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28 febbraio, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 23


Ancora un concerto di Mozart è posto in apertura del programma settimanale de laVERDI, diretto da Marius Stravinskij (o Stravinskas) 35enne kazako trapiantato in Albione, che sostituisce all’ultimo momento l’indisposto ibero-crucco Pedro Halffter Caro.

Il Concerto di Mozart (il 23°, K488) vede alla tastiera la ex-bambina-prodigio, oggi graziosa 27enne, Lise de la SalleProviamo a seguirlo in questa registrazione fatta in studio da Horowitz con l’orchestra della Scala guidata da Giulini nel 1988.
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A dispetto dell’apparente leggerezza e semplicità, il concerto ha una struttura assai articolata che presenta non poche innovazioni. Il primo movimento è un Allegro in LA maggiore, in forma sonata.

È la sola orchestra a presentare la prima delle due esposizioni. Il primo tema è suonato dapprima dagli archi e poi (15”) da tutti i fiati (l’organico prevede flauto, clarinetti, fagotti e corni, niente oboi né trombe) che ne variano la chiusura. A 30” segue una transizione in cui la tonalità svaria a RE minore, MI minore per poi approdare a MI maggiore. Questa sarebbe (e sarà…) la tonalità del secondo tema. Ma qui (51”) esso viene presentato ancora nella tonalità principale (LA maggiore) prima dai soli archi, poi (1’06”) anche dal resto dell’orchestra. A 1’18 abbiamo la chiusura della prima esposizione, con motivi che passano dal RE minore a maggiore, poi LA maggiore, quindi la relativa FA# minore e quindi ancora a LA maggiore, finchè (1’47”) una codetta conclude questa sezione.

A 1’55” ecco entrare il solista per la seconda esposizione: il primo tema viene presentato due volte, poi ecco (2’20”) la transizione iniziata dall’orchestra e ripresa dal solista con grandi volate di semicrome, fino ad arrivare all’esposizione nel pianoforte del secondo tema (2’49”) ora nella canonica dominante di MI maggiore. Il tema è ripreso (3’03”) dall’orchestra, poi (3’16”) è ancora il pianoforte a condurre le danze con grandi virtuosismi, finchè (3’55”) l’orchestra gli subentra con poche battute di transizione che portano inaspettatamente ad una sospensione (4’05”) che in pratica costituisce il confine tra l’esposizione e lo sviluppo.

Il quale (4’07”) mantenendosi inizialmente sulla tonalità di MI maggiore, invece che sviluppare i due temi dell’esposizione – e questa è davvero una genialata di Mozart, che sembra farsi baffo delle sacre convenzioni - si fonda su di un nuovo tema esposto dai violini e poi abbellito (4’17”) dal pianoforte. Manipolazioni di questo tema, in continuo colloquio fra solista e orchestra, ci portano (4’30”) a MI minore, poi (4’36”) a DO maggiore, quindi (4’43”) a LA minore, ancora (4’46”) a FA maggiore e da qui (4’50”) a RE minore!

Ma non è finita: clarinetto e flauto, percorrendo a canone il circolo delle quinte (RE-SOL-DO-FA/SI-MI-LA) sulle insistenti semicrome del pianoforte, ci riportano (5’07”) a LA minore dove il terzo tema viene nuovamente elaborato fino ad una specie di cadenza (5’24”) che conduce poi al MI maggiore per la conclusione dello sviluppo.

A 5’40” ecco la ricapitolazione, con il primo tema, poi (6’05”) la transizione che il solista ancora impreziosisce di grande virtuosismo, prima di attaccare (6’31”) il secondo tema, adagiatosi alla tonica LA in pieno rispetto delle convenzioni. Tema ripreso (6’46”) dall’orchestra e poi (7’03”) dal solista che ne propone la chiusura sfociante (7’28”) nella coda, aperta dal terzo tema che il solista sviluppa da par suo, chiudendolo con tremolo sul quale (8’06”) si apre una codetta costituita dal motivo di transizione fra i due temi principali.

A 8’17” torna il terzo tema (finalmente in LA maggiore!) che porta rapidamente alla fermata (8’31”) per la cadenza solistica, questa scritta proprio da Mozart (ma il presuntuoso Horowitz qui suona quella di Busoni!) A 9’45” l’orchestra riprende per condurre a termine il movimento richiamando la chiusa della prima esposizione. (Anche le cinque battute finali suonate da Horowitz non sono di Mozart, ma di Busoni, uno dei tanti che pensavano di dare valore aggiunto al Teofilo…)

Il centrale Adagio è nella tonalità relativa di LA, FA# minore, tempo 6/8 di siciliana. Il solista (10’19”) lo apre con la prima parte del primo tema, cui segue (10’33”) la sua seconda porzione. A 11’00” sono clarinetti e violini, poi fagotto e quindi flauto, ad esporre il secondo tema, cui ne segue un terzo (11’25”) nel pianoforte.

A 12’15” ecco il flauto sostenuto dai clarinetti aprire la sezione centrale del movimento, esponendo un nuovo tema in LA maggiore, ripreso dal solista a 12’26”. Una codetta (12’40”) introdotta dal corno e caratterizzata dalle biscrome del pianoforte chiude questa sezione.

A 13’09” una brevissima transizione (2 battute) ci riporta a FA# minore, dove (13’16”) si apre la ripresa, con il solista che ripropone il primo tema. A 14’12” il secondo tema viene ripresentato come nella prima esposizione. Il solista (14’39”) lo riprende variandolo, sullo sfondo degli archi, finchè si arriva ad una coda (15’05”) dove i violini suonano in sincope, mentre il solista smozzica spezzoni di melodia sulle note discendenti dei fiati. A 15’34” ancora il secondo tema si ode nel flauto, per tre volte, contrappuntato dalle note ribattute del pianoforte, fino alla mesta conclusione.

Il finale Allegro assai in LA maggiore è un Rondò in forma sonata, caratterizzato da una gran quantità di motivi, raggruppabili in almeno sei gruppi tematici o temi principali. Lo apre (16’02”) il pianoforte che espone il primo motivo del primo gruppo tematico (T1) subito ribadito (16’09”) dall’orchestra. Un secondo motivo (da 16’16”)  poi una transizione (16’38”) chiudono il primo gruppo tematico.

A 16’58” il solista entra con il secondo soggetto tematico (la seconda sezione del Rondò) sempre in LA maggiore, esponendone il tema (T2) imitato (17’06”) dai fiati. Il solista riprende il sopravvento, elaborando sapientemente il tema fino a 17’40”, dove porta la tonalità alla dominante MI.

Qui si apre una seconda parte dell’esposizione, con un primo tema (T3) che alterna maggiore e minore che è attaccato dall’orchestra e ripreso dal solista che poi (18’00”) lo sviluppa ulteriormente fino a 18’41”. Qui entra un nuovo tema (T4) sempre guidato dal solista, in MI maggiore, con i fiati a dialogare.

