La stagione
della Scala ospita la terza stazione della trilogia
monteverdiana (targata Alessandrini-Wilson)
con l’ultima opera del grande cremonese: L’incoronazione di Poppea, arrivata ier sera alla quarta recita delle otto in programma.
Opera
controversa ed anche da sempre bistrattata per il semplice motivo che non ne
esiste – ma nemmeno lontanamente – una versione definibile come authoritative. Lo spettacolo della Scala
si basa su una ricostruzione, anzi collazione
acritica (sic, sul libretto pubblicato dal Teatro e sulla locandina) del concertatore Rinaldo Alessandrini, che ha ricomposto
- a sua sensibilità - i diversi tasselli di un mosaico prendendo tessere dalle
due copie manoscritte (nessuna delle quali autografa) della partitura, cosiddette
di Venezia e Napoli (le due sedi delle prime rappresentazioni, 1642/3 e 1651).
E lo stesso Alessandrini (un esperto assoluto in materia) ammette che non più
del 60% della musica di Poppea sia plausibilmente attribuibile a Monteverdi!
Fatto sta che il citato libretto reca, come autori cui sono attribuite le musiche, Monteverdi e Cavalli e per la scena conclusiva
Sacrati e Ferrari. Ma c’è chi, per il duetto finale, aggiungerebbe alla lista
anche tale Filiberto Laurenzi…
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La vicenda
della ricostruzione delle fonti dell’opera è talmente intricata da sfiorare il thriller: ed è un giallo che ancor oggi
non ha una conclusione certa, dato che si continuano tuttora a ritrovare in
giro tracce e indizi che di volta in volta orientano in modo diverso le…
indagini, smentendo precedenti conclusioni.
La prima
traccia dell’esistenza stessa dell’Incoronazione è un libricino del 1643, un cosiddetto
scenario della rappresentazione:
Si tratta di una specie
di bigino dell'opera, che ne descrive scena per scena il soggetto, per facilitarne
la comprensione da parte dello spettatore. Insomma, l’antesignano del moderno programma di sala… Peccato che non rechi
traccia né del librettista, né dell’autore della musica! Ci dice però – inoppugnabilmente
– che un’opera con quel titolo andò in scena a Venezia in quel periodo. (Teniamo presente che Monteverdi
muore nel novembre di quello stesso anno, 1643!)
Di ben 13 anni più tarda
è la pubblicazione del libretto
dell’opera, parte di un volume fatto stampare nel 1656 dall’autore dei testi
(il librettista, appunto) Giovanni
Francesco Busenello:
Abbiamo
quindi la conferma che un’opera con quel titolo fu data nel 1642 a Venezia, al
teatro della famiglia Grimani (il Santi Giovanni e Paolo). La discrepanza fra
1642 e 1643 sembra da attribuirsi al diverso standard di annualità che distingueva Venezia dal resto dell’Europa:
a Venezia l’anno veniva fatto iniziare il 1° marzo, ma ciò valeva solo per i documenti
a diffusione interna alla Repubblica (urbi) mentre per quelli destinati alla diffusione
generale (orbi) si impiegava il calendario
normale. Ciò spiega perché uno stesso evento verificatosi nei mesi di gennaio e
febbraio poteva essere riferito all’anno n o all’anno n-1, a seconda dello standard
utilizzato. Ora, l’opera andò in scena nel periodo di carnevale (che iniziava a fine dicembre) e quindi proprio in uno dei
mesi equivoci: in sostanza Busenello usò
verosimilmente il calendario veneziano, da cui 1642 e non 1643.
In ogni caso,
nel 1656 veniamo a conoscenza dell’identità del librettista. Ma costui, il buon
Busenello, tralascia di riportare un piccolo dettaglio: l’autore delle musiche!
