dagli archi:
Dal SIb sfocia su una sospensione in RE minore, caratterizzata da un inciso di ottoni e tamburino che anticipa la struttura del terzo tema. Dopo la ripetizione segue il secondo tema, sempre in SIb, esposto da viole, violoncelli e fagotti, con i violini ad arpeggiare in staccato:


Torna ora il primo tema, cui segue un’introduzione ritmata dalle trombe che prepara il terzo tema, nella sottodominante MIb, con modulazione a SOL minore:

Ora c’è una pausa di tranquillità, dove il clarinetto solista inserisce una sua cadenza, seguito dal flauto solo, che porta alla ripresa dei due temi principali che chiudono in modo spiritoso il brano e l’intera Suite.
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Veramente un pezzo geniale, anche se apparentemente disimpegnato, che Grazioli esegue con la sua proverbiale verve, trascinando l’orchestra ad una prova maiuscola – su tutti il violino di Luca Santaniello e la tromba di Alessandro Ghidotti - e il pubblico ad un’autentica ovazione da stadio! Che convince maestro e professori a ripetere il celeberrimo Walzer.

Prossimamente saremo però sotto Pasqua, e quindi… Passione!