A 19’06” riecco il tema ricorrente del Rondò (T1) riesposto dal solista in LA maggiore e subito (19’12”) ripreso dall’orchestra. A 19’30” si può far iniziare lo sviluppo del movimento (forma sonata) e quello di un nuovo episodio (Rondò) con la presentazione di due nuovi temi, che non ricompariranno più nel seguito: il primo (T5), in tonalità bruscamente mutata a FA# minore, è sempre esposto dal solista, spalleggiato poi (19’38”) dai fiati. Il secondo (T6, a 20’00”) è in RE maggiore e viene esposto dal clarinetto e poi ripreso (20’07”) dal pianoforte e portato avanti in colloquio fra orchestra e solista fino a 20’44”, dove si torna a LA maggiore e dove possiamo posizionare la conclusione dello sviluppo (forma sonata) e l’inizio della ricapitolazione.

Rientra infatti la sezione principale del Rondò, ma con il secondo motivo del primo soggetto (T1) dell’esposizione e poi (21’01”) con il secondo tema (T2) esposto dai fiati in maggiore, quindi (21’07”) dal solista in minore ed ancora (come nell’esposizione) sviluppato e completato (da 21’31”). Il tema T4 si ripresenta (22’14”) in LA maggiore nel pianoforte, virando poi a MI maggiore.

A 22’40” inizia la Coda (forma sonata ) e l’ultimo ritorno della sezione principale del Rondò, sul tema T1, esposto ora nelle su due componenti, la prima dal solista, ripresa dall’orchestra che poi (da 22’54”) esegue anche la seconda, raggiunta dal solista. A 23’15” ecco il tema T4, stavolta in RE maggiore, poi torna (23’29”) la transizione già udita nell’esposizione e quindi (23’39”) l’orchestra avvia la definitiva conclusione del brano.
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Come si vede, un’autentica, pur piccola, cattedrale in musica! Che la biondissima Lise ci ha proposto con una tecnica che nulla ha da invidiare a Horowitz (anzi!) ed una sensibilità interpretativa davvero sorprendente. Meritatissimo il trionfo riservatole da un pubblico foltissimo, che lei ha ricambiato con… Bach.  
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Poi abbiamo avuto il piatto forte (o piuttosto una mappazza?) della serata: la Tannhäuser-suite messa insieme proprio dal direttore che ha dato forfait! Il quale ha evidentemente inteso imitare il compianto Lorin Maazel, di cui ascoltammo meno di un anno fa dalla sua allieva Xian il Ring senza parole.

In pratica è un poema sinfonico in tre movimenti, corrispondenti ai tre atti dell’opera, che riassumono le principali parti orchestrali e corali e poche melodie. Il pezzo forte della serata è stato un duetto (!) Quello fra il violoncello di Tobia Scarpolini e l’arpa di Elena Piva nella famosa Abendstern.

Che dire di Stravinskij? Lui si è presentato e ha diretto con l’aplombe di un professional della city: insomma, abito e gesto da consultant. Per essere arrivato quasi all’ultimo momento non si può che elogiarlo.


Ma gli elogi più ampi vanno a laVERDI che, dopo Ring e Tannhäuser, ormai è pronta anche per… Bayreuth!

25 febbraio, 2015

Scala: il Lucio Silla di Mozart-Bach per Villazon… senza Villazon?

 

Uno degli auto-riciclaggi da Salzburg del neo-confermato Pereira è questo Lucio Silla che domani sera vedrà la sua prima delle sei rappresentazioni.

Ai tempi di Mozart i contratti si stipulavano con lettere di 10 righe, e poi si rispettavano scrupolosamente. Così, avendo ricevuto dal Regio Ducal Teatro la seguente missiva:

…il Teofilo 16enne e l’immancabile papà Leopold si fecero trovare a Milano con perfetta puntualità e pronti ad onorare il contratto, cosa che avvenne con precisione svizzera.

Chi invece cominciò a far casino fu il librettista Giovanni De Gamerra (già il nome pare poco rassicurante, poi si saprà anche di sue attitudini… ehm, necrofile) che al Mozart diligente (aveva già scritto tutti i recitativi sul testo avuto in precedenza) fece trovare un libretto non poco rimaneggiato (nientemeno – si giustificò - che dal Metastasio!) e con buona parte dei recitativi da riscrivere.

Problemi anche con i cantanti, in particolare con un corista di chiesa padano, assoldato all’ultimo momento per fare proprio la parte di Silla, talmente sprovveduto da convincere Mozart a cancellargli almeno l'ultima aria delle tre, per evitare (ma invano) figuracce.

E qui abbiamo subito un paio di riferimenti di attualità: a Salzburg nel 2013, il direttore Marc Minkowski, avendo a disposizione per il ruolo di Silla un divo dello star-system come Rolando Villazón, pensò bene di restituire al dittatore l’aria del finale (Se al generoso ardire) e pure il recitativo accompagnato che la precede (Amor, gloria, vendetta). Peccato che Mozart l’aria non l’avesse proprio composta, e il recitativo l’avesse tenuto… a secco! E allora si è preso il tutto a prestito da Johann Christian Bach che, un paio d’anni dopo il Teofilo, aveva musicato per Mannheim il libretto (rinnovato per l’occasione) di De Gamerra.

Ecco una delle tante trovate che servono al direttore di turno per farsi bello, facendo bello al contempo il famoso tenore, che viceversa non si degnerebbe di sostenere una parte che è più da teatro di prosa che musicale. E così si inquina con la massima disinvoltura il lavoro mozartiano. Ma allora, caro Minkowski, perché non mettere in scena, nell’intervallo, anche qualche balletto di Charles-Auguste Hus, com’era d’uso nei tempi andati, o di Josef Starzer, come si fece proprio nel 1772-73 a Milano? (mah…)

Infine, come il cacio sui maccheroni (o un meritato contrappasso?) ecco che si materializza un nuovo caso di un fenomeno ormai dilagante (ovunque, ma alla Scala più che ovunque) che dimostra come gli impegni di cantanti e direttori siano scritti sull’acqua: il tenore mexicano, per il quale tutta l’operazione mozart-bach era stata architettata, ha già dato forfait: dapprima per la recita inaugurale, poi in estensione alle due successive. Se tutto va bene lo si sentirà (in J.C.Bach) il prossimo 12 marzo…

23 febbraio, 2015

Da Napoli un Tristan acciaccato

 

Radio3 ha trasmesso ieri sera il Tristan dal SanCarlo, che riprendeva lo spettacolo originariamente andato in scena nel 2004 (allora diretto dal compianto Gary Bertini). Sul podio Zubin Mehta, reduce dopo 19 ore esatte dall’Aida scaligera (e va verso i 79!)

Proprio il Direttore - che ha fatto osservare un minuto di raccoglimento in memoria di Luca Ronconi - è stato, a mio modesto avviso, il salvatore di una serata tutto sommato mediocre (parlo ovviamente dei suoni pervenuti via cavo, o etere). Ha dato una lettura di grande rigorosità, nella scansione dei tempi e delle dinamiche, come nel supporto alle voci.

Le quali voci hanno purtroppo costituito il punto debole della serata, salvandosi solo – ma meritando una semplice sufficienza – la… navigata Violeta Urmana. Passabile la sua ancella Lioba Braun, che nonostante la microfonatura si faticava ad udire in zona grave.

Deludenti Jukka Rasilainen, apparso un Kurwenal privo di mordente, e Stephen Milling, un Marke amorfo e anonimo, senza alcuna profondità di accenti.

