scossoni

garofani o crisantemi? 

03 marzo, 2017

2017 con laVerdi – 10


Riecco Zhang Xian sul podio de laVerdi per un concerto tutto russo, con una quasi primizia (per l’Orchestra) seguita da un autentico cavallo di battaglia.

Ecco quindi l’apertura con il Prokofiev della difficile, ostica e poco eseguita Sesta Sinfonia. Composta poco dopo la splendida Quinta, alla fine della WW2, e presentata a Leningrado dal fido Mravinsky nel 1947, godette un immediato quanto effimero successo di pubblico e critica, presto annullato dall’inappellabile e sommaria sentenza di Zhdanov&C: formalismo antisovietico!

Per gli ottusi censori di Stalin tutto ciò che tovarisch Stakanov non riusciva a canticchiare e fischiettare dopo il primo ascolto era musica degenerata e chi l’aveva composta meritava il disprezzo e magari il gulag... E guarda caso la Sesta è musica non orecchiabile, in gran parte cupa, tetra, sofferta.

La stessa struttura formale è piuttosto indecifrabile: a parte i tre soli movimenti (e questo sarebbe il meno) l’iniziale Allegro moderato appare di difficile inquadramento, a prima vista sembra la pura giustapposizione di tre temi che vengono presentati in successione, e poi riproposti ancora: molto labilmente vi si può riconoscere un simulacro di forma-sonata, oltretutto assai eterodossa dal punto di vista dei rapporti tonali. Il secondo tema tornerà poi ciclicamente, ma apparentemente avulso dal contesto, proprio nelle battute finali della sinfonia.   

Ecco come ce la propone Evgeny Mravinsky in una registrazione fatta precisamente a 20 anni di distanza dalla prima, sempre con la sua Filarmonica di Leningrado.
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L’iniziale Allegro moderato (6/8 – 9/8 – 4/4 in MIb minore) è introdotto da 10 battute di lugubri rintocchi di ottoni e archi bassi, che creano uno scenario a dir poco spettrale. Come detto, si può assai vagamente parlare di forma-sonata: esposizione dei tre temi (A, B, C), quindi sviluppo (praticamente del solo tema A) e ricapitolazione dei temi B-C-A, più una coda.

Il primo (16”) è un cupo tema in MIb minore, in violini primi e viole, che sale alla tonica partendo, contrariamente al normale, invece che dalla dominante, dalla sottodominante: LAb-SIb-DOb-MIb. Da qui la melodia si dipana con metro trocaico (semiminima-croma) alternato a terzine di crome, che le conferisce un senso di inquietudine e di instabilità. Dopo un primo intervento dei legni, che riprendono il tema in forma variata, esso viene esposto da oboe e fagotto (41”) in tonalità di LA minore, quindi a distanza di un tritono (cosa di per sè sinistra!) dal MIb di impianto.

Presto però (51”) una velocissima scala discendente dei primi violini ci riporta al MIb per un ponte dove il tema A viene rielaborato dalle diverse sezioni orchestrali sfociando (1’16”) in un insistito inciso trocaico che prelude (1’26”) al ritorno del tema A in violini primi e viole. Gli segue un nuovo ed esteso sviluppo, chiuso (2’51”, tempo Poco più sostenuto) da un’ennesima variante che rallenta il tempo fino ad introdurre (3’09”, Moderato) il secondo tema (B) in SI minore, altra tonalità piuttosto distante dal MIb d’impianto: come si vede si tratta di concatenazioni tonali che creano un’atmosfera tutt’altro che serena e rassicurante.

Questo secondo tema – esposto inizialmente per due volte dagli oboi in ottava, mutua dal primo l’andamento ondeggiante dovuto alle terzine di crome (in 6/8) che si susseguono alternate a momenti di relativa calma (battute in 9/8). Alla seconda esposizione degli oboi (3’21”) è preceduto da una scala ascendente (dalla sensibile LA alla dominante FA#) che richiama l’attacco del primo tema, con il quale questo secondo è quindi visibilmente apparentato. Un controsoggetto (3’35”) lo completa, prima che venga esposto (3’48”) da violini primi e viole e ancora (4’03”) ripreso liricamente dal corno.

Dopo un trillo sul LA grave del clarinetto, ecco (4’32”) un improvviso Allegro moderato aperto dai primi violini con veloci semicrome che salgono per quasi tre ottave dal LA grave fino al FA# acuto, dove una variante del tema A (quasi si trattasse di rondò) esplode nell’intera orchestra, per poi spegnersi a poco a poco, finchè (5’05”) gli archi bassi tornano allo stesso tema A (MIb ottenuto per enarmonia come RE#) subito reiterato con decisione e quindi ancora (5’22”) in LA# (=SOLb) fino a perdersi su una quinta vuota (MIb-SIb) di oboe, corno inglese, fagotto e archi bassi.

Ora si presenta (5’44”, Andante molto) il terzo tema (C) in 4/4, introdotto da una scansione ritmica affidata a fagotti e pianoforte. È il corno inglese (6’02”) ad esporlo insieme alle viole. Poi (6’42”) questi lo reiterano anche con l’aiuto dei primi violini, mentre l’orchestra li acccompagna con pesanti accordi. La melodia è tanto nobile quanto carica di accenti dolorosi, completando così il quadro di questo movimento che sembra parlarci di sofferenze e lutti. La tonalità è dapprima indistinta, poi il RE minore si fa avanti ed infatti ecco che (7’22”, Allegro, 6/8) in questa tonalità (ancora un’apparente bizzarria se misurata sui canoni della forma-sonata) torna il primo tema (A) negli archi.

La lunga sezione che segue è considerabile come un sviluppo di forma-sonata, poichè il tema A vi viene sottoposto a poderose manipolazioni e tutta l’orchestra ha modo di sbizzarrirsi in grandi galoppate, interrotte da squarci più lirici, ma caratterizzate da proterve scansioni ritmiche e reiterate esplosioni di rumore. Il tutto poi si placa e conduce, dopo un’oasi di calma, al ritorno (potremmo chiamarlo l’inizio della ricapitolazione?) del tema B, che riudiamo (9’58”, Moderato) nella tonalità di impianto (MIb minore, questa volta secondo i canoni della forma-sonata) esposto prima dal corno poi dal corno inglese quindi da oboi violini primi e viole, ancora da corno, ottavino e flauto.

Dopo una breve transizione si arriva quindi (11’17”, Andante molto, 4/4) alla riproposizione del tema C, nel corno inglese e nelle viole, cui poi si aggiungono violini e oboi. La tonalità vira al SIb minore e vi rimane in vista dell’arrivo (12’09”, Allegro moderato, 6/8) del tema A, che sembra prendere la rincorsa fino ad esplodere (12’21”) su un MIb armonizzato come terza di DOb maggiore! Il quale MIb si va spegnendo (12’27”) in tempo Andante verso una coda, che porta alla sommessa chiusura, nel grave, sull’accordo (inaspettato?) di MIb maggiore.

Il centrale Largo (4/4 – 3/4) reca 4 bemolli in chiave, ma certo il LAb maggiore (e meno ancora la relativa FA minore) si faticano a distinguere con chiarezza. La tonalità è sempre aspra, a causa dei cromatismi a volte esasperati e solo in un paio di occasioni si ritrovano squarci di un certo lirismo.     

