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10 luglio, 2017

Le 9 di Beethoven secondo Flor e laVerdi. 2


Secondo dei 5 appuntamenti in Auditorium per il ciclo delle 9 sinfonie di Beethoven  interpretate da Claus Peter Flor: in programma la 4a e la 5a.

Dato che dire qualcosa di originale sulle sinfonie di Beethoven è più difficile che confutare la teoria della relatività, questo appuntamento mi offre l’occasione per trattare il fondamentale problema dei da-capo (ok, direte, ma oggi ci frega di più sapere se sia alle porte l’inciucione Renzi-Berlusconi). Cioè di quelle ripetizioni di brani (tipiche dell’esposizione nella forma-sonata, o negli scherzi-con-trio, ma spesso anche nei finali) che dovrebbero (o dovevano) permettere all’ascoltatore di scolpire bene in mente le caratteristiche dei temi musicali, in modo da riconoscerli poi se e quando si ripresentano successivamente: ad esempio nello sviluppo della forma-sonata, o in quelle opere – sinfonie o poemi-sinfonici – con caratteri di ciclicità (con motivi che appunto... riciclano).

Nella Sinfonia il da-capo è stato impiegato da tempo immemorabile e, dopo Haydn, Mozart e Beethoven, ne hanno fatto ampio uso anche i romantici (Schubert, Mendelssohn, Schumann) così come Brahms e giù addirittura fino a Mahler (prima e sesta sinfonia). Nel secolo scorso si andò però radicando una tradizione che escludeva (non sempre) di eseguire il da-capo, sulla base della considerazione (più o meno plausibile) che ormai, almeno per le opere classiche, i vari temi e motivi erano perfettamente conosciuti all’ascoltatore, che poteva sentirli quando voleva - senza bisogno di andare in sala-da-concerto - sul proprio giradischi (o alla radio-televisione). Ma una ragione più prosaica della rinuncia ai da-capo era di carattere bassamente venale: consentiva spesso e volentieri di comprimere opere musicali dentro la limitata capienza (20-25-30 minuti) dei microsolco. Ecco quindi che parecchie sinfonie (di Beethoven, ma non solo) se depurate dai da-capo potevano essere contenute in un’unica facciata, con evidenti vantaggi commerciali per gli operatori del settore discografico. Ma mentre il fenomeno commerciale ha perso obiettivamente di peso con l’avvento dei CD(-DVD) la rinuncia ai da-capo è diventata quasi una discriminante a livello di interpretazione, al pari della scelta dell’agogica e della dinamica o – come vedremo fra poco – dell’edizione critica da impiegare.
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Mentre nel primo concerto (sinfonie 1 e 3) Flor aveva rispettato scrupolosamente tutti i da-capo, nella Quarta ha omesso i due più importanti (esposizione dell’iniziale Allegro vivace e dell’Allegro non troppo conclusivo). Possibili ragioni della scelta? Bisognerebbe chiederle a lui, ma si può ipotizzare (in positivo) che il Direttore abbia prediletto la massima concisione nei movimenti esterni, per mettere più in risalto quelli interni (l’Adagio e il Menuetto). In negativo (spero proprio di no) la scelta potrebbe testimoniare di una scarsa fiducia del Direttore nelle qualità intrinseche dei temi fondanti di quei due movimenti...

Ne è comunque uscita una Quarta tutt’altro che docile e tranquilla (come spesso viene approcciata, da vaso di terracotta fra due di acciaio): Orchestra (sempre disposta con layout teutonico e con Dellingshausen in veste di Konzertmeister, e Santaniello seduto dietro a lui...) in gran spolvero in tutte le sezioni (da menzionare il fagotto magico di Andrea Magnani)(*). Accoglienza calorosa da un pubblico assai folto, data la stagione e la giornata.
(*) Faccio tardiva ammenda e per lo scambio di... fagotto: che era quello, altrettanto magico, di Stefano Riva
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Nella precedente puntata avevo accennato ai problemi relativi alle cosiddette edizioni critiche, la cui (pur legittima) rilevanza viene spesso sovrastimata o magari enfatizzata a fini, diciamo così, di marketing a vantaggio di incisioni o dell’immagine del Direttore tizio o cajo. E a proposito della Quinta beethoveniana va ricordato un caso non propriamente edificante di cui fu protagonista (ahilui) il sommo Claudio: e anche qui c’è di mezzo un da-capo! 