Il protagonista Torsten Kerl mi è parso perennemente in difficoltà, impiccato già sui FA e a corto di fiato. Nel secondo atto si è fatto scontare (insieme a Isolde, ma il beneficiario è principalmente lui) ben 5 strofe (a partire da Dem Tage! Dem tückischen Tage e fino a O, nun waren wir Nacht-Geweihte!) del grande duetto, qui ridotto a moncherino. Taglio che viene spesso praticato, nelle edizioni popolari, proprio per salvare i tenori da possibili default: bene, Kerl nonostante il regalo ha rischiato di morire già nel seguito del duetto! Poi ha portato miracolosamente a casa la recita con grande affanno e molto mestiere.

Il signor Urmana (al secolo Alfredo Nigro) si è preso sulle spalle i due ruoli minori (ma non per questo da prendersi sotto gamba) di Marinaio e Melot: oltretutto deve aprire l’opera, a freddo e senza accompagnamento. Lui ha fatto del suo meglio, appena quanto basta. Italo Proferisce e Marcello Nardi completavano il cast rispettivamente come Timoniere e Pastore: queste sì sono parti proprio secondarie (la prima, soprattutto).

Apprezzabile la prova del Coro di Marco Faelli, una parte contenuta quantitativamente ma assai problematica da eseguire.

Insomma, un Tristan piuttosto di seconda scelta, Direttore escluso.

22 febbraio, 2015

Scala: la miglior Aida del terzo millennio

 

Sì, lo so che qualche schizzinoso osserverà: bella forza, far meglio di Chailly, Barenboim, Wellber, Noseda… (poi parlerò anche di Zeffirelli). Intanto però è già qualcosa, con i tempi che corrono, e così godiamoci l’evento, come se lo è goduto ieri sera il pubblico della terza che ha decretato a questa Aida un successo chiaro, convinto e indiscutibile.

Di cui personalmente accrediterei la parte sostanziosa e sostanziale al vecchietto Zubin Mehta che – nel solco della sua tradizionale interpretazione anti-retorica e intimistica dell’opera (gliel’avevo sentita l’ultima volta 4 anni fa a casa sua) – ha ottenuto da orchestra, coro e cantanti un risultato di tutto rispetto: certo, non si parla di Everest, ma insomma, già il Resegone è molto, rispetto al… monte Stella (smile!) su cui ci si era accampati negli ultimi 10 anni, ecco.

E pensare che questa sera stessa Zubin è atteso al varco da un’altra prova di quelle da far tremare i polsi… (in radio da Napoli) ma si può star certi che farà un figurone.

Smarco per primo il Coro di Casoni che in questo repertorio non ha rivali; poi l’Orchestra che – quando è guidata da uno che ne sa – tira fuori gli attributi, per venire alle voci.

Anita Rachvelishvili svetta su tutti e tutte per potenza (e questo lo sapevamo da anni, è una sua dote naturale) e per sensibilità interpretativa (e questo non era per nulla scontato): la sua è una Amneris davvero vicina all’ottimo. Superfluo citare il trionfo con cui è stata accolta alla singola.

Ma una gradita sorpresa è stata anche la negretta yankee Kristin Lewis, a cui manca solo di sostituire con l’italiano la buona dose di grammelot che lei ancora canta, per diventare un’Aida di tutto rispetto.

Fabio Sartori è il bamboccione (stra-smile!) Radames e non se la cava neanche male (certo il SIb morendo non ci prova nemmeno a farlo…): la sua mi è parsa una prestazione meritevole di ampia sufficienza, essendo oltretutto arrivato benissimo in fondo, cosa che non è per niente facile per chiunque.

Amonasro è un convincente George Gagnidze, che si comporta da cantante e non da ubriacone come capita a volte di sentire: bella voce più di baritono che di basso, ma assai efficace e sempre intonato.

Carlo Colombara ha ben meritato nella parte non proprio facilissima del RE: voce benissimo impostata e sempre ben passante.

Che dire del 70enne Matti Salminen (Ramfis)? Che ancora ce la mette tutta (quella poca o tanta che gli resta) e merita perciò un incoraggiamento a… godersi la sacrosanta pensione!

I due accademici scaligeri Chiara Isotton (Sacerdotessa) e dovestazzazzà Azer Rza-Zada (Messaggero) han fatto degnamente il loro dovere.

Per tutti (e anche per i danzatori dei balletti) un successo ben meritato.
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E a proposito di balletti, vengo a… Zeffirelli. Che la Scala ha mandato in pensione per sostituirlo con un… mezzo-Zeffirelli, che risponde al nome di Peter Stein. Il quale ha rimosso le scene egizie per sostituirle con squallidi soppalchi e scale di legno grezzo; ha però rivestito tutti di costumi sontuosi (più o meno plausibili) e dotato qualche ancella addirittura di ventaglioni da far invidia al maestro fiorentino.

Ha poi messo sulla scena la Banda d’Affori, che suona a meraviglia, avendo ciascun bandista lo spartito davanti al naso, nelle apposite pinzette montate su trombe, tromboni e cimbasso (!)

Sempre restando ai balletti, per farsi ancor meglio notare, Stein ha pesantemente interferito anche sui contenuti musicali, e all’uopo riporto qui una sua chicca prelibata, pubblicata sul programma di sala (mica raccontata al bar al quinto bicchiere di schnaps): riguarda i balletti del second’atto, che lui ha disinvoltamente buttato nel cesso, con questa mirabile quanto dotta motivazione:

Questa scena fu aggiunta da Verdi come concessione alla tradizione del grand opéra francese, in vista di un possibile allestimento parigino.   

E per formulare una tal sesquipedale idiozia - sulla base della quale ha praticato un barbaro taglio ad un grande capolavoro, alla stregua delle mutilazioni inferte l’altro giorno dagli hooligan olandesi alla barcaccia del Bernini - costui viene anche pagato… da noi?

La gestualità di masse e singoli è lasciata all’inventiva di ciascuno, quindi è da vedere se il calcione rifilato dalla Anita alla Kristin è un’idea del regista o della truce georgiana (smile!)

Insomma, un bel passo avanti anche qui verso… l’esecuzione in forma di concerto, che – a mio modestissimo modo di vedere – è l’unica seria alternativa alla zeffirelliana fedeltà assoluta a libretto e partitura. (A proposito, fra pochi giorni ne avremo esempio tangibile a Santa Cecilia).

21 febbraio, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 22


Due Mozart (bambino e adulto) introducono un Bartók teatrale nel concerto di questa settimana, diretto da Gaetano D’Espinosa.  

Apre la serata una delle prime opere del Teofilino, la Sinfonia K16, probabilmente composta a Londra (quando ancora non aveva compiuto 9 anni!) in uno dei viaggi in giro per l’Europa cui il padre Leopold lo abituò fin dalla più tenera età, presentandolo al pubblico quasi come un fenomeno da baraccone…

Sinfonia in chiaro stile italiano: quello di Johann Christian Bach, operante in Albionia proprio in quel periodo. Oltre agli archi, solo due coppie di oboi e corni, più (facoltativamente) fagotto e cembalo per il basso. Ecco quindi l’Allegro molto di apertura in struttura bitematica (MIb d’impianto e dominante SIb) con doppia esposizione e successivo doppio sviluppo, con divagazioni tonali sul primo tema, dal MIb al DO minore, e il secondo che si allinea alla tonica.