Per questo ci viene in aiuto qualche lustro dopo un letterato dalmata emigrato
a Venezia, tal Cristoforo Ivanovich,
che pubblica una lista di rappresentazioni di teatro musicale tenutesi a
Venezia a partire dal 1637 (anno in cui fu aperto il primo teatro pubblico,
quello di San Cassiano): fra queste elenca due produzioni dell’Incoronazione,
nel 1643 e nel 1646 (sempre al teatro Grimani) riportando – alleluja! – oltre a quello del librettista anche
il nome dell’autore, Monteverde!
Ecco,
siamo nel 1681 e adesso sappiamo che nel 1643 e poi nel 1646 Venezia ospitò
rappresentazioni di un’opera dal titolo L’Incoronatione
di Poppea di Monteverde. Ci manca
però ancora la… sostanza: le note! Ma per questo ci dobbiamo preparare ad un’attesa
assai lunga, addirittura di 200 anni! Sì, perché soltanto nel 1888 Taddeo Wiel, bibliotecario della Marciana di Venezia, censì nel materiale
della Collezione Contarini, ceduto
alla Biblioteca a inizio ‘800, un manoscritto di musica dal titolo Il Nerone, il cui contenuto fu
universalmente reputato essere L’Incoronazione
di Poppea di Monteverdi. Il Volume, presumibilmente appartenuto a Francesco Cavalli e nel quale gli atti I
e III dell’opera risulterebbero ricopiati dalla di lui moglie, presenta questo
dorso:
Come si vede
chiaramente, il titolo del tomo è IL-NE-RO-NE (che in effetti è il protagonista
dell’opera) ma sotto – e lo si scopre senza ombra di dubbio osservando
attentamente – erano in precedenza impresse altre lettere, per la precisione MO-NT-EV-ER-DE (!) Scritta che ricompare anche sulla
prima pagina del Prologo, mentre una mano ignota, su una delle pagine di
rispetto, ha vergato Claudio MONTEVERDI (?) - L’incoronazione di Poppea.
Bene, tutto a posto, tutto chiaro? E invece siamo solo all’inizio dei misteri…
Tanto per
cominciare, il volume di questa partitura, se reca – pur marginalmente – il
nome del compositore, manca invece di quello del librettista: mancanza
perfettamente speculare a quella del libretto di Busenello! E anche il contenuto
non è del tutto coerente con il libretto, presentando numerose discrepanze
rispetto ad esso: ad esempio nel second’atto manca la scena (dopo la terza) che
descrive il suicidio di Seneca, assistito dal Coro di Virtù; la quinta scena è privata
dei personaggi di Tigellino e Petronio e subito dopo manca la scena di un nuovo
incontro Nerone-Poppea. Ma poi ce n’è una abbastanza clamorosa: la partitura
contiene la conclusione della scena finale (duetto Nerone-Poppea) che manca nel
libretto. Ma fin qui siamo quasi nella normalità, trattandosi di pubblicazioni
indipendenti che spesso e volentieri divergono di poco o tanto: in sostanza, pochi
mettono in dubbio che quella sia la Poppea di Monteverdi.
Ma quei pochi
ringalluzziscono attorno al 1930, quando si verifica una clamorosa quanto fortunata e
fortuita scoperta fatta da Guido
Gasperini del Conservatorio San
Pietro a Majella: fra volumi abbandonati e a rischio di finire al macero,
il bibliotecario scovò una seconda
partitura manoscritta (neppur essa di mano di Monteverdi) dell’Incoronazione!
