affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

10 luglio, 2017

Le 9 di Beethoven secondo Flor e laVerdi. 2


Secondo dei 5 appuntamenti in Auditorium per il ciclo delle 9 sinfonie di Beethoven  interpretate da Claus Peter Flor: in programma la 4a e la 5a.

Dato che dire qualcosa di originale sulle sinfonie di Beethoven è più difficile che confutare la teoria della relatività, questo appuntamento mi offre l’occasione per trattare il fondamentale problema dei da-capo (ok, direte, ma oggi ci frega di più sapere se sia alle porte l’inciucione Renzi-Berlusconi). Cioè di quelle ripetizioni di brani (tipiche dell’esposizione nella forma-sonata, o negli scherzi-con-trio, ma spesso anche nei finali) che dovrebbero (o dovevano) permettere all’ascoltatore di scolpire bene in mente le caratteristiche dei temi musicali, in modo da riconoscerli poi se e quando si ripresentano successivamente: ad esempio nello sviluppo della forma-sonata, o in quelle opere – sinfonie o poemi-sinfonici – con caratteri di ciclicità (con motivi che appunto... riciclano).

Nella Sinfonia il da-capo è stato impiegato da tempo immemorabile e, dopo Haydn, Mozart e Beethoven, ne hanno fatto ampio uso anche i romantici (Schubert, Mendelssohn, Schumann) così come Brahms e giù addirittura fino a Mahler (prima e sesta sinfonia). Nel secolo scorso si andò però radicando una tradizione che escludeva (non sempre) di eseguire il da-capo, sulla base della considerazione (più o meno plausibile) che ormai, almeno per le opere classiche, i vari temi e motivi erano perfettamente conosciuti all’ascoltatore, che poteva sentirli quando voleva - senza bisogno di andare in sala-da-concerto - sul proprio giradischi (o alla radio-televisione). Ma una ragione più prosaica della rinuncia ai da-capo era di carattere bassamente venale: consentiva spesso e volentieri di comprimere opere musicali dentro la limitata capienza (20-25-30 minuti) dei microsolco. Ecco quindi che parecchie sinfonie (di Beethoven, ma non solo) se depurate dai da-capo potevano essere contenute in un’unica facciata, con evidenti vantaggi commerciali per gli operatori del settore discografico. Ma mentre il fenomeno commerciale ha perso obiettivamente di peso con l’avvento dei CD(-DVD) la rinuncia ai da-capo è diventata quasi una discriminante a livello di interpretazione, al pari della scelta dell’agogica e della dinamica o – come vedremo fra poco – dell’edizione critica da impiegare.
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Mentre nel primo concerto (sinfonie 1 e 3) Flor aveva rispettato scrupolosamente tutti i da-capo, nella Quarta ha omesso i due più importanti (esposizione dell’iniziale Allegro vivace e dell’Allegro non troppo conclusivo). Possibili ragioni della scelta? Bisognerebbe chiederle a lui, ma si può ipotizzare (in positivo) che il Direttore abbia prediletto la massima concisione nei movimenti esterni, per mettere più in risalto quelli interni (l’Adagio e il Menuetto). In negativo (spero proprio di no) la scelta potrebbe testimoniare di una scarsa fiducia del Direttore nelle qualità intrinseche dei temi fondanti di quei due movimenti...

Ne è comunque uscita una Quarta tutt’altro che docile e tranquilla (come spesso viene approcciata, da vaso di terracotta fra due di acciaio): Orchestra (sempre disposta con layout teutonico e con Dellingshausen in veste di Konzertmeister, e Santaniello seduto dietro a lui...) in gran spolvero in tutte le sezioni (da menzionare il fagotto magico di Andrea Magnani)(*). Accoglienza calorosa da un pubblico assai folto, data la stagione e la giornata.
(*) Faccio tardiva ammenda e per lo scambio di... fagotto: che era quello, altrettanto magico, di Stefano Riva
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Nella precedente puntata avevo accennato ai problemi relativi alle cosiddette edizioni critiche, la cui (pur legittima) rilevanza viene spesso sovrastimata o magari enfatizzata a fini, diciamo così, di marketing a vantaggio di incisioni o dell’immagine del Direttore tizio o cajo. E a proposito della Quinta beethoveniana va ricordato un caso non propriamente edificante di cui fu protagonista (ahilui) il sommo Claudio: e anche qui c’è di mezzo un da-capo! 