Il centrale Andante ha pure struttura bipartita, con da-capo per entrambe le sezioni: la prima inizia in DO minore, ma subito il corno (battute 7-10, poi 14-17) espone in MIb maggiore un motivo di 4 note (MIb-FA-LAb-SOL) che ritroveremo nell’ultimo tempo dell’ultima sinfonia, là in DO (DO-RE-FA-MI): un frammento del Magnificat gregoriano (8° modo) che evidentemente era già entrato in testa al piccolo genio (e più non gli uscirà). La seconda sezione principia in MIb ma poi vira al DO minore, sul quale chiude.

Il Presto finale è in realtà un ibrido fra un semplice rondo (A-B-A-B-A) e un’anticipazione di scherzi a venire: sia nel rapido tempo ternario che nella struttura, dove manca per la verità solo un trio per farne appunto uno scherzo. La sezione A è in MIb, la B (manco a dirlo…) nella dominante SIb.  

D’Espinosa si premura di togliere i secondi da-capo dei primi due movimenti, così la sinfonietta diventa una… sinfoniettina, proprio un antipasto leggero in vista dei piatti ben più corposi che ci aspettano.
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Il primo dei quali è il celebre quanto difficile ed austero Concerto in RE minore (il K466). Il Direttore  lo attacca esasperando le sincopi degli archi, il che fa lievitare il già alto grado di drammaticità dell’opera. Che ha per protagonista Davide Cabassi, l’estroverso cicciottello che deve farsi perdonare un tutt’altro che impeccabile Imperatore propostoci qui in chiusura della stagione passata. E per farlo sceglie proprio quel concerto che ha per molti versi precorso i tempi dell’ultimo di Beethoven, anche se le due cadenze proposte non sono quelle ormai tradizionali del genio di Bonn, ma quelle di Brendel e Badura-Skoda, che se le erano reciprocamente dedicate.


Ecco, bisogna dare atto al Davidone di averci restituito il maltolto con ampi margini di interesse! Particolarmente felici i primi due movimenti, più ordinario (a mia impressione) il finale, ma nel complesso una prestazione degnissima. Così viene seguita da un bis proprio beethoveniano, che Cabassi dedica all’orchestra che lo ha splendidamente supportato: l’Andante dalla Patetica.   
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A conferma del crescente interesse de laVERDI per la cosiddetta lirica, ecco che viene riproposta – a distanza di quasi 5 anni (allora con Caetani) - l’operina composta nel 1911 (a 30 anni) da Béla Bartók, dal titolo che pare un’imprecazione: Kékszakállú, che per noi sarebbe poi il famigerato Barbablu!

Avendo già scritto alcune note di presentazione dell’opera in occasione di una sua produzione fiorentina, ad esse rimando gli inguaribili perditempo…

La programmazione di opere in forma di concerto fa regolarmente sorgere dubbi, per via dei rischi che presenta, dal punto di vista della pienezza della fruizione da parte del pubblico. Premetto che sono personalmente un fautore di questo genere di proposta, in specie per quelle opere dove il soggetto è un puro pretesto e un vuoto contenitore per grande musica, alla quale ciò che si vede in scena fornisce un valore aggiunto prossimo allo zero. Peggio ancora quando un soggetto di una certa profondità viene bellamente manomesso e adulterato da regìe cervellotiche, che raggiungono il mirabile risultato di lasciare lo spettatore interdetto a pensare ai profondi significati che il regista ci vuol trasmettere, col risultato di perdere la concentrazione sulla musica, e con questa la bellezza dell’insieme; oppure lo lasciano sconcertato di fronte alla difformità fra ciò che odono le sue orecchie (testo e musica) e ciò che vedono i suoi occhi.

Certo, l’esecuzione senza la scena presenta le sue belle controindicazioni, la più grave consistendo nella mancanza di informazioni di contesto, normalmente fornite dalle scenografie, dai costumi e dai movimenti dei protagonisti, come suggeriti a regista e scenografo (ammesso che li vogliano rispettare!) da tutte le note di cui gli autori hanno corredato libretto e partitura. Mancanza che può mettere in seria difficoltà lo spettatore inesperto di quell’opera.

Ma allora domandiamoci: non è questo il classico scenario di ogni poema sinfonico? Dove mancano scene e testo e dove anche le note esplicative – dato e non concesso che l’autore le abbia vergate in partitura – non vengono comunicate allo spettatore attraverso schermi o display? Eppure si può apprezzare il lisztiano Les Préludes senza conoscerne il riferimento letterario a Lamartine (del resto appiccitatovi a posteriori!) perché la musica ci cattura e ci piace, anche istintivamente. Mentre magari (de gustibus) si può restare indifferenti o delusi dall’Isola dei morti di Rachmaninov, pur conoscendo ed apprezzando le cinque versioni del quadro di Böcklin che lo ispirò…

Insomma: alla fine, quando di mezzo c’è la musica, è questa che ha sempre (nel bene e nel male) l’ultima parola, poche balle. E perciò un poema sinfonico è – paradossalmente – avvantaggiato rispetto ad un’opera data in forma di concerto, poiché impegna dell’ascoltatore normale (non specializzato/preparato) soltanto la capacità ricettiva dei suoni, mentre l’altra in qualche modo impone anche la comprensione del soggetto letterario, che senza il supporto della scenografia può diventare ardua.  

Veniamo ora al nostro Barbablu. Che nacque non solo come opera di teatro musicale, ma che è ricca di elementi e indicazioni spiccatamente teatrali, per di più legate ad esplicite o criptiche allusioni di natura simbolista e/o esoterica: le sette porte e i rispettivi ambienti che dietro ad esse si celano; i colori che emanano dalle sale all’apertura delle porte medesime; il sudore e i rantoli delle pareti del castello; le porte che, dopo essere state aperte, progressivamente si chiudono…

In più, Barbablu presenta purtroppo per noi diverse difficoltà di comprensione: a partire dalla lingua magiara, che è fra le più ostiche e distanti da tutte le altre che più o meno possiamo in qualche modo masticare (né neolatina, né anglosassone, né eurorientale, ma… finnica!) E d’altra parte l’autore ha composto la musica – dopo lunghe e faticose ricerche - precisamente in funzione dell’idioma magiaro, il che comporta altri e più gravi problemi quando si decide di cantare il testo in altra lingua. Poi aggiungiamo la musica stessa, dove c’è poca tonalità e molta modalità, atonalità e dissonanze… insomma, musica che è tutto fuorchè di facile e rapida digestione.

Ma allora, l’esecuzione in forma di concerto del Barbablu comporta il rischio di compromettere irrimediabilmente la comprensione (prerequisito) e quindi (conseguenza) l’apprezzamento da parte dell’ascoltatore dei contenuti drammatici (le mille sfumature, i possibili significati e i reconditi misteri) e musicali dell’opera? Mah, qui bisognerebbe fare studi socio-demo-musicologici per stabilirlo; oppure fare degli exit-poll all’uscita dal concerto dove si chieda ai presenti di spiegare se e quanto hanno compreso e apprezzato di ciò che hanno udito. Tipo Gurnemanz che intervista Parsifal alla fine della cerimonia del Gral (smile!) E quante facce da oco (iper-smile!) incroceremmo?

Beh, a giudicare dal calore con cui il pubblico ha accolto direttore, orchestra e solisti dovrei dire che le preoccupazioni sono state ampiamente fugate: evidentemente, ancora una volta, la musica - se è di altissimo livello come questa – l’ha sempre vinta.