Il che non
solo confermò le ipotesi già avanzate nel 1891 da Benedetto Croce riguardo una rappresentazione dell’opera a Napoli
nel 1651 (testimoniata dal ritrovamento di un libretto colà stampato) ma – dal
confronto con il documento veneziano – fece salire le quotazioni dell’ipotesi
che l’opera non fosse (tutta, quantomeno) di Monteverdi: ad esempio, la Sinfonia della versione napoletana è
assai diversa ed è (secondo Gianfrancesco
Malipiero, autore nel 1931 di una mirabile edizione dell’opera,
basata su entrambe le fonti) più monteverdiana
di quella di Venezia:
Le due
partiture (che hanno in comune anche la presenza del duetto finale) divergono
in più punti nel contenuto (scene mancanti o modificate) e presentano inoltre
strutture diverse dei brani strumentali (sinfonie e ritornelli): tre linee per
Venezia, quattro per Napoli. Apriti cielo poi quando nel 1958 Wofgang Osthoff scopre che il basso della sinfonia versione-Venezia è
perfettamente identico a quello di un’opera di Cavalli (La Doriclea) rappresentata a Venezia nel 1645! Crescono quindi i
dubbi e qualcuno sentenzia: la musica del manoscritto di Venezia non è di Monteverdi! È quello che si
deve dedurre anche dall’ipotesi che nel 1967 avanza Anna Mondolfi-Bossarelli, un’ipotesi davvero distruttiva: la copia
veneziana (quella in origine posseduta da Cavalli) sarebbe da datarsi nel
periodo della morte del Cavalli medesimo, addirittura 30 anni dopo le
rappresentazioni dell’opera a Venezia! Quindi la versione di Napoli sarebbe
quanto meno più credibile di quella di Venezia (e bisogna riconoscere qui che Malipiero
aveva visto giusto!)
Dopo
alcuni colpi al cerchio, eccone uno alla botte: nel 1974 Alessandra Chiarelli, a seguito di un minuzioso confronto fra le
due partiture, propone una nuova teoria: che esse siano entrambe derivate da
uno stesso esemplare originario, da attribuirsi comunque a Monteverdi,
impiegato per le prime rappresentazioni; quella veneziana sarebbe probabilmente
di mano di Cavalli, fatta magari in occasione della ripresa del 1646, e Cavalli
oltre a trascrivere (o far trascrivere dalla moglie, almeno in parte) l’originale,
vi avrebbe introdotto altra musica (sua e non solo sua); quella di Napoli si
dovrebbe a qualche copista al servizio della compagnia dei Febiarmonici, che girava l’Italia rappresentando opere musicali.
Ma ecco che fra
il 1976 e i primi anni ’80 arriva un nuovo terremoto. La prima scossa la dà Thomas Walker, che dimostra con dovizia di
esempi come la famosa lista di Ivanovich del 1681 sia zeppa di inesattezze e di
informazioni manifestamente infondate; dal che deduce (magari fin troppo sommariamente)
che anche i due riferimenti a Monteverdi come autore dell’Incoronazione siano del
tutto inattendibili. E il terremoto si propaga a macchia d’olio, per merito di Lorenzo Bianconi, che assesta un altro
paio di colpi alla paternità di Monteverdi sull’opera: il primo riguarda il
duetto finale Pur
ti miro. Bianconi osserva che il testo è uguale a quello del finale
del Pastor regio di Ferrari, rappresentato a Venezia due
anni prima dell’Incoronazione. Che significa? Che testo e musica del Ferrari
sono stati incorporati nell’opera, oppure solo il testo (visto che non c’è
rimasta traccia della musica del Pastor)? E poi lo stesso testo si trova in un
pezzo (un cosiddetto carro musicale)
di Filiberto Laurenzi, rappresentato
a Roma 5 anni dopo l’Incoronazione. Insomma, quante altre mani hanno tirato la
pasta della Poppea? Secondo colpo: Bianconi rileva che le sinfonie dell’opera La finta Pazza di Scarati sono identiche a quelle del finale dell’Incoronazione (coro
di tribuni e consoli).
Mamma
mia… ce n’è abbastanza per far concludere ad Alan Curtis (1989) che ci troviamo di fronte ad una Poppea impasticciata.