A differenza di altre sinfonie, nella Quinta, oltre alla solita miriade di dettagli più o meno apprezzabili da parte di un ascoltatore pur preparato, è emerso dalle ricerche musicologiche del secolo scorso un problema di importanza capitale (beh, ecco, ce n’è di peggio...): il da-capo dello Scherzo. Per 150 anni si è sempre seguita l’edizione di Breitkopf (la prima del 1820 successivamente riedita a più riprese) che presenta il movimento incriminato con la struttura Scherzo-Trio-Scherzo(1)-Coda. La ripresa dello Scherzo (1) da battuta 237 è assai diversa dalla forma iniziale, avendo un andamento quasi claudicante ed esitante, molto appropriato per introdurre la drammatica coda di transizione diretta al Finale. Ma fra le carte di Beethoven si sono trovate indicazioni (contraddittorie peraltro) relative all’introduzione di un da-capo a battuta 236, il che comporta una struttura del movimento assai più corposa: Scherzo-Trio-Scherzo-Trio-Scherzo(1)-Coda. E evidente come le due soluzioni portino con sè conseguenze assai importanti, dal lato estetico: la prima conferisce al movimento una straordinaria concisione, affrettando l’avvento del Finale dove la ragione trionfa sulle tenebre; la seconda lascia invece più spazio alle... tenebre, prima dell’irruzione della luce. Non è per nulla strano che Beethoven abbia avuto dubbi su quale struttura scegliere: nel suo manoscritto originale il da-capo non c’è, o meglio: c’è, ma aggiunto in un secondo momento in colore rossastro (Rötel, sanguigna) ma sparito dalle diverse ricopiature fatte successivamente e quindi anche dall’edizione del 1820.

Questa forma col da-capo (dovuta al ricercatore Peter Gülke) è stata per la prima volta proposta nel 1977 dall’editore Peters e così molti Direttori l’hanno adottata in concerti e registrazioni: ciò ovviamente comporta che il minutaggio del terzo movimento aumenti di più del 50%. Nel 1996 Clive Brown propose una nuova edizione (per Breitkopf) dove il da-capo incriminato viene salomonicamente (e piuttosto cerchio-bottisticamente) presentato con l’indicazione ad-libitum: non essendo possibile dare una risposta univoca alla questione, si lascia all’interprete la decisione di eseguire o meno il ritornello. (Per inciso, è ciò che ogni Direttore fa riguardo a praticamente tutti i da-capo di questo mondo!) Ecco l’argomentazione di Brown: “The repeat of the Scherzo and Trio, which is marked ad libitum in the text, is also discussed there (il rapporto dettagliato di Brown, ndr) in greater detail so that users may come to their own decision on the basis of the inconclusive evidence.

Nel 1997-1999 esce l’edizione Bärenreiter curata da Jonathan Del Mar. Il quale nel suo Critical Commentary prende una posizione chiara&netta. Dopo 4 fittissime pagine di ricostruzione di documenti, eventi, testimonianze, ragionamenti per assurdo etc, la sua conclusione è perentoria: il da-capo è da escludersi!


Quindi, dopo 180 anni, si riconosce che aveva proprio ragione Breitkopf fin dal 1820! Ecco la pagina incriminata della partitura di Del Mar, che riprende quella tradizionale edizione, senza alcun segno di da-capo:

Adesso torniamo ad Abbado: nel 2001 esce la sua nuova interpretazione del ciclo beethoveniano, alla testa dei suoi nuovi (ehm) padroni, i Berliner. Il CD della DGG pubblicizza con una certa enfasi il fatto che l’esecuzione delle Sinfonie è fatta impiegando la (recentissima, a quei tempi) edizione di Del Mar. Quindi concludiamo con matematica certezza: niente ritornello, giusto? E invece (ascoltare per credere, qui a 19’27”) Abbado esegue il da-capo! Che dire? Sentirci presi in giro?
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Ora, dopo tutto ‘sto tormentone filological-palloso, viene spontaneo chiedersi: ma Flor cosa c. ci ha propinato? Beh, quale che sia la ragione che lo ha portato a decidere, lui il ritornello non lo ha eseguito, tiè. E già che c’era, ha saltato anche quello del Finale... In compenso, ha dato l’attacco al destino che bussa alla porta quando ancora non si erano spenti gli applausi che lo avevano accolto al ritorno sul podio dopo l’intervallo... Neanche avesse dovuto fare un bis con, che so, il Trepak o Tuoni-e-fulmini!