Il movimento è aperto (13’16”) e sarà poi chiuso da un motivo ancora una volta piuttosto lugubre, nei legni, che scende dal MIb con saltelli cromatici e si ferma dapprima sul DO e poi su LAb. Viene ripreso (13’42”) dai violini a partire dal LAb per chiudere dapprima sul FA e ancora (14’05”) sul LAb. I temi principali sono fondamentalmente due (A e B):



Il primo (14’13”) è in carico a violini primi e tromba e si muove sempre sulla tonalità di LAb. Ancora una volta è un motivo assai poco rassicurante, intriso di cromatismi e dissonanze, che sfocia (14’40”) in un inciso dal sapore parsifaliano (Amfortas) e poi modula verso SOL minore e ripresenta (15’32”) quello stesso inciso. Poco dopo l’atmosfera si fa rarefatta e corno inglese e corni preparano l’arrivo di un secondo tema (B) anch’esso di carattere piuttosto dimesso, nobile ed austero, esposto (16’20”) da fagotto e violoncelli, in MIb e sviluppato (16’59”) dai legni fino a spegnersi su veloci figurazioni di corno inglese, fagotto e degli archi.

Un motivo apparentemente nuovo, in realtà mutuato dal tema A, compare adesso (17’32”) negli archi, in tonalità di MI maggiore, chiaro indizio di uno squarcio di lirismo e pace, dove ritroviamo (18’07”) l’inciso parsifaliano. Qui inizia però una sezione assai animata e turbolenta, caratterizzata da pesanti interventi (18’18”) di crome in fortissimo dei legni, accompagnati dal pizzicato degli archi e da secchi colpi del legno (percussione). Subito dopo toccherà ai timpani esplodere micidiali scariche di colpi, alternate ad altri secchi interventi di legni e archi, finchè (19’03”) i fagotti intervengono a calmare l’atmosfera, preparando una nuova sezione lirica di sapore mahleriano (primo tempo della settima) dominata (19’16”) dai corni in DO maggiore.

Una sommessa dissonanza (DO-SI) nei violini (20’11”) sfociante in un RE tenuto introduce isolate e rapide figurazioni (20’24”) nei legni rotte da due secchi interventi di piano-arpa e ottoni; la cosa si ripete (20’44”) per portare però (21’08”) ad una nuova oasi romantica con i corni (tonalità SIb maggiore e poi DO maggiore). E il DO supporta la ripresa (21’48”) nei violini del tema A, che è protagonista di un’autentica perorazione, culminante (22’21”) in un’esplosione di fortissimo generale, mentre i violini sviluppano la melodia passando ancora (22’55”) per la citazione parsifaliana. 

Ancora fortissimo per un passaggio a FA minore (23’01”) che poi via via si modera per riportarci (23’31”) al motivo dell’introduzione, ripreso praticamente pari-pari, nelle due sezioni, e quindi seguito da una lenta cadenza (illuminata da un rapido recitativo dell’oboe) che si spegne sul LAb.

Vivace (2/4, MIb maggiore) è il tempo conclusivo, che contrasta in modo smaccato con ciò che lo ha preceduto, tale è il brio e l’entusiasmo che lo muovono... ma vedremo che il finale ci riserverà un’amara sorpresa. Due sono i temi principali:

  
Il primo tema viene subito esposto dai primi violini (25’31”) sopra un ritmo sghembo degli altri archi. Dopo una proterva interruzione dell’orchestra, che modula plagalmente a LAb, esso viene ripreso (25’42”) in questa tonalità dal clarinetto, che gli conferisce un carattere esilarante. Un controsoggetto meno brillante (25’53”) gli subentra momentaneamente, in attesa (26’07”) di una riesposizione del tema nei violini (MIb) e (26’15”) nel clarinetto (LAb). Ora troviamo un’ulteriore modulazione a SOLb e da qui passiamo ad uno sviluppo del tema, che impegna ancora l’orchestra in ripetuti sussulti, poi torna il controsoggetto e infine somno i fagotti (26’40”) ad attaccare una melopea che fa da transizione verso il secondo tema.    

Tema B che appare (27’03”) in DO maggiore nei legni, un tema assai lungo e cantabile, che in seguito (27’37”) viene ripreso anche con il supporto dei violini primi. Un suo controsoggetto (28’06”) viene esposto da flauto e corni e ci porta alla ripresa (28’28”) del tema A in MIb nei violini e quindi (28’37”) in LAb nel clarinetto. Inizia qui uno sviluppo del tema A di notevoli proporzioni, in un’atmosfera che si è fatta più cupa e inospitale, con frequenti irruzioni di bordate di ottoni e pianoforte e ripetute apparizioni dell’inciso iniziale del tema.

A conclusione di questo sviluppo (30’36”) ecco riapparire nei legni il tema B, adesso in SIb maggiore (in luogo del precedente DO). Altra modulazione (30’55”) del tema B a SOLb maggiore e poi ecco una vera e propria scena-madre: a 31’19” si torna a SIb maggiore, dove il tema A nei violini si contrappunta mirabilmente con il tema B in tromba e corni! Poi, mentre i violini insistono con le veloci semicrome del tema A e i corni si limitano a brevi e sporadici interventi, i legni sparano alcune rapide discese in staccato, fino a chiudere questa sezione con il ritorno al MIb maggiore di impianto.

Il tema A (31’54”) è ora esposto dall’intera orchestra, con grande corposità di suono e poi ripetuto (32’03”) nella sottodominante LAb. Ancora i corni (32’14”) ad esporre un controsoggetto assai ampio, contrappuntato poi (32’25”) di violini. Il tema A (32’39”) viene poi a lungo sviluppato, con irruzioni dei legni e velocissime discese degli stessi supportati dal pianoforte. Ancora una pesante transizione (32’58”) affidata agli ottoni, poi (33’23”) sono i fagotti, cui si aggiunge il clarinetto basso, a guidare una lenta cadenza che porta ad un allargando dove il suono si spegne su un FA in corona puntata.

Adesso (33’57”) ecco ciò che il cipiglio del Vivace non lasciava presagire: gli oboi  (Andante tenero) raggiunti poi dal corno inglese e ancora dopo dai flauti, ripropongono mestamente, in MIb minore, il tema B del movimento iniziale! Su un tremolo di SIb minore (34’52”) di violini secondi e viole si stagliano ancora due incisi di oboi e corno inglese, poi (35’09”) altro tremolo (SOLb) e i legni scagliano un nuovo lancinante urlo, virando a MI naturale, il tutto ripetuto dopo una pausa.

Torna (35’43”) il tempo Vivace, come prima, ma come prima per nulla allegro e sereno: dopo una carica crescente di archi bassi, legni, poi ottoni e quindi archi, ottoni e pianoforte, ecco (35’59”) un’autentica esplosione di tutta l’orchestra, un caduta inarrestabile che sfocia su secche semiminime di ottoni, pianoforte e archi, seguite (36’12”) da autentiche martellate e infine da una velocissima rincorsa di legni e archi in semicrome che chiude la sinfonia su un incredibile schianto di MIb maggiore!
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Che dire? Pessimismo mescolato a pazzia? Dolore invano esorcizzato con risate isteriche? Schizofrenia galoppante? Tutte spiegazioni extramusicali, ovviamente, buone per un poema sinfonico, forse. I suoni, se ascoltati senza pregiudizi o aspettative socio-filosofico-letterarie, lasciano francamente (parlo per me, natürlisch) una sensazione di incompiutezza e forse di impotenza creativa, ben mascherate dalla proverbiale maestria dell’Autore nell’impiego della tavolozza sonora.