Ma non è
finita, e il pendolo che si è allontanato da Monteverdi torna ad
avvicinarglisi: grazie alla scoperta di Paolo
Fabbri, che nel 1993 scova ad Udine (Fondo
Joppi della Biblioteca comunale) una nuova edizione del libretto
dell’opera, diversa da quella dell’autore dei testi (Busenello). Cosa ci dice
questo documento? Innanzitutto reca la fondamentale informazione relativa all’autore
della musica: Monteverdi! Poi ha proprio l’apparenza di un testo derivato da
una partitura, non da un altro libretto: fa esplicito riferimento alla produzione
originale del 1643; contiene precise indicazioni per lo scenografo e per
l’interprete del ruolo di Poppea. Insomma, il documento pare restituire la piena
credibilità al povero Ivanovich, troppo frettolosamente sbugiardato da Walker. E
in più contiene un’autentica bomba: include
(contrariamente all’edizione di Busenello) il duetto finale Pur ti miro!
Che
significa tutto ciò? Che dobbiamo fare piazza pulita di tutte le ipotesi che
volevano il duetto importato
nell’opera - dal Pastor regio - in tempi successivi alla prima produzione del
1643 e quindi presumibilmente non di mano di Monteverdi? E pensare invece che
sia stato musicato da Monteverdi impiegando il testo di Ferrari (il che
spiegherebbe l’assenza del finale – e del nome dell’autore della musica - nel
testo di Busenello)? A dar man forte a questa tesi è Anthony Pryer che, nel 1995, fa notare come non ci sia certezza che
il duetto in questione fosse già presente nel Pastor regio del 1640 e che
quindi potrebbe essere stato Ferrari a scriverlo per Monteverdi
per importarlo successivamente nella sua opera dalla Poppea, e non viceversa!
Insomma…
a questo punto ci converrà aspettare la prossima scoperta, e intanto goderci questa
musica a prescindere che sia tutta, o solo in parte, o per nulla di Monteverdi.
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La
povertà delle fonti si estende anche ai contenuti musicali: i due manoscritti esistenti
recano – oltre le parti di canto – solo righi di accompagnamento senza
specifiche indicazioni di strumentazione (al contrario, ad esempio, di Orfeo e
di Ulisse). Gli storici-sociologi della musica ci spiegano come ciò sia da
mettere in relazione con i peculiari mutamenti nella fruizione del teatro
musicale, mutamenti che si realizzarono proprio nella Venezia del primo ‘600:
dove si passò dal teatro di corte (o di famiglia, privato ed elitario,
finanziato da mecenati) al teatro pubblico, gestito da imprenditori con l’ovvio
assillo del profitto, e che ciascun cittadino, di qualunque ceto sociale,
poteva frequentare alla sola condizione di pagare il biglietto d’ingresso. Da
qui le spending-review ante-litteram,
e la preoccupazione degli impresari di limitare i costi delle produzioni,
riducendo al minimo anche gli organici orchestrali. E da qui anche la
trasformazione dei contenuti musicali verso forme più popolari: il passaggio dal recitar-cantando
di bardiana memoria - praticato da Monteverdi fino all’Ulisse - al cantar-parlando, che mette sempre più in
primo piano la musica (non più ancella del verso declamato) e quindi il cantante
e le sue qualità canore, trasformazione che proprio la Poppea rende evidente (e
in base alla quale ragionano molti dei negazionisti - come Annibale Gianuario - della paternità di Monteverdi sull’opera…)
La conseguenza
di tutto ciò, per noi oggi, è che ogni rappresentazione (o incisione)
dell’opera dipende da autonome (e pure arbitrarie) decisioni del direttore. Ed
infatti esistono una gran quantità di versioni diversamente strumentate, che
spaziano dalla parsimonia del solo basso
continuo per l’accompagnamento più la presenza di qualche arco per sinfonie e ritornelli (secondo quanto si conosce della tipica composizione
strumentale dei teatri della Venezia seicentesca):
…all’opulenza persino esagerata di complessi con dovizia di strumenti ad arco e fiato, come fece Harnoncourt nel 1979.