Alla fine pubblico entusiasta e applausi ritmati: per essere il 9 luglio non c’è da lamentarsi.  

07 luglio, 2017

Le 9 di Beethoven secondo Flor e laVerdi


Ieri sera l’Auditorium ha ospitato il primo dei cinque concerti con i quali il nuovo (ma amico di vecchia data) Direttore Musicale de laVerdi, Claus Peter Flor, ha aperto il ciclo delle 9 sinfonie di Beethoven

Ciclo strutturato secondo un criterio quasi-cronologico, nel senso che la sequenza di presentazione delle sinfonie rispetta quasi fedelmente quella della loro composizione e dell’originale presentazione al pubblico. Fa eccezione solamente la n°2, che è stata accorpata alla n°8 nel penultimo concerto (in compagnia, a mo’ di riempitivo, delle due Romanze). Una soluzione di compromesso che ha il pregio di accostare (almeno per i primi 3 appuntamenti) una sinfonia meno (apparentemente) impegnativa ad una di quelle davvero toste. Unica controindicazione il brusco passaggio dalla 1 alla 3, che crea un gran contrasto, ma ci fa perdere l’apprezzamento dell’evoluzione beethoveniana intervenuta fra la 1 e la 2.
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Da qualche anno, quando si parla di Sinfonie di Beethoven si fa spesso riferimento all’edizione impiegata per l’esecuzione. Ciò perchè da 20 anni (più o meno) a questa parte sono comparse almeno due nuove edizioni critiche delle sinfonie beethoveniane: una, uscita negli anni 1997-99, è distribuita da Bärenreiter e curata da Jonathan Del Mar (figlio d’arte, del celebre musicologo Norman). Essa si contrappone a una nuova revisione - opera di Clive Brown e Peter Hauschild che aggiorna quella ormai storica e tradizionale di Breitkopf del 1862, che è stata – insieme a quelle successive di Peters, da essa derivate - universalmente impiegata in passato (ma lo è ancor oggi, e forse in maggioranza). Devo dire che si tratta di problemi che possono interessare più il filologo che l’ascoltatore, dato che il risultato delle ricerche (per carità, meritorie) dei musicologi si traduce più che altro nella precisazione (o anche correzione, talvolta) di particolari minimi che difficilmente sono rilevabili anche ad un ascolto attento. Ecco un esempio relativo alla prime battute dell’Op.21 (da sinistra: Peters/Breitkopf storica – Bärenreiter – Del Mar, clickare per ingrandire):


Come si nota, si tratta di sfumature quasi impercettibili e/o di avalli dell’edizione Breitkopf (a sua volta derivata dalle parti originariamente pubblicate nel 1801 da Hoffmeister&Kühnel). Non è raro che le differenze fra diverse edizioni riguardino problemi di volta-pagina per le parti, magari legati a contestati da-capo (esemplare lo Scherzo della 5a)!

Persino se si ascolta un’esecuzione fatta con la vecchia edizione Breitkopf leggendo la nuova partitura Bärenreiter (e viceversa) si fatica a percepire le differenze fra le due edizioni. Per questo sono personalmente convinto che all’ascolto ci sia assai più differenza fra due diverse interpretazioni della stessa edizione che fra due diverse edizioni critiche della stessa sinfonia: in sostanza, gli interventi che il Direttore fa normalmente sulla partitura (si pensi solo alla personale interpretazione dell’agogica e delle dinamiche) sono spesso e volentieri ben più evidenti (all’ascolto) delle differenze fra una nota staccata o meno, o fra un crescendo e una forchettina, come minuziosamente rilevati dall’editore critico.
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Tornando al ciclo di Flor, la prima serata ha visto un Auditorium assai affollato, chiaro segnale dell’interesse del pubblico per il nuovo Direttore Musicale (oltre che, ovviamente, per Beethoven).

Devo dire che è stato un esordio positivo sotto tutti gli aspetti: Orchestra (disposta alla tedesca, con i secondi violini di Gianfranco Ricci al proscenio) affiatata e capace di esprimere sonorità settecentesche nella prima e (pre)romantiche nell’eroica.

A Flor mi sentirei di (bonariamente) rimproverare solo un tempo un tantino accelerato nella seconda parte dell’Andante della prima; per il resto mi è parsa, la sua, una lettura rigorosa, nello spirito e nella lettera (rispettati, per dire, tutti i da-capo). Meritati gli applausi per lui, che si sono ripetuti poi calorosamente nel foyer-bar, in occasione di un simpatico brindisi di benvenuto.