La Sinfonia non è fra i cavalli di battaglia de laVerdi (un paio di isolate esecuzioni in tutta la sua storia ulraventennale) e anche la Xian non deve averla diretta molto. Tuttavia mi è sembrata un’esecuzione assolutamente apprezzabile, che il pubblico ha accolto con sufficiente calore, anche se senza entusiasmi da stadio, ecco...
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Ben diverso il discorso su Shéhérazade (qui alcune mie vecchie note in merito) che i ragazzi conoscono a meraviglia, a partire dal protagonista (en-travesti...) Luca Santaniello, che ogni volta aggiunge qualche particolare tocco di espressività ai suoi... racconti volti ad imbonire lo sbifido sultano. E poi, diciamolo pure, questo Rimski non pone certo all’ascoltatore problemi di decifrazione dei contenuti musicali! Così ecco un’altra grande prestazione di tutti e il ritorno... dell’entusiasmo in platea.

01 marzo, 2017

Alla Scala arrivano i Maestri (0)

 

Dal 16 c.m. e fino al 5 aprile la Scala ospiterà sette recite dei colossali Meistersinger, che mancano dal Piermarini da praticamente 27 anni (Wolfgang Sawallisch, ‘90). E 28 anni avevano separato quella produzione dalla precedente (Karl Böhm, ‘62) arrivata solo 10 dopo quella del denazificato Wilhelm Furtwängler (’52).

Dopo un’eternità torna sul podio per dirigere questo mastodonte un Maestro italiano, Daniele Gatti. Prima di lui si deve risalire a Toscanini; ma italiano era stato il Direttore della prima scaligera: Franco Faccio, a SantoStefano del 1889, con versione ritmica in italiano di Zanardini e abbondanti tagli operati da tale Giacomo Puccini (! ideona per Chailly: riesumare quella versione per un prossimo SantAmbrogio!)

Si tratta quindi di un autentico evento (non ne capitava uno simile dal 2013, anno del bicentenario wagneriano, con le due edizioni compatte del Ring di Barenboim-Cassiers) che merita quindi qualche nota di presentazione. In questa e nelle prossime puntate del post mi occuperò di alcuni aspetti extra-musicali, curiosità o leggende metropolitane che circolano da sempre su quest’opera.

A cominciare dalle circostanze che spinsero Wagner a tornare a 16 anni di distanza su un soggetto immaginato già nel 1845; per passare ai problemi di natura politica (o para-) che il testo presenta: conservazione vs innovazione, élites vs popolo; e poi alle accuse di proto-nazismo e apologia di antisemitismo che sono state mosse all’opera; e alla tanto controversa citazione di Rossini.

Ma a proposito di ricorrenze, nel 2017 cade nientemeno che il 500° anniversario della nascita della Riforma luterana: precisamente il 31 ottobre del 1517 Martin Luther espose su questo portale della Schlosskirke di Wittenberg le sue rivoluzionarie tesi:


Ebbene: Luther è uno dei... personaggi dei Meistersinger! No, non sentiamo cantare lui, ma ne sentiamo cantare dal popolo le lodi che l'Hans Sachs storico scrisse al suo indirizzo l’8 luglio 1523. È il famoso Wacht auf! (Risvegliatevi!) che apre Die wittenbergische Nachtigall, nel quale Luther viene poeticamente dipinto come un usignolo il cui canto ormai si spande in ogni dove, mentre sul mondo intero spunta una nuova alba rosseggiante:


Wagner musica i primi otto (dei 700) versi del poemetto, che già contengono spunti piuttosto evidenti: la notte (Chiesa romana) e il giorno (la Riforma). Segue un’allegoria che descrive il gregge (la cristianità) che si fa abbindolare di notte dal chiarore lunare (ingannevoli sofisti) e abbandona l’ovile per andarsene nella giungla dietro ad un leone (il Papa!) Il leone comincia ad ammazzare molte pecore, finchè l’usignolo (Luther) sveglia il gregge dalla sua cecità, il che manda il leone su tutte le furie: così chiama a raccolta tutti gli animali più immondi (asini, maiali, capre, gatti, lumache, rane, oche selvatiche) per cercare di tacitare l’usignolo; ma esso continua a cantare e all’arrivo del giorno il gregge può tornare all’ovile! 

La compagnia dei Maestri Cantori è formata da 12 individui, i cui nomi Wagner prese di peso da un trattato secentesco di Johann–Christoph Wagenseil:

Come si vede, a parte qualche differenza grafica e al cantore Zorn, cui Wagner mutò il nome da Friz a Balthasar, sono precisamente gli 11 nomi che Kothner chiama nell’appello del primo atto. Uno di costoro, precisamente Niclaus Vogel risulta assente perchè malato, e quindi non ne risentiremo più parlare. Di fatto il suo posto fra i 12 lo prende Hans Sachs, che nella lista di Wagenseil manca perchè vissuto posteriormente agli altri (ma è comunque ampiamente citato in altre parti del testo). Il quale testo riporta inoltre le regole formali dei canti (il Bar, costituito da due Stollen e un Abesang) e poi elenca minuziosamente ben 33 (quanti gli anni di Cristo!) tipi di errori che contravvengono alle regole della Tabulatur. Poi ecco un interminabile elenco di 223 arie dei Maestri (David nell’opera ne cita – pur prolissamente - solo una piccola parte, quanto basta a spaventare Stolzing): si va dalle semplici canzoni con 5 rime fino alle più complesse, con 34 rime, una delle quali ultime è proprio di Sachs! E non manca la minuziosa descrizione dell’interno della chiesa di Santa Caterina dove si svolgevano le prove e gli esami per gli aspiranti cantori; e come l’aspirante cantore venisse giudicato da ben 4 Merker (Kothner ne nominerà solo uno – Beckmesser - essendo il soggetto della canzone di Walther di natura non religiosa, ma laica!) Tutti concetti e oggetti ripresi puntualmente da Wagner nella sua opera. 

Più labili e tutto sommato superficiali sono invece i legami fra i Meistersinger e l’opera comica Hans Sachs di Albert Lortzing (a sua volta ispirata al lavoro teatrale di pari titolo dell’austriaco Johann Ludwig (Ferdinand) Deinhardstein) che Wagner certamente conosceva, ma dal cui soggetto si discostò assai, a cominciare dalla figura centrale di Sachs, che da giovane e ambizioso personaggio qual’è in Lortzing si trasforma con Wagner in un grande saggio (e pure... paraculo!) Piuttosto, a proposito di Sachs, la sua accorata esternazione (”Wahn! Wahn! Überall Wahn!”) sembra proprio anticipare, in versione seriosa, il verdiano “Tutto nel mondo è burla!” 
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(continua...) 

25 febbraio, 2017

2017 con laVerdi – 9


Non è laVerdi ad esibirsi questa settimana in Auditorium, ma la Haydn di Bolzano&Trento, nell’ambito delle iniziative di reciproca ospitalità fra orchestre italiane (ad aprile ci sarà – in abbonamento - un analogo scambio di cortesie con la Toscanini) ed estere (lunedi 27 – fuori abbonamento - saranno i Mannheimer Philharmoniker a suonare con Francesca Dego).

Benjamin Bayl, un canguro 39enne trapiantato in Europa, propone un programma a base di Mozart e – guarda caso – Haydn, aperto però da un modernissimo Ivan Fedele.