Alessandrini, fedele
alla sua concezione filologica, ha tenuto il primo approccio, impiegando il
nutrito basso continuo del suo Concerto italiano (3 tiorbe, 2 arpe, 2
cembali e un violoncello) a cui, tenendo conto degli enormi spazi del
Piermarini, ha aggiunto un contrabbasso e, per sinfonie e ritornelli, 2 violini
e una viola, per un totale di 12 strumenti. Cui nel terz’atto si sono aggiunti 2
trombini esclusivamente per la sinfonia
che introduce il giubilo di Arnalta e poi l’omaggio di Consoli e Tribuni.
Qui si
può ascoltare una sua interpretazione (con aggiunta di… regìa) di qualche anno
fa a Salamanca. Alla
Scala il Direttore ha cambiato qualcosa nella distribuzione dei ruoli, altro
rompicapo che ognuno risolve a modo suo, poiché i manoscritti recano solo le
chiavi di ciascuna parte, ma spesso e volentieri presentano anche le
indicazioni di trasposizione (alla quarta, o alla seconda alta, eccetera): in
sostanza le parti vengono spesso adattate alla voce dell’interprete. Ad esempio
quelle di Nerone e Valletto furono probabilmente scritte per, e sostenute da, castrati, mentre Alessandrini (seguendo
una prassi vecchia ormai di un secolo) le affida a due tenori, così come quella
della Nutrice, in origine in chiave di contralto, è qui affidata a… Tina Pica (!) Eliminati tout-court
personaggi come Pallade e Venere (secondari saranno, ma pur sempre due dee!)
Quanto ai
contenuti, il Direttore ne è ovviamente responsabile, stante l’esistenza delle
due diverse fonti (Venezia-Napoli) cui potersi riferire e dalle quali poter
selezionare i tasselli del mosaico. Alessandrini, che evidentemente è sempre
alla ricerca di nuove soluzioni (come dimostrano alcune divergenze dalle scelte
da lui fatte per la citata rappresentazione a Salamanca) ha cominciato con lo
scegliere da Napoli la Sinfonia iniziale (concordando evidentemente con
Malipiero); sempre dalla versione partenopea ha ripescato la parte di Arnalta (Infelice ragazzo)
che chiude la scena XI del primo atto (qui spostata ad aprire la scena XII);
così come il contenuto della scena IV del second’atto (Damigella-Valletto) più
ricco… sessualmente di quello di Venezia (Dunque Amor così comincia?) e pure quello della
scena V del medesimo atto (Nerone-Lucano, O felice Poppea). Sempre nell’atto secondo
Alessandrini ha deciso di cassare la scena di Ottone solo (I miei subiti sdegni) in favore di
quella (ancora da Napoli) di Ottavia sola (Eccomi quasi priva… Neron, Nerone mio): una
scelta coraggiosa/discutibile, dato che quella scena compare soltanto nel
manoscritto napoletano, mentre è del tutto assente sia in quello veneziano che
nei libretti, quindi di dubbia autenticità. Dopo la scena VIII (Ottavia-Ottone)
Alessandrini ha recuperato da Napoli (facendola diventare la sua scena IX) parte
dell’esternazione di Ottavia Vattene pure. Nel terzo atto è rispettato l’ordine
delle scene VI e VII come appare nei manoscritti (prima Arnalta e poi Ottavia) che
contraddice il libretto di Busenello (seguito invece da diversi concertatori dell’opera).
Per il
resto il direttore ha operato diversi tagli, molti dei quali di portata ridotta
e trascurabile, altri invece più pesanti, come la scena VII del primo atto
(Seneca che esterna la sua filosofia sulla caducità dei successi mondani, Le porpore regali e
imperatrici) e il
successivo intervento premonitore di Pallade; oppure una parte importante delle considerazioni di Seneca a
Liberto (scena II dell’atto secondo); o ancora, nello stesso atto, la scena VII
(Nerone-Poppea, Ò come, ò come a tempo). Anche il finale è vistosamente accorciato, in pratica lasciando in primo piano i
due protagonisti, liberati dalla presenza di Venere, del Coro di Amori e soprattutto
di Amore, che così è privata del suo trionfo su Fortuna e Virtù, sfidate nel Prologo (Wilson la fa comunque apparire, muta, a benedire gli amanti).