Domenica, 4a e 5a. 

05 luglio, 2017

Ravenna orfana di Temirkanov


Al Ravenna-Festival-2017 ieri è stata la volta dei leggendari leningradesi di Yuri Temirkanov. Purtroppo, per chi, come il sottoscritto, arrivava al PalaDeAndrè ignaro di tutto, un preoccupante presentimento si manifestava già all’ingresso, dove si è solitamente accolti da gigantografie degli ospiti della serata: invece, nulla che richiamasse Temirkanov e i suoi. Il mistero era poi svelato da alcuni modesti cartelli appoggiati sui banchetti dove si acquistano le pubblicazioni: il Maestro è indisposto e ha dovuto rinunciare all’intera tournèe dell’Orchestra! Che suonerà il programma interamente dedicato a Shostakovich sotto la guida del vice Nikolay Alexeev.

Il quale Alexeev dirige proprio come il suo... capo: niente bacchetta e semplici e contenuti gesti della mano destra a dettare il tempo. Dato che è lui che verosimilmente prepara l’Orchestra, vi sono pochi dubbi che questa suoni in modo diverso da quando sul podio c’è il Direttore Musicale... e l’esito del concerto lo dimostra. Ciò che si è perso è però quello spettacolo-nello-spettacolo costituito dalla figura del venerabile!

Si comincia con quel bizzarro Concerto per piano, tromba e orchestra d’archi, di cui avevo segnalato le principali caratteristiche in occasione di un’esecuzione de laVerdi, di qualche anno fa. Qui alla tastiera siede il vulcanico Denis Matsuev, mentre la tromba solista – seduta al suo fianco, fra i primi violini - è quella di Bogdan Dekhtiaruk, membro dell’Orchestra, ma che ha vinto già competizioni internazionali.

I due si trovano alla perfezione, con il primo che detta i temi principali (spesso reminiscenze famose, vedi Beethoven) e il secondo che lo contrappunta di tanto in tanto con esilaranti (ma anche languide, all’occorrenza) irruzioni improvvise. Strepitoso il finale, con la trombetta quasi impazzita a dar la carica di bersaglieri!

Matsuev poi si sfoga con un travolgente bis, dove mette a repentaglio le strutture del prezioso Steinway...
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È poi seguita la monumentale Leningrado. Sinfonia sempre enigmatica e indecifrabile, che più la ascolti e meno ti convince. Ma più che convincenti sono stati invece i musici di SanPietroburgo (schierati con i violini secondi al proscenio e la muta degli ottoni sul fondo a destra) che sciorinano tutta la loro leggendaria maestria: strepitoso, per citare solo un esempio, l’attacco della marcetta teutonica, che il pubblico ha seguito col fiato sospeso e col cuore in gola. Finale con spettacolari sonorità, accolto da un grande applauso... liberatorio!

Che dire: auguri a Temirkanov, che speriamo di rivedere in Italia quanto prima (l’11 settembre a Rimini)!

03 luglio, 2017

Paolo Villaggio e la musica


Primi anni ’70, alla radio, domenica pomeriggio. Villaggio fa una trasmissione delle sue, un misto di qualunquismo e fantozzismo. C’è ovviamente un quiz, e in uno dei tanti compare, per incanto, persino la musica (cosiddetta, allora) contemporanea.

La domanda è: ci dica il significato dell’imprecazione: Ah, la maderna!

La rediviva Sonnambula veneziana


Ieri la Fenice ha ospitato la seconda delle 5 recite della Sonnambula di Bellini, una ripresa della produzione del 2012.

Venezia come... al solito: leggevo di autentica invasione di cavallette turisti e invece si circolava con assoluta scorrevolezza. Il posto più affollato era il porto: ma di barconi a 12 piani! (uno dei quali ha poi solcato – maestoso quanto protervo - la Giudecca proprio mentre la Sonnambula si risvegliava).
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Qualche curiosità sparsa su quest’opera che consacrò il Bellini alla storia.

a. Il fantasma che gli svizzerotti credono di vedere ogni notte è per caso Amina sonnambula? Orbene, la descrizione che la madre adottiva (Teresa) ne fa - In bianco avvolta lenzuol cadente, col crin disciolto, con occhio ardente – parrebbe proprio attagliarsi alla figlioccia, che in quelle vesti e atteggiamenti compare al Conte e poi nella scena finale. Ma allora, caspita: possibile che la Teresa, che l’Amina ce l’ha in casa, non si accorga che quando appare il fantasma, puntualmente la figlioccia sia irreperibile? E del resto il Conte non tarda più di un paio di secondi a riconoscerla, quando se la trova di fronte! Se no, allora la storia del fantasma fa davvero sorridere: si tratterebbe di un banalissimo diversivo del librettista per spargere un pizzico di suspence in un libretto dal contenuto un tantinello noioso.