Del quale ascoltiamo i primi due movimenti (per così dire) di Lexicon III, la cui prima è proprio fresca fresca, avendo avuto luogo a Bolzano solo martedi scorso. Come spiega lo stesso Autore sul Programma di sala, l’opera si ispira ad Italo Calvino ed in particolare a conferenze tenute dallo scrittore ad Harvard nel 1985 che ebbero come oggetto il futuro della letteratura nel terzo millennio e hanno come titoli le caratteristiche che dovrebbe possedere un’opera letteraria del futuro per sopravvivere all’assalto della tecnologia: Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità e Consistenza. Il Lexicon III – per ora sono stati composti i primi 4 titoli - li raggruppa a coppie (circa 10’ di musica a coppia) e ciò che si ascolta qui è la prima delle tre coppie: 1.Leggerezza, 2.Rapidità (la seconda verrà proposta al pubblico prossimamente in quel di Padova).

L’organico prevede fiati (15 esecutori, esclusa la tuba) arpa, archi e percussioni più un campionatore di suoni.

Cedo quindi la parola all’Autore:
Ecco quindi che la finalità di questo lavoro è quella di sottolineare, ancora una volta, il primato dell’immaginazione attraverso una mia personale declinazione di quei concetti che sono stati sempre alla base della mia esperienza di compositore. Di ognuno di quei temi (perche di temi si tratta) avrei potuto scrivere molte variazioni. Mi sono limitato a proporre le interpretazioni che, a mio avviso, testimoniano meglio l’estetica degli ultimi anni; un’estetica che propone un concetto di narrazione diverso da quello d’ispirazione letteraria, ma piu vicino alla nozione di un tempo che rivela gradualmente le qualità intrinseche di un pensiero musicale gia costituito in sè, in cui non esistono personaggi (micro e macro figure musicali) che appaiono sulla scena raccontando una trama che si evolve nel tempo.

Insomma, se capisco bene: immergersi nei suoni senza cercarvi alcuna narrativa, ma abbandonandosi ad essi per condividere l’ispirazione del compositore. 

Che dire: la Leggerezza è un tappeto quasi continuo di tremoli di archi sul quale cadono delicate gocce d’acqua (ciò io ho immaginato con fervida fantasia) mentre la Rapidità ho faticato a riscontrarla, in mezzo a scrosci sonori che cascavano qua e là su un terreno accidentato.

Applausi di stima, ma che lasciano l’impressione (abbastanza comune in occasioni simili) che il pubblico (ieri non propriamente oceanico) si senta in credito col mondo per aver fatto un fioretto quaresimale, ecco.
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La 22enne coreana Ji-Yeong Mun (Chloe Mun in arte) vincitrice del Concorso Busoni 2015 arriva poi a proporci il 22° concerto del Teofilo, il K482 in MIb maggiore. Composto a fine del 1785, quindi nel periodo viennese (è contemporaneo delle Nozze, che vi fanno pure capolino) ha un suo antesignano nel K271, nella stessa tonalità, composto quasi 10 anni prima a Salzburg (si dice per un’avvenente pianista francese, tale Jeunhomme, da cui prese il nickname).

Si tratta di due concerti dalla struttura e dalle dimensioni ragguardevoli (passano abbondantemente i 30’, cosa quasi inaudita ai tempi) e che presentano similitudini in particolare nell’Andante centrale in DO minore e soprattutto nel veloce Rondo conclusivo, dove incorporano sorprendentemente un’ampia sezione lenta di Menuetto (ben 70 battute nel K271 e 46 nel K482). Il K482 ha persino una... finta conclusione, con due battute dove l’intera orchestra scala la triade di MIb in quella che parrebbe proprio la cadenza conclusiva, e invece un tappeto dei fiati prepara il ritorno del solista per altre 7 battute, prima che finalmente l’orchestra si decida a finirla lì! Novità assoluta è anche l’impiego dei clarinetti a rimpiazzare gli oboi, che a quell’epoca la facevano da padrone.

Magnifica la prestazione della coreanina (presentatasi in un lungo e vaporoso rosa pallido): una delicatezza di tocco straordinaria, dei pianissimo emozionanti. E naturalmente una tecnica sopraffina: il concerto non deve essere dei più impervi, ma la sola cadenza dell’Allegro conclusivo è stata un probante banco di prova. Per lei un gran trionfo. Pochi mesi fa si era esibita a Trieste in Chopin e l’autorevole Amfortas ne aveva scritto pure in termini assai positivi. Curiosità: ieri ci ha offerto lo stesso bis di allora (Widmung).
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A chiusura (ufficiale) del concerto una delle sinfonie londinesi di Haydn, la 101, denominata La pendola, per via della scansione da orologio che caratterizza il secondo movimento. Sinfonia assai pretenziosa (come tutte le sorelle albioniche del resto, vedi la 94 ascoltata qui pochissimo tempo fa, e come quelle immediatamente anteriori, parigine) poichè destinata ad un uditorio con il palato assuefatto alle meraviglie di Händel, e allo stesso tempo aperto alle più ardite innovazioni. E la 101, come vedremo, di innovazioni ne contiene una quantità sufficiente ad accontentare anche i più esigenti. Proviamo a seguirla in questa (ormai) storica incisione del compianto Harnoncourt con i tulipani.
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L’introduzione lenta (Adagio, 3/4) non è tra le più lunghe (33 battute) di Haydn, ma è comunque assai complessa: si apre infatti con 4 battute di RE minore, dove troviamo una scala ascendente che verrà ripresa nel primo tema, sfocianti in una fermata (17”) sulla dominante LA maggiore; seguono poi (23”) altre 8 battute in RE minore, sfocianti questa volta (52”) sulla relativa FA maggiore; ancora (1’01”) 11 battute che, attraverso una drammatica settima diminuita (FA#-LA-DO-MIb, a 1’27”) ci traghettano verso l’accordo (1’47”) di dominante (LA-DO#-MI) che prepara a sua volta l’attacco (1’57”) dell’esposizione, Presto in RE maggiore (6/8).

La cui struttura è ovviamente in forma-sonata, ma sempre con le tipiche caratteristiche haydn-iane: i due temi che non contrastano assolutamente, uno sviluppo relativamente breve ed una ripresa chiusa dalla reiterazione del primo tema.

L’esposizione presenta dunque un primo tema in RE maggiore, negli archi e subito ripreso (2’05”) anche dai fiati e dalla piena orchestra. A 2’19 ecco una fermata sulla dominante LA e poi una variante del tema che fa da ponte modulante verso il LA maggiore (2’47”) del secondo tema. Il quale poco contrasta con il primo, da esso distinguendosi più che altro per l’iniziale leggerezza di strumentazione, ridotta ai soli violini con accompagnamento sommesso degli altri archi. Presto però (3’02”) anche questo tema si arricchisce di sonorità con l’intervento dei fiati che lo sviluppano fino alla chiusa (3’25”) che ci rimanda da-capo.

Lo sviluppo (4’52”) è basato prevalentemente sul secondo tema, che si contrappunta con spezzoni del primo e viene sottoposto a variazioni, manipolazioni e modulazioni (LA maggiore, 5’03” FA# minore, 5’16” DO maggiore, 5’33” MI minore, 5’43” SOL maggiore, 5’58” SI minore e ancora 6’00” SOL maggiore) prima di arrivare alla ripresa (6’16”) del primo tema e quindi (6’43”) del secondo, esposto ora canonicamente in RE maggiore. Ma è ancora il primo tema (7’46”) nei violini, mentre il flauto fa sentire le 4 note del Magnificat (usate da Mozart come tema del finale della sua ultima sinfonia) a chiudere il movimento.