Tutto sommato,
quello proposto alla Scala da Alessandrini è un corpus assai ben proporzionato e come sempre ben armonizzato con la
regìa di Bob Wilson.
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Nella sua prefazione
al libretto, Busenello pubblica un super-condensato del soggetto, ammettendo subito
di aver… adulterato la storia come narrata da Tacito:
I
personaggi principali dell’opera e le relazioni fondamentali (preesistenti alla
vicenda e/o in essa sbocciate) che fra essi intercorrono sono schematizzati
nella tavola seguente (dovuta al citato Anthony Pryer e da me tradotta e
rielaborata) distinti fra umani e divini. Come detto, di questi ultimi Pallade (che dovrebbe comparire nella
scena VIII del primo atto ad annunciare a Seneca la sua morte) e Venere (che dovrebbe comparire nel
finale, scena VIII del terz’atto, a benedire l’amore fra Nerone e Poppea) sono
assenti dalla rappresentazione scaligera.
Lo schema
generale dell’opera (Prologo escluso)
è invece sintetizzato in questa tavola del citato Lorenzo Bianconi che riassume,
nei tre atti, i luoghi dell’azione e i principali intrecci che la
caratterizzano, distribuiti nelle varie scene (la cui numerazione nell’atto II è
incerta, mancando nel manoscritto di Venezia e divergendo dal libretto in quello
di Napoli):
Il
soggetto, che Busenello derivò liberamente da Tacito (ed altri) è di carattere
marcatamente erotico, fatto certamente per eccitare l’immaginazione del
pubblico di allora e attirarlo nelle nuove sale del teatro in musica: la prima parte
della scena X del prim’atto (Poppea-Nerone) è di un’audacia ancor oggi sorprendente!
Ma ha anche basi storiche ed etiche: la rivalità Venezia-Roma e le discussioni filosofiche
che tenevano banco in ambienti quali L’Accademia
degli Incogniti, cui apparteneva
il librettista; scandalosa poi, per quei tempi, la figura di una donna che impiega le sue qualità fisiche
per manovrare un imperatore come fosse un burattino (ecco, oggi per noi può
benissimo rappresentare scenari di attualità, tipo i bunga-bunga e i divorzi e innamoramenti di un moderno Nerone
brianzolo…)
Naturalmente ci
sono diverse visioni e modi di interpretare la morale della favola. Trionfa Amore? Mah, che dire degli ultimi versi
dei due innamorati: Pur
ti miro, Pur ti godo, Pur ti stringo, Pur t'annodo… Sembrerebbero espressioni
di orgasmo, più che di amore! E del resto
Nerone ha fin dall’inizio ammesso che la sua per Poppea è pura infatuazione, libidine, attrazione sessuale: le poppe di Poppea! (…di questo seno i
pomi). E poi, non si è mai vista una persona sinceramente innamorata
ragionare come Nerone: siansi giuste od ingiuste le mie voglie,
oggi, oggi Poppea sarà mia moglie! E
infatti il saggio Seneca subito sentenzia: ma
ch’una femminella abbia possenza di condurti gli errori, non è colpa da rege o
semideo: è un misfatto plebeo.
Insomma: è davvero
il trionfo dell’amore con la A maiuscola o invece il trionfo della pura e semplice
sete di potere (di una donna) in un mondo
dove tutti (escluso Seneca, o magari no) si muovono quasi esclusivamente in base
ad egoismo o desiderio di vendetta, e ne combinano di cotte e di crude?
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Bob Wilson, come sempre,
si libra in aerei spazi… e non
scende mai sulla terra, quindi tutto quanto c’è di erotico, comico o
socio-politico nel libretto si stempera nella sua ieratica atmosfera, fatta di
movimenti lenti (e di scatti improvvisi del gesto) e di nobiltà declamatoria.