b. Ah! non credea mirarti è l’anticipazione di Fenesta ca lucive o invece è una scopiazzatura (geniale) di una melodia vecchia di secoli? La domanda ha assillato esegeti e musicologi per decenni, ma ora pare che pochi dubbi esistano sulla veridicità della seconda ipotesi. E del resto la somiglianza è perfetta solo sul verso Più non reggo a tanto duolo cantato da Elvino (Chiagneva sempe ca dormeva sola, nel testo popolare) mentre quell’incipit che sale da dominante a tonica (LA minore in Bellini, FA minore nella tradizione) e da qui per gradi congiunti alla dominante (in Bellini solo alla mediante) si ritrova in Rossini (Dal tuo stellato soglio) in Smetana (Moldava) e in chissà quante altre opere famose e non. Che Bellini abbia tratto ispirazione da quell’antica melodia si può anche spiegare con la vaga rassomiglianza dell’ambientazione del testo popolare con il libretto di Romani.

c. All’inizio del second’atto troviamo un ideale percorso da Beethoven a Brahms, via Bellini: dapprima i legni espongono un motivo che ricorda assai da vicino l’attacco del tema principale del 4° concerto beethoveniano (note ribattute che dalla tonica, attraverso sensibile, tonica e tonica diesizzata portano alla sopratonica); subito dopo, nell’introduzione all’entrata di Amina (Larghetto maestoso, SOL maggiore) legni e archi espongono un motivo che tornerà anni e anni più tardi (in RE maggiore) come incipit del concerto per violino dell’amburghese.
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Tornando alla Fenice, ieri affollata ma non presa d’assalto, lo spettacolo ha confermato il discreto successo del 2012. La regìa di Bepi Morassi è simpatica e un tantinello strampalata, cercando di rispettare il testo originale, ma in ambientazione quasi-moderna: così ecco Rodolfo arrivare in funivia (nella quale rossa cabina sale poi la Lisa per scendere a valle e tornare in scena dopo nemmeno due minuti rientrando dalle quinte...) e i valligiani prendere una corriera di color rosso sgargiante per andare – in completo assetto da discesa libera - al castello a implorare l’intervento del suddetto conte.

Efficace il trattamento dei protagonisti e delle masse che li circondano: equilibrato e scevro da volgarità quello di Rodolfo (soprattutto nella scena scabrosetta del primo atto, in camera da letto); convincente quello di Amina, che ne mette in evidenza la personalità complessata ma sincera; come pure quello del povero Elvino, sballottato come una navetta in continue andate-e-ritorni fra le due femmine che se lo contendono; meno scolpiti quelli di Lisa (che si vorrebbe un filino più... impertinente) e di Teresa; Alessio viene gentilmente gratificato dal regista del matrimonio con la sua Lisa (ma sulla durata di tal legame ci sarebbe poco da giurare... e infatti Bellini la Lisa la fa proprio sparire dal finale); il coro dei valligiani si muove (o sta fermo) sempre in modo appropriato alle circostanze.
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Della compagnia del 2012 sono sopravvissuti l’Elvino di Shalva Mukeria e la Teresa di Julie Mellor: il primo ha ben figurato, confermando le sue doti di lirismo e sensibilità di portamento, ben supportate dalla voce chiara e squillante; francamente meno convincente la seconda, piuttosto stimbrata negli acuti e non troppo udibile nei gravi.

Trionfatori del pomeriggio il Rodolfo di Roberto Scandiuzzi, gran vocione (non sempre controllato al meglio, secondo me) e imponente presenza scenica; e la protagonista Irina Dubrovskaya, che non ha fatto per nulla rimpiangere la pur grande Pratt di 5 anni orsono (e non solo per i MIb e il FA sovracuti staccati con perfetta naturalezza).

Discreta la Lisa di Silvia Frigato, vocina sottile adatta al ruolo, ma troppo poco cattiva (almeno per me). Oneste la prestazioni di William Corrò (Alessio) e del notaio Eugenio Masino.