Detto che l’orchestra non ha mostrato una sola sbavatura nell’intero arco dei 60 e più minuti di impegno e che D’Espinosa l’ha guidata con precisione ed autorevolezza, restano da elogiare i due solisti: Krisztián Cser è uno strepitoso Barbablu, voce di potenza inaudita e di timbro fantastico; Dshamilja Kaiser è forse un filino al di sotto, ma pur sempre una Judit convincente.

Un’ultima notazione riguarda la regìa (occulta, date le circostanze) dell’opera, che ha inventato un finale davvero a sorpresa: per ben due volte, prima al momento della reclusione dietro la settima porta, e poi proprio mentre l’orchestra esalava gli ultimi suoni in pianissimo, ecco che Judit ha cercato di chiamare in suo soccorso, sul telefonino, il padre seduto nelle prime file di platea. Ma essendosi costui fatalmente appisolato, il suo cellulare ha continuato a squillare invano per interminabili secondi, e quando il poveraccio è stato ridestato dagli applausi, ormai la povera Judit era irrimediabilmente perduta!

13 febbraio, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 21


Ecco il concerto di San Valentino: celebrato da due brani di Prokofiev a sfondo… sentimentale, inframmezzati dal più sentimentale dei concerti di Mozart.

La prima coppia a festeggiare musicalmente questo 14/2 è quella formata da Tartaglia (principe divenuto ipocondriaco per eccesso di amore per… la poesia tragica) e Ninetta (principessa rinchiusa in una melarancia, come due sue simili e unica sopravvissuta alla… sete). È anche l’unica coppia che si gode un lieto fine.

Poi la scena passa ad Elvira Madigan (acrobata da circo) e al conte Sixten Sparre (ufficiale di cavalleria) che – a dispetto del sublime Andante del Teofilo – si tolgono la vita, impossibilitati per mancanza di pecunia a perpetuare il loro amore.

Infine la coppia più bella e famosa del mondo (mai come Romina&AlBano, ma Sanremo è su un altro pianeta, rispetto ad un concerto classico…): R&J, che vedono sfumare il loro eroico amore proprio quando tutto sembrava ormai sistemato.   

Telegraficamente: è da segnalare l’ottima prova di Shai Wosner, giovane israeliano trapiantato nella grande mela, che ha sciorinato un’interpretazione davvero convincente del Concerto K467, in particolare proprio nel centrale Andante, dove ha quasi sussurrato le mirabili frasi mozartiane. Poi, per ringraziarci dei calorosi applausi, ci ha regalato il suo amatissimo Schubert. Per il resto, l’Orchestra si è ancora una volta distinta in Prokofiev, facendo fare una bella figura (smile!) al Direttore Otto Tausk.

11 febbraio, 2015

Poppea incoronata alla Scala


La stagione della Scala ospita la terza stazione della trilogia monteverdiana (targata Alessandrini-Wilson) con l’ultima opera del grande cremonese: L’incoronazione di Poppea, arrivata ier sera alla quarta recita delle otto in programma.

Opera controversa ed anche da sempre bistrattata per il semplice motivo che non ne esiste – ma nemmeno lontanamente – una versione definibile come authoritative. Lo spettacolo della Scala si basa su una ricostruzione, anzi collazione acritica (sic, sul libretto pubblicato dal Teatro e sulla locandina) del concertatore Rinaldo Alessandrini, che ha ricomposto - a sua sensibilità - i diversi tasselli di un mosaico prendendo tessere dalle due copie manoscritte (nessuna delle quali autografa) della partitura, cosiddette di Venezia e Napoli (le due sedi delle prime rappresentazioni, 1642/3 e 1651). E lo stesso Alessandrini (un esperto assoluto in materia) ammette che non più del 60% della musica di Poppea sia plausibilmente attribuibile a Monteverdi! Fatto sta che il citato libretto reca, come autori cui sono attribuite le musiche, Monteverdi e Cavalli e per la scena conclusiva Sacrati e Ferrari. Ma c’è chi, per il duetto finale, aggiungerebbe alla lista anche tale Filiberto Laurenzi…   
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La vicenda della ricostruzione delle fonti dell’opera è talmente intricata da sfiorare il thriller: ed è un giallo che ancor oggi non ha una conclusione certa, dato che si continuano tuttora a ritrovare in giro tracce e indizi che di volta in volta orientano in modo diverso le… indagini, smentendo precedenti conclusioni.

La prima traccia dell’esistenza stessa dell’Incoronazione è un libricino del 1643, un cosiddetto scenario della rappresentazione:



Si tratta di una specie di bigino dell'opera, che ne descrive scena per scena il soggetto, per facilitarne la comprensione da parte dello spettatore. Insomma, l’antesignano del moderno programma di sala… Peccato che non rechi traccia né del librettista, né dell’autore della musica! Ci dice però – inoppugnabilmente – che un’opera con quel titolo andò in scena a Venezia in quel periodo. (Teniamo presente che Monteverdi muore nel novembre di quello stesso anno, 1643!)

Di ben 13 anni più tarda è la pubblicazione del libretto dell’opera, parte di un volume fatto stampare nel 1656 dall’autore dei testi (il librettista, appunto) Giovanni Francesco Busenello:


Abbiamo quindi la conferma che un’opera con quel titolo fu data nel 1642 a Venezia, al teatro della famiglia Grimani (il Santi Giovanni e Paolo). La discrepanza fra 1642 e 1643 sembra da attribuirsi al diverso standard di annualità che distingueva Venezia dal resto dell’Europa: a Venezia l’anno veniva fatto iniziare il 1° marzo, ma ciò valeva solo per i documenti a diffusione interna alla Repubblica (urbi) mentre per quelli destinati alla diffusione generale (orbi) si impiegava il calendario normale. Ciò spiega perché uno stesso evento verificatosi nei mesi di gennaio e febbraio poteva essere riferito all’anno n o all’anno n-1, a seconda dello standard utilizzato. Ora, l’opera andò in scena nel periodo di carnevale (che iniziava a fine dicembre) e quindi proprio in uno dei mesi equivoci: in sostanza Busenello usò verosimilmente il calendario veneziano, da cui 1642 e non 1643.

In ogni caso, nel 1656 veniamo a conoscenza dell’identità del librettista. Ma costui, il buon Busenello, tralascia di riportare un piccolo dettaglio: l’autore delle musiche! Per questo ci viene in aiuto qualche lustro dopo un letterato dalmata emigrato a Venezia, tal Cristoforo Ivanovich, che pubblica una lista di rappresentazioni di teatro musicale tenutesi a Venezia a partire dal 1637 (anno in cui fu aperto il primo teatro pubblico, quello di San Cassiano): fra queste elenca due produzioni dell’Incoronazione, nel 1643 e nel 1646 (sempre al teatro Grimani) riportando – alleluja! – oltre a quello del librettista anche il nome dell’autore, Monteverde!