Ecco poi l’Andante (2/4, SOL maggiore). Ha una struttura ibrida, a metà fra il rondò e il tema con variazioni. È aperto (8’12”) dai fagotti sul pizzicato di violini secondi, celli  e bassi ad evocare il tlic-tlac di una pendola. I violini primi già a battuta 2 espongono il tema principale, dal carattere marziale, ripetuto a 8’41”. Un ponte costituito da un motivo puntato e staccato (9’09”) che modula temporaneamente a RE maggiore e richiama la chiusura del tema, porta alla riesposizione dello stesso in SOL (9’48”): come la prima, anche questa sezione è ripetuta a 10’16”.

A 11’19” ecco un’improvvisa esplosione in SOL minore (indicato esplicitamente!) che apre una sezione nuova (tipo rondò) e poi (11’35”) presenta una modulazione alla relativa SIb maggiore (dove fa capolino a 11’47” l’Inno imperiale!) e quindi (12’08”) il ritorno a SOL minore, con chiusura sul RE, dominante della tonalità di base (maggiore, come indicato in partitura...) in cui viene riesposto (12’38”) il tema principale, sottilmente variato ed abbellito, in un’atmosfera sommessa e piena di lirismo. Cosa che si ripete poco dopo (13’48”).

Ora una vera e propria genialata di Haydn, di quelle destinate a generare sorpresa e meraviglia nell’esigente e modernista pubblico londinese: a 14’20” ecco infatti una lunga pausa che serve praticamente a far decantare nella nostra mente il SOL maggiore, in modo da rendere meno traumatico il passaggio ad una tonalità assai lontana (la sesta abbassata, MIb) in cui il tema principale viene riproposto in un’ennesima variante. A 14’49” si ha il ritorno (dominante RE) verso SOL maggiore per una nuova riproposizione (15’04”) del tema principale adesso con piglio enfatico e retorico (tipo sfilata della Guardia Reale) che poi sfuma provvisoriamente per riprendere (16’05”) con immutato vigore. Ma siamo alla fine della... sfilata e quindi (16’33”) subentra una mirabile cadenza che pare seguire il corteo che si perde in lontananza.

Ora il canonico Menuetto (Allegretto, 3/4, RE maggiore) che Haydn, per accontentare i raffinati palati londinesi, spoglia delle classiche leziosità viennesi per trasformarlo quasiquasi in uno Scherzo (anticipando così nientemeno che il grande Beethoven!)

A 16’53” viene esposto il tema principale, di piglio fiero e nobile, ripreso (17’02”) per poi modulare e chiudere sulla dominante LA (17’21”) dove abbiamo il da-capo. La seconda sezione (17’49”) si apre in tono più dimesso, ma ben presto (18’09”) si rifà vivo il tema principale, che va a chiudere il Menuetto, una prima volta (18’40”) con il da-capo di questa seconda sezione.

Il Trio (19’33”) ci presenta un’altra sorpresa: invece di una calma e notturna sezione (normalmente affidata il corni o ai fiati) qui è costituito da arabeschi in staccato del flauto intercalati da esplosioni di tutti orchestrali. Non molto diversa anche la seconda sezione (20’01”) che è però più lunga, sottilmente dissonante e chiude (20’45”) con un da-capo. Suggella il tutto la canonica ripresa del Menuetto (21’30”).

Il Finale (Vivace, RE maggiore, 4/4 alla breve) è ancora un ibrido: forma sonata con spruzzate di rondò e frequenti variazioni. Si apre (22’50”) con un tema di 8 battute che attacca con una scala ascendente (un po’ la caratteristica della sinfonia) fatto di botta-e-risposta attorno alla tonica ed esposto sommessamente dagli archi. Il tutto ripetuto a 22’58”. Un controsoggetto (23’07”) suonato sempre piano riporta (23’19”) al tema principale e poi viene ripetuto (23’28”).

A 23’47” ecco uno scoppio dell’intera orchestra e un lungo ponte che porta dapprima (23’59”) e fugacemente alla sottodominante SOL maggiore, poi ancora dal RE al SI minore (24’04”) e infine (24’07”) al LA maggiore, la tonalità dominante che ci dice che sta per arrivare il secondo tema. Il quale arriva (24’22”) portato con discrezione dai fagotti appoggiati da oboi e archi. Ancora uno scoppio orchestrale (24’34”) con flauti e violini impegnati in volate di crome fino ad una pausa (24’54”) dalla quale parte un nuovo ponte che ci porta (25’05”) al RE maggiore del primo tema. Che torna ancora (25’32”) variato negli archi.

Nuovo scossone (25’39”) con esplicita indicazione di minore (RE) e successiva modulazione alla relativa FA maggiore (25’56”) e poi ancora (26’15”) a RE minore con fermata sulla dominante LA. Da qui (26’31”) riecco il RE (maggiore, come indicato per i distratti...)

Haydn però vuole stupirci tutti e che ti inventa? Una spettacolare fuga sul tema principale! Che inizia sommessamente per arrivare (27’17”) ad una nuova esplosione generale ed avviare la discesa finale, chiusa (27’45”) da una stentorea cadenza.
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Convincente la lettura di Bayl (gesto sobrio ma evidentemente efficace) e splendida prestazione dell’Orchestra (schierata con le viole al proscenio) fortissima davvero in tutte le sezioni. Applausi calorosi ripagati da un bis davvero entusiasmante (che ci ha riportato al Mozart del K482): l’Ouverture delle Nozze! Archi di compattezza assoluta (fanno meravigliare ancor oggi, figuriamoci come doveva prendere questa musica il pubblico di 220 anni fa!) e fiati squillanti e penetranti. Gran trionfo per tutti e lunga vita alla Haydn!
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Allego con l’occasione uno scritto sulle sinfonie di Haydn di Danilo Prefumo, pubblicato nel gennaio 1988 sulla rivista Musica&Dossier. 

20 febbraio, 2017

La Katia di Carsen al Regio torinese


Ieri pomeriggio terza delle cinque recite, al Regio di Torino, di Katia Kabanova, l’opera di Leoš Janáček (Kát'a Kabanová, in grafia originale) messa in scena nel 2004 da Robert Carsen in terra fiamminga e poi portata in giro per il mondo (Scala compresa, con annesso premio Abbiati, nel 2006). É la seconda tappa di un trittico Janáček-Carsen che il Regio ha coraggiosamente messo in cantiere, aperto la scorsa stagione dalla Piccola Volpe.
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Nel breve volgere di 13 anni, fra il 1921 e il 1934, due Caterine (Kabanova e Izmajlova) hanno fatto la loro comparsa sulle scene dei teatri d’opera: entrambe all’est, anzi entrambe figlie della grande madre Russia, la prima messa in musica dal moravo Janáček, la seconda dal sovietico Shostakovich. Fra le due esistono alcuni evidenti punti di contatto, accanto a profonde differenze di fondo. Entrambe le storie sono ambientate nella Russia borghese-rurale di metà ‘800, in una civiltà piuttosto invivibile per donne non disposte a sostenere il ruolo di appendici passive della rigida struttura di una società retta da bigottismo e maschilismo (compreso quello praticato da rappresentanti del gentil sesso). Ed infatti le nostre due Caterine, arrivate all’età adulta dopo fanciullezze spensierate, in quella società faticano a trovare occasioni di felicità, al contrario: le scene delle partenze dei due mariti per viaggi d’affari, con relative umiliazioni psico-fisiche delle due mogli, ne sono esempi eclatanti. E così entrambe si ribellano allo status-quo, rivoltandosi contro suoceri-padroni e suocere-padrone per cercare di vivere almeno per qualche momento da esseri umani, dotati di sentimenti e di un minimo di libertà. Alla fine entrambe però soccombono e finiscono i loro giorni con due... tuffi nelle acque della grande madre Volga, e pure negli stessi paraggi: Kalinov (dove annega Katia) è una cittadina (immaginaria, invenzione di Ostrovski) sul Volga ad est di Mosca; la Lady invece si butta nel fiume, lungo il viaggio di deportazione verso la Siberia, presso Kazan (guarda caso la meta del viaggio d’affari del marito di Katia...)