Coro di Claudio Marino Moretti e orchestra sui loro migliori standard: Fabrizio Maria Carminati ha concertato con precisione e sobrietà, restituendoci con merito questo Bellini davvero lanciato verso le altissime vette che toccherà di lì a pochi mesi con Norma e dopo pochi anni con Puritani.

01 luglio, 2017

Ravenna-Festival: il ritorno della OSN e di Fray


Il Ravenna-Festival-2017 ha ospitato ieri sera la OSN della RAI, guidata dal suo ex- Juraj Valčuha. L’Orchestra ha fatto così il suo ritorno in Romagna, in attesa poi di trasferirsi di poco a sud, lungo la riviera marchigiana, per essere protagonista al prossimo ROF. Il monumentale Pala-deAndré presentava vaste aree spopolate (penso si riempirà martedi con Temirkanov...)

Altro gradito ritorno a Ravenna è quello di David Fray, che è stato protagonista nel mitico Concerto in LA min di Schumann, al quale lui si attaglia persino nel... fisico (pare Schumann resuscitato). Esecuzione di tutto rispetto, non esente da qualche perdonabile indecisione. Ottimo l’amalgama con l’Orchestra, che deve necessariamente caratterizzare questo pezzo; alla fine applausi convinti (anche da un certo maeschtre presente in prima fila a far gli onori di casa con la consorte) e quindi un bis del più inflazionato degli Chopin.      
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È toccato infine alla straussiana Eine Alpensinfonie di chiudere in bellezza la serata. Qualche mia nota sui contenuti di questa memorabile escursione alpina si può leggere qui. Orchestra in gran spolvero, a partire dalla sezione più... bistrattata da Strauss (che aveva una predilezione per i corni, data la professione del paparino). Valčuha allenta tutte le briglie e non risparmia proprio nulla e nessuno: sonorità sgargianti e fortissimi a volontà. Ma anche religioso raccoglimento a... fine giornata. Appausi fin troppo solleciti (ma non è la nona di Mahler) e tutti a casa.

Fuori, dopo una giornata autunnale, grigia e ventosa (che si era alternata al giovedi torrido, funestato dall’insopportabile garbino) una mezzaluna e Venere spiccano in cielo: buon presagio per un’apertura di luglio come si deve: e infatti stamane cielo turchese e mare come olio.

27 giugno, 2017

Il ritorno in Scala del venerabile Bernard

 

Dopo 16 mesi dalla sua prima visita in assoluto ha fatto ritorno al Piermarini un grande vecchio (88 suonati!): Bernard Haitink. Per guidare strumenti e voci scaligere in un altro monumento della nostra civiltà musicale: dopo quel Requiem brahmsiano, è stata la volta della colossale Missa beethoveniana. Eccone una sua abbastanza recente interpretazione con i radiofonici-bavaresi, della quale è superstite qui il basso-baritono Hanno Müller-Brachmann. Con lui il tenore Peter Sonn, recente apprezzato David nei Meistersinger e le due voci femminili di Camilla Tilling e Gerhild Romberger.

Haitink ha una lunga consuetudine con la Missa: solo sul tubo lo si può ascoltare (sempre con i bavaresi) nel 2003 e prima ancora (1997) con la BBC ai PROMS (per inciso, la Missa è ospite assai frequente in quella kermesse estiva, che evidentemente non è poi così... leggera come si potrebbe credere). 

Teatro abbastanza affollato per questa terza e ultima tornata del concerto: alla fine del quale ci sono stati grandi applausi per tutti, ma soprattutto per lui, questo vecchietto arzillo e schivo che in 90 minuti avrà usato il trespolo collocato su podio sì e no per 90 secondi, per il resto dirigendo ben ritto sulle gambe e con la proverbiale sobrietà di gesto.

Sui suoi tempi (sempre assai... sostenuti) si potrebbe discutere, come sul livello (buono ma non eccelso) delle voci soliste (splendido invero il coro di Casoni) ma il piacere che si prova ascoltando queste note fa sciogliere ogni appunto critico. L’emozione al Benedictus (col magico violino di Francesco Manara) e al conclusivo Agnus Dei è sempre indicibile: una decina di secondi di doveroso silenzio assoluto ha preceduto l’applauso liberatorio. 

Ripetute chiamate per i solisti e per Haitink, che uscendo sempre si fermava davanti ai tre gradini che portano fuori dal palco: l’ultima volta è stato Pereira a rispingerlo letteralmente verso il podio, per prendersi una strameritata ovazione, a questa Missa e ad una carriera gloriosa quanto sobriamente vissuta. Chissà se anche per lui in Scala non ci sarà due senza tre!