Ecco, siamo nel 1681 e adesso sappiamo che nel 1643 e poi nel 1646 Venezia ospitò rappresentazioni di un’opera dal titolo L’Incoronatione di Poppea di Monteverde. Ci manca però ancora la… sostanza: le note! Ma per questo ci dobbiamo preparare ad un’attesa assai lunga, addirittura di 200 anni! Sì, perché soltanto nel 1888 Taddeo Wiel, bibliotecario della Marciana di Venezia, censì nel materiale della Collezione Contarini, ceduto alla Biblioteca a inizio ‘800, un manoscritto di musica dal titolo Il Nerone, il cui contenuto fu universalmente reputato essere L’Incoronazione di Poppea di Monteverdi. Il Volume, presumibilmente appartenuto a Francesco Cavalli e nel quale gli atti I e III dell’opera risulterebbero ricopiati dalla di lui moglie, presenta questo dorso:


Come si vede chiaramente, il titolo del tomo è IL-NE-RO-NE (che in effetti è il protagonista dell’opera) ma sotto – e lo si scopre senza ombra di dubbio osservando attentamente – erano in precedenza impresse altre lettere, per la precisione MO-NT-EV-ER-DE (!) Scritta che ricompare anche sulla prima pagina del Prologo, mentre una mano ignota, su una delle pagine di rispetto, ha vergato Claudio MONTEVERDI (?) - L’incoronazione di Poppea. Bene, tutto a posto, tutto chiaro? E invece siamo solo all’inizio dei misteri…

Tanto per cominciare, il volume di questa partitura, se reca – pur marginalmente – il nome del compositore, manca invece di quello del librettista: mancanza perfettamente speculare a quella del libretto di Busenello! E anche il contenuto non è del tutto coerente con il libretto, presentando numerose discrepanze rispetto ad esso: ad esempio nel second’atto manca la scena (dopo la terza) che descrive il suicidio di Seneca, assistito dal Coro di Virtù; la quinta scena è privata dei personaggi di Tigellino e Petronio e subito dopo manca la scena di un nuovo incontro Nerone-Poppea. Ma poi ce n’è una abbastanza clamorosa: la partitura contiene la conclusione della scena finale (duetto Nerone-Poppea) che manca nel libretto. Ma fin qui siamo quasi nella normalità, trattandosi di pubblicazioni indipendenti che spesso e volentieri divergono di poco o tanto: in sostanza, pochi mettono in dubbio che quella sia la Poppea di Monteverdi.

Ma quei pochi ringalluzziscono attorno al 1930, quando si verifica una clamorosa quanto fortunata e fortuita scoperta fatta da Guido Gasperini del Conservatorio San Pietro a Majella: fra volumi abbandonati e a rischio di finire al macero, il bibliotecario scovò una seconda partitura manoscritta (neppur essa di mano di Monteverdi) dell’Incoronazione!


Il che non solo confermò le ipotesi già avanzate nel 1891 da Benedetto Croce riguardo una rappresentazione dell’opera a Napoli nel 1651 (testimoniata dal ritrovamento di un libretto colà stampato) ma – dal confronto con il documento veneziano – fece salire le quotazioni dell’ipotesi che l’opera non fosse (tutta, quantomeno) di Monteverdi: ad esempio, la Sinfonia della versione napoletana è assai diversa ed è (secondo Gianfrancesco Malipiero, autore nel 1931 di una mirabile edizione dell’opera, basata su entrambe le fonti) più monteverdiana di quella di Venezia:


Le due partiture (che hanno in comune anche la presenza del duetto finale) divergono in più punti nel contenuto (scene mancanti o modificate) e presentano inoltre strutture diverse dei brani strumentali (sinfonie e ritornelli): tre linee per Venezia, quattro per Napoli. Apriti cielo poi quando nel 1958 Wofgang Osthoff scopre che il basso della sinfonia versione-Venezia è perfettamente identico a quello di un’opera di Cavalli (La Doriclea) rappresentata a Venezia nel 1645! Crescono quindi i dubbi e qualcuno sentenzia: la musica del manoscritto di Venezia non è di Monteverdi! È quello che si deve dedurre anche dall’ipotesi che nel 1967 avanza Anna Mondolfi-Bossarelli, un’ipotesi davvero distruttiva: la copia veneziana (quella in origine posseduta da Cavalli) sarebbe da datarsi nel periodo della morte del Cavalli medesimo, addirittura 30 anni dopo le rappresentazioni dell’opera a Venezia! Quindi la versione di Napoli sarebbe quanto meno più credibile di quella di Venezia (e bisogna riconoscere qui che Malipiero aveva visto giusto!)

Dopo alcuni colpi al cerchio, eccone uno alla botte: nel 1974 Alessandra Chiarelli, a seguito di un minuzioso confronto fra le due partiture, propone una nuova teoria: che esse siano entrambe derivate da uno stesso esemplare originario, da attribuirsi comunque a Monteverdi, impiegato per le prime rappresentazioni; quella veneziana sarebbe probabilmente di mano di Cavalli, fatta magari in occasione della ripresa del 1646, e Cavalli oltre a trascrivere (o far trascrivere dalla moglie, almeno in parte) l’originale, vi avrebbe introdotto altra musica (sua e non solo sua); quella di Napoli si dovrebbe a qualche copista al servizio della compagnia dei Febiarmonici, che girava l’Italia rappresentando opere musicali.

Ma ecco che fra il 1976 e i primi anni ’80 arriva un nuovo terremoto. La prima scossa la dà Thomas Walker, che dimostra con dovizia di esempi come la famosa lista di Ivanovich del 1681 sia zeppa di inesattezze e di informazioni manifestamente infondate; dal che deduce (magari fin troppo sommariamente) che anche i due riferimenti a Monteverdi come autore dell’Incoronazione siano del tutto inattendibili. E il terremoto si propaga a macchia d’olio, per merito di Lorenzo Bianconi, che assesta un altro paio di colpi alla paternità di Monteverdi sull’opera: il primo riguarda il duetto finale Pur ti miro. Bianconi osserva che il testo è uguale a quello del finale del Pastor regio di Ferrari, rappresentato a Venezia due anni prima dell’Incoronazione. Che significa? Che testo e musica del Ferrari sono stati incorporati nell’opera, oppure solo il testo (visto che non c’è rimasta traccia della musica del Pastor)? E poi lo stesso testo si trova in un pezzo (un cosiddetto carro musicale) di Filiberto Laurenzi, rappresentato a Roma 5 anni dopo l’Incoronazione. Insomma, quante altre mani hanno tirato la pasta della Poppea? Secondo colpo: Bianconi rileva che le sinfonie dell’opera La finta Pazza di Scarati sono identiche a quelle del finale dell’Incoronazione (coro di tribuni e consoli).

Mamma mia… ce n’è abbastanza per far concludere ad Alan Curtis (1989) che ci troviamo di fronte ad una Poppea impasticciata.

Ma non è finita, e il pendolo che si è allontanato da Monteverdi torna ad avvicinarglisi: grazie alla scoperta di Paolo Fabbri, che nel 1993 scova ad Udine (Fondo Joppi della Biblioteca comunale) una nuova edizione del libretto dell’opera, diversa da quella dell’autore dei testi (Busenello). Cosa ci dice questo documento? Innanzitutto reca la fondamentale informazione relativa all’autore della musica: Monteverdi! Poi ha proprio l’apparenza di un testo derivato da una partitura, non da un altro libretto: fa esplicito riferimento alla produzione originale del 1643; contiene precise indicazioni per lo scenografo e per l’interprete del ruolo di Poppea. Insomma, il documento pare restituire la piena credibilità al povero Ivanovich, troppo frettolosamente sbugiardato da Walker. E in più contiene un’autentica bomba: include (contrariamente all’edizione di Busenello) il duetto finale Pur ti miro!