A differenza di altre sinfonie, nella Quinta, oltre alla solita miriade di dettagli più o meno apprezzabili da parte di un ascoltatore pur preparato, è emerso dalle ricerche musicologiche del secolo scorso un problema di importanza capitale (beh, ecco, ce n’è di peggio...): il da-capo dello Scherzo. Per 150 anni si è sempre seguita l’edizione di Breitkopf (la prima del 1820 successivamente riedita a più riprese) che presenta il movimento incriminato con la struttura Scherzo-Trio-Scherzo(1)-Coda. La ripresa dello Scherzo (1) da battuta 237 è assai diversa dalla forma iniziale, avendo un andamento quasi claudicante ed esitante, molto appropriato per introdurre la drammatica coda di transizione diretta al Finale. Ma fra le carte di Beethoven si sono trovate indicazioni (contraddittorie peraltro) relative all’introduzione di un da-capo a battuta 236, il che comporta una struttura del movimento assai più corposa: Scherzo-Trio-Scherzo-Trio-Scherzo(1)-Coda. E evidente come le due soluzioni portino con sè conseguenze assai importanti, dal lato estetico: la prima conferisce al movimento una straordinaria concisione, affrettando l’avvento del Finale dove la ragione trionfa sulle tenebre; la seconda lascia invece più spazio alle... tenebre, prima dell’irruzione della luce. Non è per nulla strano che Beethoven abbia avuto dubbi su quale struttura scegliere: nel suo manoscritto originale il da-capo non c’è, o meglio: c’è, ma aggiunto in un secondo momento in colore rossastro (Rötel, sanguigna) ma sparito dalle diverse ricopiature fatte successivamente e quindi anche dall’edizione del 1820.

Questa forma col da-capo (dovuta al ricercatore Peter Gülke) è stata per la prima volta proposta nel 1977 dall’editore Peters e così molti Direttori l’hanno adottata in concerti e registrazioni: ciò ovviamente comporta che il minutaggio del terzo movimento aumenti di più del 50%. Nel 1996 Clive Brown propose una nuova edizione (per Breitkopf) dove il da-capo incriminato viene salomonicamente (e piuttosto cerchio-bottisticamente) presentato con l’indicazione ad-libitum: non essendo possibile dare una risposta univoca alla questione, si lascia all’interprete la decisione di eseguire o meno il ritornello. (Per inciso, è ciò che ogni Direttore fa riguardo a praticamente tutti i da-capo di questo mondo!) Ecco l’argomentazione di Brown: “The repeat of the Scherzo and Trio, which is marked ad libitum in the text, is also discussed there (il rapporto dettagliato di Brown, ndr) in greater detail so that users may come to their own decision on the basis of the inconclusive evidence.

Nel 1997-1999 esce l’edizione Bärenreiter curata da Jonathan Del Mar. Il quale nel suo Critical Commentary prende una posizione chiara&netta. Dopo 4 fittissime pagine di ricostruzione di documenti, eventi, testimonianze, ragionamenti per assurdo etc, la sua conclusione è perentoria: il da-capo è da escludersi!


Quindi, dopo 180 anni, si riconosce che aveva proprio ragione Breitkopf fin dal 1820! Ecco la pagina incriminata della partitura di Del Mar, che riprende quella tradizionale edizione, senza alcun segno di da-capo:

Adesso torniamo ad Abbado: nel 2001 esce la sua nuova interpretazione del ciclo beethoveniano, alla testa dei suoi nuovi (ehm) padroni, i Berliner. Il CD della DGG pubblicizza con una certa enfasi il fatto che l’esecuzione delle Sinfonie è fatta impiegando la (recentissima, a quei tempi) edizione di Del Mar. Quindi concludiamo con matematica certezza: niente ritornello, giusto? E invece (ascoltare per credere, qui a 19’27”) Abbado esegue il da-capo! Che dire? Sentirci presi in giro?
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Ora, dopo tutto ‘sto tormentone filological-palloso, viene spontaneo chiedersi: ma Flor cosa c. ci ha propinato? Beh, quale che sia la ragione che lo ha portato a decidere, lui il ritornello non lo ha eseguito, tiè. E già che c’era, ha saltato anche quello del Finale... In compenso, ha dato l’attacco al destino che bussa alla porta quando ancora non si erano spenti gli applausi che lo avevano accolto al ritorno sul podio dopo l’intervallo... Neanche avesse dovuto fare un bis con, che so, il Trepak o Tuoni-e-fulmini!

Alla fine pubblico entusiasta e applausi ritmati: per essere il 9 luglio non c’è da lamentarsi.  

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