24 giugno, 2017

2017 con laVerdi – 25


L’ultimo concerto pre-estivo della stagione principale 2017 (che proseguirà da settembre a dicembre con i restanti 9 concerti, identificandosi con la prima parte della 17-18) è affidato alla bacchetta del redivivo Gaetano D’Espinosa, oltre che alla... tastiera di un altro tornante, il bravo Giuseppe Albanese.

Programma ultra-tradizionale, sia per la struttura (Ouverture-Concerto-Sinfonia) che per gli autori, che più classici di così si muore: Beethoven e Mozart.

Apre il concerto la Leonore III, un’autentica sintesi musicale del Fidelio, del quale condensa i principali motivi (dettagliati qui a confronto con la sorellina minore Leonore II). Un bel modo per scaldare i motori...
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Ecco poi il Secondo concerto beethoveniano (nell’aprile 2014 la coppia D’Espinosa-Albanese interpretò qui in Auditorium il primo). Il sempre più convincente 38enne reggino (che mai abbandona le sue ormai proverbiali scarpe bicolori) ne dà un’interpretazione di gran classe, impreziosita dall’impeccabile cadenza dell’Allegro, dalle sognanti atmosfere dell’Adagio e dal sempre sorprendente quanto azzeccato rallentando sull’inopinato passaggio in SOL maggiore verso la fine del Rondo.

Gran successo per lui, che così si accommiata con questo funambolico Weber, dove nella foga ha modo di mettere quasi fuori uso un pedale dello strumento!
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Si chiude con la somma Jupiter del Teofilo. D’Espinosa ce la vuol forse raccontare quasi come dovettero sentirla gli ascoltatori di fine ‘700: organico contenuto, archi esitanti e leziosi (vedi le battute 2-4 e 6-8 dell’Allegro vivace); quasi tutti i ritornelli (unico escluso il secondo del finale). Una lettura accattivante, accolta con entusiasmo dal (non proprio oceanico) pubblico dell’Auditorium.
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Adesso, sospesa la stagione principale, arriva subito quella estiva, dove la classica sarà seguita dal jazz. E così, per presentarsi al pubblico de laVerdi nella sua fresca veste di Direttore Musicale, Claus Peter Flor ha scelto un programmino proprio da nulla, roba leggera adatta alle calde serate di luglio: l’intero ciclo delle 9 sinfonie di Beethoven

22 giugno, 2017

Il Ratto-vintage alla Scala


Ieri sera terza delle sei rappresentazioni del mozartiano Ratto nell’ormai 52enne (45enne per la Scala) allestimento della premiata coppia Giorgio Strehler – Luciano Damiani, che aveva debuttato al Piermarini il 15 maggio 1972: allestimento già una prima volta ripreso dalla stessa coppia nel febbraio 1978 e successivamente (giugno 1994) da quel Mattia Testi che lo cura ancor oggi.

E davvero si tratta di un’interpretazione geniale, di assoluta modernità. E tutto senza ricorrere – come accade sempre più spesso - a velleitari quanto strampalati riferimenti all’attualità e/o alla politica. (Per dire: tirare in ballo l’ISIS per rappresentare quella specie di pagliaccio che è Osmin significa recare offesa al genio di Mozart, all’intelligenza del pubblico e alle vittime dei macellai contemporanei.)

Spettacolo che evoca con grande efficacia e gradevolezza proprio l’ambiente delle prime rappresentazoni dell’opera, in quel Burgtheater, direttamente collegato alla residenza dei sovrani, nel quale Giuseppe II assistette alla prima di martedi 16 luglio, 1782. Spettacolo che riproduce lo spirito più autentico di quel genere (Singspiel) che mescolava i tratti dell’operetta buffa a quelli della commedia dell’arte: strepitose in proposito le trovate di Strehler che animano le gag di cui sono protagonisti il farsesco Osmin, il furbastro Pedrillo e, nel terz’atto, il servo muto (che Marco Merlini ha nuovamente re-impersonato dopo l’esordio del lontano 1994!)

Sempre efficace il gioco di luci (di Marco Filibeck) che illuminano i protagonisti durante i parlati e gli ensemble, ma lasciano in penombra il proscenio, dove i cantanti si misurano con le arie. Fa eccezione la spettacolare esecuzione di Martern aller Arten, che avviene a teatro in piena luce e con la cantante sola al proscenio: si tratta invero di una grande aria da concerto, con i 4 strumenti obbligati (flauto, oboe, violino e cello) che merita il privilegio di essere eseguita fuori dal contesto dell’operetta.
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E sul fronte dei suoni, l’antica consuetudine del venerabile Zubin Mehta con quest’opera (c’era proprio lui sul podio di Salzburg in quel lontano 1965!)