Che significa tutto ciò? Che dobbiamo fare piazza pulita di tutte le ipotesi che volevano il duetto importato nell’opera - dal Pastor regio - in tempi successivi alla prima produzione del 1643 e quindi presumibilmente non di mano di Monteverdi? E pensare invece che sia stato musicato da Monteverdi impiegando il testo di Ferrari (il che spiegherebbe l’assenza del finale – e del nome dell’autore della musica - nel testo di Busenello)? A dar man forte a questa tesi è Anthony Pryer che, nel 1995, fa notare come non ci sia certezza che il duetto in questione fosse già presente nel Pastor regio del 1640 e che quindi potrebbe essere stato Ferrari a scriverlo per Monteverdi per importarlo successivamente nella sua opera dalla Poppea, e non viceversa!

Insomma… a questo punto ci converrà aspettare la prossima scoperta, e intanto goderci questa musica a prescindere che sia tutta, o solo in parte, o per nulla di Monteverdi.
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La povertà delle fonti si estende anche ai contenuti musicali: i due manoscritti esistenti recano – oltre le parti di canto – solo righi di accompagnamento senza specifiche indicazioni di strumentazione (al contrario, ad esempio, di Orfeo e di Ulisse). Gli storici-sociologi della musica ci spiegano come ciò sia da mettere in relazione con i peculiari mutamenti nella fruizione del teatro musicale, mutamenti che si realizzarono proprio nella Venezia del primo ‘600: dove si passò dal teatro di corte (o di famiglia, privato ed elitario, finanziato da mecenati) al teatro pubblico, gestito da imprenditori con l’ovvio assillo del profitto, e che ciascun cittadino, di qualunque ceto sociale, poteva frequentare alla sola condizione di pagare il biglietto d’ingresso. Da qui le spending-review ante-litteram, e la preoccupazione degli impresari di limitare i costi delle produzioni, riducendo al minimo anche gli organici orchestrali. E da qui anche la trasformazione dei contenuti musicali verso forme più popolari: il passaggio dal recitar-cantando di bardiana memoria - praticato da Monteverdi fino all’Ulisse - al cantar-parlando, che mette sempre più in primo piano la musica (non più ancella del verso declamato) e quindi il cantante e le sue qualità canore, trasformazione che proprio la Poppea rende evidente (e in base alla quale ragionano molti dei negazionisti - come Annibale Gianuario - della paternità di Monteverdi sull’opera…)

La conseguenza di tutto ciò, per noi oggi, è che ogni rappresentazione (o incisione) dell’opera dipende da autonome (e pure arbitrarie) decisioni del direttore. Ed infatti esistono una gran quantità di versioni diversamente strumentate, che spaziano dalla parsimonia del solo basso continuo per l’accompagnamento più la presenza di qualche arco per sinfonie e ritornelli (secondo quanto si conosce della tipica composizione strumentale dei teatri della Venezia seicentesca):


…all’opulenza persino esagerata di complessi con dovizia di strumenti ad arco e fiato, come fece Harnoncourt nel 1979.

Alessandrini, fedele alla sua concezione filologica, ha tenuto il primo approccio, impiegando il nutrito basso continuo del suo Concerto italiano (3 tiorbe, 2 arpe, 2 cembali e un violoncello) a cui, tenendo conto degli enormi spazi del Piermarini, ha aggiunto un contrabbasso e, per sinfonie e ritornelli, 2 violini e una viola, per un totale di 12 strumenti. Cui nel terz’atto si sono aggiunti 2 trombini esclusivamente per la sinfonia che introduce il giubilo di Arnalta e poi l’omaggio di Consoli e Tribuni.

Qui si può ascoltare una sua interpretazione (con aggiunta di… regìa) di qualche anno fa a Salamanca. Alla Scala il Direttore ha cambiato qualcosa nella distribuzione dei ruoli, altro rompicapo che ognuno risolve a modo suo, poiché i manoscritti recano solo le chiavi di ciascuna parte, ma spesso e volentieri presentano anche le indicazioni di trasposizione (alla quarta, o alla seconda alta, eccetera): in sostanza le parti vengono spesso adattate alla voce dell’interprete. Ad esempio quelle di Nerone e Valletto furono probabilmente scritte per, e sostenute da, castrati, mentre Alessandrini (seguendo una prassi vecchia ormai di un secolo) le affida a due tenori, così come quella della Nutrice, in origine in chiave di contralto, è qui affidata a… Tina Pica (!) Eliminati tout-court personaggi come Pallade e Venere (secondari saranno, ma pur sempre due dee!)

Quanto ai contenuti, il Direttore ne è ovviamente responsabile, stante l’esistenza delle due diverse fonti (Venezia-Napoli) cui potersi riferire e dalle quali poter selezionare i tasselli del mosaico. Alessandrini, che evidentemente è sempre alla ricerca di nuove soluzioni (come dimostrano alcune divergenze dalle scelte da lui fatte per la citata rappresentazione a Salamanca) ha cominciato con lo scegliere da Napoli la Sinfonia iniziale (concordando evidentemente con Malipiero); sempre dalla versione partenopea ha ripescato la parte di Arnalta (Infelice ragazzo) che chiude la scena XI del primo atto (qui spostata ad aprire la scena XII); così come il contenuto della scena IV del second’atto (Damigella-Valletto) più ricco… sessualmente di quello di Venezia (Dunque Amor così comincia?) e pure quello della scena V del medesimo atto (Nerone-Lucano, O felice Poppea). Sempre nell’atto secondo Alessandrini ha deciso di cassare la scena di Ottone solo (I miei subiti sdegni) in favore di quella (ancora da Napoli) di Ottavia sola (Eccomi quasi priva… Neron, Nerone mio): una scelta coraggiosa/discutibile, dato che quella scena compare soltanto nel manoscritto napoletano, mentre è del tutto assente sia in quello veneziano che nei libretti, quindi di dubbia autenticità. Dopo la scena VIII (Ottavia-Ottone) Alessandrini ha recuperato da Napoli (facendola diventare la sua scena IX) parte dell’esternazione di Ottavia Vattene pure. Nel terzo atto è rispettato l’ordine delle scene VI e VII come appare nei manoscritti (prima Arnalta e poi Ottavia) che contraddice il libretto di Busenello (seguito invece da diversi concertatori dell’opera).

Per il resto il direttore ha operato diversi tagli, molti dei quali di portata ridotta e trascurabile, altri invece più pesanti, come la scena VII del primo atto (Seneca che esterna la sua filosofia sulla caducità dei successi mondani, Le porpore regali e imperatrici) e il successivo intervento premonitore di Pallade; oppure una parte importante delle considerazioni di Seneca a Liberto (scena II dell’atto secondo); o ancora, nello stesso atto, la scena VII (Nerone-Poppea, Ò come, ò come a tempo). Anche il finale è vistosamente accorciato, in pratica lasciando in primo piano i due protagonisti, liberati dalla presenza di Venere, del Coro di Amori e soprattutto di Amore, che così è privata del suo trionfo su Fortuna e Virtù, sfidate nel Prologo (Wilson la fa comunque apparire, muta, a benedire gli amanti).