Ecco, le similitudini fra la Katia e la Lady finiscono però qui. Poichè le due donne hanno viceversa personalità così diverse da trovarsi quasi agli antipodi: tanto fredda, cinica, spavalda e impenitente è la Lady, quanto sensibile, fragile, complessata e instabile è Katia. Ed anche i suicidi delle due saranno provocati da circostanze e ragioni lontanissime fra loro: l’odio (che ha preso il posto dell’amore) per l’uomo traditore e per la donna che glielo ha strappato (Lady) e l’insostenibile senso di colpa per il suo peccato, che le impedisce persino di immaginare una disperata fuga con l’uomo che di tale peccato era stato l’agente (Katia).  
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Sappiamo che una delle prerogative peculiari della musica vocale di Janáček consiste nella sua programmatica ed indissolubile aderenza agli stilemi della parlata céca; non c’è una sola frase vocale che non sia modellata sui fonemi del testo sottostante. Se ciò non costituisce, per noi ignoranti di céco, un limite insuperabile al pieno apprezzamento di questa musica, è solo perchè il compositore accompagna (quasi) sempre la linea di canto (che ci può apparire estranea, incomprensibile proprio come l’idioma in cui è scritto il testo) con mirabili linee melodiche affidate all’orchestra. Si può dire perciò che i cantanti... declamano e l’orchestra... canta! Ovviamente troviamo anche bei momenti di grande lirismo, su tutti la mirabile scena d’amore dell’atto secondo e poi i monologhi di Katia (ricordi di gioventù e prologo al suicidio).

Quanto alla caratterizzazione dei personaggi, essa assegna ai cattivi (la terribile suocera Kabanicha e Dikoj, lo spregevole zio di Boris) linee di canto aspre, a volte repellenti (frequente qui l’impiego di scale e accordi ottatonici) riservando soprattutto alla Natura, a Katia e allo sfigato Boris (suo amante pro-tempore) quelle più nobili e romantiche. Musica più tradizionalmente popolare emerge invece dalle personalità più ingenue e naif dei due personaggi di contorno: Kudrjás, giovane istruito ed emancipato, e Varvara, la sua ragazza (sorellastra del marito di Katia) che essendo ancora nubile (oltre che furbetta) gode di qualche brandello di libertà che a Katia è negata per definizione. Nell’anonimato più completo il personaggio di Tichon, marito imbelle di Katia.

Tutto ciò è stato affidato alla bacchetta di Marco Angius. A giudicare da un suo lungo e dotto scritto pubblicato sul programma di sala si deve immaginare che il Direttore deve aver letteralmente vivisezionato la partitura, guidando così la solida compagine del Regio ad evidenziarne ogni sfumatura e ogni particolare.

Il coro di Claudio Fenoglio è qui impegnato a scartamento ridotto, nel solo terz’atto, ma ha fatto onestamente la sua parte.

Protagonista assoluta (Katia) è Andrea Danková, quasi perfetta su lato attoriale (grazie anche a Carsen) ed assai convincente su quello vocale, sia nei lunghi monologhi carichi di lirismo e cantabilità, come negli squarci di ansia, dolore, senso di colpa e auto-accusa. Voce ottimamente impostata in ogni registro, acuti saldi e puliti hanno caratterizzato la sua eccellente prestazione.  

Il Boris di Misha Didyk mi è abbastanza piaciuto: tenore di taglia quasi eroica, ha ghermito però con difficoltà il DO acuto del duetto d’amore. Ma è una pecca perdonabile in un’interpretazione complessivamente positiva.

Altrettanto lo è stata Rebecca de Pont Davies nella parte della sbifida Kabanicha: una parte di autoritaria bisbetica con una tessitura impegnativa, dal SI sotto il rigo al LA acuto e con frasi oggettivamente difficili da intonare al meglio. Ma lei se l’è cavata assai bene.

Il rozzo e depravato Dikoj è portato in scena con appropriatezza di... sgarbo da Oliver Zwarg: come già accade alla Kabanicha, anche a lui il compositore riserva una parte assai ostica, ostacolo mi pare superato con gran profitto.

Varvara è degnamente interpretata da Lena Belkina: voce corposa, forse un poco da affinare negli acuti, talvolta stimbrati.

Kudrjáš, il giovane istruito e poeta è un efficace Enrico Casari: voce dal timbro lirico, quindi ben adatto alla parte, ottimo nelle filastrocche del second’atto.

Senza infamia e senza lode il Tichon di Štefan Margita: come detto, la sua personalità da invertebrato lo accredita di una parte poco appariscente e anonima.

Onorevole la prestazione degli altri comprimari: per tutti segnalo il Kuligin di Lukáš Zeman.
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Carsen dà del soggetto un’interpretazione à-la-Wieland: scene (di Patrick Kinmonth) assolutamente minimaliste, dove domina lo specchio d’acqua (il Volga, vero protagonista non cantante ma... suonante dell’opera) sul quale semplici passerelle (Christo a Iseo ante-litteram!) ospitano i movimenti dei protagonisti e pochissimi elementi materiali. Una scelta di grande impatto emozionale.

Questo sfondo, atemporale, accoglie il dramma collettivo ed individuale che si dipana sotto i nostri occhi, accompagnato dalla mirabile musica di Janáček: e Carsen è uno che sa come rappresentare la personalità dei vari protagonisti, in testa ovviamente la Katia, che esteriorizza con grande efficacia ogni più recondito pulsare del suo animo straziato fra il desiderio di amore e libertà e il tremendo e insostenibile senso di colpa che la porta alla rovina. Apprezzabili i costumi (pure di Kinmonth) e l’impiego delle luci e dello schermo su cui viene talvolta proiettata la vista dall’alto dello specchio d’acqua.

Se si può fare una pulce a Carsen è l’eccessiva idealizzazione del soggetto, che non fa emergere con sufficiente (selon moi) immediatezza la brutalità dell’ambiente umano (la Kabanicha e Dikoj, dei quali peraltro viene fin troppo esplicitamente messa in mostra la volgare tresca) che circonda la povera Katia: il tutto sembra, appunto, sospeso e galleggiante in un mondo fin troppo stilizzato e quasi idealizzato. Culminante nella scena-madre dell’addio fra Katia e Boris che, in luogo del lunghissimo e convenzionale abbraccio fra i due, viene rappresentata con una trovata di straordinaria poesia, il bacio che lei affida all’acqua del Volga per essere trasmesso da liquide onde sulla sponda opposta dove viene ricevuto dal lontanissimo Boris. Ma sono libertà a fini vuoi veristici e vuoi poetici che si potranno pure perdonare.

Invenzione del regista, che nulla disturba, è anche la comparsa e presenza in palcoscenico di una ventina e più di danzatrici, con compiti di... addette alle scene (spostano le piattaforme sull’acqua per creare le basi per le diverse ambientazioni) ma anche evocanti passate (e perchè no, future?) Katie finite a mollo come la protagonista dell’opera. 

Franco successo per tutti in un teatro piacevolmente gremito. 
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P.S. Consiglio a chiunque si prepari ad assistere ad una delle due restanti repliche di dedicare (e sarà spesa benissimo) un’oretta del suo tempo per ascoltare questa impeccabile presentazione di Franco Pulcini. 