è di per sè una garanzia, che direi proprio abbia funzionato anche in questa occasione. Orchestra a ranghi... mozartiani (40 esecutori o giù di lì) con piccola batteria turca (triangolo, piattini e tamburo); direzione sobria, misurata e rispettosa dei minimi dettagli; concertazione impeccabile e sempre attenta a non coprire le voci con le turcherie che il Teofilo ha disseminato in partitura. 

Voci che nella media (del pollo) raggiungono una striminzita sufficienza. Sopra la quale mi sento di collocare la Sabine Devieilhe: voce sottile ma penetrante, che ben si adatta al personaggio di quella specie di suffragetta che risponde al nome di Blonde. Idem per il Pedrillo di Maximilian Schmitt, voce adeguata al ruolo, timbro squillante e buona intonazione.

Al centro della... classifica metterei la Lenneke Ruiten, che ha bene impressionato per la qualità del timbro e per l’agilità dei virtuosismi, sovracuti (anticipanti Astrifiammante) inclusi. Se avesse anche la (cosiddetta) ottava bassa un filino più robusta e udibile, sarebbe una Konstanze più credibile ancora... ma tant’è.

Sotto la... linea di galleggiamento il Belmonte di Mauro Peter, che stenta a mettere a profitto una voce pur dotata naturalmente: piuttosto piatto il suo approccio, privo di slanci che si pretenderebbero dal personaggio.

Nella... fossa delle Marianne il povero Tobias Kehrer (in tedesco maccheronico: scopatore?) Voce piccola, poco penetrante e addirittura inudibile nei gravi (certo, Mozart per Osmin ha insistito assai sulla parte bassa del rigo di... basso); si salva solo la sua macchietta impreziosita da Strehler. Insomma, questo precursore del Monostatos è proprio una delusione.    

Onesto il coretto dei Giannizzeri di Casoni.

Come detto, Marco Merlini torna dopo 23 anni a divertirci nella scenetta del terz’atto, mentre Cornelius Obonya impersona efficacemente il parlante Selim, una specie di Atatürk ante-litteram.
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Pubblico scarseggiante (ampi vuoti in platea e palchi) ma prodigo di applausi, a scena aperta dopo i numeri, e alla fine, con ripetute chiamate. Li merita ovviamente e soprattutto l’allestimento!

16 giugno, 2017

2017 con laVerdi – 24


Programma dalla struttura super-tradizionale quello diretto questa settimana da Oleg Caetani: un’ouverture, un poema sinfonico e una grande sinfonia.

Protagonista della prima parte la figura di Don Giovanni, che ritroviamo nella celebre Ouvertura dell’opera mozartiana e subito dopo nel Don Juan di Richard Strauss. Devo dire che Caetani non mi ha completamente convinto: già l’attacco dell’Ouvertura ha mancato di mettere nella dovuta evidenza quei due autentici abissi infernali evocati dalle minime di viole, archi bassi e fagotti (battute 2 e 4) che si estendono oltre le semiminime del resto degli strumenti (è una perla del Teofilo, che anticipa qui lo spaventevole ingresso della Statua nella scena XXV dell’opera). Poi le cose sono andate discretamente bene.

Anche il Tondichtung ha avuto un inizio piuttosto travagliato: gran fracasso generale dal quale faticavano ad emergere le linee melodiche. Poi le cose sono migliorate assai, grazie ai passaggi piu solistici: l’oboe della love-scene in SOL maggiore e i quattro corni all’unisono del successivo tema eroico. Curioso (e anche... preoccupante) che Caetani dirigesse leggendo a fatica una Taschenpartitur!  

Molto meglio la Quinta di Ciajkovski, che il maestro russo-elvetico-italiano conosce a memoria e che l’Orchestra ormai presenta quasi regolarmente in ogni stagione (ultimamente diretta da Xian, Axelrod e Bignamini). Emozionante come sempre l’Andante cantabile, strepitosi gli ottoni nel finale, dove il fato, che si era fin lì manifestato come destino-cinico-e-baro, si trasfigura in prospettiva addirittura trionfale. 

Trionfo che il pubblico assai folto non ha mancato di tributare a tutti con applausi e ovazioni.