Tutto sommato, quello proposto alla Scala da Alessandrini è un corpus assai ben proporzionato e come sempre ben armonizzato con la regìa di Bob Wilson.
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Nella sua prefazione al libretto, Busenello pubblica un super-condensato del soggetto, ammettendo subito di aver… adulterato la storia come narrata da Tacito:

 
I personaggi principali dell’opera e le relazioni fondamentali (preesistenti alla vicenda e/o in essa sbocciate) che fra essi intercorrono sono schematizzati nella tavola seguente (dovuta al citato Anthony Pryer e da me tradotta e rielaborata) distinti fra umani e divini. Come detto, di questi ultimi Pallade (che dovrebbe comparire nella scena VIII del primo atto ad annunciare a Seneca la sua morte) e Venere (che dovrebbe comparire nel finale, scena VIII del terz’atto, a benedire l’amore fra Nerone e Poppea) sono assenti dalla rappresentazione scaligera.


Lo schema generale dell’opera (Prologo escluso) è invece sintetizzato in questa tavola del citato Lorenzo Bianconi che riassume, nei tre atti, i luoghi dell’azione e i principali intrecci che la caratterizzano, distribuiti nelle varie scene (la cui numerazione nell’atto II è incerta, mancando nel manoscritto di Venezia e divergendo dal libretto in quello di Napoli):


Il soggetto, che Busenello derivò liberamente da Tacito (ed altri) è di carattere marcatamente erotico, fatto certamente per eccitare l’immaginazione del pubblico di allora e attirarlo nelle nuove sale del teatro in musica: la prima parte della scena X del prim’atto (Poppea-Nerone) è di un’audacia ancor oggi sorprendente! Ma ha anche basi storiche ed etiche: la rivalità Venezia-Roma e le discussioni filosofiche che tenevano banco in ambienti quali L’Accademia degli Incogniti, cui apparteneva il librettista; scandalosa poi, per quei tempi, la figura di una donna che impiega le sue qualità fisiche per manovrare un imperatore come fosse un burattino (ecco, oggi per noi può benissimo rappresentare scenari di attualità, tipo i bunga-bunga e i divorzi e innamoramenti di un moderno Nerone brianzolo…)

Naturalmente ci sono diverse visioni e modi di interpretare la morale della favola. Trionfa Amore? Mah, che dire degli ultimi versi dei due innamorati: Pur ti miro, Pur ti godo, Pur ti stringo, Pur t'annodo… Sembrerebbero espressioni di orgasmo, più che di amore! E del resto Nerone ha fin dall’inizio ammesso che la sua per Poppea è pura infatuazione, libidine, attrazione sessuale: le poppe di Poppea! (…di questo seno i pomi). E poi, non si è mai vista una persona sinceramente innamorata ragionare come Nerone: siansi giuste od ingiuste le mie voglie, oggi, oggi Poppea sarà mia moglie! E infatti il saggio Seneca subito sentenzia: ma ch’una femminella abbia possenza di condurti gli errori, non è colpa da rege o semideo: è un misfatto plebeo.  

Insomma: è davvero il trionfo dell’amore con la A maiuscola o invece il trionfo della pura e semplice sete di potere (di una donna) in un mondo dove tutti (escluso Seneca, o magari no) si muovono quasi esclusivamente in base ad egoismo o desiderio di vendetta, e ne combinano di cotte e di crude?
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Bob Wilson, come sempre, si libra in aerei spazi… e non scende mai sulla terra, quindi tutto quanto c’è di erotico, comico o socio-politico nel libretto si stempera nella sua ieratica atmosfera, fatta di movimenti lenti (e di scatti improvvisi del gesto) e di nobiltà declamatoria. Unica eccezione la Nutrice, cui Giuseppe Di Vittorio (che ho più sopra amichevolmente apostrofato come la leggendaria Tina) conferisce un carattere di macchietta napoletana.

Scene spoglie, con impiego di parti mobili a sbozzarne i caratteri: colonnati (Roma), siepi (il giardino di Poppea), un obelisco, alberelli, un grosso capitello in rovina. Luci sapientissime a scolpire gli ambienti e le espressioni degli interpreti, tutti col viso imbiancato e occhi e labbra in rilievo scuro; costumi d’epoca assai appropriati.

Insomma, una… sacra rappresentazione, con tutti (tanti) i pro e (pochissimi) contro che caratterizzano queste scelte.

Gli interpreti hanno tutti magnificamente assecondato le intenzioni del regista e per questo sono da lodare in blocco. Più articolato deve necessariamente essere il giudizio sul versante vocale, dove c’è chi ha meritato più di altri, comunque tutti al di sopra dell’ampia sufficienza.

Va premesso che gli spazi sconfinati del Piermarini penalizzano per definizione un po’ tutti: cantanti che faticano a farsi udire e pubblico che fatica a seguire nei dettagli il filo drammaturgico. (Quanto si rimpiange in queste occasioni la vecchia, cara, Piccola Scala, ambiente ideale per queste rappresentazioni, ignominiosamente mandata al macero, ormai da una vita!)

Miah Persson è una Poppea di assoluto rilievo, coniugando sensibilità e portamento a un canto sempre impeccabile e ad una voce che passa benissimo. Come lei Monica Bacelli, un’Ottavia autorevole, nei momenti di sconforto come in quelli di rabbia. Bene anche Silvia Frigato in Amore, tanto nel Prologo quanto nella sua azione di commando per salvare Poppea dalle trame di Ottone. Il quale è interpretato da una Sara Mingardo la cui voce per la verità stenta a passare, forse penalizzata dalla tessitura grave della sua parte. Più convincenti la Drusilla di Maria Celeng, la Arnalta di Adriana Di Paola e la Damigella di Monica Piccinini.

Fra le voci maschili si è distinto Leonardo Cortellazzi, un Nerone magari troppo… macho rispetto alla leggerezza che ne caratterizza la linea vocale (scritta per castrato) ma assolutamente efficace e perfettamente chiaro e udibile. Un filino al di sotto Mirko Guadagnini come Valletto (e 2° console): anche per lui vale la considerazione relativa alla tessitura di una parte scritta in origine per castrato (o soprano). Efficace anche Luca Dordolo (Lucano) nel suo duetto celebrativo con Nerone. Ecco poi i bassi: Seneca è Andrea Concetti che se la cava con onore, anche se mi è parso troppo leggero rispetto alla personalità del filosofo. Bene gli altri due, Luigi De Donato (Mercurio, Littore ed altro…) e Furio Zanasi (Liberto e altri due ruoli minori). Per ultimi i due (sulla carta) controtenori: Andrea Arrivabene ha fatto ciò che richiede la parte piuttosto contenuta del famigliare di Nerone; quanto a Giuseppe Di Vittorio ho già detto di come la sua parte sia stata (da Wilson?) trasformata in macchietta da avanspettacolo (ma ci sta pure questo, in mezzo a tanta… austerità).  

Del complesso di Alessandrini e del Direttore (anche clavicembalista all’occorrenza) non si può dire che tutto il bene, come dei sei strumentisti dell’orchestra scaligera che lo hanno integrato.

Ecco, uno spettacolo di alto livello che riconcilia con il teatro musicale, riportandoci proprio alle origini di un’arte che da lì partirà per lunghi viaggi verso mete diverse ma tutte straordinariamente esaltanti. E il pubblico di ieri, pur selezionato (è un modo come un altro per segnalare i vasti vuoti nei palchi…) ha mostrato di apprezzare moltissimo, decretando il caloroso successo della serata.