17 febbraio, 2017

2017 con laVerdi – 8


Prima apparizione stagionale (delle due) in Auditorium di Gaetano D’Espinosa, per un programma tutto-Brahms, che ripropone due opere risuonate qui (con diversi interpreti) anche nel corso della stagione 2016.

Il 40enne belgradese (ma ormai cittadino del... mondo) Stefan Milenkovich, già visto, udito ed apprezzato qui la scorsa estate nell’etereo MI minore di Mendelssohn, affronta da par suo il seriosissimo RE maggiore del grande amburghese, un altro dei caposaldi della letteratura violinistica di tutti i tempi.

A differenza del teutonico Kolja Blacher (che ce lo aveva proposto 4 mesi fa con un rigore quasi astratto) il simpatico Stefan ci mette tutto il suo spirito un po’ zigano e un po’ latino e ne dà così una lettura, per così dire, mediterranea, con impiego di rubato, espressività e calore. Il tutto ovviamente sostenuto da una tecnica straordinaria, un dono di natura che lo rivelò al mondo (e all’Italia) quando ancora portava i calzoncini corti.

Gran successo e questa volta i bis sono limitati a due (!) del suo amatissimo Bach: questa Allemanda e la Giga dalla terza Partita.    
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Si retrocede di appena un paio d’anni (nella carriera di Brahms) per ascoltare la... decima-di-Beethoven, come iperbolicamente Hans von Bülow definì l’opera del tardivo esordio sinfonico che Clara Schumann aveva praticamente estorto al recalcitrante amico, con infinite insistenze.  

D’Espinosa ce la restituisce più o meno come l’aveva proposta un anno fa la bacchetta di Jader Bignamini. Come Milenkovich, anche il non ancora 40enne Direttore palermitano aggiunge una verve tutta solare alle atmosfere nordiche e alpine (che lui del resto ha respirato a lungo in quel di Dresda) che caratterizzzano questo monumento sinfonico. E come Bignamini, anche lui (meritoriamente) non ci risparmia nemmeno il da-capo dell’Allegro di apertura.

Pubblico entusiasta e, come già per il precedente concerto, applausi ritmati e grida di bravi! Insomma, ancora una gran serata di musica.

11 febbraio, 2017

2017 con laVerdi – 7


Sulla scia di John Axelrod, un altro texano, il giovane Robert Trevino si affaccia per la prima volta su podio de laVerdi per dirigervi un concertone di quelli proprio tradizionali quanto impegnativi, una specie di ponte tra la gioventù e la vecchiaia del romanticismo in musica.

Primo piatto: la Quinta di Schubert che, come le sorelline che la precedono e le sorelle e sorellone che la seguiranno, è uno scrigno di melodie che spuntavano come funghi dalla straripante fantasia del ragazzo viennese. Insomma, la vena del più grande liederista di ogni tempo (e proprio Mahler ne sarà epigono) che viene faticosamente piegata ai dettami della forma sinfonica.

Unica fra le sorelline, sorelle e sorellona, la Quinta si distingue per allontanarsi momentaneamente dal modello haydniano, riducendo l’Introduzione all’iniziale Allegro a 4 sole battute in note lunghe a coprire le crome staccate dei violini. Nulla a che vedere con le lunghe introduzioni delle precedenti sinfonie, culminate in quella interminabile della Quarta. Poi la Sesta ritornerà sull’antica strada e la Grande porterà tutto alle celestiali lungaggini di schumanniana memoria.

Si usa apparentare la sinfonia anche alla n°40 del Teofilo, per via delle somiglianze dei due Menuetti in SOL minore, ma in realtà quelle di Schubert sono sinfonie che solo epidermicamente si possono far risalire ai modelli di Haydn o Mozart, non parliamo della distanza abissale da Beethoven, tutto concentrato sui suoi temi scolpiti in poche note, poi sottoposti a sviluppi fino all’inverosimile.

Charles Mackerras con l’Orchestra Age of Enlightenment ce ne dà qui una sua interessante interpretazione, che uso come base per qualche nota esplicativa.
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Dicevo della forma. Schubert sa ovviamente che una sinfonia deve avere il movimento iniziale (e il finale, come in questo caso, in alternativa al Rondo) in forma-sonata, e poi un Andante e un Menuetto, e lui cerca di rispettare le regole, magari permettendosi qualche deviazione (seria o furbesca) come accade proprio all’Allegro di apertura. Esposizione dei due temi, poco contrastanti fra loro (anche questa è una caratteristica distintiva di Schubert, lontanissimo dalla concezione beethoveniana delle coppie eroico-elegiaco, maschio-femmina, severo-contemplativo): dopo la brevissima introduzione, ecco (6”) il primo in SIb maggiore, tonalità di impianto, come si suol dire, ripreso poco dopo (25”). Poi (40”) un robusto ponte modulante (con digressione alla relativa SOL minore) e quindi (1’04”) il secondo tema canonicamente nella dominante FA maggiore, ma con una birichina quanto fugace modulazione (1’20”) a REb maggiore, poi (1’32”) la robusta transizione alla coda (1’50”) e il mandatorio da-capo (1’58”).

Nello sviluppo (3’55”) si manifesta l’idiosincrasia di Schubert per i contrasti à-la-Beethoven: intanto la durata è assai limitata, poi ci si sente solo uno spezzone del primo tema, nulla del secondo, e invece ecco nuovi spunti melodici (4’12”) questi sì contrastanti con i due temi, per la loro natura piuttosto spigolosa. Si arriva così rapidamente (4’48”) alla ricapitolazione, con una vera e propria sorpresa: invece del SIb  a cui anche il secondo tema si dovrà accodare, ecco che il primo viene esposto nella sottodominante MIb maggiore! Insomma, è come se Schubert riproponesse pari-pari l’esposizione in questa tonalità, col secondo tema (5’48”) sulla dominante, che è proprio il SIb dove si deve tassativamente tornare (ecco, è una trovata seria o una presa in giro? ) A 6’34” arriva una transizione alla coda diversa e più trascinante rispetto a quella dell’esposizione.

L’Andante con moto è in MIb maggiore e presenta subito (7’05”) una dolcissima melodia, prima negli archi e poi nei legni. Segue (7’35”) uno sviluppo della stessa melodia, una specie di controsoggetto, con qualche inflessione malinconica, prima del ritorno all’origine (8’08”). Il tutto viene ripetuto (8’31”). Ecco poi (9’27”) un’altra modulazione piuttosto ardita, che apre una sezione in DOb maggiore, dove viene presentato (9’38”) un nuovo motivo dall’andamento ascendente, che modula ancora arditamente (10’15”) al SOL maggiore! Ora con una lunghissima transizione lenta e modulante si torna alla tonalità di base di MIb (11’43”) dove il tema principale e il suo controsoggetto vengono ripresi con sottili variazioni. Ancora l’ardita modulazione di poco prima (13’08”) ma questa volta a SOLb maggiore, dove riudiamo la sezione precedentemente esposta in DOb e che sfocia conseguentemente (13’56”) in RE maggiore. Ci si riporta quindi (14’37”) al tema principale in MIb e ci si avvia verso la Coda (15’15”) chiusa da una mirabile cadenza e da un dolcissimo arpeggio discendente dei corni.  