Unica eccezione la Nutrice, cui Giuseppe
Di Vittorio (che ho più sopra amichevolmente apostrofato come la
leggendaria Tina) conferisce un carattere di macchietta napoletana.
Scene spoglie,
con impiego di parti mobili a sbozzarne i caratteri: colonnati (Roma), siepi
(il giardino di Poppea), un obelisco, alberelli, un grosso capitello in rovina.
Luci sapientissime a scolpire gli ambienti e le espressioni degli interpreti,
tutti col viso imbiancato e occhi e labbra in rilievo scuro; costumi d’epoca
assai appropriati.
Insomma, una…
sacra rappresentazione, con tutti (tanti) i pro
e (pochissimi) contro che
caratterizzano queste scelte.
Gli interpreti
hanno tutti magnificamente assecondato le intenzioni del regista e per questo
sono da lodare in blocco. Più articolato deve necessariamente essere il
giudizio sul versante vocale, dove c’è chi ha meritato più di altri, comunque
tutti al di sopra dell’ampia sufficienza.
Va premesso
che gli spazi sconfinati del Piermarini penalizzano per definizione un po’
tutti: cantanti che faticano a farsi udire e pubblico che fatica a seguire nei
dettagli il filo drammaturgico. (Quanto si rimpiange in queste occasioni la
vecchia, cara, Piccola Scala,
ambiente ideale per queste rappresentazioni, ignominiosamente mandata al
macero, ormai da una vita!)
Miah Persson è una Poppea
di assoluto rilievo, coniugando sensibilità e portamento a un canto sempre
impeccabile e ad una voce che passa benissimo. Come lei Monica Bacelli, un’Ottavia autorevole, nei momenti di sconforto
come in quelli di rabbia. Bene anche Silvia
Frigato in Amore, tanto nel Prologo quanto nella sua azione di commando per salvare Poppea dalle trame di Ottone. Il
quale è interpretato da una Sara Mingardo
la cui voce per la verità stenta a passare, forse penalizzata dalla tessitura
grave della sua parte. Più convincenti la Drusilla di Maria Celeng, la Arnalta
di Adriana Di Paola e la Damigella di Monica
Piccinini.
Fra le voci
maschili si è distinto Leonardo
Cortellazzi, un Nerone magari troppo… macho
rispetto alla leggerezza che ne caratterizza la linea vocale (scritta per castrato) ma assolutamente efficace e
perfettamente chiaro e udibile. Un filino al di sotto Mirko Guadagnini come Valletto (e 2° console): anche per lui vale
la considerazione relativa alla tessitura di una parte scritta in origine per
castrato (o soprano). Efficace anche Luca
Dordolo (Lucano) nel suo duetto celebrativo con Nerone. Ecco poi i bassi: Seneca è Andrea Concetti che se la cava con onore, anche se mi è parso
troppo leggero rispetto alla
personalità del filosofo. Bene gli altri due, Luigi De Donato (Mercurio, Littore ed altro…) e Furio Zanasi (Liberto e altri due ruoli
minori). Per ultimi i due (sulla carta) controtenori: Andrea Arrivabene ha fatto ciò che richiede la parte piuttosto
contenuta del famigliare di Nerone; quanto a Giuseppe Di Vittorio ho già detto di come la sua parte sia stata
(da Wilson?) trasformata in macchietta da avanspettacolo (ma ci sta pure
questo, in mezzo a tanta… austerità).
Del complesso
di Alessandrini e del Direttore (anche clavicembalista all’occorrenza) non si
può dire che tutto il bene, come dei sei strumentisti dell’orchestra scaligera
che lo hanno integrato.
Ecco, uno
spettacolo di alto livello che riconcilia con il teatro musicale, riportandoci
proprio alle origini di un’arte che da lì partirà per lunghi viaggi verso mete
diverse ma tutte straordinariamente esaltanti. E il pubblico di ieri, pur selezionato (è un modo come un altro per
segnalare i vasti vuoti nei palchi…) ha mostrato di apprezzare moltissimo, decretando
il caloroso successo della serata.