L’incipit del Menuetto, in SOL minore (16’15”) rimanda ovviamente a quello della K550:

La struttura è classica: due sezioni di Menuetto (SOL minore) la prima più concisa (ripetuta a 16’35”) e la seconda (16’55”) più lunga, che riporta (17’18”) al tema principale, ripetuta a 17’42”. Poi (18’29” e 19’00”) due di Trio (SOL maggiore) con immancabili ritornelli, quindi (19’48”) la ripresa del Menuetto.

Il finale Allegro vivace torna ovviamente in SIb maggiore ed è in forma-sonata, qui tutto sommato abbastanza lineare: infatti l’esposizione presenta un ritornello sul primo tema e un altro che riprende entrambi i temi. Ecco quindi il primo (21’01”) negli archi, subito ripreso dai fiati (21’08”). Segue un controsoggetto (21’14”) e poi (21’28”) ancora il tema. Controsoggetto e tema ripetuti da 21’38”. Poi (22’01”) troviamo un ponte modulante, con percorso ascendente (una caratteristica di questi passaggi della sinfonia) ed ecco (22’27”) il secondo tema (sempre non contrastante!) in FA maggiore, sviluppato fino ad una transizione (22’52”) che porta (23’03”) alla coda che lo chiude seccamente. Si ripete tutto daccapo (23’24”) senza ritornelli (secondo tema a 24’26”). Anche qui lo sviluppo (25’23”) è assai libero (il secondo tema non vi compare, ma solo qualche abbozzo del primo). La ripresa (26’34”) è però canonica: primo tema, ponte (27’11”) e secondo tema (27’42”) in SIb maggiore; poi transizione (28’07”) e (28’19”) conseguente coda.
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Trevino esordisce low-profile: niente podio, niente bacchetta. Del resto l’orchestra è poco più di quella di cui potè godere il 19enne Schubert quando suonò per la prima e unica volta questa sinfonia: due soli contrabbassi e quattro violoncelli, per dire, e violini e viole in proporzione, neanche 30 archi in tutto.

L’esecuzione è più che apprezzabile, sveltita dall’omissione del da-capo del Finale. Il Direttore sembra dirigere un... menuetto, dimenandosi e giogioneggiando quanto basta. Ma tutto fa brodo.
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Ecco poi Mahler e tutto cambia: orchestra ipertrofica (e non è nemmeno il massimo mahleriano, mancano addirittura i tromboni) podio taglia-Xian (Trevino è poco più alto della cinesina) e bacchetta regolamentare. Anche il gesto mi pare più adeguato alla bisogna, secco e (si direbbe) preciso. A differenza di quella rigorosa del Bignamini di 2 anni e mezzo fa, la lettura di Trevino è abbastanza all’americana (Bernstein sullo sfondo) con contrasti portati all’eccesso (mi limito a citare i due affrettando nel primo movimento, dove solo un miracolo ha permesso ai ragazzi di non lasciar per strada la metà delle note).

Ragazzi guidati da Dellingshausen (munito del violinetto scordato da imbracciare nei passaggi del secondo movimento) con Santaniello a presidiare le retrovie (così come il pari-grado Grigolato per i violoncelli, con Scarpolini sulla prima sedia).

Convincente soprattutto il Ruhevoll, mirabile esempio di variazioni su un semplice temino. Chi è stata sotto la media è la povera Twyla Robinson, vocina sottile (va be’ che è un Lied bambinesco...) e un paio di entrate che mi son parse in ritardo.

Pubblico in buon numero (ma non oceanico) e prodigo di applausi, anche ritmati, e di bravo!

09 febbraio, 2017

Alla Scala ultime recite dell’ibrido Don


Ieri sera al Piermarini una delle ultime recite del nuovo (si fa per dire, essendo un altro auto-imprestito di Pereira da Salzburg) Don Carlo. Si tratta dell’ibrido 5-atti-in-italiano cui Verdi mai diede il suo imprimatur, ma che dalla comparsa originaria (1886, Modena) ha cominciato ad apparire saltuariamente sui vari cartelloni e con ulteriori varianti. Qui in Scala risale al 1977-78 l’ultima produzione di tale ibrido (diretta da Abbado) che però innestò sulla già di per se apocrifa versione-Modena (i quattro atti della versione ufficiale italiana, Scala 1884, a cui fu anteposto l’atto di Fontainebleau della prima parigina) anche parti che Verdi aveva tagliato già prima-della-prima (il preludio e coro dei boscaioli a Fontainebleau e il cordoglio di Filippo per Posa, divenuto in seguito il Lacrymosa del Requiem) e parti della versione francese che Verdi aveva deciso di omettere al momento di approntare quella ufficiale italiana (il Coro e il travestimento Elisabetta-Eboli che aprono il terzo atto – ma non, attenzione, la Peregrina! - il duetto Filippo-Carlo prima del Lacrymosa e il finale dell’opera con il coro dei Frati). Tutte le parti che non erano mai tradotte prima in italiano, lo sono state successivamente ad opera di Piero Faggioni. 

Di queste innovazioni qui Chung ha mantenuto soltanto l’inizio dell’opera e la scena iniziale del terz’atto (travestimento). Sull’opportunità di questi recuperi si discute da sempre, ma a registi e direttori non par vero di poter farsi belli inventando nuove combinazioni fra tutti i pezzi di questo meccano in cui le due versioni autenticate da Verdi (la prima di Parigi del 1867, in francese, e quella in italiano del 1884) sono state smembrate. Così, tanto per dire, nel 2008 il rigoroso Gatti si permise di resuscitare, nel Don in 4 atti, il Lacrymosa, che Verdi aveva ormai da tempo inserito nel Requiem...

Detto questo, aggiungo che trattasi di uno spettacolo complessivamente discreto, cui il pubblico (deprimente lo spettacolo di serie di palchi deserti...) ha tributato un’accoglienza calorosa, ma non entusiasta.

Sul piano musicale, Chung ha confermato la sua grande sensibilità, peccando però di eccessivo bandismo in alcuni momenti, col risultato di coprire irrimediabilmente le voci. Fra le quali voci spicca l’eterno, inossidabile Furlanetto, di gran lunga il più convincente. Benino anche l’Inquisitore di Kares, voce profonda senza essere sgradevolmente cavernosa, così come l’accademico Summer (Frate). Sui suoi standard, ma un poco appannato il Carlo di Meli, la cui voce mi è parsa meno squillante del solito. Una (mezza) delusione il Posa di Piazzola: il baritono veronese ha bella voce e bene impostata, ma ahilui non riesce a farla giungere appropriatamente in sala: così, salvo quando non si esibisca in perfetta solitudine e nel silenzio generale (vedi A me il ferro...) lui resta sepolto dalle altre voci (vedi terzetti e quartetti) e/o dal fracasso orchestrale. Convincente la Stoyanova, voce robusta nei centri e gravi, quasi da drammatico, e sufficientemente limpida negli acuti. Un filino sotto la Eboli di Semenchuk, un poco sfibrata negli acuti, comunque dignitosa in una parte impervia. A tutti gli altri una sufficienza... di gruppo. Benissimo come (quasi) sempre il coro di Casoni.

Regia minimalista (nelle scene, spoglie o... dozzinali) quella di Stein, che gioca con gli occhi di bue per illuminare i personaggi in una generale penombra (Atocha esclusa). Curato il lavoro sugli interpreti, che reagiscono bene (Furlanetto, che non ha bisogno di lezioni...) o benino (le due donne) o così-così (i due giovani). Costumi più o meno appropriati (compresi i pinocchi dell’autodafè, dove peraltro si raccontavano solo bugie...)

In definitiva, una proposta dignitosa e non di più.